Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, ottobre 21, 2005

L'iperbole vocale di Demetrio Stratos

Demetrio Stratos, trentaquattro anni, nato ad Alessandria d'Egitto, cantante, ma sarebbe riduttivo dire che lo è stato della musica pop a dispetto delle sessantamila persone accorse al più grosso avvenimento musicale giovanile degli ultimi anni, il concerto in suo onore all'«Arena» di Milano che una tragica fatalità ha voluto fosse il giorno appresso la sua morte in un ospedale americano, il 13 giugno 1979.

Di questo specifico contesto musicale, che molti vogliono al crepuscolo prendendo per realtà la propria impotenza, Demetrio è stato un protagonista a partire dalla metà degli anni '60, con i Ribelli e in seguito con gli Area, che egli fondò nel 1972 e dal quale si staccò la scorsa stagione per meglio dedicarsi alla sperimentazione, gruppo che ha rappresentato e rappresenta la punta di diamante della cultura musicale pop italiana. Sono anche gli anni in cui egli inizia le ricerche sulla voce che lo porteranno al suo capolavoro, Cantare la voce, registrato dopo lunghe prove, senza ausili meccanici o elettronici, nel maggio del 1978. Spezzando la barriera che tiene prigioniera la vocalità nelle sue strutture linguistiche e psicologiche Demetrio ha elaborato un sofisticato progetto di liberazione della «voce cantata» dagli «ideologismi» della cultura e della politica. Un progetto sorretto da grandissime capacità vocali e da complesse ricerche tecniche teoriche, che l'hanno portato dai palcoscenici del pop all'Istituto di Glottologia dell'Università di Padova, dalle performances nelle gallerie d'arte europee ai musei di tutto il mondo e in particolare a quel Roundabout Theatre di New York che vanta la direzione tecnica di John Cage di cui Demetrio è stato l'inimitabile interprete dei suoi più recenti lavori a partire da Mesostics, ne esiste una superba versione discografica del 1974, edita dalla Cramps. Se la «militanza» con gli Area ha dato al pop italiano le sue più belle bandiere, da Arbeit macht frei del 1973 a Maledetti del 1978, gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano è, tuttavia, la collaborazione con Cage in musica, con Cunnigham nella danza, con Balestrini nella poesia, con gli psicoanalisti della scuola lacaniana nell'indagine fenomenologica della voce che ha dato vita a tutta una serie di esperienze interdisciplinari di estrema attualità aprendo la strada a nuovi risultati vocali di cui possiamo scorgere gli ultimissimi echi nella lettura di Artaud per la rassegna «Poesia ininterrotta» organizzata a Parigi da France Culture, o nel pezzo Milleuna di Balestrini con il concorso mimico di Valeria Magli.
Se la voce non comunica più nulla, gli fu chiesto da un giornalista in occasione del suo primo dìsco sulla voce, Metrodora, qual è la natura del problema?
Demetrio rispose: «Semplice. Oggi, con il declino della vecchia vocalità cantata, si tende ad usare la voce come tecnica di espressione. Io voglio spingere la mia ricerca più in là, fino ai limiti dell'impossibile. Faccio esperimenti sui suoni più acuti e sono arrivato fino a 7000 hertz. Cerco di prendere tre o quattro note alla volta, di lavorare sugli armonici. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la tecnica di espressione, è più che altro una tecnica di controllo mentale, è un microcosmo ancora da scoprire». Forse è questo che lo convinse nell'anno accademico 1978/79 a tenere un ciclo di lezioni sulla voce al Conservatorio di Milano e di discutere con gli studenti dei suoi studi di etnomusicologia e, qui, vale la pena di rivelare un segreto, mentre molti non si sono ancora resi conto del grado di difficoltà affrontato da Demetrio nelle sue triplofonie e della qualità di suono a cui era arrivato, le sue sperimentazioni lo avevano già portato alle soglie delle quadrifonie, un limite varcato da così pochi nell'intera storia della musica da poterli contare con una mano.

di Gianni Sassi (Laboratorio & Musica, Anno I n.4, settembre 1979)

mercoledì, ottobre 19, 2005

Sergiu Celibidache: la tenacia e l'intransigenza di un mistico della musica

Per il direttore rumeno Sergiu Celibidache l'arte è una disciplina dello spirito da coltivare con rigore.

"Volevo fare la musica, non le note o delle immagini musicali, come gli altri. La musica non sono le note". Col senno di poi Sergiu Celibidache riguarda con tenerezza e con nostalgia agli entusiasmi giovanili, ne stigmatizza le intemperanze. Si stanno rievocando i primi anni di una carriera leggendaria. Poco più che trentenne, mentre era a Berlino in pieno perfezionamento con Hansi Tissen, venne chiamato alla Filarmonica in sostituzione di Furtwängler. Dal 1945 al 1952, guidò questa orchestra straordinaria; sette anni speciali che gli consentirono di affrontare un vastissimo repertorio e di rivelarsi come uno dei direttori più interessanti della nuova generazione. E nel Dopoguerra Celibidache, con l'aria da dandy, la gestualità singolarissima, gli atteggiamenti imprevedibili e il far musica turbante era il naturale e unico "concorrente" di Herbert von Karajan (di quattro anni più anziano). Ripassare la cronologia della Filarmonica di Berlino è istruttivo: rientra Furtwängler nel 1952, per tre anni, poi arriva (la famosa tournée statunitense che lo impose rocambolescamente al podio già più ambito del mondo) il trentasettenne austriaco Karajan, oggi incamminato verso i festeggiamenti dei trent'anni di sodalizio continuato con i berlinesi. In un certo senso Celibidache rappresenta l'anello di congiunzione storica tra la generazione degli interpreti ottocenteschi "umanistici" e quella moderna, senza offesa, "industriale". Un anello che appunto possiede dei padri il bisogno filosofico e la disciplina intellettuale, dei nostri giorni la sensibilità musicale sottilissima e capace di sintesi interpretative fulminanti su un repertorio molto vasto. Ma la "mitica" figura di Celibidache - poiché non ha voluto piegarsi all'industria discografica la sua lezione va inseguita direttamente o ricostruita attraverso testimonianze di spettatori e dei numerosissimi allievi aveva un cammino lunghissimo davanti a sé: a una svolta professionale straordinaria il direttore-Celibidache aveva ancora tutto da imparare.
Lo ricorda senza pudori: "Dopo sette anni di Filarmonica il mio insegnante alla fine di un concerto mi disse "che cretino, sei! Credi di essere un direttore invece non sai ancora niente. Pretendi di far musica senza averne dominato la forma organica". Aveva ragione. In quel periodo facevo molte bestialità, ero a cavallo di tutti gli effetti possibili, fisiologici, fonici e strumentali: andavo per il pubblico ma ero un dilettante come musicista direttore d'orchestra. Ho dovuto ricominciare da capo. Studiare la musica, la forma dei pezzi partendo da partiture molto semplici e brevi: Ouvertures di Telemann, Bach, qualche Sinfonia di Haydn. Una sorta di iniziazione alle questioni, poi divenute essenziali, della Fenomenologia musicale, cioè alla problematica che s'intreccia tra la struttura e la forma, tra lo "spessore" delle partiture e le esigenze naturali che devono regolare l'esecuzione. Per usare un esempio banale l'applicazione della fenomenologia all'esecuzione assomiglia al lavoro a mosaico: più sono i frammenti, più l'analisi sul complesso da ricostruire sarà minuta, più lunga e bisognosa di concentrazione. Ma, come quando si incolla un vaso andato in mille pezzi, il prodotto del restauro dovrà essere identico all'originale (sempre che si siano ricuperati tutti i frammenti... ), malgrado le differenze nel tempo impiegato a rimetterlo in sesto. Ciò significa entrare nella struttura intima della musica, riscoprirne le ragioni dall'interno: solo dopo un lungo approccio di questo genere si possono affrontare i problemi successivi. Un mondo per me nuovissimo, dominato con, applicazione, proprio quando m'ero illuso di essere già musicista. Dopo due anni di apprendistato con le piccole forme quasi per caso mi sono trovato a dirigere la Settima Sinfonia di Bruckner: per la prima volta ho avvertito un diverso dominio sulla forma musicale. Così a 42 anni, finalmente sono stato in grado di comprendere quanto come direttore posso toccare della musica e cosa non sono in grado di modificare, perché in realtà non è modificabile in nessun caso".
La rievocazione, lunga, ci serve per capire molte cose su Celibidache. Buona parte dell'intervista è infatti stata occupata dalle questioni relative all'applicazione di queste teorie all'esecuzione. Non siamo di fronte a quesiti accessori e soltanto teorici perché l'applicazione pratica si avverte benissimo all'ascolto e proprio nel concerto napoletano di pochi mesi fa (vedi Musica Viva di novembre) la nostra attenzione di spettatori era stata istintivamente sollecitata in quella direzione. D'altra parte il mondo di Celibidache è esclusivamente questo. Nella sua giornata non c'è spazio per comunicare all'esterno impressioni personali che non siano paradossali ma perfettamente giustificate in relazione al concetto mistico e missionario del suo far musica. Poi c'è l'intransigenza proverbiale, la tenacia assurda con cui difende posizioni musicali e professionali, partiture e autori tutti. Poi ancora gli effetti di tale intransigenza: i leggendari litigi con l'orchestra - ma "non ho mai insultato un professore d'orchestra: ho solamente difeso sempre con veemenza i miei punti di vista", precisa - le prese di posizione assecondate da stupende imposture (quando era direttore stabile a Bologna fece il diavolo a quattro per lo spostamento del camerino del direttore al primo piano, prima sostenendo che quello al piano-palcoscenico era stato il camerino di Wagner, poi facendosi montare sul fondo del palcoscenico una specie di cabina di vimini in cui tignosamente andava a cambiarsi), l'aura dell'eccentrico da accontentare per ogni buon conto (per raggiungere un ricevimento dopo il concerto napoletano aveva preteso una macchina presidenziale: in ritardo per l'appuntamento, causa la cordialissima intervista realizzata grazie anche alla cortesia di Duilio Courir, è andato con decisione verso il Mercedes enorme e vuoto fatto venire dal San Carlo, sedendosi però... accanto all'autista). Celibidache a quattrocchi è di tutt'altra pasta. Un po' appesantito, dagli anni ma sempre fascinoso e imperiosissimo nello sguardo che trapassa dal mistico al sornione, il direttore rumeno sa benissimo di essere nella storia, ma sembra intenzionato a dimostrarlo con atteggiamenti meno appariscenti di una volta. Le risposte sono pacate, le provocazioni assorbite con eleganza, i giudizi taglienti ma dati come scontati (quelli sui colleghi, naturalmente), ma resta la dimensione imprendibile dello studioso pertinace, del teorico implacabile, del musicista puro che accanitamente cerca la verità e disprezza chi non condivide la strada scelta da lui per arrivarci. Come disprezza la mediocrità, la routine, l'abitudine, la semplice professionalità in un mestiere del genere. Tutto ciò risulta saldato nella conversazione affabile ma piena di punte, in cui vengono disinvoltamente mescolati luoghi comuni e originali verità, elucubrazioni filosofico-musicali e giudizi al limite della querela, appassionate difese professionali e nazionali - "noi italiani..." ha continuato a dire, soprattutto quando l'analisi della nostra situazione musicale era più impietosa - e concezioni assolutistiche della direzione d'orchestra. Qui abbiamo cercato di radunare tutto, senza tradire l'ordine sparso degli argomenti affrontati, ma ci rimane il cruccio di non avere a disposizione per questa stesura un carattere tipografico particolare, corsivo beffardo da usare per molte frasi ironiche o gustosamente provocatorie immesse nel discorso. Ma il rischio era di dover far comporre tutte le risposte col medesimo carattere, variando appena il corpo, a seconda se il sasso gettato nello stagno era innocente o un ciottolo di quelli sagomati che non sbagliano bersaglio quando sono lanciati dalla mano giusta. "Sono sempre stato agitato, con la voglia di sapere e di mettere grande intensità in tutto", ribatte a chi gli chiede se è cambiato qualcosa in questi ultimi anni di lavoro. Allora, riprendiamo da capo con l'importante apprendistato degli anni berlinesi.
Qual è stato l'incontro determinante in quel periodo?

"Senza dubbio quello con Victor de Sabata. Quando venne a dirigere Tristan und Isolde nel 1938, ero molto giovane. Ma ricordo l'impressione enorme delle prime prove e le ore lunghissime passate nei gabinetti, nascosto con la partitura, per poter non essere cacciato dalle prove. La concezione sua del suono può essere accostata soltanto a quella di Arturo Benedetti Michelangeli: ma aveva altre qualità straordinarie, la ricchezza paralizzante del far musica, l'intelligenza di tecnico e pensatore sopraffino. E poi, a differenza di Furtwängler, era anche un direttore completo".
Dopo Berlino ha avuto ancora incontri con lui?
"Molti. Uno alla Scala lo ricordo con affetto speciale. Per il piano di prove di un concerto avevamo discusso lungamente: le ore richieste gli sembravano eccessive in rapporto al pezzo ch'era in repertorio all'orchestra. Quando però mi seguì lavorare, nella prima prova di concertazione, ebbe la squisitezza di dirmi che soltanto allora aveva capito quanto il mio progetto di prove era adeguato alle intenzioni".
Prima ha detto "a differenza di Furtwängler...". Cosa esattamente voleva dire?
"Che il mitizzato Furtwängler, musicista enorme, era un pessimo direttore. Non aveva gesto, espressività fisica e poche idee precise al momento di concertare, tanto che talvolta realizzava letture incredibilmente insensate. Ricordo un'esecuzione della Nona Sinfonia di Schubert, credo nel 1948; alla fine salutandolo non resistetti alla tentazione di sbottare: "caro maestro, a proposito dell'ultimo tempo, le devo confessare di non aver capito nulla". "Nemmeno io", rispose subito; eppure dall'aspetto puramente formale non c'erano ragioni apparenti per eccepire.
E' che Furtwängler aveva capito un principio fondamentale, l'importanza del tempo in relazione al suono. Questa coscienza gli consentiva di portare il fatto musicale in una dimensione d'obiettività".
Quindi malgrado il giudizio sul direttore, Furtwängler ha avuto una certa influenza sul suo modo di pensare la musica?
"Gli devo moltissime cose. Proprio nell'ambito del pensiero musicale, delle concezioni perfezionate di Fenomenologia musicale. Furtwängler aveva perfettamente capito - forse intuito spontaneamente, per un magico istinto musicale - che il problema principale dell'esecuzione moderna, cui ho dedicato tanto studio, era di trovare il modo di equilibrare la "pressione verticale" (data dalla densità strumentale e armonica della partitura) e la fluidità "orizzontale" in modo da rendere intrinsecamente giusto il tempo".
Il celebre "tempo di Celibidache"...
"Non è una mia invenzione, tutti possono possederlo. E' un'entità che non dipende dal metronomo ma dalla qualità e dal tipo degli elementi musicali in gioco, da condensare. E' un catalizzatore di fenomeni".
Dunque un tempo che non esiste come definizione di misura?
"Non è nemmeno una realtà fisica. E' condizione mentale che permette di ordinare gli elementi del discorso musicale; quindi non si può neppure decidere a priori, scientificamente. Cosa significa croma-uguale-sessanta oppure Allegro? Nei minuetti delle Sinfonie di Haydn ci sono sei diverse indicazioni di Allegro e magari l'esecuzione per tutti sarà identica perché uguale la struttura musicale. La modalità di unificare le espressioni determina il tempo: più sono gli elementi da ridurre, come nei tempi conclusivi delle sinfonie di Bruckner, più naturalmente disteso sarà il tempo. Ma non esistono regole, in musica non c'è nulla di statico. Nemmeno nell'uomo. S'è mai sentito di pulsazioni cardiache uguali?"
Ma il tempo avrà relazioni con lo spazio?
"Cos'è lo spazio? La musica non è fatta di impressioni musicali che si succedono ma la sua espansione consegue al valore armonico inteso in senso architettonico spaziale, palpitante all'analisi fenomenologica. Questa molteplicità di tensioni, affidate all'azione riduttrice del tempo sono lo spazio. Una dimensione indefinibile ma operante, che il più grande genio della storia della musica, Frescobaldi (Bach è stato un continuatore) aveva già chiaramente applicato. Ho avuto la fortuna di scoprirlo".
Quanto a molteplicità di tensione anche Bruckner non scherza.
"Bruckner è stato uno sperimentatore totale. Ha scoperto ad esempio la triangolazione sinfonica che sostituisce la struttura classica basata sull'opposizione dei temi".
Torniamo ai parametri musicali. Cos'è il suono?
"Se il suono è qualcosa, il direttore è un cretino. Il suono è uno strumento, un veicolo che ci serve per attirare la musica: è anche uno specchio del proprio mondo emotivo, ma non è questo che deve interessare. Non è di natura intellettuale come non lo è la sostanza del suono cercata. La musica non è suono anche se il suono può diventare musica, a patto che venga considerato come un'esca per la musica stessa".
A questo punto mi pare ovvio affrontare il discorso sull'interpretazione.
"Cosa significa interprete? Non credo che l'interpretazione esista, esiste semmai la chiaroveggenza, l'unico modo che consenta di rilevare l'opposizione sentimentale data dalle note, variabile come momento, situazione e via dicendo. Spesso il musicista di oggi è diventato imitatore, cerca la ricostruzione della semplice morfologia della musica: la topografia di una partitura. Quella nessuno può cambiarla, non si modifica, esce da sola. E' un errore occuparsene.
L'impegno del musicista dev'essere di segno contrario: liberarsi da quella struttura primordiale ch'è la morfologia, trascendere il mondo fisico del pezzo; ricostruire la dimensione astrale partendo dal materiale primitivo. Non si può chiamare semplicemente interpretazione tutto ciò, è un processo di sublimazione dal mondo, di scoperta della quarta ottava. Pensiamo a uno Stradivari: il suo fascino sta tutto negli armonici, nell'inconfondibile trascendenza di quel timbro che accarezza la dimensione astrale. La nostra funzione dev'essere simile".
La funzione pratica del direttore d'orchestra come si può precisare?
"Deve saper scatenare le potenzialità espressive di ogni strumento, esigere la perfezione di lettura. Non posso ammettere i pressapochismi o la scarsa dedizione".
La sua intransigenza è mitica...
"Certo, sono intransigente. Me ne vanto. Lo sono prima di tutto con me stesso poi con gli altri, perché credo in quel che faccio. Ne sono certissimo. Solo una discussione acerrima e motivata potrebbe farmi cambiare idea, ma di solito non lascia spazio alle repliche. Alla polemica comunque non mi sottraggo, mi piace disputare. Lei ad esempio non mi contrasta abbastanza: questa intervista mi diverte poco."
Da questa intransigenza deriva la carriera e una certa scelta di repertorio?
"Poca carriera nel senso commerciale della parola. Ho sempre avuto orrore dei dischi, e questo era un handicap notevole. Diciamo che il mio modo di vedere il lavoro con la musica ha condizionato non le mie scelte ma la frequenza con cui queste scelte potevano essere portate in pubblico con legittimità".
Il diniego all'opera: una questione di scelta anche questa?
"L'esecuzione operistica comporta troppe imprecisioni e compromessi. Già è difficile e mai perfetto l'equilibrio di un concerto. Così ho dovuto rinunciarvi. Ma conosco e amo moltissimo il repertorio lirico, così da quando sono a Monaco mi sono battuto per realizzare esecuzioni in forma d'oratorio. L'anno scorso ho diretto Così fan tutte, nella primavera dell'85, per l'inaugurazione del nuovo auditorium della Filarmonica, ho programmato nella stessa forma un'esecuzione del Wozzeck di Berg".
Lei è sempre rimasto in disparte rispetto ai colleghi. Forse non ne condivide l'azione?
"Troppi direttori d'oggi si accontentano della topografia dei pezzi invece di cercare la musica. L'imitazione sciocca di Toscanini ha portato guasti irreparabili. Per me l'esperienza toscaniniana ha avuto poca importanza, ma ne riconosco l'obiettivo significato storico. Vedo però una schiera di cattivi discepoli".
Ma non ci saranno soltanto quelli. Herbert von Karajan, ad esempio...
"Buon direttore ma scarso musicista. Possiede una falsa idea della musica. Come la maggior parte dei bravi direttori, di quelli che vanno per la maggiore, è attento soltanto al primo stadio, alla struttura primitiva e superficiale della musica. Non s'è mai posto il problema che mi ha tormentato per anni della gerarchia dei parametri musicali, di quel che va lasciato allo stato naturale e di tutto il resto che invece va vivificato visionariamente, ricreato".
Un concetto in effetti espresso anche da Karajan, il quale a proposito della funzione del musicista "rievocatore" supponeva una sorta di prosecuzione nel tempo, di reincarnazione degli uomini d'arte. E' d'accordo?
"Io so che c'è continuità, non lo suppongo. Siamo già vissuti. Il corpo di oggi ha lo stesso valore di un vestito che si può cambiare: le esperienze non possono morire, non muoiono. Si tramandano direttamente".
Il suo misticismo non è dunque solo artistico ma filosofico?
"Credo fortemente alle presenze trascendentali, necessarie alla nostra esperienza musicale. Cerco nella meditazione filosofica e religiosa certezze alla mia concezione assolutistica della musica e dell'arte come missione, come rigore indefettibile, come disciplina dello spirito da trasferire negli strumenti espressivi scelti. Sono allievo e devoto anche di un guru indiano, Saj Baba, dal quale mi reco almeno due volte all'anno: da lui posso apprendere quando abbiamo vissuto, da dove proveniamo e come possiamo trovare la forza morale che consente di analizzare in modo profondo la propria vita e il senso dell'arte da trasmettere all'uomo".
C'è molta utopia in tutto ciò.
"E' il nostro mondo, fatto così. Utopia è forse la non-coscienza della dispersione fatale destinata a molti sforzi. Ma il nostro compito non deve cambiare, se soltanto una parte del mondo, del pubblico, è in grado di percepire quest'opera di apostolato etico".
In questo impegno che parte ha l'insegnamento?
"Insegnare è un mio dovere, non potrei fare diversamente. Ma insegnare non significa soltanto comunicare ai giovani la capacità di affinare le qualità analitiche applicate alla musica: vuol dire far capire la necessità di stare insieme, l'utilità della discussione e della teoria applicata alla direzione d'orchestra, instillare il rispetto e la devozione per il far musica..."
I suoi corsi infatti si descrivono come singolarmente organizzati.
"Sono aperti a qualsiasi giovane che voglia imparare. Non mi interessano i soldi, né le gratificazioni di scuola tant'è che molti musicisti che hanno lavorato per anni con me posso dirlo ora, tranquillamente sono rimasti pessimi direttori e lavorano nel mondo musicale solo perché raccomandati o per altre ragioni clientelari. I corsi non hanno durate prescritte né programmi prefabbricati. Stiamo come in una grande famiglia, si passano insieme i momenti liberi, si approfondisce la teoria, la fenomenologia musicale; la pratica viene dopo, ha la sua importanza enorme. Ma se l'individuazione degli elementi musicali del discorso è fatta con coscienza, le fasi successive vengono compaginate naturalmente. Si fanno allora prove con gruppi da camera, con le piccole forme, con partiture che esprimano chiaramente e con nitore i nessi biologici esistenti tra accordi e tensione musicale. Importante fin dall'inizio è far emergere la necessità di studiare non superficialmente l'armonia e il contrappunto. Perché la gerarchia delle strutture musicali sia rispettata pienamente al momento dell'esecuzione".
Non ha mai pensato di fissare i suoi insegnamenti in qualche manuale?
"Me l'hanno chiesto molte volte. Ma non è possibile scrivere di queste cose. Sono concetti che autonomamente non esistono, come il tempo non hanno caratteristiche fisiche: ogni cosa va verificata sulla pratica musicale".
Da qualche anno ha abbandonato definitivamente l'Italia. Come direttore, come docente. Come mai?
"Le orchestre italiane sono diventate cattive, la situazione musicale in genere peggiora anno dopo anno. Ci sono meno talenti di casa e i teatri prendono di tutto: vedo direttori che fanno carriera e non sanno il mestiere. Gli italiani sono i più musicali, ma i più ignoranti. I conservatori poi non fanno che peggiorare il quadro: come potranno insegnare musica con coscienza gli stessi professori d'orchestra che sono imprecisi, poco professionali e menefreghisti?
Così si smarriscono le pure qualità italiane. Una volta si veniva da noi per imparare il canto, oggi si va in America dove ci sono le scuole migliori e la naturale tendenza alla virtuosità e all'emulazione ha fatto concentrare i migliori insegnanti. E il vibrato all'italiana, elettrico e inconfondibile? Per ascoltare qualcosa di simile dobbiamo aspettare gli israeliani delle nuove generazioni. Noi continuiamo a fidarci della storia che sta alle nostre spalle, basandoci sull'incredibile capacità di "replica" che ci viene naturale. E' un bel peccato".
Però lei persevera nel dire, quasi inconsapevolmente, "noi italiani". Vuol dire che qualcosa di buono ce la riconosce.
"Amo in fondo tutto degli italiani. In musica la duttilità assoluta. Ma il mio ricordo è legato anche alla gente, al modo di comunicare con gli altri. Nelle cose semplici: la cordialità e familiarità del personale di teatro non ha confronti. In altre nazioni, in Germania dove lavoro da anni, ti rispettano come figura, senza preoccuparsi dell'uomo. Io invece credo alla necessità di trovare contatti anche su questa dimensione. In Italia non mi sono mai mancati. Per questa ragione non vorrei tornare a lavorare in Italia come musicista. Ma come didatta, a tenere dei corsi, subito".
Angelo Foletto
(Musica Viva, Anno VIII n.1, gennaio 1984)

lunedì, ottobre 17, 2005

Sergiu Celibidache l'incorruttibile

Conobbi Sergiu Celibidache dodici anni or sono, quand'ero direttore artistico del Comunale di Bologna, e per due anni ebbi occasione di vederlo frequentemente; da dieci anni non l'ho più incontrato. Ci salutammo molto correttamente e persino cordialmente, l'ultima volta. Ma, poco prima, eravamo incappati in una di quelle liti che lasciano una frattura incolmabile: specie con Celibidache, uomo che non dimentica.
Gli ho dedicato il mio ultimo libro, a cui tengo moltissimo. Gliel'ho dedicato senza dirglielo, perché non ho più avuto occasione di vederlo, e senza pensare se la dedica gli avrebbe fatto piacere o no: gliel'ho dedicato perché, sebbene sia persona con cui è talvolta impossibile andar d'accordo, Celibidache è un educatore, a cui io devo molto.
Un educatore che educa onorando fino all'autodistruzione la verità o quella che lui crede sia la verità. Celibidache non ha mai badato alla carriera e non ha mai cercato di tenersi aperta, nella sconfitta, una via di scampo. Si raccontano di lui molte storie, forse vere e forse inventate, ma che rispondono esattamente al personaggio quale l'ho conosciuto. Una mi sembra esemplare. Si dice che il suo comportamento fu tanto lineare quanto suicida quando, appena diplomato, ebbe l'incarico di supplire Furtwängler, tenuto ìn quarantena perché compromesso col nazismo, alla Filarmonica di Berlino. Tornato Furtwängler a Berlino dopo aver ripreso l'attività ed aver diretto un po' dappertutto, l'orchestra venne chiamata a votare pro forma il nome del direttore, a vita, della Filarmonica. Celibidache non si mise da parte e non si tenne di riserva per la successione, ma si presentò invece in concorrenza con Furtwängler: ebbe un sol voto, quello del Konzertmeister, del violino di spalla.
Vera o no che sia la storia - si tratterebbe di verificarla - sta di fatto che Celibidache, che giudicava e che continuò a giudicare negativamente il Furtwäengler musicista, si schierò contro di lui per sacro rispetto della musica. "Non bisogna mettere qui in evidenza il timpano" - gli sentii dire una volta, mentre spiegava l'ultimo tempo della Patetica di Ciaikovsky "Furtwängler lo fa, e ciò dimostra che questo è un errore". E se i Filarmonici di Berlino, dopo aver suonato per sette anni con Celibidache, consentivano al ritorno di Furtwäengler, peggio per loro; Celibidache doveva metterli di fronte alle loro responsabilità verso la musica, sacrificando se stesso. Perdette, ma ebbe il voto del Konzertmeister. E questo lasciava aperta la speranza.
Nella lite furiosa che lo portò ad abbandonare Bologna - dove era direttore stabile - e a non dirigere più in Italia, e nella quale io venni coinvolto non in prima persona, Celibidache non aveva la minima ragionevole probabilità di spuntarla, e lo sapeva. Ma non se ne andò sbattendo sdegnosamente la porta. Mi è capitato più volte di trovare direttori d'orchestra, registi, cantanti che si servono della forza del loro prestigio e che fanno gesti clamorosi per ottenere il massimo: la vittoria sul momento senza compromettere il futuro. Celibidache propose invece, sul momento, una soluzione compromissoria che era persino grottesca e che lo mise in una posizione di estrema debolezza. Come sempre, sacrificava se stesso, ponendo al teatro il problema morale di perdere per il futuro la collaborazione di un musicista come lui. Fra i tanti che ho conosciuto ne ho trovato un altro solo, di questo stampo. Io non lo capii bene, allora, tutto invaso com'ero dalla rabbia di trovarmi alle prese con una tale insana ostinatezza. E mi sentii liberato da un peso quando Celibidache se ne andò, e gli fui grato e stupito perché se ne andò senza fare scenate.
Le avesse fatte, benedett'uomo! Avrei continuato a detestarlo. Invece, un poco alla volta cominciai a pensare che, nella sua follia, Celibidache aveva giocato una posta molto alta, e mi trovai nella spiacevole situazione di don Abbondio, che di fronte al Cardinal Federigo pensa solo "Che sant'uomo, ma che tormento". Oggi credo che sia proprio degli educatori essere dei tormenti, a patto di essere pure sant'uomini. E Celibidache, per quanto mi riguarda, lo è stato.

Piero Rattalino (Musica Viva, Anno VIII n.1, gennaio 1984)

venerdì, ottobre 14, 2005

La Sinfonia dei Mille a Venezia

Spettacolo preventivo e gratuito la vista di campo dei SS. Giovanni e Paolo, all'imbrunire. Già in abito scuro da concerto una parte degli esecutori, soprattutto coristi, in maniche di camicia addentando panini messi a piramidi sui tavolini di un bar o neghittosamente passeggiando inseguendo l'ultimo sole in attesa di sistemarsi per l'esecuzione. Un'aria estiva, da festa e appuntamento particolare che non poteva lasciare indifferenti.
Il festeggiato era Mahler, con la sua Sinfonia più monumentale e popolare, quell'Ottava, «dei Mille» che mette in pista un numero spaventevole di interpreti, e non li pretende per puro gusto estremistico.
Un po' di gesto di sfida c'è comunque. E la Fenice ha raccolto immediatamente il guanto assemblando un esercito di esecutori (circa seicento) in una delle basiliche cittadine più emozionanti: due orchestre e sei cori affidati a Eliahu Inbal, direttore mahleriano di casa. Il miracolo s'è ripetuto, davanti al pubblico entusiasta che ha preso d'assalto le due serate.
Personalmente dell'Ottava amiamo il senso riassuntivo. La verità mahleriana è più rilevabile allo stato puro (quello delle Sinfonie Settima, Nona e Decima), ma in questa dispersiva Ottava sentiamo lo sforzo immane del musicista, del poeta, dell'utopico ideologo e le conquiste del musicista moderno: tutto assieme, crogiolato in una costruzione che toglie il fiato e conquista, anche al primo ascolto, perché generosa e problematica, decorativa e inquieta, teatrale e filosofica.
L'affrescatura corale e vocale, che rappresenta quanto di tradizionale esiste nella concezione religiosa di Mahler, va al di là di ogni immaginazione anche squisitamente fonica. Ma la decorazione così esposta non è che un aspetto del medesimo problema: l'altra faccia della religiosità mahleriana è prettamente ideologica e intima. Da una parte una componente per così dire affermativa - esattamente sintonizzata sulla monumentalità degli episodi corali - che però esaurisce se stessa nel gesto dei proporsi talmente levigata e perfetta architettura; quindi mette in seria discussione la presunta ortodossia religiosa di Mahler. Sul versante opposto la componente cinicamente critica che segue il cammino della sperimentazione linguistica (esemplare di questa tensione ideologica lo struggente comporsi timbrico dell'episodio strumentale che avvia la seconda parte) e quello della metafora letteraria - la scelta della scena finale del Faust di Goethe non suona provocatoria, laica e poeticissima intrusione che turba le certezze escatologiche, date per scontate prima? - ponendoci violentemente di fronte a una problematicità tuttaltro che circoscritta a pura esperienza individuale, carica di significati e dubbi.
Su questa prospettiva s'è mosso spregiudicatamente Inbal, firmando un'esecuzione esemplare e un'interpretazione di rara bellezza e intensità. Il direttore non ha temprato il bagliore degli episodi corali (va detto che il livello di amalgama dei cori di Amburgo, Monaco, Colonia, Stoccarda e Venezia, appariva superiore a ogni aspettativa) traendone massima espansione, giostrando la drammaticità delle situazioni musicali con spavalda sicurezza. Ma non ha smarrito il senso inquieto, e disperato malgrado tutte le apparenze, che innerva nel profondo la Sinfonia: ricercando nitori strumentali preziosi (con l'orchestra della Fenice era quella di Radio Francoforte) ed esaltando le infinite melanconie, le sfumature crepuscolari che pure intridono più pagine di partitura e gettano suggestioni poi sviluppate nella Nona. Il tutto tenuto in piena chiarezza da una calcolatissima trama di rapporti agogici e di smerigliature dinamiche; la nota professionalità di Inbal ha ottenuto risultati esecutivi notevoli, l'originale e asciutto approccio mahleriano ci sembra abbia trovato proprio in questa partitura discontinua e affascinante la massima espressione di maturità artistica. E, per la Fenice, una scommessa in più vinta.

di Angelo Foletto (Musica Viva, Anno VII n.9, settembre 1983)

mercoledì, ottobre 12, 2005

Osservazioni su Rameau e l'Hippolyte et Aricie

I francesi nel Settecento e nell'Ottocento non usano il termine di opera, ma quello di tragédie-lyrique oppure di tragédie-ballet perché lo schema è quello della tragedia classica.
E' una forma permanente in cinque atti con prologo. Quest'ultimo è un pezzo separato dall'opera e la sua origine è in funzione della gloria del Re (specie Luigi XIV). Al tempo di Rameau il prologo, a cominciare con Hippolyte et Aricie, è tutt'altra cosa. E' un pezzo legato all'opera (in questo caso, tragédie-lyrique) e di questa offre le chiavi. La regola contempla che il primo atto non sia di azione, ma per così dire dimostrativo; il secondo atto è di ambientazione "infernale": contrariamente alla tragedia classica che segue le leggi della credibilità, la tragédie-lyrique segue opposta via ché la sua conclusione deve essere positiva. Questa è la prima ragione per cui nel prologo vengono presentate divinità che offrono al pubblico elementi interpretativi: ricordo della prima opera veneziana (Monteverdi, Cavalli). Gli atti successivi sono molto drammatici, fino al quarto, mentre il quinto è quello che scioglie felicemente la vicenda.
Sotto questo aspetto, strutturale, l'Hippolyte et Aricie è un vero e proprio modello, che esprime un secolo di tradizione (Lully, Campra e, appunto, Rameau).
Nel prologo sono le divinità, specialmente Diana e Cupido, che ingaggiano battaglia per influenzare le genti; poi arriva Giove che, dichiarando d'essere più forte di lui il Destino, offre così una prima chiave di lettura, che viene ribadita pure in seguito.
Da un punto di vista strettamente musicale, Rameau ha utilizzato questo ordine gerarchico, con relativa differenziazione nella vita dei personaggi: tempo, differente tempo di declamazione, strumentazione, forma musicale. Ha, per esempio, espresso la fragilità di Aricie accompagnando le brevi arie di questo personaggio con l'esile sonorità di flauti e violini e con poco o niente basso continuo; anche Hippolyte è un personaggio sotto il segno della fragilità umana, ed ha una sola "aria" (un "lamento", nel quarto atto). I brani particolarmente interessanti sul piano del ritmo, fantastico e concitato, appartengono ai personaggi di Fedra e di Teseo.
L'atto "infernale" (il secondo, come si diceva) non ha una vera e propria ragione drammatica, è solo un divertissement simmetrico al prologo: secondo questa forma risulta essere anche l'Alceste di Lully.
I contemporanei, in un primo tempo, credettero che Rameau intendesse comporre una tragédie-lyrique completamente diversa da quella di Lully; cosa non corrispondente a realtà, perché, dopo alcune rappresentazioni, la critica riconobbe il retaggio di Lully. A parte l'atto cosiddetto "infernale", momenti tipici che esprimono fenomeni naturali: terremoti, naufragi, tempeste. Il che per alcune ragioni, la più importante ed estetica delle quali è quella per cui il pubblico deve percepire la distanza che separa la tragedia classica dalla tragédie-lyrique.
Boileau scrive l'Arte poetica sottolineando la necessità della legge delle tre unità ("Que'en un lieu, que'en un jour un seul fait accompli / Tienne jusqu'à la fin le théátre rempli") seguendo il canone della verosimiglianza. Ciò che è il contrario della tragédie-lyrique, nella quale, per l'appunto, l'inverosimiglianza segnala al pubblico la differenza formale per una diversità di obiettivi: nella tragédie-lyrique domina il piacere: gli occhi, le orecchie devono essere sedotti dalle scene, dai costumi, dalle danze, dai cori, dalle arie e piccole arie, dai recitativi: tutto organizzato in maniera logica. Ogni atto, infatti, dovrebbe iniziare con un recitativo o arioso, seguito dal duetto o recitativo a due, tre personaggi; poi, quando la situazione si è definita, divertimento, con coro e danze.
Un errore del pubblico d'oggi è quello di credere che l'opera francese sia unicamente un'opera "regale". In verità, Rameau ha scritto solo due lavori per la Corte (La Princesse de Navarre, comédie-ballet, e Le Temple de la Gloire, opéra-ballet), su libretto di Voltaire, rappresentati entrambi a Versailles rispettivamente nel febbraio e nel novembre del 1745. Nel periodo di Luigi XIV e di Luigi XV, le opere erano tutti i giorni rappresentate per cinque-sei mesi, ed erano scritte non per il Re ma per la popolazione tutta di Parigi. Altro particolare significativo: come nella tragedia classica, la tragédie-lyrique verte sul mondo mitologico (greco, latino), e poi sull'epica (Ariosto) e su codici barocchi; vale a dire, la mitologia assume una veste variegata: le denominazioni sono latine, non greche, e circola in essa una cultura d'impronta cattolica, nobile e popolare. A questo genere d'opera risulta diversa la percezione del popolo, della borghesia e della nobiltà. Per esempio, la figura di Aricie ha diversi modelli nell'antichità, fra i quali Antigone per la sua sottomissione alla religione; il principale supporto della tragédie-lyrique di Hippolyte et Aricie è il Destino, contrassegnato dalla maledizione di Afrodite contro la famiglia di Minosse. Ora il pubblico, nell'epoca di Rameau, conosceva perfettamente tutte le vicende legate ai personaggi mitologici e il distacco che, in un certo qual modo, può segnare l'opera di quel tempo nei riguardi del pubblico contemporaneo, riguarda l'aspetto mitologico, estraneo oggigiorno alla maggior parte.
L'accoglienza iniziale dell'Hippolyte et Aricie non fu positiva (il pubblico, ad esempio, non riusciva a seguire le linee musicali del coro, che, in Rameau, appare profondamente diversificato rispetto alla norma e ha un andamento musicale estremamente mobile, elevantesi spesso a protagonista, coinvolto drammaticamente nello sviluppo dell'azione), poi, però, ne fu riconosciuta la particolare bellezza e a quell'opera - la sua prima, composta a cinquant'anni - Rameau fece seguire trentadue altre, fra tragedies-lyriques, opéras-ballets, comédies-ballets, pastorales-héroiques - delle quali tre perdute -, che rimarcano la sua singolare e geniale personalità di musicista teatrale.

di Jean-Claude Malgoire

lunedì, ottobre 10, 2005

Dalla tournée del Quartetto Italiano

Ha toccato molte città italiane: nella tappa milanese abbiamo incontrato per un dialogo Paolo Borciani. Lo incontro nella sua casa milanese in una mattinata che volge ormai alla conclusione. La nostra conversazione dopo i primi preamboli si avvia verso i tracciati musicali che vedono questo musicista vivere in perfetta simbiosi con le mutazioni della letteratura musicale affiancato nella sua vita d'artista dai suoi non certo meno importanti colleghi i quali formano il Quartetto Italiano noto negli ambienti di tutto il mondo per la raffinatezza dei loro suono e per l'immacolatezza degli incastri.
Il collegamento che c'è stato con Pollini per il concerto alla Scala, come si è verificato e quali problemi ci sono stati nell'esecuzione?
Il collegamento con Pollini risale a vari anni fa: eravamo già con la Philips, che propose di fare un brano di Brahms, non ricordo se Brahms o Schumann, comunque un quintetto con il pianoforte. Noi siamo sempre piuttosto restii a collaborazioni; le nostre collaborazioni più o meno sono state con un clarinettista di nome Anton Pierre De Bavier, che ha fatto con noi un disco di Mozart. Un'altra collaborazione molto interessante è stata con von Wengler a Salisburgo, abbiamo fatto due tempi di Brahms e con Pollini, proprio la Philips ci chiese di fare un quintetto proponendo Bishop ed io dissi che mi pareva strano che con un pianista come Pollini in Italia preferissero fare suonare lui, al che il commissario artistico non ebbe nulla da obiettare, ma cercò, nell'interesse della Philips di convincerci diversamente e mi mandò i dischi di Bishop perché li giudicassi. In effetti ci siamo conosciuti durante il nostro concerto, era alla Piccola Scala, di questa proposta si è dimostrato contento, per un disco ben volentieri ed ha proposto anche di suonare insieme e così abbiamo cominciato a lavorare pensando a questo disco e abbiano fatto la prima due anni fa a Torino, poi abbiamo suonato a Roma, a Parigi, ad Amsterdam e a Milano avevamo già suonato al Conservatorio, questo per quanto riguarda la storia del nostro incontro.
Che cosa ne pensate della musica contemporanea, che spazio date alla musica contemporanea, sempre a livello di Quartetto?
Quello che pensiamo direi è dimostrabile soprattutto da quello che abbiamo fatto o che abbiamo cercato di fare, cioè abbiamo tentato, da anni, di stimolare i compositori a scrivere qualcosa, inizialmente un'opera per Quartetto e orchestra e mi sono dato da fare scrivendo e contattando musicisti di nome perché si mettessero nell'ordine di idee di fare un'opera del genere, ne parlai con molte persone: uno dei primi fu Milhaud che incontrai a San Francisco, un altro Frank Martin, un altro Ghedini, il quale scrisse un Quartetto ma non un Quartetto per orchestra, che non è andato in porto per le troppe difficoltà e si è così optato per un Quartetto semplice. Poi, Nono e Bussotti scrisse infatti "I semi di Gramsci", che abbiamo eseguito sia nella versione per orchestra che senza orchestra, perché si può considerare «double face».
Cosa ne pensa dell'Urtext? Voi seguite questo schema nelle vostre esecuzioni?
Certo è assolutamente necessario avvicinarsi il più possibile a quello che ha scritto il compositore, ma alle volte devo dire che nell'Urtext ci sono dei problemi, cioè un Urtext porta una cosa, un Urtext un'altra, alcune volte non si sa quale sia l'originale e quale la prima edizione, questo è successo per molte opere di Mozart. Nonostante questi ostacoli è bene cercare una buona edizione che non sia piena di arricchimenti esagerati, con errori scolastici. Per esempio molte edizioni di Mozart sono oscene, posso fare anche un nome: Peters, fa delle cose innominabili, cambia proprio il fraseggio ed io ho avuto modo di fare un confronto dall'originale preso da una biblioteca ed era decisamente diverso. Quindi è un dovere prendere in considerazione questo tipo di partiture, un esecutore deve sapere cosa ha scritto un autore. Purtroppo alcune volte non si riesce a trovare l'Urtext: per esempio adesso dovremo incidere dei Quartetti di Haydn e l'Haydnwerke è arrivata fino ad un certo punto mentre noi dovremo fare gli ultimi numeri (op.77) quindi ci dovremo servire di altre edizioni, come l'Armonia. Ecco adesso c'è un'operazione purificatrice e sono senz'altro d'accordo nel seguirla.
Bisogna andare un po' cauti!
Sì, a volte si esagera, la filologia può portare ad una certa freddezza e bisogna stare attenti perché anche il segno grafico a volte è stato modificato, con una legatura o altro, bisogna saper interpretare.
Un po' come nel Rinascimento: il segno grafico era una traccia e poi bisognava interpretare?
Esatto, poi dipende dagli autori, Mozart scrive quello che vuole e bisogna fare quello che vuole, altri invece no, però con i grandi compositori è bene attenersi a quello che hanno scritto loro.
Come è nato il suo libro, edito da Ricordi, "il Quartetto", con quali esigenze?
Dall'esigenza di passare il tempo sugli autobus americani, questa non è una battuta. E' nato occasionalmente su un autobus nella Louisiana, ho cominciato per passare il tempo, scrivendo dei brani e adesso sto facendo un lavoro sull'insegnamento, sono sempre cose che mi sono state richieste e mi è nato un desiderio di scrivere qualcosa per non leggere sempre il giornale. In treno mi sono messo a lavorare seriamente, anche se inizialmente era a livello di passatempo. In Italia si sentiva l'esigenza di questo saggio, c'è un altro libro dei genere, di cui non ricordo il nome, ma è raro. Si, però quello che voleva essere un libro divulgativo è diventato poi sin troppo tecnico, specialmente nella seconda parte. Un altro mio libro è "Per la musica contemporanea" ed è un lavoro a cui tengo in modo particolare, con brani miei ed alcuni tratti dalla produzione di Maderna, Nono ed altri.
Ma la crisi del violino e degli archi in generale, c'è in Italia?
Dunque, la crisi degli archi in Italia, parliamo dei violino, è dovuta a molti fattori: inizialmente è stato tamponato quando c'era pochissima gente interessata, poi la situazione della scuola, l'assenteismo. Un fattore importante è lo sproporzionato numero di conservatori, ci sono troppe classi e soprattutto troppi allievi per classe; cioè si è allargata troppo la base, seguendo un concetto che potrebbe teoricamente sembrare vero ed è vero sotto certi aspetti, allargando così anche il terreno di selezione, però ovviamente una classe numerosa non può essere ben curata dall'insegnante ed a questo proposito è da sottolineare il fatto che nei Conservatori italiani non è ammessa la figura dell'assistente. Questi a mio avviso, sono i motivi principali, adesso si spera nel Convegno milanese al quale sono intervenute numerose personalità del mondo musicale e si spera naturalmente in qualcosa di buono, anche se personalmente non sono molto ottimista; è da notare però il fatto che la richiesta di musica è straordinaria, mentre ci sono delle strutture scolastiche e dei programmi ministeriali veramente inaccettabili... A questo proposito ho scritto personalmente con Michelangelo Abbado al Ministero proponendo una scelta di pezzi moderni da inserire nei programmi, ma sino ad oggi non ho ricevuto alcuna risposta.
Tornando alla figura del Quartetto: dopo la Scala, quali sono i vostri programmi per il prossimo futuro?
Andremo in Olanda e successivamente in aprile incideremo due dischi di Haydn. Un incontro importante, nel quadro dei festivals, sarà un corso di Quartetto, esperienza nuova per noi, perché non abbiamo mai fatto dei corsi di questo tipo se non singolarmente o in occasione delle "Vacanze musicali" dell'anno scorso. Con questa manifestazione si spera di sensibilizzare maggiormente il pubblico al problema della continuità del Quartetto, perché è molto difficile e si richiede sacrificio ed anche doti particolari, soprattutto tecniche. Per quanto ci riguarda faremo il possibile!
Il nostro colloquio termina dandoci appuntamento in una qualsiasi serata milanese ed in un qualsiasi teatro dove la scelta comune sia quella di ascoltare della buona musica.

di Adriano Bassi ("Banchetto Musicale", Anno II n.4, marzo 1980)

domenica, ottobre 09, 2005

Schumann: regole di vita musicale

La formazione dell'orecchio è la cosa più importante. Esercitati sin dall'inizio a riconoscere note e tonalità. La campana, i vetri delle finestre, il cuculo - tenta di cogliere quali suoni producono.

Suona con diligenza le scale e gli studi di meccanismo. Ma ci sono molti che sono convinti di poter giungere ai più alti risultati solo perché, quotidianamente, per anni, passano ore a esercitarsi negli studi per le dita. Questo è un po' come se ci sforzassimo ogni giorno di recitare l'alfabeto il più veloce possibile, e tentando ogni volta di aumentare la velocità. Impiega pure il tuo tempo in modo migliore.

Sono state inventate le cosiddette "tastiere mute"; usale pure per un po', quanto basta per accorgerti che non servono a nulla. Dai muti non si può imparare a parlare.

Suona a tempo! La maniera di suonare di certi virtuosi è come l'andatura di un ubriaco. Non sono questi i modelli per te.

Impara prima che puoi le leggi fondamentali dell'armonia.

Non avere paura di certe parole come teoria, basso continuo, contrappunto,ecc... ti verranno incontro amichevolmente se tu fai lo stesso con loro.

Non strimpellare mai! Suona sempre con tutta la tua attenzione e non interrompere mai un pezzo a metà.

Andar lenti e correre sono errori di pari gravità.

Sforzati di suonare bene i pezzi facili; è molto meglio che eseguire in modo mediocre i pezzi difficili.

Devi preoccuparti che il tuo strumento sia sempre perfettamente accordato.

I tuoi pezzi non soltanto devi conoscerli con le dita, ma devi saperli cantare dentro di te, senza tastiera. Devi acuire la tua immaginazione sino al punto di poter fissare nella memoria non solo la melodia di una composizione, ma anche la sua armonia.

Sforzati, anche se non hai molta voce, di cantare leggendo a prima vista, senza l'aiuto dello strumento; così la precisione del tuo orecchio diventerà sempre maggiore. Ma se hai una bella voce sonora, non perdere un solo momento e coltivala, considerandola il più bel dono che il cielo ti ha dato.

Devi arrivare al punto di poter capire una musica alla sola lettura.

Quando suoni, non preoccuparti di chi ti sta a sentire. Suona sempre come se ci fosse un maestro, ad ascoltarti.

Se qualcuno ti presenta una composizione che non hai mai visto per fartela suonare, per prima cosa percorrila tutta con lo sguardo.

Se hai finito la tua giornata di lavoro musicale e ti senti esausto, non costringerti a lavorare ancora. Meglio riposarsi che lavorare senza piacere e senza freschezza.

Quando sarai più maturo, non suonare pezzi alla moda. Il tempo è prezioso. Già si dovrebbe disporre di cento vite, se solo si volesse imparare tutto quel che di buono c'è già.

Con dolci, biscotti e leccornie non si fanno crescer uomini sani. Il cibo spirituale, come quello materiale, deve essere semplice e corroborante. I maestri ce ne hanno provvisto in quantità sufficiente: attieniti a ciò che da loro ti viene.

I pezzi virtuosistici mutano con il tempo; l'agilità ha valore soltanto quando serve a fini superiori.

Non devi in alcun modo diffondere le composizioni brutte, anzi devi contribuire con tutte le tue forze a tenerle fuori dalla circolazione.

Le composizioni brutte non devi suonarle affatto, e neppure ascoltarle, a meno che ti costringano a farlo.

Non puntare mai sull'agilità, sul cosiddetto virtuosismo. In ogni pezzo tenta di produrre l'effetto che il compositore aveva in mente; di più non si deve fare; tutto ciò che va più in là è una deformazione.

Devi giungere a sentire una vera ripugnanza per qualsiasi cambiamento apportato ai pezzi dei buoni musicisti, come anche ogni omissione o qualsiasi abbellimento alla moda. Sono questi il più grande oltraggio che puoi fare all'arte.

Se devi scegliere quali pezzi studiare, chiedi il parere di chi ha più anni di te, così risparmierai molto tempo.

A poco a poco devi arrivare a conoscere tutte le opere più importanti di tutti i maestri importanti.

Non ti far trarre in inganno dagli applausi che i cosiddetti grandi virtuosi spesso riscuotono. Aver l'applauso degli artisti deve avere per te più importanza dell¹applauso del grande pubblico.

Tutto ciò che è di moda passa di moda, e se continui a coltivarlo negli anni diventerai un bellimbusto che nessuno tiene in considerazione.

Suonare molto in società porta più danno che vantaggio. Studiati bene chi ti trovi intorno; ma non suonare mai qualcosa di cui nell'intimo tu abbia a vergognarti.

Non perdere mai un'occasione di suonare insieme con altri, in duo, in trio, ecc... Servirà a darti scioltezza e slancio nel tuo modo di suonare. Tenta di accompagnare spesso dei cantanti.

Se tutti volessero essere primi violini, non riusciremmo mai a mettere insieme un'orchestra. Giudica perciò ogni musicista in rapporto al posto che occupa.

Ama il tuo strumento, ma non cedere alla vanità nel considerarlo lo strumento supremo e unico. Ricorda che ve ne sono altri, e altrettanto belli. Ricordati anche che vi sono i cantanti e che nel coro e nell'orchestra si manifesta l'aspetto più alto della musica.

Man mano che cresci, frequenta sempre più le partiture e sempre meno i virtuosi.

Suona con tutto il tuo impegno le fughe dei vecchi maestri, soprattutto quelle di J.S.Bach. Il Clavicembalo ben temperato dovrebbe essere il tuo pane quotidiano. Allora diventerai senz'altro un bravo musicista.

Fra i tuoi compagni cerca sempre quelli che sanno qualcosa più di te.

Riposati dai tuoi studi musicali leggendo con attenzione buona lettura. Vai all'aria aperta appena puoi!

Dai cantanti, uomini e donne, si possono imparare parecchie cose, ma non credere a tutto quel che ti dicono.

Anche al di là delle montagne ci sono persone che vivono. Sii modesto! Ancora non hai inventato o pensato nulla che non abbiano già inventato o pensato altri prima di te. E, se così invece fosse, lo dovresti considerare un dono del cielo, che devi condividere con altri.

Per guarirti da ogni boria e vanità, non c'è cura più rapida che studiare la storia della musica, aiutandosi con l'ascolto dal vivo dei capolavori delle varie epoche.

Un bel libro sulla musica è "Sulla purezza dell'arte musicale" di Thibaut. Leggilo spesso, negli anni che ti aspettano.

Se passi davanti a una chiesa e senti suonare un organo, entra e mettiti ad ascoltare. Se poi hai la fortuna di poterti tu stesso sedere a un organo, prova la tastiera con le tue piccole dita e rimarrai stupito dinanzi a quell'immane potenza della musica.

Non perdere mai l'occasione di esercitarti sull'organo; non c'è strumento che sappia vendicarsi con tanta prontezza di tutto quel che può esserci di impuro e impreciso sia nella musica stessa sia nel modo di eseguirla.

Cerca di cantare in coro, soprattutto le parti interne. Questo ti renderà musicale.

Ma che cosa significa essere musicali? Non lo sarai certamente, se tieni gli occhi fissi ansiosamente sulle note e così vai avanti faticosamente sino alla fine del pezzo; non lo sarai certamente, se ti blocchi e non sai andare avanti, magari perché qualcuno ti ha voltato due pagine insieme. Ma sei senz'altro musicale se riesci in qualche modo a intuire che cosa troverai più avanti in un nuovo pezzo che stai leggendo o se sai a memoria che cosa ti aspetta in un pezzo che già conosci; in due parole, se hai la musica non soltanto nelle dita, ma nella testa e nel cuore.

Ma come si diventa musicali? Caro ragazzo, la cosa più importante, come sempre viene dall'alto ­ ed è la precisione dell'orecchio, la prontezza nel percepire. Ma la nostra costituzione può essere sviluppata e rafforzata. E certamente non ci riuscirai se ti rinchiudi per giorni interi, come un eremita, a suonare meccanicamente un po' di studi; mentre ci riuscirai senz'altro, se ti terrai in un continuo, vivo rapporto con le molteplici realtà della musica, e soprattutto se ti farai una buona pratica di coro e di orchestra.

Fatti prima che puoi un'idea precisa dell'estensione della voce umana nei suoi quattro registri fondamentali; studiali soprattutto quando ascolti dei cori, tenta di scoprire in quali intervalli essi raggiungono la loro massima forza e in quali altri possono essere usati con effetti più morbidi e delicati.

Ascolta sempre con attenzione tutte le canzoni popolari; sono una miniera delle melodie più belle e ti permettono di farti un'idea del carattere delle varie nazioni.

Esercitati sin dall'inizio a leggere nelle chiavi antiche. Altrimenti tanti tesori del passato ti rimarrebbero inaccessibili.

Osserva sin dall¹inizio il suono e il carattere dei vari strumenti; tenta di imprimerti nell'orecchio le peculiarità del loro timbro.

Non perdere mai l'occasione di ascoltare una buona opera.

Venera l'antico, ma va incontro al nuovo con tutto il tuo cuore. Non covare pregiudizi verso nomi che non hai mai sentito.

Non giudicare una composizione al primo ascolto; ciò che ti piace in un primo momento non è sempre il meglio. I maestri vanno studiati. Molte cose ti diventeranno chiare soltanto quando sarai nella piena maturità.

Quando dai giudizi su delle composizioni, distingui bene se appartengono all'arte o hanno soltanto un fine di intrattenimento dilettantistico. Alle prime dà tutto il tuo appoggio; dalle altre non lasciarti neppure irritare.

"Melodia" è il grido di battaglia dei dilettanti ­ ed è vero che una musica senza melodia non è musica affatto. Ma devi capire bene che cosa intendono quelli per "melodia": per loro le uniche melodie sono quelle facili da ricordare, con un andamento ritmico piacevole. Ma ci sono anche melodie di ben altro genere, e ti basterà aprire Bach, Mozart, Beethoven perché ti vengano incontro nelle loro mille varietà: sicché si può sperare che presto ti verrà a noia la misera uniformità delle altre melodie, in particolare di quelle dei recenti melodrammi italiani.

Se ti metti al pianoforte cercando di costruire delle piccole melodie, è già una bella cosa; ma se un giorno quelle melodie ti verranno da sole, senza bisogno del pianoforte, rallegrati ancora di più, perché vuol dire che è vivo in te il senso interno della musica. Le dita devono fare quel che la testa vuole, non il contrario.

Se cominci a comporre, sviluppa tutto nella tua testa. Solo quando avrai in mente un pezzo compiuto, provalo sullo strumento. Se la tua musica è venuta dall'intimo e così l'hai sentita, anche sugli altri farà lo stesso effetto.

Se il cielo ti ha donato una fantasia viva, ti capiterà spesso di sedere per ore al pianoforte come incantato, e di voler esprimere il tuo mondo interno in armonie. Allora ti sentirai attratto in un cerchio magico da una forza tanto più misteriosa quanto meno chiaro magari è ancora per te il regno delle armonie. Sono ore felici della gioventù queste. Ma intanto guardati bene dall'abbandonarti troppo spesso a un talento che ti induce a dissipare forze e tempo seguendo una sorta di gioco di ombre cinesi. Il dominio della forma, la capacità di articolarla con nettezza si possono raggiungere soltanto grazie al preciso segno delle note. Preoccupati perciò più di scrivere che di improvvisare.

Tenta di procurarti non appena puoi le prime nozioni dell'arte del dirigere e osserva spesso i buoni direttori d'orchestra; permettiti pure di dirigere in silenzio insieme a loro. Ti darà chiarezza.

Abbi pratica della vita, come anche delle altre arti e scienze.

Le leggi della morale sono anche le leggi dell'arte.

La diligenza e la perseveranza ti faranno ascendere sempre più in alto.

Con una libbra di ferro, che costa pochi centesimi, si possono fare migliaia di molle da orologio, che valgono centomila volte di più. Quella libbra che hai avuto da Dio devi saperla utilizzare fedelmente.

Senza entusiasmo nulla riesce bene nell'arte.

L'arte non è fatta per conquistare ricchezze. Cerca soltanto di diventare un artista sempre più grande; tutto il resto verrà da sé.

Soltanto quando la forma di una composizione ti sarà veramente chiara, anche il suo spirito diventerà chiaro.

Forse è vero che soltanto il genio può capire totalmente il genio.

Qualcuno disse che il musicista perfetto dovrebbe essere in grado di vedersi davanti agli occhi, come sulla partitura, un pezzo per orchestra ascoltato per la prima volta, fosse anche molto complesso. Questo è il punto supremo che possiamo pensare.

Non si finisce mai di imparare.

Robert Schumann

sabato, ottobre 08, 2005

Gustav Leonhardt e L'Arte della Fuga (II)

".. Un'opera pratica e stupenda" - Mattheson, 1752; " ... io sono sicuro, che colui il quale vorrà capirne l'intera bellezza, avrà bisogno di tutta la sua anima, e ancor più, se desidera suonarla lui stesso." - J.M. Schmidt, 1754; " ... la più perfetta delle fughe" - Carl Philipp Emanuel Bach, 1756. L'Arte della fuga fu ritenuta fino al nostro secolo un'opera pratica per pianoforte: così sostengono per esempio Czerny, Storck, Spitta. Ma durante gli ultimi 50 anni l'opera è stata avvolta nel velo del mistero. La - malintesa - notazione della partitura senza indicazione degli strumenti, ha dato motivo di sottolineare l'aspetto "astratto e dematerializzato" in quest'ultima opera dell'anziano, "solitario" Bach. Poichè L'Arte della fuga, nonostante i numerosi articoli comparsi in riviste specializzate, e curati da musicologi come Handschin, Husmann, Kinsky, Müller, Rietsch, Steglich e Tovey, continua ad esistere nella nostra vita musicale come un'opera non strumentata dall'autore (le tante elaborazioni e strumentazioni ne danno testimonianza), ci proponiamo di avvicinarci ad essa, per una volta, nei termini musicali del secolo XVIII e con particolare riguardo alla sua struttura sonora.

I. CONFUTAZIONE DI POSSIBILI OBIEZIONI ALL'ESECUZIONE AL PIANOFORTE
l. La notazione della partitura
La notazione di una partitura di musica polifonica per pianoforte (organo, clavicembalo ecc.) era tradizionale. La seguente lista di opere stampate dimostra questa usanza, più regola che eccezione. Soltanto nel caso di Froberger e Poglietti si tratta di manoscritti, ma lussuosi e di carattere ufficiale, provvisti di dedica:
Valente 1580
Trabaci 1603,1615
Mayone 1603,1609
Frescobaldi 1608,1615,1624,1628,1635,1645
Guillet 1610
Coelho 1620
Titelouze 1623
Scheidt 1624,1650
Cavaccio 1626
Steigleder 1627
Klemme 1631
del Buono 1641
Salvatore 1641
Froberger 1649-1656
Scipione 1652
Roberday 1660
Scherer 1664
Battiferri 1669
Buxtehude 1674
Fontana 1677
Poglietti 1677
Kerll 1686
Strozzi 1687
Casini 1714
della Ciaja (1671-1755), opus 4
Bach stesso si colloca in questa tradizione internazionale, annotando in una partitura a quattro righi la quarta variazione dell'edizione a stampa (1747 o 1748) delle Variazioni canoniche su "Dagli alti cieli" ("Per l'organo"). La stesura autografa dell'opera presenta questa variazione su tre pentagrammi. Un simile contrasto tra notazione "casalinga" e quella di partitura ufficiale si trova nelle due versioni del Ricercar a sei voci dalla "Offerta musicale" del 1747, anche questo composto nell'antico stile classico. Quest'opera viene designata per pianoforte, a causa dell'occasione stessa per cui fu composta (anche la "Allgemeine deutsche Bibliothek"'di Nicolais, 1788, qualifica l'opera "per 16 voci manualiter"). Nel 1752 compare una seconda edizione de L'Arte della fuga, immediatamente successiva alla prima: questo indica, secondo me, successo, e non quel triste misconoscimento, in cui il romanticismo ama tanto vedere i suoi eroi. Qui W.F. Marpurg, che ne curò l'introduzione, sottolinea: "Un gran vantaggio di quest'opera è il fatto, che tutto quanto in essa contenuto è scritto nella partitura". Se si trattasse di un'opera per ensemble, questa osservazione sarebbe superflua. Ha soltanto senso, se si considera, che la maggior parte della musica per pianoforte, che attorno al 1750 non era affatto polifonica, veniva annotata su due pentagrammi, mentre L'Arte della fuga continua l'antica tradizione della polifonia nella musica per strumenti da tasto e la presenta chiaramente allo studente di contrappunto. Mattheson scrive nel 1752: "La cosiddetta Arte della fuga di Joh. Sebastian Bach ... stupirà un giorno tutti i compositori di fughe italiani e francesi; perché la sapranno seguire e capire, ma forse non suonare...". In verità, ogni italiano o francese è in grado di suonare una singola voce de L'Arte della fuga; secondo Mattheson pare che sorgano problemi per l'esecuzione ad opera di un solo suonatore.

2. Misura 77 di Cp 6
Non è possibile suonare il quarto tempo di questa misura a due mani. La stessa impossibilità - sempre con pedale nel basso! - si riscontra per esempio nelle opere per pianoforte: Il Clavicembalo ben temperato I (Cbt I), fuga in la minore, fine; cadenza del quinto Concerto brandeburghese, battuta 192.

3. Casi particolari: Cp 4, misura 35; Cp 5, misure 41 e 60; Gp 9, misura 94
Qui si incontrano su una stessa nota due voci, di cui una, come fine della frase, possiede un valore più breve dell'identica nota dell'altra voce. Eppure, nonostante tutto, tale notazione non parla contro l'utilizzazione di uno strumento da tasto, dato che Bach annota spesso allo stesso modo in altre opere per pianoforte, per esempio: Cbt I, fuga in do maggiore, misura 11; fuga in do diesis minore, misura 38, preludio in fa minore, misura 3; Orgelbüchlein, "Christe Du Lamm Gottes", misura 4, Clavierübungen III, grande "Water unser", misura 13.

II. ESCLUSIONE DI STRUMENTI DIVERSI DA QUELLI DA TASTO
1. L'estensione delle singole voci
Basta uno sguardo all'estensione dei contralto (discendente fino al si maggiore) e del tenore (discendente fino al sol maggiore) nelle prime dodici fughe, per constatare che nessuno dei pur ricchi organici strumentali, a cui ricorre Bach, è adatto a L'Arte della fuga. Ogni strumentazione deve utilizzare gruppi di strumenti completamente anacronistici. Inoltre nessuna voce ha un suo specifico "volto" strumentale. Questa mancanza di caratterizzazione può spiegare la grande differenza nei tentativi di strumentazione. Il libero uso che Bach fa dell'estensione delle voci nelle fughe per pianoforte si evidenzia, oltre che in molte altre, nella fuga in fa minore del Cbt I. L'estensione delle voci nei canoni supera di gran lunga quella di ogni strumento melodico dei tempi di Bach: per esempio: Cp 15 voce superiore re1 - si bemolle4; Cp 16 voce inferiore re1 - si bemolle3; Cp 14 voce inferiore Si Si - do4.

2. Fughe
Non derivate da un'ouverture - che attaccano liberamente con soprano, contralto o tenore, in Bach sono soltanto per strumenti a tastiera. Le fughe per complessi vengono accompagnate da una voce di continuo, dapprima non tematica.

3. Incrociamento delle parti di tenore e basso
L'Arte della fuga si serve spesso di tali incrociamenti; musicalmente il tenore diventa basso. La parte del basso, dunque, non può esser rinforzata da un violone; questo almeno esclude un organico orchestrale. Si può accennare en passant che da ciò dipende tutto il problema della presenza di uno strumento di continuo in un'esecuzione d'ensemble.

4. Le chiavi
Se Bach avesse scritto L'Arte della fuga per complessi, la partitura sarebbe stata normale e pratica. Invece non è pratica, perché Bach non usa mai la chiave di soprano per flauto, oboe, violino; mai la chiave di contralto per secondo violino e simile; mai la chiave di tenore per viola e così via (che le estensioni delle voci non siano affatto adatte, è già stato detto). Tuttavia le chiavi adoperate erano da secoli in uso nella polifonia classica e, naturalmente, nei suoi movimenti di danza! (vedi anche parte I, punto 1).

III. CARATTERISTICHE DELLO STILE DI PIANOFORTE
l. Eseguibilità
Già il fatto, che l'intera Arte della fuga sia stata scritta in modo da poter essere eseguito tutta con due mani (le fughe a specchio verranno prese in esame in seguito), dovrebbe indurre alla constatazione, che Bach, nella stesura di quest'opera, ha sempre pensato ad uno strumento da tasto. Ci si rende conto della grandissima importanza di questo fatto, quando si tenta di eseguire a due mani al pianoforte un'opera per complesso di Bach: è impossibile. L'eseguibilità alla tastiera era dunque un fattore, di cui Bach tenne sempre conto nello scrivere L'Arte della fuga; s'impose volontariamente e consciamente tale restrizione spesso spiacevole e, per questo, fu pronto ad accettare piccole illogicità.

2. Accorciamenti delle note finali delle frasi per renderle eseguibili
Esempi: Cp 4, misura 88, contralto (vedi misure 90 e 93); misure 94 e 96, basso (vedi la figura con minima finale nelle misure precedenti); misura 116, basso
(semiminime invece di minime). L'unica ragione di i queste inconseguenze sta nell'eseguibilità e nella volontà di evitare scarti eccessivi. Cp 1l, misura 18,
basso: normale sarebbe stata una minima. Si tratta di un'abbreviazione per via di eseguibililtà: la voce di contralto fa-mi-fa può esser suonata solo con la mano sinistra, che per questo deve lasciare il basso. Misura 52, tenore: la ridicolmente breve croma finale è da spiegare solo per necessità tecniche al pianoforte. Una simile prassi pianistica ricorre spesso nelle suites per pianoforte, nel Clavicembalo ben temperato e nelle opere per organo.

3. Aumento dei numero di voci nelle ultime misure
Si tratta dei Cp 5, 6, 7 e 1l. Nella sua musica per complessi Bach non si prende mai la libertà di tali "divisi" momentanei o della prassi di doppia corda. Ciò accade invece diverse volte nella sua musica per pianoforte: p.es. Cbt Il, fughe in do maggiore, re diesis minore, la bemolle maggiore. Si confronti anche la quarta variazione, annotata in partitura, della stampa delle Variazioni canoniche su Dagli alti cieli, dove nell'ultima misura si raddoppia il contralto.

4. Particolarità dello stile di pianoforte
Cp 2, misure 5-6 (e tanti altri luoghi simili in seguito), basso. Le legature sono eseguibili solo da un suonatore, che trova un appoggio ritmico in un'altra voce. Un suonatore di complesso in questo punto ha l'impressione di slogarsi il piede; perciò non lo troveremo mai in musica per complesso. L'Arte della fuga mostra altri luoghi simili in Cp 6, misura 11, tenore, e misure 70-71, tenore, Esempi nella musica per pianoforte: Cl.Üb. III, piccolo "Wir glauben" misure 13-14; Partita in mi minore, sarabanda, misura 15. Cp 4, misure 85-86, tenore: una linea musicale assurda, vergognosa per Bach, qualora avesse voluto proporre ad un musicista una voce così miserevole. Questo luogo va inteso però come composizione per pianoforte, dove la polifonia apparente costituisce uno dei mezzi preferiti per raggiungere morbidezza sonora: soprano e contralto si sentono insieme nel momento in cui spira il suono di cembalo così nella misura 86 si realizza un bell'effetto di eco. Fra le centinaia di esempi analoghi nella letteratura per pianoforte bachiana voglio citare soltanto: Suite francese in re minore, allemanda, misure 34; Sonata in re minore, 2° movimento, misure 101-102 (si confronti la forma primitiva di questa pianistica polifonia apparente nella corrispondente misura della Sonata per violino solo in la minore); Fantasia (e Fuga) in la minore, misura 65; Cbt II, preludio in mi maggiore, misure 39-40 (contralto). Cp 6, misure 40-41 (ibidem 62-63). Accade spesso con gli strumenti da tasto che un pezzo a due voci, con le parti in posizione lata (che si muovono cioè a grande distanza l'una dall'altra) si arricchisca di ulteriori due voci (cfr. per es. Cbt II, fuga in la bemolle maggiore, misure 16-18; 46-47). In esecuzioni di complesso tali luoghi suonano noiosi. Cp 7, misura 58, contralto e tenore: le legature sarebbero innaturali per il musicista di complesso. Tuttavia il contralto, con l'immediatamente seguente secondo soprano, realizza un bel passaggio con le note dell'arpeggio re3 sol diesis3 Si3. Cp 8, misure 16-18, contralto: si tratta di una cattiva condotta delle voci a causa dell'improvvisa trasposizione all'ottava. Dal punto di vista musicale sarebbe stato logico:


La ragione della trasposizione è ancora l'eseguibilità, poiché l'esempio in note qui dato sarebbe impossibile al pianoforte, non però in formazioni di complesso. Si incontra un caso simile nel Ricercar a tre voci dell'Offerta musicale, dove nelle misure 53 e 84 (cfr. misura 69) hanno luogo assurde trasposizioni all'ottava, solo a vantaggio dell'eseguibilità! Normalmente le voci intermedie avrebbero suonato:


e


Anche la fuga incompiuta, che compare nella stampa insieme a L'Arte della fuga rimane ancora da determinare se a ragione o meno - è un'opera per pianoforte: lo dimostrano non solo la notazione a due pentagrammi nell'autografo, ma anche la trasposizione all'ottava nelle misure 186-188, tenore, ne è indice. Questa voce sarebbe stata più logica in un'ottava più alta - ma purtroppo non eseguibile! Quindi Bach cambia l'andamento logico a favore dell'eseguibilità! Quanto gli è importante la prassi e, in questo caso, la prassi di pianoforte! Cp 10, misura 75, basso: trasposizione all'ottava perché altrimenti non toccabile! Strani, affannosi frammenti di motivo, divisi da pause più lunghe - brutti come voci singole, ma nella composizione per pianoforte, che forma un'unità sonora, li troviamo frequentemente (p.es. Cbt I, fuga in si maggiore, misure 13-16 e 32-33, tenore): in Cp 2, misure 40-42, basso; Cp 8, misura 43, basso, e misure 49-52, tenore; Cp 9, misura 80, basso; Cp 11, misure 40-43 e 53-55, tenore. Di nuovo per Bach sta in primo piano l'idea sonora di uno strumento "a più voci". Nelle composizioni per ensemble non si permette mai tali debolezze. Nel Cp 9, misure 114-118, pare aver distribuito, per pura gioia ottica, una lunga e ininterrotta linea di basso su basso e tenore. Si confronti anche Cp 7, misura 60, basso. Il tono naturale dei basso sarebbe stato il re grave. Questa formula cadenzale viene anche confermata dal discepolo di Bach, J.P. Kellner: dopo la prima nota della dominante segue sempre una caduta nella tonica più bassa. Questo però non sarebbe stato possibile al pianoforte; cosi il re grave viene raggiunto soltanto con l'accordo finale. Comparabili sono: Suite inglese in la maggiore, Prelude, misura 16 e fine; Cbt II, preludio in sol minore, fine. Un caso contrario, benché anche esso causato dalla prassi pianistica, si trova nel Cbt I, preludio in la minore, le ultime tre misure. Cp 11, misura 128, soprano. La seconda metà della misura possiede un ritmo, che sbalordisce in Bach (in questa fuga di sicuro); ricorda più l'inizio del XVI secolo che la metà del XVIII. Di nuovo è qui la composizione per pianoforte che forma un'immagine dei tutto diversa: assieme al contralto si sente l'ultimo colpo come un'acciaccatura sol diesis, la, si, avvolta in una "risonanza".

5. L'indicazione "a 2 Clav."nell'edizione originale in Cp 18
Qual è in fondo la ragione per l'esistenza di Cp 18, questa versione di Cp 13, allargata a 4 voci?
Perché porta proprio Cp 18 l'indicazione ,"a 2 Clav."?
Ammesso che L'Arte della fuga sia concepita per complessi, perché mai allora è stato scritto Cp 18? In una concezione per complessi, Cp 13 sarebbe da eseguire con tre strumenti melodici. Perché adesso trascinare insieme perfino due clavicembali per l'esecuzione di un brano che, come fuga, non rappresenta per niente una versione "migliorata" di Cp 13, ma, al contrario, costituisce uno strano pezzo ibrido con una quarta voce, aggiunta senza relazioni contrappuntistiche? Dato che non riceveremo mai una risposta a queste domande, ci dobbiamo chiedere, se non è meglio rinunciare alla nostra ipotesi "complesso". Se consideriamo L'Arte della fuga come opera per pianoforte, è possibile spiegare l'esistenza di Cp 18. L'intenzione di Bach, di presentare ne L'Arte della fuga il sommo dell'arte contrappuntistica, includeva anche la virtuosa fuga a specchio. La natura di una fuga a specchio porta con sé l'impossibilità che sia il rectus sia l'inversus rimangano nell'ambito raggiungibile da due mani. In tutte le altre fughe Bach era padrone di queste limitazioni, ma qui non era assolutamente possibile. Malgrado ciò voleva avere una buona fuga a specchio a tre voci nella "teorica arte della fuga" (Cp 13); nella "pratica arte della fuga", invece, si vide costretto a scrivere una versione apposita, che adesso abbisognava, logicamente, di un secondo strumento dello stesso genere, per il quale compose una quarta voce, cosicché il secondo esecutore non dovette suonare con una mano in tasca. (L'altra fuga a specchio, comprensibilmente anche essa non eseguibile per un solo esecutore, non aveva bisogno di una seconda versione, poiché era sin dall'inizio composta a quattro voci e dunque i due esecutori poterono dividersi fraternamente la loro porzione.) In Cp 18 non appare quindi repentinamente una estranea "nuova" strumentazione, ma una continuazione dello stesso suono tramite l'aggiunta di un secondo strumento. L'unità dell'opera viene rispettata anche dal punto di vista sonoro. L'indicazione "a 2 Clav." è dunque da leggere sottolineando "2".

IV. QUALE STRUMENTO DA TASTO?
Tutti gli esami suddetti portano all'esito, che Bach compose L'Arte della fuga, avendo in mente la pratica eseguibilità su tastiera. Potrebbero essere intesi il clavicembalo, l'organo (in chiesa o in camera) o il clavicordo. In principio - anche per rispetto della tradizione, in questo campo dell'arte da tasto contrappuntistica - sono da prendere in considerazione tutti gli strumenti da tasto contemporanei. Spesso si sarà usato lo strumento che si trovava più vicino per eseguire alcuni brani de L'Arte della fuga per puro piacere. Sono però ben sicuro che Bach, il quale - non sempre ma spesso - distingueva tra clavicembalo ed organo (p.es. nei titoli delle varie parti dei Cl. Üb.), abbia avuto nelle orecchie lo smorzante suono del cembalo, scrivendo L'Arte della fuga. Vorrei toccare i seguenti punti per ulteriori riflessioni.
a) L'estensione dei primi dodici contrappunti rimane nell'interno dell'estensione di organo do1 - do5, nei canoni però l'estensione supera quella dell'organo sisi - re5 (Cp 13 e 18: do1 - mi5).
b) Cp 18 ("a 2 Clav.") esclude già dalla sua estensione l'organo, a prescindere dal fatto che è un po' più facile mettere insieme due cembali che due organi. ("Clavier" è da ritenere, come ci dimostra Bach in Cl. Üb., un nome colletivo per strumenti da tasto, oppure "Clav." sarebbe qui addirittura l'abbreviazione per "clavicembalo").
c) Se l'opera fosse stata ideata per l'organo, la mancanza del pedale (obbligato) è strana. Proprio Bach si era preoccupato dell'uso dei pedale, fatto imbarazzante per i suoi contemporanei, in un modo sconosciuto a quelle regioni della Germania.
d) La composizione densa di tenore grave e basso è insolita per l'organo, per il clavicembalo invece è normale.
e) Un suono smorzante e non statico è sicuramente stato inteso nei punti già discussi come:
- Cp 4, misure 85-86, tenore
- Cp 7, misura 58
- Cp 11, misura 128, soprano
Questa pianistica polifonia apparente raggiunge il suo effetto solo al clavicembalo (o al clavicordo).
f) A chi è in grado di suonare sia organo che clavicembalo, l'opera dà l'impressione di essere nel suo elemento al clavicembalo. Quest'osservazione è naturalmente contestabile. Però vorrei additare alla fuga in si maggiore della seconda parte del Cbt quale modello per un brano che si presenta all'esecutore e all'ascoltatore nello stesso modo di Cp 5 o 10.
g) Visto che al clavicordo non toccava nessun posto nella vita di Bach (del suo lascito facevano parte 5 cembali e nessun clavicordo; era solo Forkel a dare vita alla leggenda del clavicordo), credo che degli strumenti da tasto "smorzanti" con estensione più grande di quattro ottave, il clavicembalo prenda il primo posto tra i canditati per L'Arte della fuga. Non si possono però escludere in assoluto l'organo e il clavicordo, certamente non per una scelta di brani adatti.

Riassunto

l. La notazione in partitura non esclude uno strumento da tasto.
2. Il punto ineseguibile alla fine di Cp 6 non esclude uno strumento da tasto.
3. Punti come Cp 4, misura 35; Cp 5, misure 41, 60; Cp 9, misura 94 non escludono uno strumento da tasto.
4. Le chiavi adoperate escludono un complesso.
5. L'estensione delle voci esclude un complesso.
6. Il tipo di fuga non è quello delle fughe per complessi di Bach.
7. Le voci per sé non hanno una fisionomia così individuale da proporre un certo strumento.
8. Gli incroci di tenore e basso escludono il violino come fondamento a 16 piedi.
9. Tutto è eseguibile con 2 mani.
10. Cambiamenti privi di senso musicale sono stati fatti a favore dell'eseguibilità.
11. L'indicazione "a 2 Clav." è da interpretare sottolineando "2".
12. L'aumento delle voci alla fine di alcune fughe e tipico dello stile pianistico.
13. L'Arte della fuga contiene dei punti di pianistica polifonia apparente.
14. Ancora nel XX secolo L'Arte della fuga è stata ritenuta un'opera per pianoforte.

Gustav Leonhardt (note all'incisione di "Die Kunst der Fuge", 15-20 VI 1969)