Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 23, 2023

Concerti 2023



Domenica, 26 marzo 2023
Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, ore 17,30
Johann Sebastian Bach 
- Passione secondo Matteo
Solisti: Jonas Müller, Elvira Bill, Miriam Feuersinger, Patrick Grahl, Gotthold Schwarz
Stuttgart Barockorchester & Kammerchor
Direzione: Frieder Bernius

Mercoledì, 5 aprile 2023
Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, ore 20,30
Arvo Pärt
Silouans Song, per coro e orchestra
- Magnificat, per coro misto
- Cantus in memoriam Benjamin Britten, per campane o orchestra d'archi
- Nunc dimitis, per coro misto
- Trisagion, per orchestra d'archi
- Adam's Lament, per coro e orchestra
Tallinn Chamber Orchestra
Estonian Philharmonic Chamber Choir
Direzione: Tonu Kaljuste

Giovedì, 21 luglio 2023
Carpi, Piazzale Re Astolfo, ore 21,30
Al Di Meola Acoustic Trio 
Al Di Meola, Peo Alfonsi, chitarre
Sergio Martinez, percussioni

Giovedì, 21 settembre 2023
Modena, Chiesa di Sant'Agostino, ore 21,00
Claudio Monteverdi 
Messa a quattro voci et Salmi, Venezia 1650
- Messa da cappella a 4 voci, SV 190
- Confitebor tibi Domine (I) a 1 voce e 2 violini, SV 193
- Nisi Dominus (I) a 3 voci e 2 violini, SV 200
- Confitebor tibi Domine (II) a 3 voci e 2 violini, SV 194
- Beatus vir a 7 voci e 2 violini, SV 105
ACCADEMIA D'ARCADIA
Solisti: Maria Dalia Albertini, Maria Chiara Gallo, Marta Redaelli (cantus), David Feldman (altus), Luca Cervoni, Riccardo Pisani (tenor), Gabriele Lombardi (bassus), Jody Livo, Matilde Tosetti (violini), Luigi Accardo (organo), Domenico Cerasani (tiorba)
Direzione: Michele Vannelli

Domenica, 24 settembre 2023
Carpi, Campo di Fossoli, ore 18,30
Tramonto a Fossoli - Il Silenzio 
- Johann Sebastian Bach: Suite n.1 in sol maggiore, BWV 1007
- Mieczyslaw Weinberg: Sonata n.1 Op. 72 (1960)
- John Cage: 4' 33''
- Johann Sebastian Bach: Suite n.3 in do maggiore, BWV 1009
Mario Brunello, violoncello

Sabato, 30 settembre 2023
Modena, Chiesa del Voto, ore 21,00
Soli Deo Gloria 
- Johann Sebastian Bach: Corali figurati, BWB 737, 584, 641, 227, 51, 731, 895, 690, 627, 625, 659, 199, 147, 636
Soprano: Angelica Disanto
ORFEO FUTURO
Luciana Elizondo (viola soprano)
- Antonella Parisi (viola tenore)
- Gaetano Simone (viola bassa)-
- Gioacchino De Padova (violone)
- Tomeu Segui Campins (organo)

Sabato, 7 ottobre 2023
Cremona, Auditorium Giovanni Arvedi, ore 21,00
Bach e i Romantici
- Richard Strauss: Sestetto d'archi dall'opera "Capriccio", Op. 85
- Johann Sebastian Bach: Concerto per violino in mi maggiore
- Johann Sebastian Bach: Concerto per 2 violini in re minore
- Petr Il'ic Ciaikovskij: Serenata per archi in do maggiore, Op. 48
Midori, Violino Guarnieri del Gesù - ex Huberman 1734
FESTIVAL STRINGS LUCERNE
Daniel Dodds, primo violino concertatore

Domenica, 15 ottobre 2023
Modena, Chiesa di San Carlo, ore 21,00
Il Ballo delle Ingrate - durezze d'Amore nella musica di Monteverdi
- Monteverdi: Ritornello da Orfeo (prologo), 1609
- Monteverdi: Chi vol ch'io m0innamori (Selva Morale e Spirituale, 1640)
- Gesualdo: Gagliarda del Principe di Venosa (Manoscritto I-Nc, MS 4.6.3)
- Rossi S.: Gaglòiarda detta la Zambalina (Il Secondo Libro..., 1608)
- Monteverdi: Zefiro torna e di soavi accenti (Scherzi Musicali, 1632)
- Monteverdi: Altri canti d'amore (Ottavo Libro..., 1638)
- Monteverdi: Sinfonia da "Tempro la Cetra" (Settimo Libro..., 1619)
- Monteverdi: Interrotte Speranze (Settimo Libro..., 1619)
- Lazarin: Pavane du mariage de Louis XIII (Recueil de plusieurs vieux Airs, 1690)
- Monteverdi: Il Ballo delle Ingrate (Ottavo Libro..., 1638)
Soprani, Cyntia Franchini, Elena Mascii, Margherita Pieri, Martha Rook
Alti, Antonella Gnagnarelli
Tenori, Massimo Altieri, Alessio Tosi
Bassi, Lorenzo Tosi, Leonardo Sellari
MUSICI MALATESTIANI
Michele Pasotti, direzione

Martedì, 17 ottobre 2023
Modena, Palazzo Ducale (Sede Accademia Militare), ore 21,00
L'Homme armé - da manoscritti della Biblioteca Estense
- Jacob Obrecht: Missa "L'Homme armé"
- Guillaume Dufay: Hymnus "Deus Tuorum Militum"
Cantori:
- Sara de los Campos, Uma Tores, superious
- Issac Alonso De Molina, Constantin Heuer, altus
- Santo Militello, Eduardo Proença, tenor
- Joseph Dwyer, Erjan van der Velde, bassus
Piffari:
- Laura Audonnet, ciaramella
- Aurora Luciano, Ramon Marquez, Floris van Daalen, trombone
CAPELLA ACADEMICA DEN HAAG
Isaac Alonso De Molina, direzione

Domenica, 22 ottobre 2023
Ferrara, Teatro Comunale, ore 16,00
Gustav Mahler
- Preludio sinfonico in do minore (ricostruzione di Albrecht Gürsching)
- Sinfonia n. 1 in re maggiore "Titano"
ORCHESTRA FILARMONICA DELLA SCALA
Riccardo Chailly, direttore

Mercoledì, 1 novembre 2023
Modena, Chiesa di San Carlo, ore 21,00
Lo splendore dei Gonzaga
- Claudio Monteverdi: Confitebor III alla francese (Selva Morale e Spirituale, 1640)
- Benedetto Pallavicino: Misericordias Domini (Sacrae Dei laudes..., 1605)
- Giaches De Wert: Adesto dolori meo (Iaches Vvert Musici Svavissimi..., 1566)
- Salomone Rossi.: Keter (Hashirim asher le Sholomo, 1623)
Gian Giacomo Gastoldi: Magnificat VIII toni (Completorium Perfectum..., 1597)
Claudio Monteverdi: Cantate Domino (Libro Primo de Motetti, 1620)
Benedetto Pallavicino: Dum complerentur (Sacrae Dei laudes..., 1605)
Amante Franzoni: Dixit Dominus VI toni (Sacra Omnium Solemnitatum..., 1619)
Gian Giacomo Gastoldi: Regina coeli (Completorium Perfectum..., 1597)
Claudio Monteverdi: Litanie della Beata Vergine (Messa a quattro voci e salmi..., 1650)
Cantus, Francesca Cassinari*, Orla Brundett*, Carolina Intrieri*, Vera Milani, Silvia Vertemara, Chiara Rebaudo, Emma Brambilla, Miriam Frigerio, Bianca Beltrami
Altus, Elena Carzaniga*, Edvige Brambilla, Monica Fumagalli, Camilla Novielli
Tenor, Roberto Rilievi*, Niccolò Perego*, Davide Colnaghi, Davide Nicolussi, Gianluca Origgi, Giorgio Bonafini
Bassus, Gabriele Lombardi*, Alessandro Sosso, Alessandro Marchesi
BISCANTORES (*voci soliste)
Giangiacomo Pinardi, tiorba
Rosita Ippolito, viola da gamba
Gianluca Viglizzo, organo
Luca Colombo, direzione

Giovedì, 23 novembre 2023
Reggio Emilia, Chiesa di Santo Stefano, ore 21,00
La conference - Dialogo fra due viole da gamba
- Sainte Colombe: Concert XLI Le retour - Concert III Le tende
- Joseph Bodin de Boismortier: Troisième sonate, Op. 10 "Sonates à deux violes"
- Marin Marais.: Suite en sol majeur (Premire Livre. Pieces a une et a deux violes)
Patxi Montero, Luca Favoni, viole da gamba

Venerdì 22 dicembre 2023
Reggio Emilia, Chiesa di San Francesco da Paola, ore 21,00
"Nun komm, der Heiden Heiland"
Cantate e mottetti del Barocco tedesco per l'Avvento e il Natale
- Johann Sebastian Bach: Corale "Zion hört" (dalla Cantata BWV 140)
- Johann Sebastian Bach: Cantata "Nun komm, der Heiden Heiland", BWV 61
- Johann Sebastian Bach: Aria dalla Suite BWV 1068
- Johann Pachelbel.: Mottetto in doppio coro "Nun danket alle Gott", P. 381
Johann Pachelbel: Canone e giga, P. 37
Johann Sebastian Bach: Cantata "Schau lieber Gott, wie meine Feind", BWV153
Johann Sebastian Bach: Corale "Jesus bleibet meine Freude" (dalla Cantata BWV 147)
ENSEMBLE VOCALE FLOS MUSICAE
- Benedetta Fanciulli, Beatrice Serra, soprani
- Chiara Goldoni, Fiamma Kamenchtchik, contralti
- Michele Paolizzi, Angelo Testori, tenori
- Damiano Ferretti, Niccolò Roda, bassi
ENSEMBLE STRUMENTALE DELIRIUM AMORIS
- Veronica Berardi, Stefano Gérard, violini
- Monica Mengoni, viola
- Federico Immesi, violoncello
- Roberto Salario, violone
- Anna Cortini, organo
Giorgio Musolesi, direzione



lunedì, dicembre 11, 2023

Dimitri Mitropoulos

“I componenti dell'orchestra della Scala non dimenticheranno la mattina del giorno dei morti di quest'anno”, scrisse Beniamino dal Fabbro su L'Illustrazione italiana del dicembre 1960. “S'erano radunati per la prima prova d'un concerto della stagione sinfonica, e la sera stessa, col maestro Fricsay, avrebbero ripetuto il programma del concerto precedente. Il programma nuovo era di particolare impegno; avevano sui leggii il grosso fascicolo della “Sinfonia numero tre” di Gustav Mahler. (...) Il maestro Mitropoulos giunse puntuale, dal podio salutò con l'usata gentilezza i suoi collaboratori, li nominò a uno a uno, aggiunse alcune parole sul significato della sinfonia di Mahler che s'accingevano insieme a decifrare, e diede inizio alla prova, senz'altro indugio. Ci furono i primi energici comandi, le necessarie interruzioni, le utili osservazioni; ma all'improvviso Mitropoulos cadde dal podio in avanti, quasi trascinato dall'ultimo suo gesto. Pochi minuti dopo egli era morto, tra la costernazione di tutti coloro che avevano assistito all'evento. La sera stessa, prima di cominciare il suo programma, il maestro Fricsay diresse, in onore di Mitropoulos, la marcia funebre dell''Eroica.”
Così, sul podio, proprio nell'atto di far musica, scompariva a sessantaquattro anni di età Dimitri Mitropoulos, uno dei musicisti più carismatici del secolo. Nella sua figura il triplice ruolo di compositore, di pianista e di direttore d'orchestra si fondeva con una armonia che pochissimi hanno raggiunto. A vent'anni esatti dalla sua scomparsa, il suo nome fa più che mai parte del mito e il suo testamento discografico (purtroppo non vastissimo) è oggetto di un accanito collezionismo. Le incisioni contenute in questi dischi dal vivo sono destinate ad ampliare le conoscenze che di lui abbiamo come interprete di Gustav Mahler. Di Mahler il direttore greco è stato uno dei profeti più accesi e ci pare un particolare sempre toccante quello di ricordare che è proprio dirigendo una sinfonia di Mahler che egli è
deceduto.
Dimitri Mitropoulos era nato vicino ad Atene il l marzo 1896. Apparteneva ad una famiglia molto religiosa, nella cui casa si svolgevano frequenti incontri fra gli alti membri della Chiesa Greco-Ortodossa. Sull'esempio di due zii, il giovane Dimitri pensò di farsi monaco. Tuttavia un pensiero lo frenava: quello di dover abbandonare la musica, il cui amore si veniva risvegliando prepotentemente in lui. La liturgia Greco-Ortodossa non consente infatti 1'uso di strumenti musicali. I tormenti di questa sua infanzia (così simile a quella del “Nivasio Dolcemare” di cui racconta Savinio) si conclusero con la vittoria della Musa Euterpe. Scelta la musica come destino della sua vita, Mitropoulos entrò nel Conservatorio della capitale. Qui studiò con L. Wassenhoven (pianoforte) e con il belga A. Marsick (armonia e contrappunto), diplomandosi nel 1918 in pianoforte e nel 1920 in composizione. Dimostrò precoci doti di compositore: ancora studente scrisse il poema sinfonico “La Mise au  tombeau du Christ." Nel 1920 compose l`opera “Soeur Béatrice”, da Maeterlinck, che fu data al Conservatorio di Atene. Mitropoulos aveva ventitré anni quando lo spartito venne  mostrato a Camille Saint-Saëns, che se ne proclamò entusiasta. La città di Atene offrì allora una borsa di studio alla sua giovane promessa perchè potesse studiare al Conservatorio di Bruxelles con Paul Gilson. Mitropoulos fu suo allievo di composizione dal 1920 al 1921. Passò quindi a Berlino ove rimase fino al 1924 seguendo il corso di pianoforte tenuto da Busoni alla Hochschüle für Musik e lavorando come maestro sostituto  alla Staatsoper. Forte degli insegnamenti di un grande maestro quale Ferruccio Busoni, Mitropoulos, rientrato ad Atene, divenne direttore dell'orchestra del Conservatorio (1924-25), poi dell'orchestra della Società dei Concerti (1925-27), avendo nel contempo la direzione del Conservatorio. Dal 1927 al 1929 con Jean Boutnikoff, e dal 1929 solo, tenne la direzione dell'orchestra del Conservatorio (divenuta più tardi di Stato). Il giovane direttore esercitò notevole influenza sul gusto del  pubblico greco, introducendo nei programmi importanti composizioni antiche e contemporanee. Nel 1930 fu nominato professore di composizione al Conservatorio di Atene e il 6 marzo 1933 venne eletto membro straordinario dell'Accademia ateniese.
Come concertista, l'episodio decisivo della sua carriera doveva cadere nel 1930 a Berlino. Il 27 febbraio di quell'anno, invitato a dirigere un concerto dei Berliner Philharmoniker, sostituì al pianoforte l'indisposto Egon Petri (come lui allievo di Busoni) nel Terzo concerto di Prokofiev, dirigendo dalla tastiera. Il successo fu così straordinario che da allora si trovò invitato in ogni paese d'Europa. Il 14 febbraio 1932 ripeté a Parigi la sua esibizione nelle vesti di direttore e solista in quel concerto. Sempre in quell'anno, due settimane dopo il debutto parigino, diresse per la prima volta anche in Inghilterra. Nel febbraio del 1933 compiva la prima tournée italiana. L'anno dopo fece una tournée trionfale di ventiquattro concerti in Italia, Francia, Belgio, Polonia e Russia. Chiusero la tournée, nel mese di maggio, alcuni concerti a Leningrado e a Mosca. Nel 1935, invitato come direttore ospite della parigina Orchestre des Concerts Lamoureux, ebbe modo di presentare molti importanti nuovi lavori francesi. Durante la  prima metà degli anni Trenta venne per diversi anni ingaggiato come direttore di una stagione trimestrale di concerti a Monte Carlo.
Dopo l'Europa, anche gli Stati Uniti si apprestavano a fare la conoscenza con Mitropoulos. Nel gennaio 1936 venne presentato alla platea americana da Serge Koussevitzky che lo invitò a dirigere come “guest conductor” la Boston Symphony. Il critico Olin Downes, venuto appositamente a Boston per sentirlo, scrisse: “On the grounds of a virtuoso conductor alone he is an extraordinarily gifted leader. But he is more than a kinding virtuoso. He showed a microscopic knowl edge of four strongly contrasted scores and his temperament is that of an irnpetuous musician. Mitropoulos addressed himself with complete comprehension and with blazing dramatic emotion.”
L'anno successivo le dimissioni di Eugene Ormandy dalla direzione dell'Orchestra di Minneapolis (l'attua1e Minnesota Orchestra) gli fruttarono la nomina a “principal conductor” di quel complesso. Mitropoulos si trasferì in quella città e seguitò a condurre la vita austera e solitaria di sempre. Alloggiava nel dormitorio studentesco in un seminterrato dell'Università del Minnesota. La sua stanza  conteneva soltanto un divano-letto, un pianoforte verticale e pochi altri oggetti indispensabili. L'unica passione che gli si conosceva era quella per il cinema. L'orchestra prese in simpatia quest'artista strano e sempre così cortese, di cui si diceva che non avrebbe diretto senza la catenella con il piccolo crocefisso che portava al collo ed il medaglione con la Vergine Maria cucito alla fodera della giacca. Quest'uomo mite sapeva però trasformarsi sul podio, accendendosi di una foga che trascinava con sé tutta l'orchestra. Così lo descriveva in quei giorni il musicista e studioso di sociologia John H. Mueller (“The American Symphony Orchestra”, 1951): “A tall, sinewy ligure, gaunt and austere, he conducts without score or baton, mimicking the music with vibrating arms and fingers in an almost choreographic tremble. His players testify to his phenomenal memory, to his rehearsing the most modern composition, as well as infrequently used accompaniments, without benefit of score. He has mantained his pianistic skills and occasionally performs with his own orchestra in the simultaneous roles of conductor and soloist.”
Con la Minneapolis Symphony, Mitropoulos incise per la Columbia i suoi primi dischi. Queste incisioni (tra cui ricordiamo una formidabile Prima di Mahler) contribuirono ad allargare a tutti gli Stati Uniti la popolarità del maestro greco. Il quale nel 1939 veniva invitato come “guest conductor” della NBC Symphony Orchestra e, a partire dalla stagione 1940/41, ricopri una carica simile con la New York Philharmonic. Durante la stagione 1948/49 Mitropoulos si assentò per quasi metà della stagione da Minneapolis per dividere con Stokowski, in qualità di “co-conductor”, la direzione della New York Philharmonic. L'anno dopo egli lasciava definitivamente la Minneapolis Symphony (affidata ad Antal Dorati, che si era dimesso da Dallas) e passava alla testa della Filarmonica di New York, il più prestigioso complesso del paese.
Il periodo newyorkese doveva durare sette anni, fino al 1956. La stagione 1956/57 della Filarmonica sarebbe stata ancora diretta da lui, ma a metà con Leonard Bernstein, che a partire dal 1958 lo rimpiazzò. Fu un periodo magnifico per la vita musicale della Filarmonica e della città tutta. Mitropoulos inserì stabilmente il repertorio del Novecento nella vita dell'orchestra. Tra queste novità ricordiamo il “Wozzeck” di Berg, “Erwartung” di Schoenberg, le “Choëphores” di Milhaud, 1'“Arlecchino” del suo maestro Ferruccio Busoni, “Elektra” di Richard Strauss. Nell'ambito sinfonico, propose sovente opere di Mahler (il quale, oltretutto, era stato dal 1909 direttore proprio di quell'orchestra, salvo cederla dopo breve tempo). Ormai celeberrimo,Mitropoulos venne insignito della laurea ad honorem dall'Università di Harvard. Il suo rapporto con l'orchestra fu tuttavia sempre meno facile e ad un gentiluomo raffinato quale egli era mancavano le collere con cui Toscanini sapeva farsi valere.
Il critico americano Harold C. Schonberg, nel suo volume “The Great Conductors” (Londra, 1973), così sintetizza il periodo newyorkese di Mitropoulos: “He made a big impression in his day. It was not that he was a precisionist; indeed, he was anything but. His beat (he used no baton) was jerky, nervous and inexpressive, full of head shakes, shoulder wiggling and body writhings. At the Metropolitan he drove singers wild by his beat, and also by his variabìlity. He could conduct one way at rehearsals, another way at performances. The impression that he did make was for the wide range of his musicianship and his infallible memory. It was a photographic memory. One glance at a score, and it would be committed for good. The morecomplicated the score, the more he liked it - the scores of Mahler and Strauss, the scores of Schoenberg and Berg. He was less convincing in earlier music. His was the type of mind that responded to complexity rather than simplicity. He was a gentle, sweet man, and that was one of his troubles. “If I were a lion tamer”, he once said, “I would not enter a cage of lions reading a book entitled “How to Tame Lions.' In the same way I would not enter a rehearsal not completely prepared.” But he did enter the lion”s cage unprepared: not musically, of course, but temperamentally. He was far too gentle to snarl back at the lions in his cage. As a result, the players had a tendency to take advantage of his good nature. This sled to slack discipline. Players would talk about how much they loved him, but they also did what they wanted to do, rather than what he wanted them to do.”
Quando Mitropoulos lasciò la guida della New York Philharmonic, la sua carriera ne trasse spunto per un'ulteriore evoluzione: stavolta verso quell'indirizzo di interprete dell'opera lirica che già aveva cominciato a manifestarsi verso gli inizi degli anni '50. Già nel periodo di Minneapolis egli aveva eseguito, in forma di concerto, opere quali “Madama Butterfly” e “Tosca” Lo stesso fece più tardi con la  New York Philharmonic. Con essa diede, oltre al “Wozzeck” e all'“Elektra” di cui s'è già detto, “Cristophe Colomb” di Milhaud, “L`Heure espagnole” di Ravel e “Orfeo” di Monteverdi. E' tuttavia in Europa che conosce i primi grandi successi in teatro. Al Maggio Musicale Fiorentino del 1950 diresse una memorabile “Elektra”, nel cui cast spiccano i nomi della Konetzny e della Mödi. Ripeté “Elektra” alla Scala il 26 maggio 1954 con Christel Goltz e Nicola Rossi Lemeni, e poi ancora a Salisburgo (16 agosto 1957) e a Vienna nell'autunno. Sempre alla Scala diresse un “Wozzeck” (5 giugno 1952) alla cui prima, in seguito alle intemperanze di un pubblico troppo provinciale, dovette salire sul palcoscenico e dare ai più riottosi lezione di buone maniere. Nel 1953 fu di nuovo a Firenze per una “Forza del destino” con la regia di Georg Wilhelm Pabst (Tebaldi, Protti, Del Monaco, Barbieri, Siepi); e nel 1954 con “La Fanciulla del West” con la regia di Curzio Malaparte (Steber, Del Monaco, Guelfi). Debuttò al Metropolitan di New York il 15 dicembre 1954 con “Salomè”, protagonista Christel Goltz. Quell'anno, il 26 maggio, aveva diretto alla Scala “Arlecchino” di Busoni (Simionato, Panerai, Munteanu, Petri).
Nel poco più di un lustro di attività che lo separa dalla morte, troviamo Mitropoulos impegnato sempre più di frequente da una parte e dall'altra dell'Atlantico. Nel 1955 diresse al Met “Un Ballo in maschera” (Tucker, Milanov, Madeira, Peters). Il 10 ottobre 1956 diresse alla Lyric Opera di Chicago “La Fanciulla del West” (Steber, Del Monaco, Gobbi).La stagione 1956/57 lo vide più volte sul podio del Met per “Tosca” (protagonista RenataTebaldi), “Boris Godunov” (in originale), “Manon Lescaut”, “Ernani” (Del Monaco, Warren, Siepi, Milanov). Nella stagione 1957/58 diresse al Met “Eugenio Onegin” e la prima assoluta di “Vanessa” di Barber (15 gennaio 1958, interpreti Steber, Elias, Resnik, Gedda). La stagione seguente diresse -“Cavalleria” e “Pagliacci” oltre alle riprese di “Boris”, “Onegin” e “Vanessa” Diresse a Salisburgo nell'estate 1956 “Don Giovanni” e in autunno alla Staatsoper di Vienna “Manon Lescaut.” Fu di nuovo sul podio della Staatsoper durante l'autunno 1957 per “Madama Butterfly”e durante l'autunno 1958 per “Un Ballo in maschera” con Di Stefano. Al Maggio Musicale Fiorentino del 1957 diresse “Ernani” (Cerquetti, Del Monaco, Bastianini, Christoff). Il 27 ottobre 1958 inaugurò con “Tosca”, protagonisti Tebaldi e Del Monaco, la stagionedel Metropolitan. Tre mesi dopo, il 23 gennaio 1959, fu colpito da un primo attacco di cuore. I medici, a fatica, lo convinsero ad interrompere almeno temporaneamente l'attività. La convalescenza fu breve. Spinto dal suo entusiasmo, dalla gran voglia di tomare alla musica, riprese a dirigere in giro per il mondo. Fu la sua una decisione che doveva rivelarsi di lì a poco fatale. Il 2 novembre 1960 Mitropoulos moriva.
Parlare dell'uomo Mitropoulos è difficile, data la naturale ritrosia che lo caratterizzò sempre. Certo si può dire ch'egli non mancasse di autoironia (persino nei confronti delle proprie manie religiose) a giudicare da alcuni aneddoti che si raccontano su di lui. Uno dei più graziosi lo ha raccontato Egle Scorpioni, arpista dell'Orchestra del Maggio. “Amico dell'Italia ed in particolare di Firenze di cui conosceva ogni particolare artistico, lo s'incontrava spesso sui Lungarni mentre camminava tenendo fra le mani un grosso rosario che faceva scorrere fra le dita. A chi gli chiedeva il significato di quella sua abitudine rispondeva sereno: “Semplicemente per non fumare.”
L'artista Mitropoulos fu limpidissimo. Fu soprattutto un ammiratore di Busoni, del quale non scordò mai l'insegnamento. Il loro primo incontro fu sufficiente per cambiare il corso dell'esistenza del giovane greco. Dopo aver ascoltato Mitropoulos suonare per quarantacinque minuti una sonata di sua composizione - nella quale confessò di “aver riversato 1'intera anima” - Busoni esclamò: “Troppa passione! Torna a rifarti a Mozart per la purezza della forma." Anni dopo Mitropoulos ricordava con ironia: “I listened to Busoni, absorbed his knowledge, and ended up as a re-creator instead of a creator. Well - so I deteriorated into a conductor!”
Michele Selvini
(Note al cofanetto Replica RPL 2460/61)

venerdì, dicembre 01, 2023

Wagner e Guido Pannain

Edizione 1964
Innumerevoli volte il nome di Guido Pan
nain è apparso sulle copertine nelle vetrine dei librai, in fondo a saggi storici nelle riviste musicali e agli articoli di critica sui quotidiani, oltre che nei manifesti dei teatri lirici e delle società di concerti. Una intensa dunque e inesauribile attività di musicologo, di critico e di compositore, che ha dato e dà tuttora lustro al nostro patrimonio spirituale, in Italia e fuori d'Italia. Non necessita dunque di alcuna presentazione la sua figura, che da tempo le sue opere hanno già reso illustre.
Le Edizioni Curci sono attualmente impegnate nella pubblicazione di un nuovo volume, frutto di una laboriosa e lunga indagine del Pannain, rivolta a quella che è una delle più affascinanti figure dell'Ottocento tedesco, a Richard Wagner, e Vita di un artista ne è il titolo.
La ricorrenza del 150° anniversario della nascita del grande musicista vede così apparire un nuovo scritto su di lui, e quel particolare titolo dato al libro ha vivamente stimolato la mia curiosità e il desiderio di sapere entro quali limiti fosse contenuta la parola artista.
Fatto è che l'interesse per Wagner nella cultura musicale contemporanea, ed anche non musicale, dopo molti momenti equivoci e deviazioni non chiare, attraverso una sterminata letteratura che ha percorso per lungo e per largo la sua enciclopedica personalità, oggi risorge, e questo di Guido Pannain ne è un altro segno inequivocabile. Ho voluto allora avvicinare l'autore del volume, perché in anteprima volesse cortesemente fornirmi notizie sui caratteri generali dell'opera, e perché mi permettesse di rivolgergli alcune domande.
Ho trovato Guido Pannain al suo tavolo da lavoro, occupato nella lettura delle bozze del Wagner, e quando gli ho illustrato lo scopo della mia visita egli, se pur felice di vedermi, non ha saputo nascondermi la sua contrarietà. Conoscendo di già la sua sensibilità, per natura schiva di ogni forma di pubblicità nei confronti di tutto ciò che costituisce ragione di studio serio e profondo, ci è voluto del bello e del buono affinché si convincesse che la mia presenza nella sua casa era motivata solamente da un puro interesse di sapere, e che l'intervista aveva lo scopo di fornire anche ad altri quelle indicazioni sul libro che solo l'autore era in grado di dare. E cosi sono entrato cautamente in argomento.

Gradirei che mi fosse chiarito cosa ha voluto lei intendere per artista, e di conseguenza per vita di un artista.
Ho voluto intendere la vita non come esposizione di casi che possono essere comuni alla vita di qualunque uomo, e quindi anche a quelli di un artista in quanto è uomo comune, ma come svolgersi di avvenimenti non legati in maniera determinante al compiersi dell'opera d'arte, bensì da questa in certo modo determinati.
Una concezione dunque non conforme all'antica tradizione che pensava l'opera d'arte ispirata alla vita.
Esatto, e per chiarire meglio il mio pensiero voglio ricordare quello che scrisse a tal proposito l'autore di un notevole libro su Riccardo Wagner, apparso nel 1933 in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte. Mi riferisco al Wagner di Paul Bekker, il quale ebbe il merito di precisare appunto in che modo bisogna intendere il rapporto tra la vita dell'uomo e l'operare dell'artista. In quell'interessante articolo, pubblicato nella rivista tedesca «Die Musik» del febbraio 1933, egli, richiamandosi anche a quanto sull'argomento aveva espresso Goethe mettendo in guardia contro la valutazione esagerata dei casi della vita di un artista, pose l'accento sul significato da dare alla locuzione vita di un artista cioè «vita nelle opere». Trovo interessante citare questo suo periodo che traduco letteralmente: «Il fatto creativo non nasce dal germe dell'avvenimento della vita da cui viene fuori l'opera d'arte, ma viceversa: l'esigenza della creazione artistica forza l'avvenimento della vita per trovare in tal modo la via al compimento dell'opera. L'attività creatrice di Wagner è una anticipazione della sua vita,... l'uomo è un mezzo per giungere all'arte, onde egli rimane soggetto ad essa, non essa a lui...». Con questo credo di avere bene spiegato cosa io abbia voluto intendere per vita di un artista.
Poiché vi è un Wagner musicista, un Wagner poeta, un Wagner uomo di pensiero e un Wagner uomo di tutti i giorni, ha tenuto lei presente contemporaneamente i molteplici aspetti che quella persona mostra?
Tutti questi aspetti della vita di Wagner sono stati da me tenuti presente e considerati naturalmente distinti, ma sempre in rapporto all'attività fondamentale che qualifica e definisce Wagner, quella dell'artista; così mentre assistiamo allo svolgersi degli eventi della sua vita pratica (che potrebbero essere anche quelli di un uomo qualunque), vediamo dissolversi la figura dell'uomo comune, pratico e morale, ed apparire quella dell'artista che assorbe tutta la sua vita. Cioè, mi sono proposto di interpretare l'artista, attraverso le sue opere d'arte, in questo caso fatte di poesia e di musica, e anche la vita dell'uomo; però questa non in quanto si esplica nelle azioni comuni di tutti i giorni, ma come azioni messe in luce perché strettamente connesse con la vita dell'artista. Così, per esempio, nei momenti in cui l'artista non opera, come in tutta la prima giovinezza, i fatti della sua vita acquistano un interesse di primo piano perché sono tutto; non appena poi si profila l'opera dell'artista assieme a quella dell'uomo di pensiero, sono questi fatti, quali risultato del suo operare, ad acquistare importanza preponderante e a costituire la sua stessa vita, per cui gli avvenimenti comuni vengono messi in ombra. Si comprende quindi ancora meglio il significato che ho voluto dare, nel riferirmi a Wagner, all'espressione «vita di un artista», con la quale io considero appunto la vita come unità di tutte le sue attività.
Sicché il suo libro non è una biografia nel senso comune, ma la biografia di un artista complesso quale è Wagner, considerando anche, anzi principalmente, le opere d'arte come sue azioni.
Precisamente, e tenendo presente che anche gli avvenimenti della vita comune sono presi in considerazione, illuminati però dalla luce che su di essi spargono le sue opere d'arte.
E mi dica, ora, dove ha trovato gli elementi che l'hanno guidata alla conoscenza della vita pratica di Wagner?
Dovrei rispondere in primo luogo nel «Mein Leben», la famosa autobiografia di Wagner, ma come si sa questa non è la fonte più attendibile per la conoscenza della vita del musicista, perché essa fu scritta sotto la sorveglianza di Cosima, e quindi molti fatti importanti sono lì taciuti: ad esempio, per dirne uno, tutto quell'interessante momento della psicologia wagneriana che riguarda l'incontro con Matilde Wesendonk. Ma tra le migliaia di pagine scritte da Wagner, oltre le opere qualificate, c'è una  immensa corrispondenza nella quale il suo pensiero si manifesta incidentalmente con una multiformità e varietà che si estende ai più inattesi domini della conoscenza; e l'esplorare questi meandri di una sensibilità così acuta e travagliata mi pare che potrebbe offrire ben altro interesse che le faccende familiari, gli intrighi con la Corte di Baviera, gli egoismi sessuali, e le altre minuterie, anche se condannabili, dell'agire quotidiano. Veder chiaro nella vita di un artista, questo solo mi ha interessato.

A questo punto il maestro Pannain ha voluto leggermi gentilmente alcuni brani, e solo allora ho compreso che qualunque illustrazione in parole non potrà mai giungere a mostrare ciò che solo alla lettura diretta di quest'opera potrà svelarsi. L'approfondimento critico dell'opera wagneriana - sia l'opera d'arte del poeta e del musicista, sia l'opera di pensiero - e l'interpretazione introspettiva della psicologia wagneriana unitamente al fascino della esposizione letteraria si fondono in qualche cosa che attrae e l'iniziato e il profano.
Lionello Cammarota
("Rassegna Musicale Curci" anno XVIII n. 2 giugno 1964)

lunedì, novembre 20, 2023

Incontro con Franco Gulli

Parla l'interprete dell'incisione discografica 
dei due Concerti per violino di Alberto Curci.

In una vetrina del centro milanese campeggia un disco - registrato sotto la direzione dell'illustre maestro Franco Capuana, solista di eccezione il violinista Franco Gulli - con i due Concerti per violino ed orchestra di Alberto Curci.
Trattandosi di una delle novità discografiche della stagione, l'ho acquistato ripromettendomi un incontro con il violinista, anche perché, da tempo, mi ero ripromessa di chiedere a Gulli una intervista.
Ascoltando il disco mi sono resa conto che l'interpretazione dei due Concerti è veramente superba: la musica si presta a voli lirici ed è palese che è stata composta da un compositore per il quale il violino non ha segreti.
Questi Concerti rappresentano, per l'esecutore, una panoramica in cui il violino spazia tecnicamente e liricamente: il Concerto romantico, opera 21, era già stato eseguito tempo addietro mentre il Secondo, opera 30, è stato presentato per la prima volta nella stagione sinfonica 1962, al Teatro S. Carlo di Napoli, proprio da Franco Gulli.
Alberto Curci, Accademico di S. Cecilia e medaglia d'oro per meriti nella cultura e nell'arte, è stato un illustre violinista e pedagogo: è dunque ovvio che, dedicandosi alla composizione, abbia pensato allo strumento che gran parte ebbe nella sua vita.
Ho telefonato a Franco Gulli ed egli, con la cortesia che lo distingue, non ha esitato a concedermi l'intervista che gli chiedevo.

Quali problemi strumentali ha trovato studiando i due Concerti per violino scritti da un compositore violinista come Alberto Curci?
La prima impressione sulla musica di Alberto Curci 1'ho avuta avvicinandomi al «Secondo Concerto» per violino ed orchestra composto dal maestro in epoca piuttosto recente: è stata l'impressione di una vena di ispirazione estremamente ricca e scevra di qualsiasi problema situato al di fuori di questa ispirazione. Come strumentista ho trovato che poche composizioni sono state scritte negli ultimi anni tenendo in così grande considerazione le esigenze e le possibilità tecniche ed espressive del violino: è evidente che, per un violinista, l'esecuzione di questo Concerto rappresenta una gioia strumentistica piuttosto fuori del comune. Vorrei anche notare che Alberto Curci non si è limitato a curare in ogni particolare la parte solistica, bensì ha strumentato questo suo lavoro prediletto con rara maestria, senza indulgere a facili effetti ma con esemplare contenutezza. Nel corso della registrazione, guidata dal M° Franco Capuana, ho avuto modo di ammirare particolarmente l'equilibrio fra parte solistica ed accompagnamento orchestrale. Il primo Concerto - dal titolo programmatico di «Concerto romantico» - risale a molti anni addietro e rivela il profondo interesse e l'amore paterno che Alberto Curci nutre per i suoi allievi: è indubbio che il maestro abbia voluto con questa opera dare la possibilità ai discepoli, anche non troppo avanzati nello studio, di eseguire pubblicamente una composizione nella quale far rifulgere le loro qualità strumentali ed emotive senza ricorrere a composizioni i cui problemi di tecnica e di fraseggio fossero superiori alle possibilità da loro raggiunte dopo qualche anno di studi e non ancora completate. Personalmente ho provato un particolare piacere nello studio e nella esecuzione del 1° tempo di questo «Concerto romantico» che, mi sembra, l'autore abbia voluto ricollegare alla grande tradizione dei Vieuxtemps e dei Wieniawski: credo di poter affermare che non esiste nella letteratura violinistica dei nostri tempi un pezzo che possa offrire insospettate possibilità di comunicativa per una giovane speranza del violino.
Lei ha inciso due Concerti di Alberto Curci: in quale dei due la sua musicalità ha trovato maggiore sfogo?
Come ho già fatto notare, ho provato una vera gioia strumentale a interpretare sia il primo che il secondo Concerto, sebbene per l'ascoltatore del disco apparirà evidente che nel secondo il Maestro Curci ha raggiunto una completezza compositiva ancora maggiore senza rinunciare, peraltro, alla schiettezza ispirativa legata indissolubilmente alla sua terra.
Quali ricordi le sono rimasti dal rapporto umano con Alberto Curci?
Ho conosciuto Alberto Curci in occasione di un mio «recital›› per l'Associazione Alessandro Scarlatti a Napoli e le sue parole di plauso, dettate da una affettuosa sincerità, mi avevano profondamente commosso: Alberto Curci è uno dei più insigni pedagoghi del violino che possa vantare l'Italia, un uomo che è stato amico di moltissimi fra i più grandi virtuosi di questo strumento, un benemerito della nostra arte per aver introdotto in Italia, con personale sacrificio, i fondamentali volumi di Carl Flesch e, soprattutto, per aver formato una eletta schiera di discepoli. Anche per queste ragioni mi ha particolarmente onorato l'invito che egli mi fece, a suo tempo, per la prima esecuzione, al San Carlo di Napoli, del suo «Secondo Concerto» e la sua successiva proposta di registrare su disco entrambi i Concerti.
Lei ha citato i volumi di Carl Flesch e, a proposito dell'attività editoriale del M° Alberto Curci, mi consta che le Edizioni Curci sono fra le più aggiornate nel campo della musica classica: è del mio stesso parere?
Condivido pienamente la sua opinione. Dobbiamo, infatti, alle Edizioni Curci alcune delle più spettacolose iniziative editoriali in questo campo: a questo proposito basti ricordare la insostituibile edizione delle «Sonate» di Beethoven, per pianoforte, a cura di uno dei più insigni musicisti della nostra epoca: Artur Schnabel. Con personale gioia ed interesse ho salutato inoltre l'apparizione del «Concerto in re magg. op. 61» per violino ed orchestra di Beethoven nella revisione di quel sommo artista del violino che è Joseph Szigeti. Potrebbero bastare le opere che ho citato perché ogni musicista fosse estremamente grato alle Edizioni Curci.
Oltre alla musica, si interessa di altre forme d'arte?
Sì: credo che non si possa prescindere da tutto ciò che fa parte del mondo dell'arte quando si esplica una attività di un determinato rango in questo mondo.
Che autori preferisce leggere?
Classici e contemporanei: è una domanda alquanto complessa alla quale è un po' problematico rispondere spaziando, i miei interessi letterari, dai classici alla moderna produzione italiana e straniera. Disgraziatamente il tempo, come ognuno sa, è terribilmente limitato ma se devo proprio indicare una preferenza penso che fra gli autori dai quali si possa trarre beneficio spirituale uno dei primissimi posti è attualmente occupato da Goethe.
 Quale pittura preferisce e perché?
A questa domanda potrei rispondere come ho fatto per la precedente: se Pier della Francesca mi lascia un senso di serenità e di grandiosità spirituale, come, ad esempio, la musica di Gabrieli, mi interesso con particolare fervore alle molteplici tendenze dell'arte contemporanea, prediligendo soprattutto Paul Klee nella pittura e Brancusi nella scultura.
Lei ha un duo con sua moglie, Enrica Cavallo, e fa parte, assieme a Bruno Giuranna e a Giacinto Caramia, del «Trio Italiano d'Archi»: quali programmi ha per il prossimo futuro?
Oltre alla mia attività solistica, ho sempre avuto un grande interesse per la musica da camera: da molti anni, infatti, io e mia moglie curiamo con entusiasmo il repertorio sonatistico come duo di violino e pianoforte. A questo riguardo preciso, anzi, che, oltre al repertorio classico e romantico, abbiamo avuto occasione di presentare per la prima volta in Italia molte Sonate di autori contemporanei quali Prokofief, Hindemith, Strawinsky. Da qualche anno, poi, il «Trio Italiano d'Archi», del quale faccio parte, svolge una notevole attività con un repertorio non molto esteso ma di straordinaria bellezza: basti ricordare, per esempio, il celestiale «Divertimento in mi bemolle maggiore»› di Mozart.
Lei ha mai insegnato?
Ho avuto qualche allievo parecchi anni fa ma non ho mai potuto dedicarmi molto all'insegnamento per la molteplicità dei miei impegni e conseguenti viaggi: devo dire, però, che la cosa mi interessa molto, specialmente se si ha la fortuna di insegnare ad allievi con i quali si possa anche discutere degli infiniti problemi riguardanti la musica ed il nostro strumento. Lei può immaginare dunque, quanto piacere mi abbia procurato l'onorifico invito del Conte Guido Chigi Saracini a tenere, nella prossima estate, nella sua Accademia Chigiana di Siena il corso di perfezionamento di violino.
Preferisce impostare un giovane o perfezionarlo?
E' una domanda alla quale mi è terribilmente difficile rispondere in quanto, fino ad ora, non ho mai avuto occasione di avere come allievo un principiante.

La natura ha dotato Franco Gulli di una personalità fisica notevole: egli, infatti, desta immediata simpatia per il suo sguardo leale e per la finezza dei modi. Quando, poi, prende tra le mani il suo splendido Guadagnini per farne scaturire note purissime e  suono sempre limpido ed avvincente, ci troviamo di fronte ad un quadro perfetto. Si può dire che il violinista triestino è veramente un privilegiato dalla sorte perché lo amalgama tra la sua persona e lo strumento è perfetto: questo è confermato dalla straordinaria facilità con la quale esegue qualsiasi composizione spaziando egli dalle interpretazioni di musica antica a quelle di musica contemporanea attraverso il classicismo ed il romanticismo.
Termino il mio «incontro» con le parole che il critico del più autorevole quotidiano milanese ha scritto per recensire l'esecuzione del Concerto di Beethoven fatta da Gulli all'Angelicum: «Franco Gulli è ormai nel pieno della maturità ed è da classificarsi violinista degno di competere con i maggiori esponenti del concertismo internazionale».
Jolanda D'Annibale
("Rassegna Musicale Curci", anno XVIII n. 1 marzo 1964)

sabato, novembre 11, 2023

Fitzwilliam Quartet: Complete Decca Recordings

Si dice che gli dèi, invidiosi delle 
straordinarie fortune dei migliori tra gli uomini, ordiscano sinistre insidie del destino per vendicarsi di costoro, con la scusa della hybris. Dev'essere ciò che accadde al leggendario Fitzwilliam String Quartet, catapultato dall'oggi al domani dal rango di “undergraduated Quartet” d'un College universitario inglese alla planetaria fama d'evangelisti ufficiali del verbo quartettistico sciostakoviano. C'erano entrate la curiosità (di conoscere l'allora ultimo nato, il Tredicesimo, dei quartetti di Shostakovich di cui il Fitzwilliam aveva pubblicamente eseguito il celebre Ottavo), la determinazione (scrivere al musicista in persona richiedendo l'invio della musica, che in Occidente non era disponibile), la bravura (farsi apprezzare dal compositore a tal punto che egli fece dei Fitzwilliams, di fatto, i “creatori” nei paesi di qua dalla ferrea cortina dei Quartetti ch'egli ancora scrisse, ovvero il Quattordicesimo e il Quindicesimo), la fortuna (quella serve sempre): che risedette, anche, nell`essere precocemente notati da Peter Wadland, il leggendario producer delle Editions de l'Oiseau-Lyre (un altro tanto fuori dal comune, Wadland, da essere reclamato anzitempo dal Parnaso degli Olirnpi), il quale affidò a quei giovanissimi la realizzazione della prima registrazione integrale, nei paesi non-comunisti, proprio dei Quartetti di Shostakovich.
L`impresa fu compiuta nel breve volgere d'un paio d'anni riscuotendo un risonante e durevole successo, anche commerciale. A riascoltarli oggi, quei Quartetti, mantengono intatta tutta la loro freschezza sorgiva e l'interpretazione del Fitzwilliam l'idea di unicità, che la distingue dall'approccio più “normalmente” russo dei, pur giustamente celebrati, creatori d'oltrecortina (il Quartetto Beethoven, fedelissimo di Sciosta) e dei loro leggendari concorrenti del Quartetto Borodin. Anche Shostakovich si dice confessasse di considerare i quattro giovani britannici i suoi interpreti prediletti. C`è nelle loro esecuzioni una forza drammatica quasi teatrale (ascoltare i recitativi, paiono cantati da voce umana), sonorità piene, al contempo tonde e ruvide, le dinamiche spesso estremizzate, sia nelle accentazioni del fortissimo che nella quasi-impercettibilità (ma il quasi è determinante) di estenuati pianissimi, a passare una pennellata espressionista sulle immagini liriche, sui quadri astratti, sulle tragiche evocazioni belliche, sui riferimenti storici o letterari che volta a volta si presentano, dichiarati o sottintesi, nei capolavori di Dmitri Dmitrievich. L'ideale per la sua musica, così fortemente contrastata tra l'apparenza superficiale e la sostanza profonda da scovarsi.
A mantenere la divisa d`apripista, per il prosieguo della sua carriera discografica il Fitzwilliarn si dedicò ad incidere opere di raro ascolto: nacquero così i dischi col Quartetto di Delius (che riscoprimmo teso e dipinto a colori meno tenui di quanto siamo soliti osservare) in desinenza baciata con quello di Sibelius, fissato pel capolavoro che da allora conoscemmo e ci abituammo ad ascoltare con più lieta frequenza; poi il gigantesco Quartetto di César Franck, dove il Fitzwilliam si divertiva a ricreare i “colori” dell'organo in un contrappunto abbacinante tra quattro solisti di stupefacente personalità. Una delle caratteristiche più evidenti del Fitzwilliam SQ è la perfetta definizione delle quattro voci, che si fondono in una timbrica comune senza mai nascondersi dietro le linee principali.
Coi due Quartetti di Borodin, l'ensemble tornava all'amato repertorio russo per gettare nuova e meritamente più radiosa luce sul misconosciuto primo e rinnovare con una interpretazione di straripante originalità il celebre secondo.
Poi venne la ondivaga Serenata italiana di Hugo Wolf, in un abbinamento, atto a far infuriare i due autori che si disamavano, col Quintetto di Brahms, clarinettista Alan Hacker, ed è l'unico esito non memorabile della collezione. Forse le intenzioni di svecchiare un pezzo che, a differenza degli altri incisi dal gruppo, era fin troppo eseguito superarono le reali possibilità di farlo (la tradizione esecutiva del Quintetto brahmsiano, anche in disco, è tra le più fortunate nella storia della musica occidentale); forse non si creò col clarinettista (che pare suonare su uno strumento in si bemolle anziché in la, come prescritto, sì che il colore risulta più livido che luminoso, e certo poco adatto a rimuovere dall'opera la patina d'autunnale che gli interpreti, dichiaratamente, si prefiggevano) quel feeling che i Fitzwilliams trovarono, invece, col violoncello di Christopher Van Kampen, compagno nel Quintetto in do minore di Schubert e in molti concerti: un disco-capolavoro nel quale l'inafferrabile fantasia schubertiana viene fatta vibrare in totale libertà d'esprimersi, nel mutevole porsi disincantata dinanzi all'eterno, quasi ironica a celar la tragedia, struggentesi di rimpianti, in una intonazione della 'Sehnsucht' 'romantica di travolgente pietas. I quattro formidabili musicisti avevano vinto così anche la prima sfida col “digitale”, riuscendo a mantenere intatta la riproduzione dei loro inconfondibili suoni e dei loro colori, tanto eccezionalmente “caldi'.
Si apriva il 1982, il nostro anno “mundial", e il Fitzwilliam riceveva la sua definitiva consacrazione: la Decca - che già aveva loro aperto le porte del suo catalogo principale - invitò questi antichi allievi di Cambridge a misurarsi con la summa quartettistica di Beethoven. O sia, la catena dell'Himalaya in punta d'archetto. Come con Shostakovich, si partì a registrare dal fondo, dagli ultimi Quartetti e quasi ad esorcizzare le non immotivate ansie, i prevedibili batticuori agitati dalla deferenza verso cotali giganti, il primo fu proprio il monumentale opus 132 in la minore, il Monte Everest dei quartettisti. Ascoltarlo fu (ed è ancora oggi) come ripulirsi le orecchie: l'interpretazione del Fitzwilliam non manteneva nulla di sacrale né di reverenziale (se non il necessario timor per affrontare simili sfide), nulla di testamentario. Anche la Canzona di Ringraziamento veniva attenuata di tante didascaliche sovrimpressioni e riportata alla sua pura - finissima, sperimentale, quasi inverosimile - essenza musicale: non più la preghiera (sia pure sonoramente ebraica) innalzata dall`Amadeus; non più l'immobilità metafisica del Quartetto Italiano in stato di grazia (ho in mente soprattutto una registrazione catturata 'live' alla londinese Royal Festival Hall nel 1965), ma uno scorrere lentissimo attraverso i modi antichi, che pur nella estenuata lentezza mostra sempre il suo moto, come un interminabile fiume cinese, col cangiare dei colori man mano che cambia il paesaggio. E il resto consegue, come i precordi, che risuonano nel ripetersi del salto di sesta che, prima della Canzona, aveva dato suono alla Cavatina nell'opus 130. Un'estasi tragica.
L`anno dopo prese corpo il progetto, avviato da tempo e sollecitato anche dalla vedova di Shostakovich, di registrare il Quintetto con pianoforte op. 57 del maestro: Irina, impariamo dal booklet, avrebbe gradito Richter o Gilels (et pour cause), ma la Decca preferì giocare in casa e coinvolse il “suo” Ashkenazy. A settembre i cinque si ritrovarono alla Kingsway Hall per registrare l'opera: Ashkenazy, si dice, dall`alto della sua fama accolse di buon grado la autorevolezza dei più giovani colleghi in materia sciostakoviana ed anzi ne sollecitò la guida, ma impose il suo proprio producer e il suo tecnico del suono, e la differenza si sente, percependosi un poco più di freddezza (il caratteristico suono “neo-classico" di Ashkenazy) nelle timbriche anche del quartetto, un colore meno caratterizzato e distinto di quanto non si ascolti negli altri dischi del FSQ; ma dal punto di vista strettamente musicale l'esito è (e fu al momento dell'uscita dei dischi che fecero epoca) egualmente soggiogante: l'eccitazione in trionfo. A dicembre il quartetto si ritrovò in studio per alternare l'incisione dell'opus 130 di Beethoven (quasi ovvio corollario - ricordate la sesta? - all'opus 132) con le Romanze su testi di Blok, protagonisti la Söderström ed Ashkenazy ai quali si aggiunsero Christopher Rowland e Ioan Davies (primo violino e violoncello del FSQ), che completavano il disco sciostakoviano.
I Fitzwilliams furono tra i primi a ripristinare, nel Quartetto in si bemolle, la Große Fuge come movimento conclusivo (oggi è venuto di moda): idea non buona a parer mio; se Beethoven decise di ritirare l'esorbitante esercizio di scrittura “vetero testamentaria" non fu certo solo perché glielo chiese il preoccupato editore. Ci sono le lettere a testimoniare come Ludwig trattava con i riottosi editori. Se aveva bisogno di “realizzare”, come dicevano un tempo i rappresentanti di commercio, accettava di pubblicare roba vecchia (tipo l'Ottetto op. 103, tenuto nel cassetto per ventitré anni) o nuove trascrizioni di lavori più antichi (ad esempio il Quintetto op. 104, arrangiamento del terzo Trio op. 1), qualche Lieder o una marcetta, tutti facilmente spendibili sul mercato dei dilettanti amatori... Ma quando si trattava delle opere che contano, Ludwig non cedeva un unghia, né sul soldo né su altro che potesse intaccare la novità (ci insisteva sempre molto) o il valore (ne era ben consapevole) della sua arte. E se gli argomenti per ripristinare la Fuga son quelli del 'pensiero originale', allora dovremmo anche reinserire nella Waldstein l'Andante in fa minore, il famigerato Andante favori da molti cuori infranti. Ma questo non s'attenta a farlo nessuno...
Idea non buona, dicevo, ma realizzata magistralmente: il Fitzwilliam è uno dei rarissimi ensembles, infatti, a riuscire a dare un senso musicale e formale, come coda di Quartetto, a quell'esorbitazione.
Il clamore suscitato dalle imprese del Fitzwilliam era a quel punto talmente clamoroso che gli dèi non vollero più saperne  e seminarono il germe dell`insidia. Nessuno avrebbe immaginato, all'epoca, che il ritorno a Shostakovich sarebbe stato, per il Fitzwilliam, la - non solo emblematica - chiusura del cerchio, dopo una vertiginosa parabola lanciata appena otto anni prima.
Nel 1984 era corsa la voce di due arrangiamenti per quartetto d'archi di Shostakovich appena riscoperti (risalgono a prima della guerra) e pubblicati. Il gruppo non poteva ignorarli ma, il tempo di ricevere la musica e studiarla, successe il finimondo. Christopher Rowland, il trasognato primo violino del gruppo che, si dice, aveva una perplessa e assai turbata tiefe religiosa, cedette a questa e ai suoi non più saldi nervi che crollavano al momento di presentarsi in pubblico, ritirandosi nei meno esposti compiti di direttore della musica da camera in un College di Manchester. Fu rimpiazzato da un argentino (una sorta di Barenboim dell'archetto che pareva il ritratto di Zukerman, ma non era Zukerman né Barenboim), Daniel Zisman, brillante virtuoso. Fu solo nel 1986, dunque, che la rinnovata compagine si ritrovò in studio per incidere i due nuovi Pezzi onde completare il disco col Quintetto e le Romanze, tenuto fermo fino allora: la novità si sente, Zisman è molto più “virtuoso” di Rowland, ma anche meno amalgamato col gruppo.
Ci sono - scopro dal booklet -  altri due dischi beethoveniani, conservati nei frigoriferi della Decca ma, si dice per decisione comune, mai pubblicati: i due Pezzi sciostakoviani sono, dunque, l'unica testimonianza discografica del Fitzwilliam con Zisman, il feeling col quale non dovette mai cementarsi del tutto. Nel 1988, con la motivazione ufficiale (ma poco credibile) d'una consistente riduzione dei  fondi da parte della York University (che dagli inizi manteneva il quartetto in residence), che non tutti vollero accettare, il gruppo si sciolse.
Si sarebbe ricostituito - con un nuovo primo violino e un nuovo violoncellista - pochi anni dopo (e ancora tiene duro, con valore), ma né il ciclo Beethoven né il rapporto con la Decca sarebbero mai più stati ripresi.
Credo sia stato corretto non inserire in questa bella scatola celebrativa i due dischi inediti, ma la speranza di poterli un giorno ascoltare la tengo viva.
Bernardo Pieri
("Musica" n.348, luglio/agosto 2023)

giovedì, novembre 02, 2023

Quadro musicale orchestrale in Johannes Brahms

Johannes Brahms aveva 11 anni quando, nel 1844, apparve la fondamentale opera 
didattica d'istrumentazione, «Traité d''nstrumentation» di Hector Berlioz. Il suo  Traité non era il primo scritto che innalzasse l'arte dell'istrumentazione a oggetto di un'esposizione didattica. Già nel 1764 a Parigi fu stampato un piccolo studio di musicista da camera del principe di Conty, che trattava delle possibilità sonore e di combinazione degli strumenti allora di nuovo genere e ancora poco in uso come il corno e il clarinetto. Non è un caso che anche i successivi insegnamenti nell'arte dell'istrumentazione vedessero la luce in Francia e cioè a Parigi: il «Diapason général» di Francoeur, il «Cours de Composition» di Anton Recha e il «Traité d)'nstrumentation» di George Kastner.
La musica orchestrale francese si era fatta, nel corso del 18° sec., una rinomanza eminente che mantenne fino al 19° secolo avanzato. Non solo nella sfera sinfonica si formarono in Francia unità di misura che diventarono normative per la musica strumentale europea; anche l'orchestra dell'Académie Royale, l'orchestra d'opera di Parigi conquistò con un limato lavoro di prove un grado europeo.
La fondazione del Conservatoire di Parigi nell'anno 1795 condusse l'insegnamento artistico della musica strumentale, fino ad allora liberamente amministrato, su di una strada ordinata. Tra la quantità numerosa dei trattati che si trovavano in commercio, le opere ufficialmente riconosciute del Conservatoire conquistarono non solo una priorità di fronte agli altri trattati della musica strumentale, ma crearono a poco a poco, per il perfezionamento dell'incremento orchestrale, un livello di produzione unitario. Con la tensione del perfezionamento crebbe a vista d'occhio il ceto produttivo dei musicisti e portò all'abbandono delle variabilità di formazione come erano d'uso corrente nel secolo 18°. I musicisti si limitavano sempre di più ad uno strumento predominante, che seppero padroneggiare con una perfezione magistrale, e offrirono ai compositori la possibilità di aumentare gradualmente le esigenze per quel che riguardava il grado di difficoltà tecnico musicale.
Quando Johannes Brahms si volse alla composizione orchestrale, trovò pronto un corpo sonoro pienamente perfezionato ed efficiente. Se Beethoven inizialmente si era accontentato ancora di strumenti di legno a fiato duplicemente distribuiti, sempre cioè di un paio di trombe e un paio di corni, dall'«Eroica» in poi aggiunse il 3° corno e aumentò nella 5a Sinfonia (ultimo tempo) il gruppo degli ottoni e il trio di tromboni. Il rafforzamento degli ottoni esigeva un equivalente nei rimanenti gruppi. Così si aggiunsero il piccolo flauto e il controfagotto al numero dei suonatori di legni, ed ampliarono così il suono sia in altezza che in profondità, mentre nel gruppo dei suonatori d`archi il quartetto d'archi fu ridimensionato a quintetto rendendo autonomo il violoncello. Se i compositori usavano, nell'orchestra operistica, fondamentalmente questa formazione standard, la composizione dell'orchestra operistica fu modificata in conformità alle esigenze drammatiche. Se nella sfera sinfonica si trattava esclusivamente di rivestire l'astratta concezione musicale e formale in un adeguato abito orchestrale, al compositore d'opera si ponevano compiti illustrativi, per corrispondere musicalmente alle esigenze drammatiche e alla concreta situazione scenica. Nella sinfonia «a programma», infine, crebbero, fondendosi, elementi della struttura musicale sinfonica e operistica. Perciò non ci si meraviglia se, specialmente i compositori d'opera, ma anche i compositori di sinfonie «a programma» diventarono i precorritori di una moderna arte strumentale. Nomi come Weber, Meyerbeer, Wagner, Berlioz, Liszt, Rimskij-Korsakov e Richard Strauss possono illustrare la situazione.
Il corso di questa evoluzione nella tecnica dell'istrumentazione deve essere tenuto presente per capire la particolare posizione di Johannes Brahms. Sebbene Brahms per tutta la sua vita abbia accarezzato progetti d'opera, tuttavia è venuto meno a questa forma estroversa del far musica; sebbene abbia lasciato un'opera complessiva molto estesa, la parte dei lavori puramente orchestrali è esigua: 4 sinfonie, 4 concerti, 2 ouvertures, 2 serenate, le Variazioni su tema di Haydn e le tre danze ungheresi strumentate esauriscono il suo contributo alla letteratura orchestrale. Anche calcolando le opere corali con accompagnamento d'orchestra, rimane tuttavia inequivocabile il sovrappeso nella creazione di musica da camera.
Con la composizione delle sue opere orchestrali Brahms abbraccia il periodo di tempo dal 1857 al 1888: quasi 30 anni esatti, quindi. Brahms si avvicinava alla metà del suo terzo decennio di vita prima di considerare in senso artistico, per la prima volta seriamente, la questione della composizione orchestrale. Il fatto che egli si sentisse attirato dalla natura sensibile di Robert Schumann e dal suo talento lirico, mentre il gesto virtuoso della musica di Franz Liszt lo respingeva, concede uno sguardo in profondità nella sua individualità artistica. Nessuna delle sue opere richiese così lungo tempo come la composizione della prima sinfonia. Questo concerne non solo la forma sinfonica di per sé stessa, ma anche senza dubbio la forma orchestrale. Appartiene al carattere specifico della musica per orchestra di Brahms il mancare di ogni effetto esteriore con cui si distingueva la cosiddetta musica «a cappella» del suo tempo. Se qui il modesto contenuto ideale è in brusco contrasto con il suo rivestimento sonoro ricco d'effetto, Brahms persegue fin da principio una strada opposta. Nelle sue partiture non si trova una sola battuta in cui l'elemento coloristico, fine a se stesso, domini la struttura compositoria. Questa intensificazione del mezzo sonoro spiega anche la rinuncia di determinati colori strumentali che a quel tempo appartenevano al patrimonio fisso della partitura orchestrale. Quando Brahms, nel 1877, si presentò al pubblico con la sua prima opera sinfonica, le opere principali di Wagner erano già pronte, Mussorgskij aveva già rappresentato il suo Boris Gudonov (1874), e musicisti come Bizet, Saint-Saëns e Karl Goldmark avevano provato nelle loro partiture tutte le raffinatezze della moderna arte orchestrale.
Niente degli addensamenti sonori, degli effetti di stratificazioni lì usati, niente degli effetti illustrativi delle opere di Berlioz, Liszt o Wagner è penetrato nelle partiture di Brahms. Il suono sensuale del corno inglese manca in lui cosi come il suono che sussurra delle arpe a cui, unicamente nelle tre prime parti del Requiem e in opere corali minori accompagnate da orchestra, sono assegnati alcuni sonori arpeggi. Perfino l'effetto pieno di foga della batteria è eliminato dalla sua opera sinfonica e concertante, e significativamente Brahms ha ironeggiato sulla sua Ouverture Accademica, in cui egli prescrive questi strumenti, chiamandola scherzosamente ouverture da musica turca.
Brahms si ricollega nella concezione della sua formazione all'orchestra classica, come se ne valeva Beethoven. Qui è chiaramente diventato efficace l'influsso di Robert Schumann, che richiamava sempre l'attenzione del suo amico compositore su questo modello. Questo volontario regresso del romantico Brahms alle pratiche strumentali dei classici, diventa particolarmente evidente nell'uso e nella disposizione delle trombe. Nella 1° Sinfonia Brahms mette in serbo le sonorità del trio dei tromboni, con piena consapevolezza, per l'ultimo movimento, dove esse coprono armonicamente il corno solo. Alcune battute dopo esse vengono impiegate per la prima volta melodicamente nell'episodio di genere corale, e integrate armonicamente dai 3 fagotti, mentre il controfagotto raddoppia il trombone basso nella ottava inferiore. Anche nelle altre sinfonie i tromboni e perfino le trombe vengono usati con evidente parsimonia. Nella 4* sinfonia i tromboni risuonano solo nel movimento finale, e danno cosi a tutta l'opera, anche dal punto di vista del timbro, un effetto finale caratteristico. Nella 8a delle Variazioni su tema di Haydn, è assegnato alla coppia di trombe un unico tono nell'accordo finale; nel finale delle Variazioni il loro compito è limitato al rafforzamento dei passi di cadenza. Al contrario il suono del corno appartiene al naturale, preferito attributo musicale dell'orchestra di Brahms. In nessun tempo delle sue sinfonie Brahms rinuncia a questo mezzo di connessione. Perfino là dove domina la voce sonora degli archi, come nell'attacco del tema principale dell'ultimo movimento della prima sinfonia, il corno viene introdotto come cuscinetto sonoro.
Brahms preferisce la posizione intermedia e intensa degli strumenti. Solo occasionalmente cede a estreme posizioni marginali. A ciò non contraddice il fatto che egli, di quando in quando abbracci lo spazio musicale di 5 ottave e mezzo con la sua orchestra (accordo finale del 2° movimento della Prima sinfonia). L'accentuazione dello spazio musicale intermedio conferisce alla sua musica il pieno, sonoro e caratteristico timbro di Brahms. Lo splendore dei violini portati in alto, il lampeggiare dei suoni estremi dei legni, lo sfavillio di trombe squillanti e il sordo rimbombo dei suoni profondi degli strumenti a fiato non sono caratteristici di Brahms. L'avvicendarsi in blocco dei gruppi di strumenti, come specialmente Bruckner amava, o l`isolamento dei suoni (come, dal tempo di Schubert in poi, fu volentieri impiegato per l'intensificazione della mescolanza dei suoni) sono, nelle partiture di Brahms, senza un reale significato. Solo raramente Brahms ha praticato la tecnica del raddoppiamento del movimento astratto a 4 voci, come già Anton Reicha insegnava nel suo «Cours de composition» e come Beethoven realizzava nelle sue partiture. Ciò che musicalmente lo divide dal suo grande predecessore viennese risiede più nel campo armonico e meno nello strumentistico di per sé. Solo nella stratificazione sonora Brahms si differenzia essenzialmente da Beethoven. Mentre Beethoven procede volentieri in una costruzione musicale verticale, per terze, cioè rafforza strumentalmente la terza nell'insieme musicale (da qui il timbro un po' nodoso, virile di Beethoven), Brahms conserva nel modo più ampio il rapporto di intervallo della serie dei suoni armonici superiori. Ciò significa che in Brahms nel raddoppiamento la nota fondamentale e la quinta mantengono il predominio. Mai nelle sue partiture domina la terza, anche là dove gli accordi appaiono in posizione di terza. Brahms adopera cioè la disposizione dell'orchestra classica, ma stratifica il suono secondo l'esempio dei Romantici.
Non è sicuramente un caso, che Brahms, in nessuno dei testi strumentazione, sia di Gevaert, Strauss, Berlioz o Erpf, sia rappresentato con un esempio di partitura. Le sue partiture non sono adatte per lo studio di effetti orchestrali. In un tempo in cui i compositori passavano a rendere autonomo il timbro con un desiderio di esperimenti addirittura scatenato, il nativo della Germania del nord accentuava la sintesi tra disegno e colore. In ciò è senza dubbio il significato storico di Brahms come strumentatore. Egli insegnò ai suoi contemporanei e ai suoi posteri che una misura modesta nell'impiego dei mezzi tecnici e nell'ornamento musicale basta, se lo spirito ha qualcosa da dire.
Heinz Becker
(Deutsche Grammophon, SKL 133/139)

sabato, ottobre 21, 2023

Elias Canetti: Trofei

    Ero già stato qualche volta alla Hohe Warte, ma in forma privata e solo per incontrare Anna, che veniva ad accogliermi di persona da una porta secondaria. Quando finalmente decise di presentarmi a sua madre, la curiosità era reciproca, ma per motivi molto diversi: Alma Mahler non sapeva niente di preciso sul mio conto, si fidava poco della conoscenza che sua figlia aveva degli uomini e voleva sincerarsi che io fossi innocuo; quanto a me, sapevo che tutta Vienna parlava di lei nei termini più pungenti.
    Attraversai un cortile interno - ricoperto di piastrelle tra le quali l'erba aveva il permesso di crescere con calcolata naturalezza - e fui ammesso in una sorta di sancta sanctorum dove mi aspettava “mammina”. Era una donna piuttosto alta, straripante da tutte le parti, fornita di un sorriso dolciastro e di occhi chiari, spalancati, vitrei. Dalle sue prime parole sembrava che mi aspettasse da un pezzo, perché ne sentiva tante sul conto di tutti. «Annerl mi ha raccontato» disse subito, e fin dall'inizio fece apparire piccola piccola sua  figlia. Non voleva che ci fossero dubbi, neanche per un momento: chi contava era lei, in casa e fuori.
    Si sedette, e uno sguardo confidenziale fece intendere che bisognava prendere posto proprio accanto a lei. Obbedii con riluttanza, perché dopo il primo sguardo che le avevo dato, ero inorridito. Dappertutto si parlava della bellezza di Alma Mahler, si raccontava che era stata la più bella ragazza di Vienna e che aveva fatto una tale impressione su Mahler, molto più anziano di lei, da indurlo a chiedere la sua mano e a sposarla. La fama della sua bellezza si tramandava ormai da più di trent'anni, ma adesso Alma Mahler era lì in piedi e si sedette pesantemente: una persona in stato d'ebbrezza, molto più vecchia della sua età, circondata da tutti i trofei che aveva raccolto.
    La stanza in cui riceveva era infatti sistemata in modo che il visitatore avesse a portata di mano i pezzi più importanti di tutta una carriera: non c'era nulla  che potesse sfuggire alla vista, la stessa Alma era il cicerone di quel museo privato. A meno di due metri da lei si trovava la vetrina in cui era esposta la partitura della Decima sinfonia di Mahler, rimasta incompiuta. L'ospite era invitato a osservarla, si alzava, si avvicinava e leggeva le disperate invocazioni del malato - era la sua ultima opera - alla moglie: «Almina, mia amata Almina!» e altre simili. La partitura era aperta su quelle pagine terribilmente intime. Doveva essere un mezzo collaudato per far colpo sui visitatori. Io lessi quelle parole tracciate dalla mano di un moribondo e guardai la donna alla quale erano dirette. Per lei, ventitré anni dopo, era come se fossero state appena scritte. Chi osservava quel cimelio era tenuto a dedicarle uno sguardo di ammirazione, uno sguardo cui lei aveva diritto per l'omaggio che il moribondo le aveva reso nelle ore dell'agonia; e lei era così sicura dell'effetto di quelle parole estreme che il suo sorriso insensato si allargava in un ghigno e con quel ghigno accoglieva l'omaggio. Non avvertì nulla dell'orrore e del disgusto che avevo negli occhi. Io non sorridevo, ma lei interpretò erroneamente la mia espressione seria come un segno della devozione dovuta a un genio morente; e poiché tutto avveniva in quella specie di cappella votiva che Alma aveva eretto alla propria felicità, anche la devozione le apparteneva.
    Ma era venuto il momento del quadro che stava appeso alla parete proprio di fronte a lei, un ritratto di Alma, dipinto pochi anni dopo le ultime parole del compositore. L'avevo notato subito, mi era rimasto negli occhi da quando ero entrato; aveva un che di feroce, di minaccioso, e la partitura aperta mi aveva talmente sbigottito che lo sguardo mi si confuse e il quadro mi apparve come il ritratto dell'assassina del compositore. Non ebbi il tempo di respingere questo pensiero perché Alma Mahler si alzò, fece tre passi verso la parete e, stando davanti a me e indicando il quadro, disse: «E questa sono io, dipinta da Kokoschka come una Lucrezia Borgia». Era un'opera del periodo migliore di Kokoschka. Alma Mahler alzò subito un muro tra sé e il pittore, che era ancora vivo e attivo, aggiungendo compassionevolmente: «Poveretto, non ha fatto molta strada!». Kokoschka aveva ormai abbandonato la Germania, dove era all'indice come «artista degenerato», ed era andato a Praga per fare il ritratto al presidente Masaryk. Ero così stupito per quell'osservazione sprezzante che non potei trattenere una domanda: «In che senso non ha fatto molta strada?». «Ma si, adesso è a Praga, non è che un povero emigrante. Non ha più dipinto niente di buono»; e con uno sguardo alla Lucrezia Borgia aggiunse: «Allora sì che era bravo. Questo quadro fa paura a tutti». Anch'io avevo avuto paura, ma adesso ne avevo ancora di più nell'apprendere che il pittore non aveva fatto molta strada. Il suo apice lo aveva toccato con le varie raffigurazioni della sua Lucrezia Borgia, e adesso, poveretto, era solo un fallito, perché non piaceva ai nuovi padroni della Germania, e il fatto che il presidente Masaryk posasse per lui contava poco o niente.
    Ma la vedova non accordò troppo tempo al secondo trofeo perché pensava già al terzo, che non era presente nel sacrario e che desiderava mostrarmi. Batté le sue mani adipose e gridò: «Ma dove si è nascosta la mia Mutz?».
    Dopo pochi istanti una gazzella entrò in punta di piedi nella stanza, un'esile creatura bruna, travestita da ragazzina, incontaminata dalle meraviglie in mezzo alle quali si trovava, così innocente da apparire più giovane dei sedici anni che poteva avere. Più che bellezza, irradiava intorno a sé timidezza, come una gazzella angelica venuta dal cielo, non dall'arca. Io balzai in piedi per impedirle di entrare in quell'antro dei vizi o almeno per risparmiarle la vista dell'avvelenatrice appesa alla parete, ma costei, che non smentiva mai il suo personaggio, aveva già preso inesorabilmente la parola:
    «Bella, eh? Le presento Manon, figlia mia e di Gropius. Non ce n'è un'altra come lei. Tu, Annerl, non la invidi, vero?... Che male c'è ad avere una bella sorella? Buon sangue non mente. Lei ha mai visto Gropius? Alto, bello. Proprio quello che si dice un vero ariano. L'unico uomo fatto su misura per me dal punto di vista razziale. Tutti gli altri che si sono innamorati di me erano piccoli ebrei, come Mahler. Io vado  bene per gli uni e per gli altri. Adesso puoi andare, Mutz. Ancora un momento. Sali un po' a vedere se c'è Franzl. Se sta scrivendo, non lo disturbare. Ma se non è occupato, digli di scendere».
    Manon, il terzo trofeo, scivolò via dalla stanza, incontaminata com'era venuta, l'incarico affidatole non sembrava esserle di peso. Provai un grande sollievo al pensiero che nulla potesse toccarla, che sarebbe rimasta sempre com'era adesso, che non sarebbe mai diventata come sua madre, come il viso velenoso del quadro o la vecchia donna disfatta sul divano con i suoi occhi vitrei.
    (Non sapevo in che modo orribile avrei avuto ragione. A distanza di un anno l'agile gazzella era una povera paralitica e veniva portata in giro sulla carrozzella, accompagnata dal chiacchierio di sua madre, ancora lo stesso chiacchierio. Dopo un altro anno era morta. Alban Berg dedicò la sua ultima opera « Alla memoria di un angelo »).
    In una delle stanze superiori, sotto il tetto, c'era il leggio al quale Franz Werfel scriveva stando in piedi. Una volta Anna mi aveva mostrato quella stanza durante una delle mie visite. Sua madre non poteva sapere che avevo già conosciuto Werfel a un concerto al quale avevo accompagnato Anna. Quella sera Anna era seduta tra me e lui, e per tutto il tempo mi sentii addosso un grande occhio sporgente. Werfel si era girato tutto verso destra per vedermi meglio, e quasi allo stesso modo il mio occhio sinistro si era girato verso sinistra per osservare meglio l'espressione del suo occhio. Così i due occhi fissi l'uno nell'altro s'incontrarono, batterono dapprima in ritirata sentendosi colti in flagrante, ma alla fine, poiché non era più possibile dissimulare quel vicendevole interesse, ritornarono al loro posto di vedetta.
    Io non so che musica fu eseguita. Se fossi stato Werfel avrei pensato prima di tutto al concerto, ma io non ero un tenore come lui, ero stregato da Anna e nient'altro. Lei non si vergognava di me, sebbene i miei pantaloni sportivi non fossero l'ideale per un concerto, e del resto avevo saputo solo all'ultimo momento che c'era un biglietto libero e che potevo accompagnarla. Anna era seduta alla mia sinistra, e mentre fissavo su di lei uno sguardo che credevo furtivo, mi imbattevo nell'occhio da batrace di Werfel. Mi venne in mente che la sua bocca somigliava a quella di una carpa e che il suo grande occhio sporgente vi si adattava a meraviglia. Ben presto il mio occhio sinistro si comportò esattamente come il suo occhio destro. Era il nostro primo incontro, e fu un duetto con accompagnamento musicale tra due occhi che - separati da Anna - non potevano accorciare la distanza tra loro. Gli occhi di lei, la cosa più bella che avesse, occhi che nessuno poteva dimenticare dopo averli avuti addosso una volta, rimasero esclusi dal gioco; ed era una grottesca deformazione della realtà se si pensa quanto erano insulsi, privi di qualsiasi irradiazione, gli occhi di Werfel e i miei.
    Ma poiché dovevamo seguire il concerto in silenzio, furono escluse dal gioco anche le parole, proprio le parole che Werfel sapeva maneggiare da maestro, con patetica eloquenza. (Pierino Boccadifuoco è il nome che gli ha affibbiato il più grande dei suoi contemporanei, Musil). Di solito avevo anch'io la lingua pronta - almeno con Anna - ma tutt'e due stavamo zitti, ligi alla disciplina del concerto; e già in quel primo incontro era forse deciso il futuro dei nostri rapporti, l'ostilità di Werfel e la mia antipatia, l'inimicizia che doveva indurre Werfel ai più rozzi interventi nella mia vita.
    Adesso però sono ancora seduto vicino ad Alma, in mezzo ai suoi trofei, e lei, ignara di quell'incontro al concerto, ha appena mandato il terzo trofeo a cercare il quarto - il suo nome è Franzl - perché venga giù, se per caso non sta scrivendo. A quanto sembra, stava proprio scrivendo, perché non si fece vedere, e per me fu meglio cosi, perché ero sotto l'impressione sconvolgente della vedova straripante e dei suoi primi trofei. Ero fermo a questa impressione, volevo conservarla integra dentro di me, e c'era il pericolo che i discorsi retorici di Werfel potessero alterarla in qualche modo. Le cose comunque andarono così, e io non saprei dire come me ne venni via, come mi congedai da Alma: nel ricordo io sono ancora seduto accanto all'Immortale e la sento in eterno parlare di «piccoli ebrei come Mahler».
Elias Canetti
(tratto da "Il gioco degli occhi", Adelphi, 1985; Traduzione di Gilberto Forti)

martedì, ottobre 10, 2023

IL DILUVIO (THE FLOOD): Coerenza dell'ultimo Strawinsky

Converrà subito attendere alla cronistoria, 
decidendoci a commentare una recente opera di Strawinsky, la piccola cantata biblica The Flood: per avvertire come ogni sua nuova composizione quasi necessariamente si consegni a perplessità insofferente, a pronta riserva. Ascoltata l'anno scorso la prima esecuzione italiana e non certo disattento all'immediata reazione pubblicistica conseguente (non per deliberata prudenza, quanto per seguire coscientemente la fortuna critica dell'ultimo Strawinsky), mi accorsi che la vicenda polemica ed attiva sopravveniva e si replicava puntualmente: con punte anche vivaci e risentite, come per una nuova minacciata sconsacrazione agiografica conseguita alla delusione, al dubbio. Finiranno dunque di essere solo prove di coraggio, incontri spesso disagevoli c convenzioni culturali molte «prime» musicali, se il giornalista improvvisa, il pubblicista periodico descrive e solo la critica, più tardi, ripropone e vaglia, fuor d'ogni circostanza ed occasione provvisoria? La cronaca è miope, si sa, quanto forse la storia è presbite: comunque, ad aiutar la definizione della nuova opera, occorreva subito dirimere luoghi comuni di estetiche da un lato superate (capaci di occultare ed allontanare la composizione al suo apparire, anziché di avvicinarla) e, dall'altro, concordi più nell'intenzione che nel risultato. In entrambi i casi, ci sembra, giocano un ruolo vario e differenziato anche gli scritti del musicista: come programma o come premessa, come norma o come intenzione, come fallimento (spesso atteso) di personalità straordinaria oppure come superamento deliberato di un soggettivismo predestinato e in fondo ingrato.
    In ogni caso, anche per chi scambi ancor troppo disinvoltamente polimorfismo con incoerenza c sincretismo con ibridismo, la figura del musicista non presenterà tratti inattesi. Intanto, è il dato emozionale, la aggressività a consentire la condizione inedita di molte sue opere, anche recenti: a ben vedere, infatti, la dissacrazione antipoetica, la disumanizzazione di forme e di generi musicali, quell'itinerario al primitivismo, alla fantasiosità araldica, riesce sempre misura di un istinto, prima ancora che di una estetica di gusto informatasi ad una ricognizione vastissima che tenga conto di quasi tutta la storia musicale. Solo da questa visuale, da questo movente, ci pare, si comprenderà la reversibilità del suo temperamento, l'evoluzione (o meglio lo svolgimento) dei suoi «stili»: dietro una spinta, omogenea seppur polarmente opposta, di impulsi complementari che, ad esempio, nella antiretorica può instaurare una nuova retorica, né gli riesce di rinunciare al temperamento anche nel neoclassicismo, deliberatamente antiromantico e antisentimentale. Ora, il nodo di tutta questa ambiguità eletta e raffinata, sta evidentemente nella proiezione attiva e soggettivamente sollecitata di una dimensione che Strawinsky aveva oggettivato da tempo nell'eidos teatrale: più precisamente fin dalla disponibilità trasvalutante della marionetta Petruska (Tutta un'epifania di soggettivazioni caleidoscopiche, allora, in questo novecentesco «Orfeo in pigiama» come lo definì il Barilli, rilevandone l'inganno risoluto e metodico contro la «noia»). Ove è inutile dire che se la decorazione lirica ed accorata del personaggio quasi lo sentimentalizza, l'eco esterna e l'asprezza espressiva suggeriscono prodigiosa ambiguità alla sua meccanicità lignea. Questo serbarsi, questo apparente sconfessare, che è proprio della finzione teatrica, unito alla problematicità del dire e del confidare (e tutto invece appendere a fila, a moti irrisolti), diviene insomma tipico di una gestualità strawinskiana: nel quale, come scrive il Mila «il limite tra l'umanità e l'artificio è sempre presente, ma accuratamente nascosto» (Breve Storia della Musica, pag. 374). Così, anche estratta dalla prima destinazione (e organizzata cioè in suites orchestrali, ad esempio), la musica di Strawinsky trattiene e custodisce infatti una virtualità mimica insopprimibile. Il gioco, a questo punto, può esser fatto, pronto ad applicarsi a forme e linguaggi differenti e ratificati: proprio nella liberazione progressiva e apparentemente disordinata «da ogni residua necessità significativa, diretta o indiretta che sia» (Vlad), verso un puro «gioco» o divertimento. Liberazione dunque da ogni residuo romantico ed impressionista, da ogni imitazione o descrizione, in nome di un'autonomia di linguaggio che solo trattenesse, nella provocazione gestuale (la potenza dinamica ed il polimorfismo ritmico furono i più leciti attributi alla primaria musa strawinskiana), una disponibilità emozionale. Fu la fase dei «ritorni» (più consapevole e completa delle animose assimilazioni giovanili), incalzante ed ossessivamente mutevole: per un gioco di adesioni e contemperamenti virtuosi che, se parevano folgorare tante manierate esperienze, pazientemente ricuperative, nella luce di un'intuizione estrosa e limpida (e che perciò gli valeva la taccia di cosmopolita), tuttavia gli lasciavano indenne e istinto e personalità. Era, ancora una volta, quell'emozionalismo naturale e primigenio a fargli scegliere una tradizione per subito assoggettarla e dominarla; e adeguarsi ad una espressione per subito licenziarla offesa: quasi per un'ancestrale strategia d'intelligenza o per acuta barbarie ingenerosa, giovane e spietata, nuda, confessa e perciò anche propagandisticamente denunciataria.
    L'iter procede dunque per annessioni e per esaurimenti: dalla tradizione della sua terra a quella d'Europa; sempre con quel tono disincantato e nativo che ti rinnova l'immagine del mondo molteplice, con una luce secolare e mai mediata: di chi porta riposti e tutelati i propri Lari indigeni, sicuri voti e bagaglio spirituale di religioso e vergine misticismo. La ricreazione avviene allora per sequenza di contaminatio più o meno consapevole: in questo senso la parodia, il travestimento che appropria e serba, diviene come scrive ancora il Mila una «categoria fondamentale» dell'arte di Strawinsky. Di qui l'impensata connessione etnicamente dissimile, conturbante nella staticità consolidata della tradizione, divergente ed individualistica, nell'orgogliosa e confederata regione europea. La forza eversiva della sua conquista si manifestava, con una logica che diremmo autenticamente politica, nella radice autoctona, nell'istituzione basilare della civiltà europea: muovendo insomma, quasi per occultare il peso della sua ingerenza inflazionistica e della sua attualità iconoclasta, a quel ricupero di passati istituti e forme inteso consapevolmente; ossia, anche qui consentendo quell'ambiguità prodigiosa e fertile di linguaggio, quel gioco di dislivello storico tra modello e ricreazione.
    Ora, l'atteggiamento antiromantico della rimozione di espressioni contingenti e consentanee, in ragione di un ricupero o quantomeno di una rivalutazione di arcaiche strutture (il che è perfettamente conseguente alla rivoluzione unicamente tecnica ed espressiva, scevra cioè di stimoli spirituali, della sua prima fase pagana e preistorica), vale revisionismo e demistificazione. Infatti, la rimozione di inferti mascheratorii, ossia di una cultura che si era costituita a variazione più o meno accademica, a tutela gelosa e vana di tradizione - e repressiva quindi di voci ed inflessioni non già più reprimibili senza ambage - era esigenza avvertita coralmente. Se la rivalutazione storica che si diceva, avviene su base filosofica presso lo Schoenberg-Kreis (e potrebbe magari rivelarsi demistificazione mistificante), in Strawinsky, altra presenza focale per Adorno, avviene su una direttiva essenzialmente teleologica. Ciò può anche spiegare l'assenza, in lui, di una qualsivoglia coerente e fida ideologia costruttiva (come notava giustamente lo Zaccaro in un acuto intervento su Marcatrè n. 2), in ragione di una disponibilità che ad iniziali adesioni subito giustappone una risultanza di gusto, sempre immediata ma mai immeditata. Insomma l'incontro tra individualità ed oggetto avviene sempre nell'ambito di una fresca libertà emozionale, sempre svincolata e virtuale: e la coerenza consegue quindi alla continua disponibilità.
    Gusto, gioco: ove non è a dire che Strawinsky realizzi proprio il «massimo disimpegno esistenziale» (Vlad), quando invece questo impegno, come notava giustamente il Pestalozza (Il «puro gioco» strawinskiano, in Il Verri n. 7, 1963), non viene meno ma si occulta, si maschera, secondo un affrancamento continuo da concreti contesti storici. Ovvero, dietro «la sembianza di un disimpegno addirittura circonfuso di efficiente ottimismo», dietro la più perfetta autosufficienza, ci trovi la nervosa, fibrillare ed angosciata esaltazione di «un'umanità senza storia,... della realtà senza ragione». Il ricupero delle forme canoniche, l'uso delle forme storiche era la realtà occultata dei tre grandi viennesi, che Strawinsky era lesto a cogliere e denunziare: «ma l'uso che io ne ho fatto era franco, mentre il loro era abilmente travestito». Proprio di qui i diversi esiti: superamento come impiego irriconoscibile negli uni ed intrinseca aderenza, ricreazione operante nell'altro. Insomma quella franchezza operativa si traduceva nella facoltà, musicalmente legittima, di travestire storia e cultura, di misurarsele proprio addosso, celando ogni artificio ed ogni compromesso: ed anzi, combattendo 1'agnostico soggettivismo, alludere cautamente magari all'apologia artigianale come unica possibilità di riguadagnare il mondo. Solitudine, isolamento e protesta, monologo che sopprime il grido dell'incomunicabilità interiore, sono superati con questo gioco destro, pratico e partecipato di eleggere un mondo risolto e salvato nel passato. Esorcismo, ritualità che affonda le sue radici nell'istinto della religiosità russa, anche mistificazione artistica sono tutte proposte accertate: che comunque non intaccano la legittimità della sua opera (il ricupero di forme e materie sperimentate e canonizzate è pur sempre possibile) e soprattutto 1'intensità del suo intervento. Quanto al linguaggio, poi, l'itinerario a ritroso prima di Bach è noto che portò Strawinsky, con un altro sorprendente colpo di mano, a quel gioco di imitazioni a canone che costituì la «sintassi» del metodo dodecafonico (Mila): seguendo o meno la prassi del patto Gentiloni (cfr. D'Amico, I Casi della Musica: Strawinsky si accontenta) ma saltando comunque la tappa eversiva e sfogata dell'Espressionismo.
    Il Vlad aveva impugnato la validità della sempre solida tesi adorniana (per cui Strawinsky esorcizzava il terrore della barbarie proprio con la sua rappresentazione: un sacrificio molteplice consegnato coscientemente all'autoestinzione), constatando i due capisaldi spirituali della sua opera: ritorno ai «valori del mondo ellenico e della civiltà cristiana». A petto del misticismo teosofico di Schoenberg. Strawinsky, insorgendo contro la confusione dell'ordine divino e umano, pareva tendere a quella sacralità nuda e aprogrammatica, come indiscriminata, che precede la presenza condizionante dell'uomo come artista e creatore. Insomma, se le opere «greche» erano magari risultanze di una immedesimazione ideale, quelle religiose riuscivano più affrancate da paradigmi canonizzanti: espressioni di una autentica Erlebniss umana, di un'esperienza esistenziale. E' certo che la religiosità di Strawinsky non rappresenta un momento contingente né il consolidamento di una risoluzione estetica: ove, seppure non ritrovi il clima dogmatico del musicista classico, la simbiosi di un'opera con la società e la cultura si stabilisce proprio nella misura di una sua significanza e necessità. Fuori d'ogni categoria psicologica e da ogni vincolo (la Messa è, delle maggiori opere di Strawinsky, non commissionata), la musica sacra può partecipare di quella «realtà ontologica» perseguita dallo stesso compositore. Consegna pure il programma, allora: libertà dalle «corrispondenze illustrative e letterarie col Grande Ordine» e invece musica come mezzo atto a «promuovere una unione dell'uomo... col suo prossimo (ma anche) con l'Essere»; in tal modo essa risulterà libera da ortodossie estetizzanti, proprio nell'impegno indiscriminato di non aderire a determinati momenti espressivi, ma a quel cattolicesimo archeologico che pareva conciliare universalmente tradizioni d'Oriente e d'Occidente. Pare insomma la sollecitazione eidetica di una indifferenziata pittura primitiva (come già notava il Casella per la Sinfonia dei Salmi), appena avvertita di regionalismi, ad affascinare Strawinsky: più ancora dell'impero europeo del gregoriano.
    L'itinerario delle opere sacre di Strawinsky è esile, tracciato sullo «spirito dell'Antico Testamento» (presente nella Sinfonia dei Salmi) fino alla destinazione liturgica bizantina (Tre cori) e cattolica (Messa): secondo dunque un accresciuto disimpegno precettistico ed un'umiltà intesa come rimozione di ambizione individuale e di moventi consuetamente pessimistici che può trovare, come antecedente, la Messa dei Poveri di Satie (esempio recato dal Vlad) ma più ancora, forse, per il dislivello storico, una straordinaria affinità timbrica ed espressiva fin testuale con la Messa n. 2 per coro ed orchestra di fiati di Bruckner. Dopo che il Canticum (basato su testi evangelici) tentava una conciliazione tra la tradizione orientale e lo spirito cristiano occidentale, i Threni (id est Lamentationes Jeremiae Prophetae, scritti nel '58) segnano un preciso ritorno alla tradizione ebraica, ancora più avvertito della Sinfonia dei Salmi. Segno di una nuova stagione di «ricupero», indubbiamente: quasi che il prolungarsi della presenza fisica di Strawinsky gli consentisse un'altra stagione spirituale inattesa, forse imprevista. Il sincretismo stilistico e spirituale (a cui restavano esenti la Sinfonia dei Salmi e la Messa) connaturato a tanta produzione strawinskiana e proprio quella parodia che mai sconfessava una destinazione rappresentativa (eco di quella finzione teatrica che si diceva innanzi), ritorna evidente in questo Flood a cui si riconduce il nostro dire. (Né è da sottacere tuttavia un antecedente magari esterno, quella cantata Babel che è parte di un'opera collettiva articolata, tra l'altro, in un Prologo di Schoenberg, nel Caino ed Abele di Milhaud, nel Diluvio di Castelnuovo-Tedesco, nel Messaggio di Bloch: e mancarono, nella rassegna dei più autorevoli nomi attuali, gli interventi promessi da Bartok, Hindemith e Prokofieff, per la più ambiziosa silloge che la storia musicale ricordi).
    I dubbi, le perplessità citate all'inizio riguardavano, come primo punto, la forma di questo The Flood. Si tratta di un «musical play», commedia musicale estranea al teatro: una sorta di sacra rappresentazione moderna, lontana dalle accademiche ricreazioni medioevali frequenti oggi, o meglio fino al ieri più prossimo, frutti di solipsistici aneliti al primitivo, di inutili esilii, di pazienti collages avvizziti. Le nostre riserve di fronte a tali pur espertissimi pastiches, cadono però qui immediatamente, già rilevando il parallelismo della non diciamo mistura ›od elaborazione, ma contaminatio testuale e musicale. Sono versetti biblici tratti dal primo libro della Genesi, con farciture desunte da cicli di drammi liturgici popolari ovvero da sacre rappresentazioni inglesi, diffuse nel secondo Quattrocento nel York e nel Chester. Altra evasione, dunque, in mondi «incontaminati» (Pestalozza), altra provincia del fatale cosmopolitismo di Strawinsky? Ma se la parodia è sempre «categoria del realismo», la stilizzazione metastorica di quest'ultima opera pone il compositore fuori d'ogni intento parodistico, nel suo tentativo magari sgraziato di resurrezione della anima innocente del Medioevo (ne è inerte naufragio di un tema arcaico).
    Autore di questo libretto é Robert Craft che, come si sa, è un poco un segretario e «famulus», nonché collaboratore duttile e perciò insostituibile, di quello straordinario personaggio che è Strawinsky, capace di scontare la sua enorme popolarità anche con la più vieta pubblicità americana (e il Musical Quartely, riferendosi soprattutto alla più svilita propaganda concomitante, ha parlato di «shampoo commercial»). Da parte sua, il compositore interviene qui con un bagaglio musicale così dovizioso ed in apparenza eterogeneo, da sembrare composito se non artificioso (qualificazione, questa, che accompagna puntualmente la sua produzione più recente). Ebbene, tutti conoscono le sue molteplici sollecitazioni espressive prima che idiomatiche; tutti gli riconoscono, magari in forza della sua estrazione etnica slava e perciò necessariamente propensa al polimorfismo culturale e spirituale, la facoltà eccezionale di tutto appetire e prontamente assimilare: come già si disse insomma (e questo e ciò che più conta) di servirsi magari iconoclasticamente di forme e modi disparati, ma sempre serbandosi, mai contraffacendosi. In realtà, il risultato più evidente che dunque promana dalla sua natura sempre stupefacente, e che si configura alla attenzione di chi lo segue nelle sue evoluzioni stilistiche e leva un attimo lo sguardo dalla minuziosa e reiterata indagine microscopica delle sconcertanti disparità lessicali e formali, è senza dubbio questo: avventura nel tempo e nella storia musicale - e di qui figurazione molteplice e cangiante di una mimesi interiore che si traduce in un'assiduità mimica. La vicenda stimolante ed ardua sta tutta qui, nella sua cifra di interprete (ed attore e mimo) geniale del nostro.
    Ancora una volta, quindi, la contraffazione linguistica che avviene nell'opera in forza dell'impiego indifferenziato e anzi della complicità di materiali, tecniche e forme, confida alla musica, alla forza del suo segno, archetipi di una religiosità sentita e conservata, astratta ma non mistificata. A questo si collega la concezione del suo linguaggio, che anche qui denuncia l'approdo weberniano; ma che, come nel Settimino e nel balletto Agon, rimane inconfondibile. Il linguaggio - altro punto. Elementi arcaici ed emblematica moderna imprigionerebbero Strawinsky nei logogrifi di una doppia accademia, compromettendone ogni geniale libertà. Intanto converrà dir subito che il musicista, nell'ambiguità o meglio nell'ubiquità (alla Sant'Antonio, direbbe D'Amico) della sua sintassi sonora (ossia dalle disparate e concomitanti espressioni), suggerisce forse un antidoto valido al rigorismo di tanta presenza musicale d'oggi: che cioè la serialità è né più né meno che una «eventualità»: movente ma non motore della più giovane musica. Parallelamente, poi, la sua tendenza alla trasvalutazione artistica (musica come danza, come mimo, come rappresentazione ritmica insomma) priverebbe di unitarietà l'opera, oltre che pregiudicarne, essendo religiosa, ogni funzione parenetica. Ma proprio qui sta la forza e la validità della sua innegabile contaminatio. Ritornando all'officiatura della Sagra della Primavera e privandola d'ogni attributo paganamente tellurico ed esorcistico perché descrittivo, in ragione invece di una simbolistica od allegorica rappresentazione (elementi, questi, propri d'una tradizionale sacralità cristiana), Strawinsky giunge necessariamente alla tappa attuale, e coerentemente, dal momento che non rinuncia a sé. Inoltre, il rigore della disciplina dodecafonica risulterà accentuato proprio come compensazione alla forza tellurica della Sagra e dell'Espressionismo. Ciò che conta, avvertiva già Paci (nell'articolo: Per una fenomenologia della musica contemporanea, apparso su Il Verri, 1959 n. 1), è la tendenza alla sintesi nella dialettica interna della dodecafonia: sintesi mediatrice di innovazione e tradizione che può dimostrare (come ha fatto il Vlad) che su questo piano Schoenberg e Strawinskv non sono affatto in opposizione. La vita dell'originario, la Lebenswelt di Husserl consegue e non precede la visione eidetica, l'intenzione teleologica. Contro la Weltvernichtung, la negazione del mondo, di un certo mondo storico con ogni sua implicanza linguistica e percettiva, contro la angoscia conseguente all'epoche, contro la irreversibilità che esclude la possibilità di ogni effettivo ritorno, l'unica soluzione è quella di un rinnovamento, di un libero recupero che non blocchi le nuove intuizioni artistiche in una statica, irrigidita eternità metafisica. La disponibilità diverrà allora un nuovo valore, capace di rinnovare «dies nostros sicut a principio» (parole, queste, che concludono non senza un programma umano i Threni).
    Ora, se l'Oedipus Rex è la chiave del neoclassicismo strawinskiano, questo Diluvio (insieme ai pezzi preparatori, Canticum, Threni, cori sacri) ritorna alla coralità religiosa che precede la ritualità del tragos (religiosa anch'essa). Diventa perciò addirittura programmatica la mediazione condotta, esemplata sui testi medievali. E come là ti ritrovava la statuarietà classica (i personaggi di tragedia mimano, in fondo, la ideale e platonica statua greca), qui ti propone la simultaneità teatrale, giacché la Bibbia è racconto corale e il Narratore espone la virtualità drammatica di cose e persone descritte, menzionate. Per questo il confronto stabilito con l'Oedipus superava nel concerto l'esigenza di spettacolo e la casualità, a nostro avviso. Il Vlad, nel suo sempre lucidissimo saggio, notava che la musica di Strawinsky è melodicamente ed armonicamente statica: il dinamismo solo è ritmico e perciò tanto eversivo a contatto della fissità del testo. Ora, come tale staticità trovava la sua proiezione simbolica più esplicita nei personaggi dell'Edipo, vere statue viventi, così ora si esprime nell'emblema delle maschere, protagoniste del Diluvio. E va sottolineata, a questo proposito, la «completa funzionalità rappresentativa» (Mila) attuata pur dal saltuario intervento della musica. Va bene che qui il musicista alterna all'icona bizantino-ortodossa l'impenetrabilità di certa musa romanica, miniata o scolpita; ma la musica custodisce quella risorsa esplicativa e narrativa che fu propria dell'artigianato medioevale: una risorsa che accompagna la storia parlata del Narratore, mutuata dalla Genesi (1, 9, 20, 26). La parola di Dio, preceduta da colpi di grancassa, è espressa con un discanto di bassi, secondo un carattere e non tanto una caratteristica medioevale, come preciso il Mila (L'Espresso, 7 luglio 1963): presente invece nelle opere omonime di un Milhaud o di un Britten. Gli è che Strawinsky, anche qui, fa impiego di tecniche e forme determinate storicamente: si diceva della serialità usata sistematicamente come semplice eventualità, cui occorrerà almeno aggiungere questa adesione alla primitiva polifonia vocale, com'è il discanto che reca la voce divina. Certo che movenze popolari, echi di antiche litanie, riverberi di precedenti opere corali, cantillazione e sillabazione arcaica, sono un mazzo di tentazioni archeologiche, anche una nostalgia di barbarie: ma quello che più importa è la ricreazione di un piccolo mondo universale nel racconto magari pietrificato ed emblematico, ma palpitante anzi fremente di vita fisica quasi indifferenziata. Nel Narratore prende quindi voce Lucifero, ad introdurre il quadro del serpente, lasciato anch'esso alla rappresentazione strumentale di una linea musicale per semitoni cupi. Poi, il «melodramma» con il comando di Dio di costruire l'arca; e qui la sezione strumentale ha una destinazione coreografica: lucidissima mimica di balletto che raffigura la gestualità rigida e meccanica del lavoro di cantiere. Identica destinazione ha il repertorio degli animali menzionati dal Narratore. Poi un ameno e grezzo dialogo tra Noè e la moglie, ardita e manesca, indica la «commedia» rudimentale: a cui segue la concitata e cupa scena del diluvio ancora strumentale, ove le fasce seriali conferiscono al tema acquale una forza icastica intensa. E l'arcobaleno successivo compone il suo arco nel finale Sanctus.
    Insomma la musica anche qui custodisce una sia pur allusa e stenografica funzionalità rappresentativa. La prospettiva immensa del Diluvio, qui «telescopizzata in una fulrninea miniatura» (Mila) di un soggetto elementare custodito come in una memoria intatta d'infanzia, fuori d'ogni suggerimento posteriore (sempre insufficiente), sollecita dunque un ritorno vertiginoso all'ingenuo emblema, per maggiore - unica - adesione. E per ulteriore innocenza, varranno le mediazioni dell'arte incolta e popolare. E' dunque storia medioevale, come nelle lunette, nei capitelli dell'Europa proto-gotica: momenti narrativi fermati plasticamente, che possono riuscire al nostro addensato spirito moderno mutili ed incomunicabili, che possono legarsi ad una prassi oscura più che ad una cultura ricuperabile. Ma era pur miracolosa disposizione medioevale quella di rappresentare con delle «cose» una realtà viva; come «cose», pezzi di musaico interiore sono qui le voci, oltre i suoni: mentre il Medioevo è tutto ritrovato nelle sequenze delle Mansiones o Stationes che articolano The Flood.
    Così, nella sua virtualità reversibile, la musica apre uno spazio pluridimensionale: se inoltre, per un'adesione teologica vicina a tanta filosofia medioevale, il Tempo e la azione si riconducono a Dio (e si notino i confini liturgici del Diluvio, dall'inno all'officiatura: Tc Deum e Sanctus). Tutto un quadro che verrà a giustificare lo straordinario sincretismo formale ed espressivo dell'opera, a chiarirne la validità ma anche a suggerirne la condizione «ontologica».
Sergio Martinotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XVIII n. 4 dicembre 1964)