Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, marzo 27, 2018

Quel personaggio chiamato "direttore artistico"...

Teatro "Franco Tagliavini" di Novellare (RE)
Il compromesso adottato da Abbado - conservare la direzione musicale e abbandonare la direzione artistica - è una decisione ideale. Ideale nel senso che con la presenza di Abbado la qualità musicale delle produzioni scaligere, il costante controllo sull’orchestra, continueranno ad avere un "custode", un responsabile che non potrebbe offrire migliori garanzie di quelle già ampliamente confermate da un muslcista rigoroso e implacabile quale è, appunto, Abbado.
Per un direttore artistico autentico, soprattutto in un clima confuso e parrebbe quasi ostile come quello che fa da sfondo e da contorno alle attività musicali del nostro paese, ci sono mille assillanti problemi giornalieri da risolvere con esperienza, tempestività e improntitudine. La figura quindi di un musicista per squisito che sia, che "imposta" il cartellone, lo definisce ascoltando "troppe" persone, lasciandosi ipnotizzare da troppi demagoghi, per poi intraprendere una lunga "tournée" di concerti, non solo non è credibile ma non è neppure accettabile.
Fra gli errori di Abbado - "direttore artistico" - quello di aver concesso ampio credito sia allo smembramento (più distogliente che divulgativo) delle attività della Scala, sia all‘insediamento vessatorio di una "cultura" momemtanea e transitoria come tutto quanto sa d’"avanguardia" e non di approdo a rinnovamenti decisivi. Un grande teatro d’opera è luogo di approdi e non di sperimentazioni,
I "ministri dello spettacolo", comunque, vanno e vengono (con una velocità vertiginosa e con una casualità allarmante, con le loro "leggi" infrequentabili o inesistenti, con le loro "leggine" interlocutorie e distoglienti) e la Scala rimane lì, un po' ferita in superficie, un po' frastornata dai troppi "suggeritori", ma sempre in grado di proporci cose memorabili, da ostentare - tramite un Grassi, un Abbado, un Sicilani - una autorità ed una suggestione che si son fatti, ormai, proverbio.
Franco Soprano

Arte difficile quella del direttore artistico. Ancor più difficile in anni che lo vedono inquisito in concomitanza con grandi spostamenti ai vertici di teatri ed istituzioni concertistiche.
A chi ci rivolgeremo dunque per avere notizie sulla difficile arte della programmazione musicale se tutti o quasi i nostri direttori artistici si sono votati al silenzio più completo su tutto - per non compromettersi anzitempo? - anche sui loro diritti e doveri?
Per agevolarci il compito ne abbiamo inventato uno: il direttore artistico ideale - con vizi e virtù comuni a tutti - un personaggio immaginario non ancora nato e che non potrà mai nascere. Il vantaggio dell’operazione sta nell’avere di fronte un personaggio che non ci inibisce innanzitutto e che inoltre risponde a tutte le nostre richieste. Nella nostra intevista-gioco si risponde con verità a tutto, pena il ritorno nel nulla.
Come si diventa direttori artistici?
Le strade sono infinite: si può avere alle spalle una carriera musicale ineccepibile, ma fa lo stesso anche se nasconde grosse falle, purché ben occultate. Si tollera anche la presenza di musicisti veri, compositori ad esempio, ed in Italia ve ne sono che occupano questa carica. Devo aggiungere però che qualcuno ha compiuto errori imperdonabili. Non appena tirato fuori dalla stanza della musa è stato colto da uno strano malore: la malattia del clan. Ha rispolverato i vari artisti di famiglia, ha costruito per loro degli altarini e li ha esposti, senza pudore alcuno, alla venerazione generale. Per farla breve, questi nostri compositori-direttori assumendo il loro incarico sembrano dapprima estranei ai giochi di potere ma, appena calati nel mondo degli uomini, non rispettano più le regole del gioco. Sinceramente preferisco dei manager ai musicisti.
Qual è l'età canonica per diventare direttori artistici?
Tra noi ci sono lattanti accanto a vegliardi: non è una questione d’età. Basta saperci fare.
Fare cosa?
Innanzi tutto la programmazione musicale da cui discende la scelta degli autori - per quelli contemporanei abbiamo un grandissimo potere, possiamo inventarli o distruggerli a nostro totale piacimento; il nostro gusto ma anche le nostre amicizie ci guidano nell’operazione - ma anche degli interpreti: dai solisti strumentali a quelli vocali. Permette una malignità? Sa di quel direttore artistico di un ente lirico che non sapeva distinguere un latrato da un do di petto? Negli enti lirici poi spetta al direttore artistico la scelta dei registi, dei costumisti, degli scenografi. Mi ha capito? Qui oltre che la musica sono in gioco interessi finanziari immensi. E tutto ciò nella strombazzata crisi finanziaria degli enti lirici.
Ma tutti i direttori artistici sono uguali, quanto a potere?
No, anche qui come in ogni campionato vi sono direttori di serie A, altri di serie B e poi quelli di C, D eccetera.
Come programmerebbe una stagione concertistica o lirica?
Come la programmerei è una domanda diversa da ‘come programmo di fatto'. Avendo anni a disposizione, farei dei piani ragionati sulle stagioni della musica. Le passerei in rassegna senza vietarmene nessuna, per offrire un panorama completo e rispondente alle realtà passate e presenti. Chiamerei interpreti idonei eccetera. Ma, in Italia, dove ci si scandalizza della sponsorizzazione musicale, non si sa mai se lo stato erogherà i contributi per l’anno seguente e quindi...
Cosa succede nella realtà?
Ci sono territori della musica che risultano impraticabili, perché macchiati di ideologie ormai tramontate. Se li includessi nelle mie scorribande musicali meriterei sicuramente accuse molto pesanti. Ma ci sono anche circuiti musicali ben definiti attraverso i quali occorre passare, pena l’essere messo fuori del gioco. Ed infine occorre accontentare coloro che mi sostengono, per non essere abbandonato a me stesso. Dimenticavo: c'è anche il pubblico da tener presente.
Com'è congegnato giuridicamente un ente musicale, concertistico o lirico?
Al vertice v'è il Presidente, carica questa solitamente ricoperta dal sindaco della città. Poi viene il Sovrintendente che è responsabile della gestione dell’ente ed infine il Direttore artistico che cura la compilazione dei programmi e la loro attuazione artistica: programmazione e produzione della musica. C’è un solo caso, in Italia, in cui questi compiti sono riuniti in una sola persona: l'Accademia di S. Cecilia. Il suo presidente è anche sovrintendente e direttore artistico della gestione autonoma dei concerti della stessa accademia. Il personaggio oggi più conteso dalle istituzioni musicali altro non è che "consulente della programmazione artistica" in tutto dipendente dal vero direttore e sovrintendente. In Italia vi sono infine casi in cui i direttori artistici cumulano nella loro persona anche la carica di direttore stabile dell’orchestra. Ma per la mia esperienza, devo dirle che preferisco queste due mansioni affidate a persone diverse.
Permette una domanda biricchina? Se avesse un parente musicista, ma potrebbe anche essere un figlio con identico cognome quindi, lo inserirebbe nel suo cartellone?
Lei è troppo ingenuo. Non sa quali acrobazie mi impongo perché l’esibizione di un mio parente e perché no anche di un mio figlio appaia fuori del mio diretto intervento e lontano mille miglia. Avendo più tempo a disposizione, potrei mostrarle come ogni tessera di questo "puzzle musicale" sembra al suo posto con spregiudicata naturalezza.
Ma perché non fa dei nomi?
A questo punto il nostro direttore artistico, guardandomi tra il minaccioso ed il divertito, scompare nel nulla.
Si possono chiedere anche i nomi ad un intervistato che si è già mostrato cosi generoso di notizie? Ed allora; addio, direttore!
Ciò che resta ora e per il futuro e la realtà della figura del "deus ex musica", con le sue alchimie, in barba ad ogni scienza. Della musica e solo della musica, per intenderci. Ma nella realtà accade anche che i direttori artistici agiscano con coscienza e, quel che più conta, con tanta tanta competenza.
Pietro Acquafredda
 
("Banchetto Musicale", numero 1, anno 1, dicembre 1979)

sabato, marzo 17, 2018

Riccardo Nielsen: "L'Incubo" (prima esecuzione assoluta)

Un muto, fantomatico muoversi di ombre cinesi dietro un schermo descrive - al levarsi del sipario - la scena funerea e sinistra della decapitazione di una donna. Quel telone - che riceve le immagini della ghigliottina, della carretta dei condannati. dei carnefici e della vittima e le lascia filtrare, meno certe e determinate di un graffito, svuotate del loro volume - segna la linea che unisce e disgiunge il reale dall'irreale, la vita dalla morte, il mutevole e il finito dal1'eterno. E' la terra di nessuno dove il musicista colloca il sun personaggio e ne ascolta la confessione. Ai piedi della ghigliottina l'uomo avvicina l'amata che non aveva, prima di quest'ora, altro che sfiorato in uno scambio di sguardi. Distesa in una posa stanca e serena essa sembra dormire in una compostezza che lascia scambiare la morte col sonno, il pallore delle vene svuotate di sangue col pallore di una sofferenza umana; mentre una sciarpa posata sul suo collo nasconde la ferita che l'ha uccisa. Dimentico della fisica verità che innanzi, immerso in una placida allucinazione, l'Uomo parla alla Donna e sussurra a lei, carezzandole i capelli e le mani, le parole del finalmente giunto primo colloquio d'amore; al quale essa sembra rispondere col sorriso che ne intenerisce il volto, con la fragile immobilità della persona abbandonata al suolo.
Su questa sottile frontiera che divide la vita dalla morte due creature umane si incontrano, e tutto sembra arrestarsi in una soprannaturale sospensione, in una pausa dove il reale svanisce nel sogno e il sogno nel reale. Ed ecco le parole d'amore che l'uomo pronuncia rischiararsi di una luce che le libera da ogni contingente limitazione, le fissa in una risonanza eterna. La morte che ha toccato la Donna è presente nell'animo dell'Uomo in una zona dell'inconscio dove egli la intuisce e la respinge, la riconosce e la nega attraverso una sottile e quasi impercettibile trama di incontrollati impulsi psicologici.
Questa presenza imprime un suggello di irrevocabilità alle parole che l'Amante dice all'Amata silenziosa e sorridente. Esse cadono fuori dai confini della mutevolezza terrena e si posano là onde non possono essere richiamate, là dove si congiungono a sancire un patto di fedeltà eterna.
Tra l'allusiva scena della decapitazione e il piombare dell'Uomo nella cruda realtà alle parole dei Sanculotti: "quella donna è stata decapitata ieri all'alba", - si pone la grande, sconcertante scena d'amore. Se essa non appare che un lungo monologo dell'Uomo, cui risponde alla fine, nell'allucinazione di questi, la Voce della Donna come piovendo dall'alto - in verità non si può non sentirla altro che come un duetto, un vasto duetto d'amore: dove all'esplicita parte dell'uno, l'altra risponde con un silenzioso, incombente, dolcissimo consenso. L'Amante non si rivolge all'Amata assente, scivolata nell'abisso senza fondo della morte; ma ad una presenza che non è solo quella fisica di un corpo freddo e inerte.
Il Tema con diciotto variazioni entro cui si svolge il lungo monologo dell'Uomo non è solo l'espressione di una voce, di un'anima che invoca la compagna in un'esa1tata beatitudine amorosa; ma è anche (e con quale toccante intensità di accenti) 1'espressione della tenerezza infinita, del consenso dolcissimo che dalla Donna inerte e spenta fluisce verso l'Uomo. Al di là della pallida fredda e fragile bellezza della Donna in cui parrebbe che soltanto possano ormai rispecchiarsi i sentimenti dell‘Amante, noi sentiamo la musica suscitare una presenza viva che si eleva ed aleggia al di sopra della superstite presenza fisica. In questo senso le parole dell'Uomo non urtano contro lo sbarramento del nulla. Esse non gli ritornano senza essersi posate ne1l'anima della Donna; ma tutte, con una sorta di estrema premurosa dolcezza, vi penetrano, ultimo viatico umano nel soprannaturale arresto di lei sulle soglie della morte. E all'invocazione amorosa, alla premurosa tenerezza dell'Uomo viene dalla Donna - come un soffio lieve, come una corrente dolce ed uguale - quella risposta per cui essa, prima di sfuggire all'Amante, sembra volgersi a lui e scambiare il patto d'amore.
...
Così situata sulle soglie della morte, questa scena d'amore elude pressoché interamente gli accenti erotici, la concretezza fisica e terrestre che ne avrebbero circoscritta la forza emotiva. La quale proprio viene avanti come una lenta e grande ondata per tutto ciò che contiene di un sentimento in cui la premessa fisica, il lievito sensuale può ritrarsi senza distruggervelo, può assottigliarsi per divenire un placido, allucinato impulso di tenera adorazione. E non è tanto il dato implicito nella coscienza dell'Uomo - che l'Amata abbia ormai varcato la frontiera della vita - a determinare simile orientamento di stati d'animo; quanto un altro dato che preme in lui: la debolezza e la precarietà dell'esistenza umana - di quella dell'Amata in specie - in mezzo allo spaventevole scatenamento di odio, di ferocia che aveva innalzato, durante una sanguinosa stagione della storia, nelle piazze di Parigi, di fronte alle case pacifiche, la sinistra macchina per uccidere. "Ovunque, sempre quell'odore di sangue che soffoca. Imprigionati tutti in un'immobile angoscia, nella lugubre attesa della morte".
La spinta erotica. il desiderio del possesso, - in questo tragico frangente che tiene ogni vita legata ad un filo sottilissimo, in questa incombente angoscia sventura - si mutano nell'uomo in un fraterno senso di solidarietà verso la Donna. A reggere il tessuto emotivo di questa pagina, sta piuttosto l'incontro di due solitudini umane, incarnate nei due Amanti, che non l'esplodere di una passione amorosa.
Per questa ragione la sostanza lirica del Tema e variazioni (della parte Centrale e piu estesa, cioè, del monologo dell'Uomo) appare investita e animate da un largo e profondo senso umano, che si fonda su di un presupposto di sofferenza, di solidarietà di una creatura verso un'altra creatura.
E tale è la pienezza umana di questo momento della vicenda, tanta la toccante verità d'anima che ne emerge, che esso in fondo, pur nella sua allucinata atmosfera di irrealtà e di placida follia, finisce per risultare come il punto in cui i due protagonisti più solidamente toccano terra. L'amorosa allucinazione dell'Uomo - lungo lo svolgersi delle diciotto variazioni - non solo crea come essere poeticamente concreto e vivente la Donna uccisa dalla ghigliottina; ma rovescia la prospettiva entro la quale è iscritta la vicenda. E i due momenti "veri" del dramma - la scena della decapitazione in principio e la Marcia funebre alla fine quando l'Uomo grida il suo dolore davanti ad corpo della Donna - sembrano ribaltati in un'aura di incredibilità. Quasi che, sia pure in un senso molto diverso, risorga l'antico scambio di Tristano fra il giorno e la notte, fra la vita e la morte.
Tra le due violente spezzature che rompono l'armonioso equilibrio della vita - l'uccisione della Donna e l'attimo in cui l'Uomo si accorge che l'Amata è morta - la musica fa sorgere e addita nella scena d'amore una verità che la morte fissa e rende inattaccabile.
...
Mi sono soffermato con tanta insistenza su questo momento de1l'opera di Riccardo Nielsen poiché mi premeva dare il massimo rilievo alla qualità e all’intensità di emozione che il musicista raggiunge in esso e sottolineare tutta la pregante sostanza umana, tutto l'impegno interiore che filtra attraverso un discorso musicale in cui si manifesta evidente una rigorosa volontà costruttiva. E' assolutamente essenziale. nei confronti dell'Incubo, questa constatazione: che i presupposti tecnici, le esigenze formali cui il compositore ha obbedito, non costituiscono un dato intellettualistico che abbia potuto in qualche modo vincolare la libertà della sua fantasia; ma rappresentano - come ha da essere in ogni opera d'arte - il solo ed unico possibile tradursi delle intenzioni de1l’artista in termini concreti e intelliggibili.
Ed ecco i vari momenti della vicenda precisarsi in una, successione di episodi musicali determinati nella loro stessa struttura formale e che si seguono in quest'ordine:
  1. Sarabanda funebre (proiettarsi sullo schermo delle ombre del corteo che conduce la Donna alla ghigliottina).
  2. Madrigale (lamento per la morte della giovane donna che si sta uccidendo).
  3. Toccata (ingresso in scena dell'Uomo che invoca la donna amata e pare ne insegua come in delirio l'immagine).
  4. Recitativo (l'Uomo si avvede della ghigliottina e scorge ai suoi piedi un corpo disteso di donna).
  5. Tema con variazioni (l'Uomo scopre nella creatura adagiata al suolo la Donna amata, si china su di lei e le parla).
  6. Notturno (la voce della Donna, che l'Uomo ode nella propria allucinazione, risponde alle tenere, invocanti parole che egli ha rivolto al corpo esanime di lei).
  7. Marcia funebre. (l'Uomo scosta inavvertitamente lo scialle che copriva il collo dell'Amata che appare segnato dal taglio della lama).
Oltre a questo ordinamento architettonico del discorso musicale, un altro è da notare e che investe l'intima costituzione della materia sonora: l'adozione da parte del musicista della tecnica compositiva dei dodici suoni.
La quale - sia detto per incidenza, ma la cosa è molto importante - non implica affatto certe durezze di incontri dissonanti proprie di musicisti come Schoenberg, Webem e, come in qualche momento, lo stesso nostro Dallapiccola. Di che la partitura dell'Incubo costituisce uno degli esempi più notevoli e più ricchi di ammaestramenti; anche se in essa Nielsen abbia operato con un singolare rigore grammaticale, L'intera materia musicale dell'opera deriva infatti da un'unica serie di dodici suoni che ne è l'aggregato sonoro originario e che si sviluppa attraverso un processo di germinazione di una fluidità e naturalezza mirabili. Esempio singolare di come la pratica dei dodici suoni possa attuarsi non quale un artificioso gioco intellettualistico, un fenomeno di pura tecnica astratta, è nell'opera di Nielsen, il malinconico accorato madrigale per voci sole: una pagina dove la più sciolta freschezza di canto non subisce alcuna costrizione e violenza da un evidente e preciso proposito compositivo.

XI° FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA CONTEMPORANEA
Alberto Mantelli (Venezia, 11 e 12 settembre 1948)

domenica, marzo 04, 2018

Alfred Deller

Harmonia Mundi France HM 249 (1979)
La copertina che illustra quest’articolo é quella dell’ultimo disco inciso da Alfred Deller nell’aprile dello scorso anno; due mesi dopo Deller moriva, all’età di 67 anni, senza che nessuno ne abbia scritto un "memoriale" in Italia, e senza una nota di commento su questo disco se non "ultima incisione Alfred De1ler".
Ciò non meraviglia vista la perenne diffidenza che la critica italiana ha avuto nei confronti del controtenore o contraltista, dirsi voglia, e conseguentemente di Deller che ne è stato il massimo esponente della nostra epoca. Da cosa è nata questa diffidenza? Da una controversia storica, più probabilmente, da una scarsa conoscenza dell’argomento da parte della critica ufficiale. Non è questo il luogo dove tentare un approfondimento del problema, ma vale la pena, parlando di Deller, dare gli estremi del "caso controtenore". Il termine controtenore era in uso all’epoca della polifonia (Tre e Quattrocento), e indicava quel timbro vocale, quella tessitura, che stava tra il discantus e il tenor. La sua esecuzione era prevalentemente affidata a tenori in grado di usare il falsetto.
Nel Cinquecento nacquero i castrati per rispondere alle esigenze del melodramma dal quale erano eslcuse, nell’esecuzione, le donne. Tutta l’età barocca fu dominata dal primeggiare di controtenoristi (contraltisti o sopranisti) e castrati (anch’essi contraltisti o sopranisti) sulle scene del belcanto, grazie alle loro grandi capacità rappresentative. Per approfondire l’interessante argomento si può, ad esempio, consultare le voci "Castrati" e "Contralto" redatte da Rodolfo Celletti nell’enciclopedia Rizzoli-Ricordi.
L’età del barocco ha quindi visto l’impiego parallelo di castrati e controtenori; che ciò fosse dovuto alla contingente mancanza di voci femminili non ci deve far riflettere; ("oggi abbiamo queste voci e quindi non ci sono problemi"...); Haendel e Lully composero le loro opere vocali pensando ad una esecuzione anche con castrati e controtenori. Dobbiamo solo preoccuparci, perciò, di ricreare quella situazione.
Che non ci si castri più molto può sembrare un argomento validissimo: ma perché rifiutare i controtenori?
Sull’onda di questa rivalutazione filologica Deller cominciò circa quarant’anni fa ad eseguire con il timbro in falsetto di controtenore. Dopo di lui sono venuti tanti altri nomi che oggi incidono a ritmo serrato; sono Paul Esswood, James Bowman, Charles Brett, John York Skinner e René Jacobs, i più in attività. E tutti debbono qualcosa a Deller. Nel ’48 Deller diede vita al suo Consort e, successivamente, anche ad una sua produzione discografica: "Deller Recordings". Con quest’etichetta l’Harmonia Mundi francese ha pubblicato negli ultimi anni decine e decine di incisioni che rappresentano oggi una testimonianza artistica di raro calibro. Per rifare la storia di Deller mi pare significativo rifare la storia delle sue incisioni; non è un ennesimo tentativo per parlar solo di dischi. Obiettivamente, il disco come il libro immortala il messaggio artistico, e permette a chiunque di venirne a contatto; non tutti, ho l’impressione, sono stati in grado di applaudire dal vivo. E poi fare articoli che siano storie della musica a puntate mi dà l’impressione che non entusiasmi molto i nostri lettori.
Il massimo dell’impegno di Deller si ebbe nella musica inglese, ovviamente: con Dowland e Purcell il controtenore giocava in casa e questo si è sempre sentito. Le sue incisioni più significative, infatti, possono riassumersi nelle tre opere di Purcell e nelle songs di Dowland. Nel 1975 uscì "The fairy queen", nel ’76 "The indian queen", nel ’79 "King Arthur": tre incisioni d’altissimo livello artistico e tecnico (con tecnico intendo la capacità tecniche di coro e orchestra). Le due ultime in modo particolare furono realizzate con ottimi solisti, specialisti del genere, quali Mark Deller (figlio di Alfred ed anch’egli controtenore), Paul Elliott, Honor Sheppard, Maurice Bevan, Jean Knibbs e Rosemary Hardy. Non è da meno l’orchestra: una "session orchestra" formata da alcuni dei migliori strumentisti inglesi con strumenti originali; sotto il nome di The King’s Musick presero parte a queste incisioni Roderick Skeaping, Michael Laird, Catherine Mackintosh, Nicholas McGegan. Oltre le tre opere di Purcell l’altra incisione fondamentale di Deller è quella dedicata alle songs di Dowland; si tratta di una antologia vocale dai vari libri scritti da Dowland assortita molto oculatamente. Con Deller prendono parte a quest’incisione ancora una volta musicisti di primo piano (alcuni ex Early Music Consort di Munrow): Robert Spencer, Jane Ryan, Nigel North. Questo volume antologico è forse quanto di più interessante e meglio eseguito si sia fatto sull’opera di Dowland; allo stesso livello, ma con un impegno d’ascolto molto maggiore, troviamo l’integrale discografica, in via di compimento, ad opera del Consort of Musicke di Antony Rooley. La discografia purcelliana di Deller, comunque, non si ferma alle tre opere citate. Meno avvincenti, con tenutisticamente, ma rilevabili, l’Ode a Santa Cecilia e i vari Anthems buoni soprattutto nelle parti vocali. Una piccola perla incisa da Deller molti anni or sono ci è stata di recente ripubblicata dall’editoriale Sciascia: L’"Amfiparnaso", commedia harmonica di Orazio Vecchi. I solisti vocali sono i soliti che hanno sempre accompagnato Deller, mentre nel gruppo incontriamo nomi abbastanza insoliti quali Hans Martin Linde, Ferdinand Conrad, Franz Josef Maier, August Wenzinger, Fritz Neumeyer e Walter Gerwing: il Collegium Aureum, in altre parole. Nella collaborazione tra il Deller Choir e il Collegium Aureum troviamo un altro disco importantissimo che è quello dedicato ai balletti e Madrigali di Monteverdi contenente il celebre "Tirsi e Clori". Tra le altre rilevabili collaborazione del Deller Consort c’e stata quella col Clemencic Consort; René Clemenecic stesso, in un recente incontro che ebbi con lui, mi parlo di Deller come del più grande controtenore vivente e come un musicista di grande ingegno. Da questa collaborazione uscì la Messa a quattro voci di Monteverdi, anch’essa ristampata da Sciascia. Più sensazionale, forse, la collaborazione con il Morley Consort, pseudonimo dell’Early Music Consort di David Munrow. Con Munrow Deller incise due dischi antologici l’uno dedicato alla "Corte dei Tudor" e l’altro a Thomas Morley ("l trionfi di Oriana").
 
Gabriele Rifilato ("Banchetto Musicale", Numero 2, Anno II, gennaio 1980)