Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, febbraio 26, 2019

Gesualdo: Morte per cinque voci (un film di Werner Herzog)

BELTA' POI CHE T'ASSSENTI (Libro VI/02)
Beltà poi che t'assenti
Come ne porti il cor
Porta i tormenti.
Ché tormentato cor
può ben sentire
La doglia del morire,
E un alma senza core,
Non può sentir dolore.
 
Sai leggere la musica?
Credo di essere uno dei pochi registi d’opera incapaci di leggere spartiti musicali. Questo è dovuto a una piccola tragedia scolastica d'infanzia. Avevo tredici anni. L'insegnante di musica ha chiesto a tutti, in ordine alfabetico, di alzarsi e di cantare una canzone. Dietro quest'invito c’era una precisa concezione pedagogica: all’epoca circolavano idee secondo cui tutti sono artisti e hanno un innato talento musicale, sia che cantino bene o male. Quando è arrivato alla lettera H, sono stato invitato ad alzarmi in piedi. "Io non ho intenzione di cantare", gli ho risposto. La situazione si è fatta subito sgradevole e, sfacciato com’ero, ho detto all'insegnante;"Lei può anche fare un salto mortale in avanti e all’indietro, può camminare sulle pareti e sul soffitto. Io... non... ho... intenzione... di... cantare". Questo l'ha irritato al punto che ha chiamato il preside. Poi, mentre stavo in piedi davanti a tutta la classe, si sono messi a valutare se convenisse sospendermi o meno. Facevano sul serio, ma io non mi sono piegato. A quel punto loro hanno assunto un provvedimento molto brutto: hanno preso in ostaggio l'intera classe. "Nessuno se ne andrò finché Herzog non si decide a cantare". Tutti i miei amici hanno cominciato a incalzarmi, dicendomi; "Non preoccuparti, non ti ascoltiamo, vogliamo solo uscire durante la pausa". Il preside è intervenuto e ha precisato; "Non farete alcuna pausa se Herzog non canta". Ma io non ho mollato, sapendo che volevano solo spezzarmi la schiena, Dopo quaranta minuti, per fare un piacere ai miei compagni, ho cantato. E mentre cantavo ho deciso che sarebbe stato l'ultima volta nella mia vita. Non I'ho più fatto fino a oggi e non ho neppure imparato a leggere gli spartiti musicali. Mi addolora veramente ripensare a questo incidente. AIl'epoca mi sono ripromesso: "Nessuno mi spezzerà più. Non succederà, non importa a quale prezzo". Non ho abbandonato la scuola, ma durante le lezioni di musica sono diventato completamente autistico. Non ascoltavo; ero su un altro pianeta. Fra i tredici e diciotto anni la musica non è esistita per me.

Dopo essermene andato da scuola mi sono rammaricato per questo enorme vuoto e mi sono buttato sulla musica senza alcuna guida. Ho cominciato con Heinrich Schütz, una specie di punto di riferimento per me, e da lì sono risalito alla musica delle origini. Solo molto più tardi ho cominciato ad ascoltare Wagner e compositori contemporanei. Poi, ovviamente, è stato il turno di Gesualdo e del suo Sesto libro di madrigali, un momento assolutamente illuminante per me. Ero così eccitato che ho chiamato Florian Fricke alle tre del mattino ho continuato a farneticare sulla musica di Gesualdo. Poi, dopo mezz’ora, Florian mi ha fermato dicendomi: "Werner, qualunque esperto di musica conosce Gesualdo e il Sesto libro. Sembra quasi che tu abbia scoperto un nuovo pianeta" Ma per me era proprio come se avessi individuato un astro sconosciuto del nostro sistema solare. Da quell'esperienza è scaturito un film su Gesualdo. Me lo sono portato dentro per diversi anni prima di girarlo.
Wagner mi ha affascinato abbastanza tardi. Wolfgang Wagner mi ha spedito un  telegramma chiedendomi di curare la regia del Lohengrin. Ho immediatamente risposto alla sua richiesta con una sola parola: "No". Wagner ha continuato a insistere e io ho continuato a dire di no. Alla fine, dopo alcune settimane, gli è venuto un sospetto e mi ha chiesto se avessi mai ascoltato quell'opera. Ho risposto di no. E lui mi ha chiesto: "Potresti ascoltare la mia registrazione preferita? Sto per mandartela. Poi, se mi risponderai ancora di no, non ti infastidirò più". Ho seguito il suo consiglio e quando ascoltato il Vorspiel - il preludio - sono rimasto completamente sconvolto. E' stato una rivelazione per me, uno shock profondo e bellissimo Sapevo di trovarmi di fronte a qualcosa di grande. E ho pensato: "Devo avere il coraggio di affrontare tutto ciò". Perciò ho accettato l'offerta di Wagner di curare la regia dell'opera a Bayreuth. Gli ho detto: "Il preludio contiene musicalmente l’intera opera. Mentre lo eseguiamo, lasciamo chiuso il sipario. E quando spettatori cominceranno a rumoreggiare e invocheranno a gran voce l'inizio dell'opera, noi ricominceremo a suonare il preludio e andremo avanti così fino ad averli cacciati tutti fuori dal teatro". Credo che Wagner abbia cominciato ad apprezzarmi.

Cosa intendi dire quando parli di "trasformare il mondo in musica"?
Considero l’opera lirica un universo a sé. Sul palcoscenico viene rappresentato un mondo completo, un cosmo trasformato in musica. Mi piace la rozza stilizzazione delle interpretazioni e la grandiosità delle emozioni umane, si tratti di amore, odio, gelosia o colpa. Spesso mi chiedo: noi uomini siamo davvero capaci di riconoscere quegli archetipi dell'esaltazione e della purezza emotiva che vengono rappresentati sul palcoscenico? Certo che li riconosciamo; ed è questo a rendere l'opera lirica così bella, anche se spesso le storie raccontate sono molto inverosimili. Le emozioni all'opera quasi come assiomi matematici; estremamente semplificate e concentrate. Non importa se gran parte dei libretti sono pessimi o, come nel caso di Giovanna d’Arco, una vera catastrofe. In effetti, tantissime storie raccontate all'opera esulano perfino dal calcolo delle probabilità; sarebbe come vincere il primo premio alla lotteria cinque volte di fila. Eppure, quando sentiamo la musica, le storie acquistano un loro senso. Traspare la loro intima verità, e sembrano assolutamente plausibili.
La prima volta che mi hanno proposto di curare la regia di un'opera, l’invito mi è suonato strano; ma, dopo averci pensato, mi sono accorto che non si trattava di un ambito a me completamente alieno. "Perché non dovrei tentare almeno una volta nella vita di trasformare tutto in musica, ogni azione, ogni parola?" Come ho spiegato nel corso del nostro colloquio, fin dal miei primi passi come regista ho lavorato per certi versi in modo simile, trasformando le cose liriche in immagini più intense, più elevate e stilizzate.  [...]
 
Mi pare che anche in Tod für fünf Stimmen molte scene siano sottilmente stilizzate. E vero o no?
Sottilmente stilizzate? No, in questo caso si tratta di vistose falsificazioni. Gran parte delle storie nel film sono inventate e da cima a fondo, eppure contengono le più profonde verità possibili su Gesualdo. Fra tutti i miei documentari, penso che Tod für fünf Stimmen sia quello più sregolato e pazzo, ed e uno dei lavori che mi sono più cari.
Racconta la storia di Carlo Gesualdo, il musicista visionario del XVI secolo, principe di Venosa. Gesualdo è il compositore che continua a sconvolgermi più di chiunque altro. Volevo girare un film su di lui perché la sua vita è interessante quasi quanto la sua musica. Tanto per cominciare ha assassinato la moglie. Poi, essendo principe di Venosa, è stato sempre economicamente indipendente e ha potuto autofinanziarsi i suoi viaggi nell'ignoto musicale. Gli altri libri di madrigali sono più in linea con il suo tempo, ma il Sesto libro sembra proiettare Gesualdo in avanti di quattrocento anni, avvicinandolo alle sperimentazioni contemporanee da Stravinskij in poi. Ci sono delle parti di Tod für fünf Stimmen in cui sentiamo separatamente ciascuna delle cinque voci di un madrigale. La singola voce, presa di per sé, sembra del tutto normale, ma quando le voci si combinano la musica che ne risulta si rivela molto in anticipo sul proprio tempo e perfino sul nostro.
 
Quindi in Tod für fünf Stimmen hai raccolto i fatti più elementari su Gesualdo e li hai illustrati con scene stilizzate miranti a rafforzare i punti chiave della storia.
Esatto. Considera, per esempio, la scena girata nel castello di Venosa, dove oggi è ospitato un museo. In una delle teche di vetro era esposto un reperto che mi ha profondamente colpito: un disco di argilla con del simboli sovrimpressi che sembravano comporre un'iscrizione. Ho passato parecchie notti insonni sforzandomi di scoprire il significato Volevo usare l'oggetto nel film, così ho scritto un monologo che lo riguardava. Il direttore del museo, in realtà preside della facoltà di Giurisprudenza di Milano, lo pronuncia stando accanto alla teca. Legge una lettera di Gesualdo al suo alchimista, in cui il primo chiede aiuto al secondo nella decifrazione dei segni misteriosi sul disco. "Il principe non riuscì a prendere sonno per giorni e giorni nel tentativo di carpire il segreto di questi strani simboli", spiega il professore. "Nel corso di tale attività si perse in un labirinto di congetture e di ipotesi". Mediante questo aneddoto fittizio volevo accennare al fatto che negli ultimi anni della sua vita Gesualdo in sostanza era diventato pazzo; aveva davvero perso la testa. Tagliò con le sue mani l'intera foresta intorno al Castello e assunse dei giovani per flagellarlo quotidianamente - supplizio che gli procurava delle ferite purulente e che sembra l'abbia ucciso. C'è anche una scena in cui vediamo una donna che corre in giro per il castello fatiscente del principe cantando la sua musica e dicendo di essere lo spirito della moglie morta di Gesualdo. Questo personaggio ha la funzione di sottolineare l'effetto profondo che la musica di Gesualdo ha esercitato sulle persone nel corso del secoli. Abbiamo affidato questa parte a Milva, una famosa attrice e cantante italiana.
 
E che dire della storia secondo cui Gesualdo ha ucciso suo figlio?
Ho inventato io la storia raccontata nel film: Gesualdo, dubitando di essere il padre naturale di suo figlio, quando il bambino ha due anni e mezzo lo mette su un’altalena e ordina ai suoi servitori di spingerla per due giorni e due notti, fino alla morte del piccolo. In alcuni dei documenti esistenti c'è un'allusione al fatto che lui avesse ucciso il suo bambino in tenera età, ma non sussiste alcuna prova conclusiva al riguardo. E' un frutto della mia immaginazione anche il coro che Gesualdo avrebbe collocato ai lati dell’altalena del figlio, facendogli cantare la bellezza della morte. In una delle composizioni del principe c'è però un testo del genere. L'unico fatto accertato è che Gesualdo ha colto sua moglie in flagrante, pugnalato lei e l’amante, I documenti del tribunale comprovano l’omicidio.
L'ultima scena del film è stata girata durante un torneo medievale organizzato sul posto. Gli italiani amano questo tipo di spettacoli. Volevo raggiungere il direttore musicale per farlo parlare dell'audacia e dell'avventurosità della creazione musicale, ma mentre mi dirigevo verso di lui ho notato la faccia di un ragazzo che stava interpretando il valletto di uno dei Cavalieri. Abbiamo orchestrato sul momento l'intera scena di questo valletto che prende il suo cellulare e parla con la madre. A effettuare la chiamata è stato mio fratello, che sapeva esattamente quando entrare in azione visto che si trovava a tre metri di distanza. Ho chiesto al ragazzo di far finta che sua madre lo stesse contattando per dirgli di tornare a pranzo. Sapevo che si sarebbe trattato dell'ultima scena del film e perciò gli ho fatto dire: "Mamma, non preoccuparti, tornerò a casa molto presto perché il film su Gesualdo è quasi finito". Gli ho chiesto di guardare dritto in macchina dopo aver pronunciato quella battuta e di assumere un contegno molto serio. Io ero accanto alla cinepresa e mi producevo in tutti gli scherzi e le smorfie possibili. La sua faccia assume una strana espressione: sospeso tra il riso e la serietà, non fa altro che continuare a fissare l'obiettivo, e il film finisce.

Estratto da Paul Cronin (a cura di), Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita. Traduzione italiana di Francesco Cattaneo. Edizioni Minimum fax, Roma 2009; pp: 294-300

sabato, febbraio 09, 2019

Roman Vlad: Presenza romana di Stravinskyij

Igor Stravinsky (1882-1971)
Roma, 27 novembre 1938.
Al Teatro Adriano, concerto dell’Orchestra sinfonica dell’Accadernia Nazionale di Santa Cecilia.
Direttore: Igor’ Stravinskij.
Solista: Sviatoslav Soulima Stravinskij.
Programma: Cherubini, Ouverture dell’Anacreonte; Cajkovskij, Seconda Sinfonia; Stravinskij, Capriccio per pianoforte e orchestra e Jeu de cartes.
Era il primo concerto che io ebbi la fortuna di ascoltare in Italia ed era la prima volta che potei vedere in carne ed ossa uno dei più celebrati miti viventi del nostro tempo. Da pochi giorni ero giunto a Roma dalla lontana Bucovina, per iscrivermi al corso superiore di perfezionamento di pianoforte che Alfredo Casella teneva presso l’Accademia di Santa Cecilia. Il concerto di Stravinskij era il primo dono culturale che Roma mi offriva. Avevo diciotto armi e l’impressione che ne ricevetti è rimasta indelebile. Stravinskij non era certo quello che oggi s’intende per un direttore d’orchestra professionista (come erano invece, tra i compositori coevi, un Mahler o uno Strauss). La sua professionalità di musicista trascendeva però incommensurabilmente quella di un qualsiasi divo della bacchetta: era un compositore che, come quelli di una volta, sapeva rendere benissimo la propria musica sulla tastiera e farla suonare da un complesso sinfonico. Le volte, relativamente rare, che Stravinskij affrontava la direzione di opere altrui, sembrava davvero applicare alla lettera i postulati estetici che andava professando durante il suo periodo neoclassico. Quando, cioè, amava proclamarsi "notaio" della musica e invocava "secutori obiettivi e fedeli e non interpreti soggettivi e arbitrari", quando teorizzava che la musica era incapace di esprimere alcunché. L’Ouverture di Cherubini risultò infatti, più che altro, una lettura diligente, anche se con qualche approssimazione. Notevolmente più sensibile apparve l'esecuzione della Sinfonia di Cajkovskij. Qui si intuiva che Stravinskij partecipava in prima persona all’inveramento della musica che andava dipanando. Che l’amava e quasi la viveva. Nella seconda parte, Stravinskij attaccò le proprie pagine, e qui non era più
questione di esecuzioni e letture notarili, ma di interpretazioni piene di brio, spirito, estro al limite di quelle libertà e licenze che nessun direttore di mestiere osava prendersi con la musica di Stravinskij, ma che egli stesso sentiva invece come giuste e necessarie, al di là della lettura dei testi consegnati nelle sue partiture. "So benissimo che la musica è fatta di quello che non si può scrivere. Dovevo dire però il contrario per reagire contro certe esagerazioni ottocentesche. Così come avevo detto, per puro spirito polemico, che la musica era 'troppo stupida' per poter esprimere qualche cosa".
Queste ed altre affermazioni e confessioni importanti per la retta comprensione dell’arte, della poetica, del carattere e della personalità affascinante di Stravinskij, mi fu dato cogliere dalla sua viva voce, durante i lunghi anni in cui egli veniva regolarmente a Roma grazie ai profondi legami che aveva annodato con l’Accademia Filarmonica Romana. Il primo nodo di questo rapporto che, per un decennio e mezzo doveva dare tanta luce alla vita musicale romana, fu stretto da Adriana Panni a Venezia, nel settembre del 1951. Stravinskij vi era arrivato per la prima rappresentazione mondiale di La carriera di un libertino. Era sceso all’albergo Bauer, insieme alla moglie Vera e all'inseparabile Robert Craft. Armata di un mazzo di rose, l’intrepida Adriana partì all’assalto di Stravinskij. Superò di slancio il primo ostacolo costituito dal vigile portiere dell’albergo, perforò il muro costituito dall'abituale corte che circondava il Maestro (famigli, parenti, amici, parenti degli amici e amici dei parenti, rappresentanti di società di concerti, di case editrici musicali, librarie e discografiche). E, con la forza irresistibile del suo entusiasmo e della sua determinazione, lo conquistò: Stravinskij accettava l’invito dell'Accademia Filarmonica Romana. Per il 1952 non aveva date disponibili, ma dalla stagione 1953-54 in poi, la ditta Stravinskij-Craft iniziava una collaborazione con la nostra Istituzione che doveva durare per tutto il resto della vita del compositore. Accanto ai capolavori ormai classici di
Stravinskij, sarebbero state programmate di preferenza le sue opere più recenti, possibilmente in prima esecuzione per l’Europa e per l’Italia. Il pubblico dell'Accademia era ben preparato all’accoglimento delle novità stravinskiane. Nel periodo 1947-53 erano state programmate più di una dozzina di opere di Stravinskij, tra cui Le nozze, Apollon Musagete, l'Ottetto, la Suite italienne, la Messa e i Cori Sacri a cappella (Ave Maria, Credo, Pater noster) e una serie di musiche pianistiche (Piano Rag Music, Sonata, Tango, Concerto per due pianoforti).
Il 12 aprile del 1954 arriva, per così dire in avanscoperta, Robert Craft il quale dirige la prima esecuzione europea del Settimino, lavoro col quale, nel 1953, Stravinskij si era avvicinato alla dodecafonia. Un anno più tardi è ancora Craft a far conoscere per la prima volta in Italia una composizione ancora fresca di inchiostro, In memoriam Dylan Thomas in cui Stravinskij adotta conseguentemente la tecnica seriale. Dirige inoltre i Canti per soprano, flauto, arpa e chitarra, allora ancora inediti e, in prima europea, il Concertino per dodici strumenti, del 1952.
L’anno 1956 vede finalmente salire sul palcoscenico del Teatro Eliseo (allora sede delle manifestazioni dell’Accademia Filarmonica) lo stesso Stravinskij per dirigere con l’Orchestra sinfonica della Rai di Roma e il Coro del Teatro La Fenice di Venezia, due sue importanti, recentissime opere: Corale e variazioni su Vom Himmel hoch da komm ich her da Bach e Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis. Nella seconda parte del concerto, Craft diresse poi una brillante realizzazione scenica della Storia del soldato.
Nel successivo 1957 fu ancora Craft a dirigere, sempre con l’Orchestra sinfonica della Rai di Roma, Agon, che Stravinskij aveva terminato da poco. Nel dicembre dello stesso anno, e con la stessa orchestra, Bruno Maderna dirigeva tre lavori del periodo americano di Stravinskij, scritti durante gli anni della seconda guerra mondiale: Ebony Concerto, Tango e Scherzo alla russa.
Nel 1958, sempre con i complessi della Rai di Roma, Stravinskij stesso dava una memorabile interpretazione delle Nozze, mentre Craft si incaricava di dirigere la Sinfonia in tre movimenti, del 1945, e le Scènes de ballet del 1944.
Nel 1960 Stravinskij dirigeva ancora In memoriam Dylan Thomas e la Cantata sa testi poetici di anonimi inglesi del XV e XVI secolo (del 1952), mentre Craft, oltre all’Ottetto, alle Tre liriche giapponesi e al Concerto Dumbarton Oaks, presentava in prima esecuzione italiana la versione per soprano e orchestra di Tilimbom e dei Movements per pianoforte e orchestra, l’opus allora più recente di Stravinskij.
Nel 1962 Stravinskij e Craft tornarono a dividersi la direzione di un concerto in cui figuravano le Otto Miniature strumentali che il compositore aveva appena terminato, la versione originale di Pulcinella per tre voci e orchestra (solisti: Cecilia Fusco, Fernando Jacopucci e Nicola Rossi Lemeni), L’uccello azzurro (da Cajkovskij), le Danze concertanti ed alcune rare pagine vocali quali La pulce (da Beethoven) e le Due liriche di Verlaine (nella versione orchestrale del 1953).
Nel 1963 Stravinskij e Craft si dividevano una volta di più il compito di dirigere un concerto di musiche sacre del compositore in cui, oltre a brani nuovi per l’Accademia (Corale e Variazioni da Bach, Cori a cappella e la Messa) era inclusa la Sinfonia di strumenti a fiato nella nuova versione del 1947.
Nel 1965 toccò a Pierre Boulez dirigere un memorabile concerto dedicato tutto all’allora ottantatreenne compositore. Vi figuravano, accanto a Le nozze, Ninne-nanne del gatto e Pribautki, oltre alla Elegia per J. F. Kennedy e la Ballata sacra Abramo e Isacco.
Tra gli avvenimenti dedicati alla sua musica negli anni Sessanta e Settanta, ci limiteremo a ricordare i più significativi. Innanzitutto la memorabile rappresentazione, nell'ottobre del 1966, di Renard e La storia del soldato per la direzione di Gabriele Ferro e la regia di Sandro Sequi. Le scene e i costumi di Renard erano di Eugène Berman, quelli per La storia contano tra i capolavori di Giacomo Manzù e la coreografia di quest’ultimo lavoro venne siglata da Maurice Béjart. Nel febbraio del 1968, Daniele Paris dirigeva, per la prima volta in Italia, l’estremo capolavoro di Stravinskij: i Requiem Canticles.
Il 14 ottobre 1971, l’Accademia Filarmonica Romana affidava alla London Sinfonietta diretta da David Atherton, il compito di commemorare colui che fu uno dei più grandi geni della storia musicale e la cui esistenza terrena si era conclusa nella primavera di quell’anno. Nell’ottobre del 1980 verrà messa in scena l’opera Mavra. Un intero programma verrà dedicato a Stravinskij nella stagione 1981-82 per ricordarlo nel decennale della scomparsa.
Coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere Stravinskij e di lavorare con lui non potranno mai dimenticarlo. Vederlo all’opera, vederlo vivere, avere il privilegio di conversare con lui, di rispondere ai suoi quesiti e di porgli domande ricevendone risposte acute quanto sincere: tutto ciò fa parte di esperienze davvero uniche e indimenticabili. Stravinskij non era soltanto un genio della musica, ma anche una personalità dotata di grandissime qualità intellettuali e umane. Sapeva vivere e si interessava di tutto; ricordo il suo entusiasmo quando gli facevo fare un giro lungo le mura aureliane, con soste nelle catacombe e in diverse chiese paleocristiane. Il piacere col quale passeggiava a lungo tra le mura di Ostia Antica e si deliziava poi con un piatto di gamberi al cognac. O il raccoglimento quasi religioso col quale, come ho già detto, contemplò a lungo una Madonna di Piero della Francesca all’Istituto Centrale del restauro. A Roma si sentiva davvero a casa e non è escluso che, se fosse vissuto più a lungo, vi si sarebbe trasferito. Anche se per la sua ultima dimora pensava a Venezia.
Stravinskij amava l’Ita1ia da quando vi arrivò la prima volta con Djagilev e da quando si recava a Varese con Ravel per acquistarvi della carta da musica. Se vi affondò così feconde radici culturali lo si deve però ai suoi amici romani, con Adriana Panni in testa.
 
Roman Vlad ("Vivere la musica", Einaudi, 2011)
Saggio di Roman Vlad, in Arrigo Quattrocchi, Storia dell'Accademia Filarmonica romana, Presidenza del consiglio dei ministri, Dipartimento per l'informazione e l'editoria, 1991.