Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, giugno 11, 2006

Bach sul tram?

Ci guadagna Bach. E anche il traffico.

I gridi d'allarme sono quasi sempre la maschera di un trauma: svegliarsi un giorno e scoprire di non avere più appigli e punti di riferimento per capire la realtà, una realtà della vita che viviamo. Accorgersi all'improvviso di essere rimasti indietro, chiama istintivo un bisogno: universalizzare la propria inadeguatezza, farla comune a tutti o a molti, per dire che il mondo è cambiato in peggio, a che punto siamo arrivati e dove andremo a finire.
La musica, ad esempio. Non è più la stessa da un giorno all'altro. Procediamo attenti e "aggiornati" fino a un certo punto della vita, convinti di ascoltare la miglior musica possibile nel miglior modo possibile, e poi un giorno apriamo la finestra e ascoltiamo cose mai udite prima, vediamo la gente ascoltare cose che noi non ascoltiamo. E noi ascoltiamo cose che altri non ascoltano, o, peggio, le stesse cose ma in maniera diversa. Chi ha ragione?
Se n'è andato un decennio in cui dovremmo finalmente esserci resi conto che è finita, se mai è esistita, l'era della musica, sostituita dall'era delle musiche, e leggo un altro grido d'allarme. Giorgio Vidusso, come in un diario di sofferenze, elenca, con il fuoco e con l'intelligenza di un grande militante della musica, tutti i motivi di disagio di una generazione, di un ambiente, di un mondo ("E il sottofondo ci seppellirà", sottotitolo "Il magma va salendo" nel Giornale della musica di novembre).
Uso quello scritto come falsariga di un pezzo di riflessioni perché è una rubrica dettagliata di tutto ciò che l'ingresso negli ultimi dieci anni del Novecento fa passare per la mente. Vidusso tocca tutti i punti nodali dei problemi e nel mio dissenso sulle conclusioni sono ovviamente impliciti l'onore e il rispetto.
Il sottofondo dal quale saremmo destinati ad essere sepolti è quello della Muzak, della musicaccia nata senza dichiarazioni d'arte, con il solo scopo di volare basso sui bisogni dell'orecchio: unico suo impegno, blandire il timpano e tenerlo occupato alla bell'e meglio, mentre le gambe, le mani e il nervoso centrale stanno facendo altro (acquisti nei grandi magazzini, attese in stazioni e aeroporti, monotono lavoro quotidiano). La Muzak sarebbe insomma la grande colonna sonora che da radio, dischi e televisione un vero o immaginario Grande Fratello ci insinua come gas nervino. Gli altoparlanti, le cuffie e gli schermi sono le grate di un condizionatore d'aria in cui uno scienziato sadico da Uovo del serpente fa uscire i fumi dell'annichilimento.
La chiave apocalittica non è mia. "La Musica - dice Vidusso - anzi la Muzak, questa atroce realizzazione della musique d'ameublement vagheggiata da Satie, è la droga libera del tempo libero, che attenua l'angoscia della libertà mentre lo stare insieme evita di trovarsi a tu per tu con se stessi, cioe con nessuno. E lo squittio con cui la folla manifesta il suo entusiasmo non evoca branchi di topo ammaliati dal pifferaio di Hamelin piuttosto che il mito di Orfeo?". E poco prima il bersaglio è meglio focalizzato: "... E il sorriso, la liberatoria risata, l'avete mai letta sulle facce dei coinvolti nelle Woodstock nostrane? Per quel che ho visto io son tutti assorti, rapiti come monaci tibetani nella contemplazione del nulla; la loro musica è l'assenza".
Andando a ritroso fra le righe di Vidusso: "L'avvenire che cosa ci riserva?... Ho l'orrendo sospetto che il ciclo stia ricominciando, che musiche profetiche siano già apparse, che il sogno del Gesamtkunstwerk sia già realtà, che l'umanità tutta sia prossima a trovare i suoi inni, che un altro cerimoniale si stia affermando, che il divertimento e il gioco siano nuovamente espunti dai programmi, che la politica sia ancor più manifestamente connessa alla musica che in passato (così come la scienza e la sociologia); la sola salute, forse l'avrà vinta nei confronti della malattia, ma sarà una salute così coatta, così stupida, cosi malsana, da essere mille volte preferibile la malattia... I segni premonitori di questo disastro? Non tremate quando vi accorgete che i giovani vivono e anche studiano rintronati dalle cuffie? Passi se ascoltassero solo musica rock, si potrebbe pensare che sono gli epsilon del Nuovo Mondo di Huxley, bassa forza, intellettuale o manuale, non importa, tanto oggi non fa differenza. Nossignori, ascoltano Bach, o Mozart o Stravinsky, dicono (e sono studenti di ingegneria, di fisica, di medicina) che gli concilia l'attenzione...".
Alla fine, la chiave di tutto e il culmine del grido: " ... non è che i giovani, o genericamente il pubblico di oggi, non 'usino' 'anche' Schubert, non è questo il punto: il pericolo è che Schubert venga trasformato nella coscienza dell'ascoltatore in un qualsiasi ingrediente di quell'indifferenziato minestrone che è l'ascolto passivo a ciclo continuo alimentato da radio, mangianastri e televisione; che vada inglobato in quel rumore di sottofondo che sembra proporsi come tranquillante universale per il prossimo millennio. Ecco qual è la buia prospettiva: non temo la musica leggera, il rock la disco-music e tutti i consimili prodotti conseguenti alla massificazione delle élites; temo la lava magmatica, il suono come abitudine, il sottofondo come nostro pane quotidiano".

L'oggetto di questo appassionato grido d'allarme da Mille-non-più-Mille sono due cose diverse: la musica di oggi, evoluzione snaturata della musique d'ameublement di Satie, e il modo degenerato di ascoltare, in futuro ancor più degenerabile.
Insomma non si scrive più buona musica e non si ascolta più bene anche quella buona.
Ora, non c'è né tempo, né voglia, né utilità per trattare seriamente la prima affermazione, che è solo uno sfogo e che Vidusso, comunque, dissimula per concentrarsi sul secondo e più vero problema.
Quanto alle facce tristi e inebetite dei partecipanti alle Woodstock, originali o nostrane, avrei da rilanciare con altre facce tristi e inebetite delle società di concerti o di stagioni Rai, in cui si servono i piatti fragranti di certe sinfonie di Rachmaninov o di Sibelius. E poi oserei distinguere se sul palcoscenico c'era Jimi Hendrix oppure canta Ozzie Osborne. Se si rischia di mettere sullo stesso piano Mc Cartney ed Alice Cooper, se per il colore della pelle si rischia di confondere Sade con Tracy Chapman, allora è meglio piantarla lì subito. E sarebbe anche meglio non parlare nemmeno di rock come categoria o come stile, che poi sono tanti stili. Quale rock? Frank Zappa o Miles Davis, John Zorn o U2, Bob Dylan o Jackson Browne, Joni Mitchell o Sade, i Pretenders o gli Who? Se gli uni o gli altri pari sono, si finisce nel mucchio selvaggio di quelli che parlano "della classica" e "della lirica", nell'anticamera del cervello di chi può confondere Monteverdi con Rameau, Bach con Telemann, Mozart con Salieri.
Che la musica vada, creativamente, ovvero non creativamente, verso il magma indistinto è poi un'altra cosa su cui discutere a lungo. Mentre i mezzi di comunicazione accelerano i processi di assimilazione e di osmosi, alla fine degli anni Ottanta abbiamo visto insinuarsi in quella cosiddetta New Age Music un'accentuata attenzione verso le radici etniche: chi più coscientemente lavora nei territori di confine ha già capito che solo aggrappandosi al salvagente della propria cultura si sopravvive all'oceano elettronico.
E mentre il tempo veloce della vita plasma nel "leggero" una musica iper-ritmica, nascono tendenze in fuga, che dal Tempo non si fanno condizionare, che il ritmo lo trascurano e quasi volutamente l'annullano. Rispetto alla tonica-dominante dell'ambiente, la musica ha sempre trovato scarti imprevedibili. La musica che resta è sempre quella che ha contraddetto il suo tempo. E ogni tempo ne ha una. Se non la troviamo noi, non è colpa sua.

Il mutato modo di ascoltare. Anche qui, sul pericolo che anche Schubert finisca "oggettivamente", e non soggettivamente, appiattito nel magma sonoro di un landscape immaginario, avanzo i miei dubbi. Tempo fa Brian Eno scriveva, con sobria arte della provocazione, certa Ambient Music da diffondere in locali pubblici: Muzak in sostituzione di altra Muzak, quattro accordi perfetti lasciati suonare in eco su un lieve tappeto elettronico-vocale. Musicaccia d'autore al posto di altra musicaccia. Qualunque ragazzino svezzato a Pink Floyd entrando in un supermercato l'avrebbe riconosciuta e staccata dalla paccottiglia. E' solo questione di allenamento. Anche distinguere Vivaldi da Marcello è questione di allenamento.
In una realtà che fa spendere a milioni di persone un quarto della loro vita sui mezzi di trasporto, l'ascolto lungo, rilassato ed esclusivo della musica è una chimera. L'ascolto puro diventa un lusso per la stragrande maggioranza del pubblico. Che fare? Non ascoltare se non nella camera anecoica? E se lo si fa in contemporanea con certe attività motorie o cerebrali, è per questo un ascolto meno consapevole?
Rivaluto ogni giorno di più Stockhausen quando dice che il tratto saliente dell'uomo dei nostri giorni è la prontezza a decodificare più eventi simultanei. Se uno strumento mi permette, in una coda d'autostrada, in un ingorgo di traffico, in un viaggio in treno o in aereo, di buttar fuori il mondo dalla mia porta sensoriale per isolarmi con la Winterreise di Schubert, viva quello strumento. Se una cuffietta aiuta a sprecare meno tempo della vita in una sola attività, automatica e per giunta forzata, quello Schubert è un regalo.
Ascolto mostruoso? Ascolto inconsapevole? Certo, è innaturale la vibrazione acustica a ridosso del timpano, ma è un'altra questione. Siamo invece sicuri che ascoltare un quartetto di Mozart in una sala di cinquemila metri quadri, a cinquanta metri dagli strumenti, in una platea di gente che pensa ai fatti suoi, sia più consapevole, filologico, vicino alla destinazione, alla natura, al tempo, al luogo in cui quei brani sono nati? Invece che nell'ascolto diretto, senza spazi fuori scala, senza intermediari, senza distrazioni?
Qual è il grado di consapevolezza dopo la seconda ora di musica della Società del Quartetto nel vecchio abbonato stanco di una giornata di lavoro, quando attacca la Grosse Fuge? 0 alla Rai, alla fine della Florentinische Tragödie di Zemlinsky in forma di concerto a sala mezza vuota? Niente topi del pifferaio di Hamelin né celebrazioni del mito di Orfeo, ma Morfeo puro. Il problema dell'ascolto consapevole risolto nella maniera più radicale: abolendo l'ascolto.
Quegli studenti che s'immergono nei libri con Stravinsky in testa probabilmente vanno anche a concerto pensando ad assonometrie e formule dell'energia. L'ascolto distratto è sempre esistito, come dimostrano la Tafelmusik o i Reali fuochi d'artificio. L'ascolto inconsapevole doveva essere la norma anche nei tempi senza cuffiette e televisione che il tempo ha mitizzato, quando i principi stavano a due passi dal clavicembalo e pochi amici attorno al fortepiano dell'amico musicista, se Mozart e Schubert morirono ricchi di fama tutta da costruire. Di far parte del grande magma che avanza, per aumentare le probabilità di incontro consapevole, o anche solo per aumentare il numero degli ascolti inconsapevoli, così anche solo per il piacere di porli in lista, sarebbero i primi loro ad essere felici.
Che il luogo faccia l'ascolto, che soprattutto i luoghi che noi frequentiamo oggi lo facciano, è la realtà stessa a smentirlo. Gli strumenti nuovi nell'era della riproducibilità dell'arte, alla fine neutri come qualunque strumento di fronte a una volontà vera, aumentano le occasioni di incontri ravvicinati con la musica. Di primo, secondo, terzo, ennesimo tipo.
Demonizzare gli strumenti nasconde sempre l'imbarazzo di non saperli usare. E a usare gli strumenti, come ad ascoltare la musica e a fare un mestiere, si impara praticandoli.
Eric Fromm, polemizzando con la formula freudiana dell'Eros come acquirente del miglior oggetto in vetrina, sosteneva che anche l'amore è un'arte, un'attitudine cui la disciplina e il tempo aggiungono qualcosa. Che l'amore si apprende amando. Cosa del resto, nei suoi risvolti più concreti, nota alle culture orientali da sempre.
Imparare a riconoscere l'oggetto d'amore sperduto tra la folla delle musiche che ci stringono d'assedio, è la più dura e bella sfida che gli anni Novanta ci lancino.

Carlo M. Cella (Musica Viva. Anno XIV n.2, febbraio 1990)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

il mio commento non si riferisce solo a questo articolo ma all 'idea di minima musicalia :
semplicemente GRANDEEEEEE.
una domanda ed una preghiera :
-come ti e' venuta questa idea ?
-anche se non ricevi commenti o apprezzamenti, RESISTI.
il mondo ha bisogno di cultura, la Musica E' l'arte suprema ed invece e' negletta e trascurata.
TI visitero' tutti i giorni. ciao
ZETA

Heinrich von Trotta ha detto...

Ti ringrazio delle gentili parole!
L'idea mi è venuta perchè, da sempre, in casa mi trovo un'enormità di riviste musicali (in buona parte non più edite) e mi è sembrato stupido lasciarle invecchiare nella polvere. Certi scritti possono interessare qualcuno... ed il luogo più adatto per condividerle è sicuramente il web!
Resisto... anche se il tempo da dedicarvi è sempre minore... -;))
Materiale da leggere, per fortuna, ce n'è già parecchio.
Ciao
HvT