Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 26, 2011

Marco Rapetti: Anatoliy Lyadov (1855-1914)

Sono un uccello libero. La parola devi non mi costringerà mai a fare nulla.
Anatolij Konstantinovič Ljadov

“Per quanto riguarda la musica, qualcosa è accaduto” - scriveva Musorgskij al critico Vladimir Stasov il 2 agosto 1873, “un nuovo e indiscutibile giovane talento, originale e russo è apparso fra noi: si tratta del figlio di Konstantin Ljadov, ora studente al conservatorio […] Un vero e proprio talento, dotato di facilità, naturalezza, audacia, freschezza e potenza […] Cui, Borodin e il miserabile sottoscritto sono al settimo cielo. Te ne descrivo l'aspetto: chiaro di capelli, labbra carnose, con piccole rughe intorno al naso disegnate dalla natura quasi fossero canali per le lacrime diretti verso la bocca. La fronte non è ampia ma piena di carattere, specialmente in congiunzione con le tempie prominenti. Terribilmente nervoso, ancor più terribilmente taciturno, egli ascolta senza proferire parola; solo le sue narici iniziano a muoversi, e ciò significa approvazione! Per quanto concerne i suoi scarabocchi, beh, giudicherai tu stesso. Korsakov va pontificando parecchio su di essi...”
Musorgskij, purtroppo, non visse abbastanza per potersi dilettare con gli “scarabocchi” del Ljadov più maturo. Al momento della sua precoce morte, avvenuta quasi contemporaneamente al brutale assassinio dello zar Alessandro II, nel marzo del 1881, il giovane Anatolij aveva composto soltanto una suggestiva serie di melodie per voce e pianoforte (op.1) e svariati pezzi pianistici in stile schumanniano (opp. 2-4), ed era alle prese con un progetto di vasta portata, l'opera Zorjuška, che avrebbe in seguito abbandonato. In quello stesso anno 1881, Cesar Cui dedicava a Ljadov un intero paragrafo del suo saggio La Musica in Russia, sottolineando “l'estro creativo, la ricchezza e l'eleganza del vocabolario armonico e il magistero tecnico” del giovane compositore.
Di fatto, Ljadov appartiene alla prima generazione di musicisti russi che ebbero l'opportunità di sviluppare un solido bagaglio tecnico grazie a un sistema di educazione pubblico (il Conservatorio di San Pietroburgo era stato appena fondato da Anton Rubinstein, nel 1862). Egli, inoltre, era cresciuto in un ambiente musicalmente stimolante, in quanto diversi familiari erano musicisti professionisti impegnati nel mondo dell'opera. Lo stile bohèmien della sua trasandata e disinibita famiglia ebbe nel contempo un influsso negativo sul talentoso ragazzo, non invogliandolo a seguire gli studi con regolarità (più avanti sarebbe stato addirittura espulso dal conservatorio per assenteismo) e rafforzando in lui la propensione all'indolenza e all'isolamento. Il padre, famoso direttore d'orchestra al teatro Marinskij nonché buon compositore in potenza, impartì le prime lezioni di musica al piccolo Anatolij, che trascorse la sua infanzia dietro le quinte del teatro, trattato come la mascotte della compagnia.
La morte di Konstantin Ljadov, nel 1868, lo lasciò orfano di entrambi i genitori all’età di 13 anni e fu allora che venne affidato a uno dei direttori della Società Musicale Russa che lo iscrisse, due anni più tardi, al conservatorio. Qui sviluppò presto uno spiccato interesse per le tecniche contrappuntistiche, frequentando la classe di contrappunto e fuga di Johansen e successivamente quella di composizione tenuta da Rimskij-Korsakov. “Come tutto era facile per lui!” - scriverà più tardi Rimskij nelle sue memorie. “Da dove scaturiva tutta quella esperienza? Era davvero l'allievo più dotato e più brillante!”
Dopo il suo esame finale di composizione nel maggio 1878, i due musicisti trascorsero l'estate in due villaggi poco distanti e "come passatempo ed esercizio, ognuno scriveva una fuga al giorno sullo stesso tema in re minore". Il legame di Ljadov con Rimskij durerà tutta la vita e avrà profonde ripercussioni su entrambi i compositori, inizialmente discepolo e maestro e in seguito amici e colleghi (il celebre manuale di armonia di Rimskij, ad esempio, fu ispirato ai principi didattici di Ljadov). A settembre dello stesso anno, il ventitreenne Anatolij divenne professore di teoria al conservatorio e, nel 1885, Balakirev e Rimskij lo chiamarono a insegnare teoria e armonia anche alla Cappella della Corte Imperiale.
Se Ljadov non fosse appartenuto a una generazione posteriore, la Mogučaja Kučka (il Possente Manipolo, come Stasov aveva soprannominato la famosa squadra di compositori capeggiata da Balakirev) sarebbe nota oggi come Gruppo dei Sei, invece che come Gruppo dei Cinque. In qualità di membro affiliato al circolo di Balakirev, Ljadov partecipò a varie composizioni collettive (vedi, ad es., il geniale ciclo di Parafrasi per pianoforte, composto insieme a Borodin, Cui e Rimskij-Korsakov), collaborò all'orchestrazione di opere dei suoi colleghi più anziani (Il Principe Igor di Borodin, Il Prigioniero del Caucaso di Cui, La Fiera di Soročintsy di Musorgskij), nonché alla revisione delle opere di Glinka.
All'inizio degli anni '80, Balakirev decise di abbandonare la scena musicale per barricarsi in un'ossessiva e misantropica religiosità; in conseguenza di ciò, i suoi allievi e compagni si distaccarono gradatamente dal carismatico e dispotico fondatore della Mogučaja Kučka, fino al totale scioglimento del gruppo. Fu allora che Ljadov divenne uno dei fondatori del Beljaevskij Kružok (il Circolo Beljaev), insieme a Rimskij e al giovane prodigio Aleksandr Glazunov. Anche Borodin iniziò a frequentare il nuovo cenacolo di musicisti, ma sfortunatamente morì poco tempo dopo. Ljadov e Rimskij (quest’ultimo, essendo nato nel 1844, era il più giovane dei Cinque), rappresentano dunque il collegamento fra i due più importanti circoli di musicisti russi dell'Ottocento, formatisi intorno alle due più influenti 'B' della storia musicale russa: da un lato, Balakirev, capace di catalizzare le energie di una brillante generazione di compositori autodidatti e di spingerla alla creazione di una nuova e autentica scuola russa incentrata sulla rivalutazione del canto popolare; dall'altro, Beljaev, cui si deve la diffusione a livello internazionale della musica russa contemporanea.
Erede di una delle più ricche famiglie di commercianti di legname di tutto l'impero, Mitrofan Petrovič Beljaev decise di ritirarsi dal commercio a 48 anni per dedicarsi interamente a una causa filantropica, per la quale avrebbe devoluto enormi quantità di denaro: la promozione della musica e dei musicisti russi in patria e all'estero. Egli stesso suonava la viola per passione e si esibiva spesso con gli Amanti della Musica di San Pietroburgo, una piccola orchestra privata diretta da Ljadov, che sarebbe rimasto per sempre il suo inseparabile assistente e supervisore. "È possibile considerare il circolo di Beljaev come una continuazione di quello di Balakirev?" - si chiede Rimskij nella sua autobiografia. "In comune essi avevano le idee innovative e un’evidente progressismo. Ma il gruppo di Balakirev corrispondeva al periodo Sturm und Drang della musica russa, mentre quello di Beljaev a un periodo di pacifica marcia in avanti. Il gruppo dei Cinque era rivoluzionario; il Gruppo di Beljaev, progressista."
Nel 1885, l'imponente e altero mecenate fondò a Lipsia una delle più prestigiose case editrici del secolo (la Russia non aveva ancora firmato il protocollo per la protezione dei diritti d'autore e questo fu uno dei motivi per cui venne stabilita la sede in Germania). Beljaev diede disposizioni affinché un comitato di esperti - ovvero, Rimskij, Ljadov e Glazunov - lo aiutasse a selezionare le composizioni da pubblicare (al medesimo triumvirato sarebbe stata poi affidata la gestione dell'impresa editoriale dopo la morte del fondatore, avvenuta nel 1904).
Nel 1894 la musica di Aleksandr Scriabin venne sottoposta per la prima volta al giudizio di Beljaev e dei suoi collaboratori. Rimskij e Glazunov si rifiutarono categoricamente di pubblicare qualsiasi composizione presente e futura dell'altezzoso compositore moscovita, per il quale avrebbero sempre nutrito un'epidermica antipatia (“Narciso” fu il soprannome appioppatogli da Rimskij). Grazie all'opposizione di Ljadov e al supporto di Beljaev, Scriabin superò comunque la selezione e divenne presto il nome più importante e più richiesto nel catalogo della ditta. Entrambi ferventi chopiniani, Ljadov e Scriabin si attrassero e ammirarono reciprocamente fin dal primo incontro.
Per quanto non sia facile distinguere chi ha influenzato maggiormente l'altro nei lavori scritti a metà degli anni '90 (si comparino i Preludi opp. 31, 36, 39, 40, 42, 46 con i pezzi brevi composti da Scriabin negli stessi anni), è chiaro invece come sia stato il vocabolario armonico scriabiniano a fornire il modello per gli ultimi lavori di Ljadov. Il carattere egocentrico e stizzoso di Scriabin era antitetico a quello di Ljadov; inoltre, l'agnosticismo di quest'ultimo non aveva nulla in comune con il misticismo esoterico e il pensiero escatologico scriabiniano.
Tuttavia, Ljadov subì profondamente il fascino del geniale e più giovane collega, anche quando la straordinaria evoluzione del suo linguaggio gli causò sconcerto e non poche perplessità. "In confronto a Scriabin, Wagner balbetta dolcemente come un poppante. Penso che mi possa dar di volta il cervello in qualunque momento. Come ci si può nascondere da questa musica? Aiuto!" - sbottò una volta in presenza di Beljaev. Nel 1911, dopo la prima esecuzione di Prometeo, Ljadov confidò a un amico: "Sapessi come ho dormito male la notte scorsa! Non riesco a non pensare a come sarà quando fra un paio di settimane scopriremo che Scriabin è stato rinchiuso a Udelnij (un ospedale psichiatrico lungo la ferrovia per la Finlandia)."
Scriabin, dal canto suo, dimostrò sempre un affetto particolare per il collega più anziano e similmente fece Stravinskij. "Ljadov era il musicista più progressista della sua generazione e fu lui a difendere i miei primi lavori" - scrive Stravinskij in Memories and Commentaries (1959). Per merito di Ljadov, venne pubblicata la melodia giovanile Il fauno e la pastora; inoltre, a causa dell'eccessivo ritardo con cui “il grande pigro” si accinse alla composizione de L'Uccello di fuoco, Diaghilev, spazientito, girò la commissione del balletto all’ancora sconosciuto Stravinskij e fu così che la storia si arricchì del celeberrimo capolavoro. "Ho l'impressione che Ljadov fosse più sollevato che offeso, allorché accettai la proposta di Diaghilev" - scrive Stravinskij. "Ljadov era un brav'uomo, tenero e adorabile come la sua Tabacchiera musicale. Lo chiamavamo "il fabbro ferraio", ma non so perché; forse proprio per il fatto di apparire, con la sua dolcezza e gentilezza, esattamente il contrario di un fabbro. Era abbastanza piccolo, con un viso simpatico e ammiccante e pochi capelli sulla testa. Teneva sempre dei libri sotto il braccio: Maeterlinck, Hoffmann, Andersen… Adorava tutto ciò che avesse a che fare con l’elemento fantastico."
In effetti, gran parte delle opere orchestrali di Ljadov (Baba-Jaga, Otto Canti popolari russi, Il Lago incantato, Kikimora) evocano atmosfere fiabesche: "Datemi fate e draghi, sirene e folletti e sarò al colmo della felicità" - dichiarò una volta. "L'arte mi nutre con uccelli del paradiso arrosto. È come vivere su un altro pianeta, che nulla ha a che fare con questa terra".
Diversamente da Rimskij, col quale condivise l'amore per il mondo senza tempo delle favole popolari, Ljadov non produsse mai lavori di vaste dimensioni. "Caro amico, ti prego, scrivi un'opera, un'opera autenticamente russa: sei splendidamente dotato per una tale impresa e nessuno potrebbe farlo meglio di te!" Nonostante i ripetuti incoraggiamenti di Rimskij, non soltanto alcuni progetti di opera, ma anche il balletto Lejla i Adelaj e un quartetto d'archi furono a un certo punto abbandonati o lasciati incompiuti.
Questo grande compositore in potenza è stato spesso accusato di mera pigrizia, soprattutto in seguito al matrimonio, avvenuto nel 1884, che gli permise di ottenere una proprietà di campagna a Polinovka, dove avrebbe trascorso tutte le estati e dove avrebbe terminato i suoi giorni (stranamente, Ljadov mantenne sempre il suo matrimonio avvolto in un'aura di mistero, non consentendo a nessuno di conoscere la moglie e recandosi ovunque sempre da solo). "Il suo scetticismo e la sua propensione a ritirarsi in una torre d'avorio erano più forti dei suoi impulsi creativi" - commentò senza mezzi termini Michel Dmitri Calvocoressi. In realtà, dietro al carattere dimesso e all'apparente mancanza di ambizione, Ljadov era un severo autocritico, e questa qualità inibì non poco il suo potenziale creativo, contribuendo al parziale ritiro dall'agone dei contemporanei.
Il “fabbro ferraio” (o piuttosto "l'orologiaio", come Stravinskij avrebbe maliziosamente soprannominato Ravel) si sentiva molto più a suo agio con le piccole strutture finemente cesellate. Le sue opere per pianoforte, voce, coro o per orchestra sono così curate in ogni dettaglio da potersi paragonare a veri e propri cammei musicali. Come scrisse il critico e compositore Vjačeslav Karatighin pochi giorni dopo la morte del compositore, "l'arte di Scriabin è spesso tanto magnificata, riflette talmente il cosmo su larga scala, che per afferrarne i contorni dobbiamo accostarci ad essa come se si trovasse a una certa distanza (psicologica). Possiamo ammirare Chopin con un normale, chiaro colpo d'occhio. Per portare il nostro animo in contatto con le ispirazioni di Ljadov, dobbiamo invece aggiustare la nostra vista a livello microscopico, armarci di prismi e lenti speciali, e scrutinare attentamente i mondi di vita sonora che si parano dinanzi ai nostri occhi. Adottando quest’intimo approccio a quest'arte intimista, ecco che improvvisamente può rivelarsi la sottile e profonda bellezza delle immagini musicali di Ljadov e la loro originalità".
Mentre Scriabin si tuffava nell’efferato nuovo secolo spingendo l'armonia funzionale ai suoi estremi limiti, Lyadov si ritirava come un gasteropode nella sua conchiglia, limitandosi a sempre più sporadici tentativi di comporre. Nel 1901 iniziò a insegnare contrappunto avanzato al conservatorio e nel 1906 subentrò come docente di composizione, attività nella quale dimostrò un rigore pedagogico simile a quello del suo predecessore, Rimskij-Korsakov.
Quando l'enfant prodige Prokof’ev s’iscrisse nella sua classe, trovò l'approccio di Ljadov eccessivamente severo e insofferente a qualsiasi audacia e modernità compositiva da parte dei suoi allievi (la stessa impressione fu riportata anche dall'amico e compagno Mjaskovskij). Viene da chiedersi se Ljadov sia stato davvero il progressista descritto da Stravinskij; di sicuro non fu un rivoluzionario, né in musica né in politica. La sua paura per i cambiamenti e il suo rifiuto per gli eccessi non gli consentirono di aderire agli ideali rivoluzionari che aleggiavano in quell’epoca così inquieta e turbolenta. Molto sensibile al concetto di libertà individuale, ammirava Nietzsche ma provava antipatia per Tolstoj, che, a suo giudizio, "stava aiutando l'umanità a commettere il più grande crimine possibile: livellare tutti".
Un significativo episodio accadde tuttavia nel 1905, al tempo della Prima Rivoluzione Russa. Allorché Rimskij-Korsakov venne licenziato dal conservatorio in seguito all'accusa di aver appoggiato le sommosse degli studenti, Ljadov e Glazunov si dimisero all'istante, per poi riprendere a insegnare solo dopo la riabilitazione dell’amico e collega. Nonostante avesse sempre preferito restare in disparte, rifugiandosi nel suo flemmatico e pessimistico distacco, Ljadov fu consapevole dell'imminente tragedia che stava per travolgere l'Europa e il suo paese, governato da un miope e repressivo regime zarista. Nel 1899 (anno di nascita di Maria, terzogenita della famiglia imperiale), fu proprio la corte dei Romanov a commissionargli l'inno ortodosso Slava, originariamente composto per coro femminile, due arpe e due pianoforti. In questo peana al duce dell'impero (in seguito trucidato con la famiglia nel luglio 1918 per mano dei bolscevichi), l'ultimo zar di Russia, Nicola II, viene paragonato al sole, la zarina alla luna e le figlie alle stelle. Come scrive Faubion Bowers, a quell'epoca "il prezzo dell'ortodossia e dello zarismo era alto, e veniva pagato in infiniti modi, talvolta opposti. Alcuni si fecero atei convinti. Un certo byronismo banalizzato prestò la figura di Don Giovanni come modello di anticonformismo. Altri divennero trascendentalisti autodistruttivi, nella convinzione di essere dio, come ad esempio, Scriabin o il personaggio Kirillov ne i Demoni di Dostojevskij. L'escatologia è un elemento essenziale non solo della Russia che precede la Prima Guerra Mondiale, ma di tutta la storia religiosa russa. Lo spirito apocalittico fece diventare il Libro della Rivelazione la sezione della Bibbia più citata e più rappresentata, sia visivamente che musicalmente. Tutti predicevano la fine del mondo, sconvolgimenti epocali (potrjasenia), rivoluzioni (perevoroti); di 'eventi inauditi' scriveva il poeta simbolista Aleksandr Blok, 'conflagrazione planetaria', gridava Scriabin, 'fine della storia', intonava Solovjov. Persino Ljadov stette in silenzio abbastanza a lungo per poi scrivere un brano
sull'Apocalisse".
Nel 1911-12, all'epoca in cui compose il poema sinfonico Iz Apokalipsiza (Dall'Apocalisse) op.66, la salute di Ljadov aveva già iniziato a deteriorarsi. La sua ultima opera, intitolata Skorbnaja pesn' (Trenodia), per piccola orchestra, apparve nel 1914 e portò il numero di catalogo delle sue opere a 67. Per quanto opposte in dimensioni e finalità, sia l'ultima miniatura di Ljadov sia il colossale e utopistico Misterja di Scriabin sembrano riflettere le stesse parole di Čekov: "Il tempo sta per scadere, una valanga sta per muoverci addosso, una travolgente tempesta chiarificatrice è ormai vicina e presto si scatenerà…" Lyadov morì nell'agosto del 1914, pochi giorni dopo lo scoppio della Grande Guerra. Scriabin lo seguì otto mesi più tardi. Nessuno dei due poté assistere alla traumatica fine di un'era russa.

Marco Rapetti (note al CD Brilliant Classics 94155)

sabato, novembre 19, 2011

Gesualdo: il "Primo Libro de' Madrigali" (1594)

Gesualdo e la città di Ferrara
Il Primo Libro de’ Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa” venne pubblicato da un editore ferrarese, Vittorio Baldini, nel 1594. Nello stesso anno e dallo stesso tipografo venne pubblicato anche Il Secondo Libro de’ Madrigali. Entrambi i libri sono presentati dal musicista Scipione Stella che, nelle dediche introduttive alla pubblicazione, scrive d’avere raccolto (e corretto gli errori di stampa) alcuni brani del suo protettore e principe, già precedentemente pubblicati. All’epoca non era conveniente che un nobile si occupasse della pubblicazione di libri o di musica (ben altre dovevano essere, o apparire, le occupazioni di un principe nella società rinascimentale) e quindi ricorre a Giuseppe Piloni (non uno pseudonimo, ma un “caro amico” del musicista fiammingo Jean de Maque che frequentava con lui la casa Gesualdo, dopo il 1586) per dare a stampa alcune sue opere (delle quali, purtroppo, abbiamo perso ogni traccia). Le dediche di Stella sono datate 2 giugno 1594 per il Primo Libro e 10 maggio 1594 per il Secondo: come noterete sembra che il Secondo abbia anticipato il Primo. Seguono a brevissima distanza il Terzo Libro, 1595, e il Quarto, 1596, sempre pubblicati a Ferrara da Baldini. Come capita molto frequentemente nel Rinascimento italiano, la pubblicazione di un libro musicale non fa altro che raccogliere i brani pregevoli che il musicista aveva precedentemente composto e che ritenesse fossero adatti ad essere fruiti e apprezzati da un più vasto pubblico di intenditori e musicisti. Tutti questi Madrigali (in tutto sono ottanta, venti per ogni libro) vengono dunque distribuiti su quattro libri, probabilmente senza un effettivo ordine cronologico di composizione, ma tutti congiunti dalla stampa avvenuta a Ferrara. Ben quindici anni trascorreranno prima che esca un altro suo nuovo libro, spento l’interesse per Baldini e stampando le sue ultime due opere a Venezia, entrambe nel 1611.
Come mai Ferrara fu la culla del primo impegnativo parto artistico e perchè Gesualdo proprio in quel momento decide che fosse il momento giusto per esporre il proprio pensiero musicale? Quali intrecci potevano esserci fra Ferrara e un principe che aveva sempre gravitato tra Napoli, la città di Venosa e quella di Gesualdo (cittadine ancor oggi esistenti nel sud Italia che portano ancora il nome della nobile famiglia patrizia)?
Per Carlo Gesualdo stampare le proprie opere a Ferrara significava essere presente in quella corte che più forse più d’ogni altra, in quell’epoca, coltivava e apprezzava la musica e il madrigale quale simbolo di sintesi tra arti e frutto maturo e prelibato di una raffinata cultura aristocratica. Per Ferrara, invece, il Principe da Venosa significava la possibilità di tutelarsi da un fatale avvenimento politico: il Duca Alfonso II d’Este (nipote della diabolica Lucrezia Borgia), ultimo erede di quell’aristocratica e mecenate famiglia che governa la città dal 1332, non può avere figli e (a causa di un antico accordo con il Papa) la terra degli Este sarebbe ritornata allo Stato della Chiesa di Roma se non ci fossero stati eredi maschi. Per Ferrara, il matrimonio fra Gesualdo ed Eleonora d’Este doveva essere un’ottima occasione politica per tentare di risolvere una delicata questione politica, raccogliendo i favori del cardinale Alfonso Gesualdo, zio di Carlo e una delle più potenti e influenti figure politiche romane. Il 19 febbraio 1594, il Principe raggiunge Ferrara: “porta seco due mute di libri a cinque, tutte opere sue” (come scrisse il cronista Fontanelli, inviato da Alfonso II d’Este per avere maggiori notizie del suo futuro parente) e un seguito di trecento persone della sua corte. Il 21 febbraio è celebrato il matrimonio con feste, torneo a cavallo, copioso pranzo di nozze di ventitrè portate (di questo banchetto lussuoso, come di tutte le feste, ne abbiamo la descrizione minuziosa) e scambi di doni preziosi, come la corazza da parata finemente cesellata, ancor oggi visibile nel Castello di Praga, e un’Ode “Lascia, o figlio di Urania, il bel Parnaso” scritta appositamente dal celeberrimo poeta Torquato Tasso. Come abbiamo visto, tre mesi dopo il matrimonio, furono pubblicati il Primo e il Secondo Libro dei suoi Madrigali tanto amati e subito parte per Venezia. Ritorna a giugno direttamente nel suo castello di Venosa e poi in Gesualdo “paese ameno et vago alla vista quanto si possa desiderare, con un’aria veramente soave et salubre”, ma senza la sua sposa novella che lascia a Ferrara.
Gesualdo, il principe di Venosa
Carlo Gesualdo non è dunque un musicista ordinario: prima di tutto egli è un principe, ricco e potente. Come esamineremo in seguito nelle note introduttive che accompagneranno le nostre sei pubblicazioni contenenti la sua opera profana completa, egli divenne celebre per due impulsi che segnarono la sua vita: il sanguinoso assassinio della moglie e del suo amante (tale fatto lo rende protagonista di molte opere teatrali, opere liriche, romanzi e anche film) e la passione per la musica espressiva e ardita, sia sacra che profana, ammirata sia dai suoi contemporanei come da musicisti a noi più vicini, primo fra tutti Stravinskij. Quest’ultimo, elabora alcuni brani del musicista rinascimentale (le Tres Sacrae cantiones) e, nel 1960, per quello che era considerato il quarto centenario della nascita, gli dedica un brano: Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum. In realtà la data di nascita non fu il 1560: ricerche recenti hanno stabilito che egli nacque l’ 8 marzo 1566, a Venosa. La sua famiglia affonda le sue radici in tempi lontani: dalla Francia secondo alcuni, da Ruggero il Normanno secondo altri. Erano parenti di San Carlo Borromeo (la mamma del nostro Carlo era sorella del Borromeo) ed erano in ottimi rapporti sia con Carlo V che con Filippo II, re di Spagna, che in tempi diversi regnarono sui territori del sud Italia in quel periodo. I Gesualdo avevano ampi possedimenti terrieri e castelli: erano ricchissimi, dunque. Il padre di Carlo, Fabrizio II, e la madre, Geronima de’ Medici, erano anche persone di cultura e come tali organizzavano spesso nella loro residenza napoletanta alcune serate a tema, invitando gesuiti, astronomi, astrologi, alchimisti e anche chiromanti; non mancavano le serate dedicate alla poesia e alla letteratura, come quelle dedicate alla musica in cui anche il padre Fabrizio Gesualdo faceva ascoltare sue proprie composizioni. Carlo crebbe in un ambiente dove la musica era un’arte fondamentale per la persona: venne finemente istruito da musicisti come Pomponio Nenna, Gian Leonardo Privitera e Jean de Maque (quest’ultimi due compositori dedicarono pure a Carlo proprie pubblicazioni musicali) che abitualmente frequentavano la casa paterna. Sappiamo che imparò a suonare il liuto tanto quanto andare a caccia. La sua prima composizione fu edita a diciannove anni, nel 1585: un mottetto a cinque voci (Delicta nostra ne reminiscaris DomineDimentica le nostre colpe, o Signore—edito insieme ad altre brani sacri di Stefano Felis) che curiosamente lascia presagire alcuni dei temi che vedremo svilupparsi sia nell’opera sacra come in quella profana: il senso colpa, la morte, il peccato, il pentimento.
L’anno successivo, nel 1586 a soli vent’anni, sposa Maria d’Avalos più vecchia di lui e già vedova per ben due volte e con due figli a carico: questo matrimonio con una delle donne più belle di Napoli ebbe un tragico esito quattro anni più tardi, quando Carlo la uccise insieme al suo amante nel letto dove egli stesso dormiva. Questo episodio che contrassegnò fortemente la sua vita, e la sua opera, lo tratteremo nel seconda pubblicazione dedicata al Secondo Libro de’ Madrigali e alle sue composizioni strumentali (Naxos 8. 570549).
Il Primo Libro de’ Madrigali
Apre la prima pubblicazione ferrarese del 1594, un madrigale di Giovanni Battista Guarini: Baci soavi e cari in due parti. Venne trasposto in musica da vari autori, fra cui citiamo Luca Marenzio (1591), Adriano Banchieri (nella sua Barca di Venezia per Padova, 1605, “Un per de Marregali alla Venosa-Madrigale capriccioso”) e nel Primo Libro di Claudio Monteverdi, 1587: il testo è tratto dalla prima strofa della Canzon de’ baci che poi prosegue con Baci amorosi e belli, Baci affannati e ingordi, Baci cortesi e grati. Il raffinato gioco erotico in tutto il madrigale, ricco di sospiri e ansimi ci porta ad una vera e propria simulazione nell’unione dei due amanti e dell’atto amoroso, resa esplicita se comprendiamo quelle convenzioni di linguaggio della corte rinascimentale che nella parola morire celava il significato del raggiungimento dell’orgasmo sessuale. Le analogie con la versione di Monteverdi sono molte, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione nella suddivisione ritmico-prosodica del testo: confrontando le due versioni, anche ad un semplice ascolto, notiamo come il brano di Monteverdi (nonostante la sorprendente sapienza compositiva) sia ancora un brano giovanile; mentre quello di Gesualdo sia un brano d’un autore smaliziato, in cui l’uso dell’espressività nella parola, viene esaltata da una sapiente arte di contrasti melodici e timbrici. Questo ci fa sospettare che il brano d’apertura scelto da Stella per presentare il suo mecenate, non fosse assolutamente un “primo parto” giovanile ma un frutto ben più maturo che, fin dall’inizio, mettesse in mostra l’arte raffinata del Principe.
Con lo stesso gioco erotico sulle parole morire (ma perchè non parafrasare nei due diversi modi antitetici questo brano, visto che il significato più tragico può essere comunque avvalorato?) dobbiamo leggere il bellissimo madrigale Tirsi morir volea di Giovanni Battista Guarini (stampato nel 1581, tra le Rime di Tasso, con il sottotitolo “Concorso d’occhi amorosi” e musicato da L. Marenzio 1580, J. De Wert 1581, A. Gabrieli 1587 e poi da L. Luzzaschi 1604, G.F. Sances 1633). Nella seconda parte Frenò Tirsi il desio si raggiunge una delle più alte vette musicali del nostro compositore, accendendo il contrasto fra le belle dissonanze sulle parole “sentendo morte” e la scala di note ascendente contigue, sulle parole “in non poter morire”, che simulano un’estatica ascesa alla voluttà o alla redenzione del regno dei cieli. Vedremo, però, che nei Libri successivi la parola morte lascerà questo suo valore erotico della poesia della corte per divenire esternazione di “tragedia”, del dolore supremo con cui l’uomo deve confrontarsi.
Un altro argomento amoroso-erotico lo troviamo anche in Mentre madonna (anch’esso suddiviso in due parti), sonetto di Torquato Tasso, tratto dalle Rime: con grande raffinatezza, la scena descrive l’invidia provata da chi vede il pungiglione d’un “ape ingegnosa” che insidia le labbra femminili “dopo i suoi lieti e volontari errori”. In “Sì gioioso mi fanno i dolor miei” troviamo già quella tipica ricerca e attenzione del Venosa verso testi che accostano concetti o parole apparentemente contrapposte: un gioco manieristico d’immagini inconciliabili ma fatalmente accostate fra di loro, in cui la razionalità del lettore si compiace nello smarrirsi.
Per mezzo di “Questi leggiadri odorosetti fiori”, utilizzato da Venosa come cardine per fiaccare il clima ricco di contrasti “dolorosi” sia sonori che letterali (in quanto alterna, al proprio interno, atmosfere giocose e dolenti), al termine di questo libro troviamo quattro madrigali solari, giocosi, che hanno il compito di restituire serenità. In vista delle nozze con la casa d’Este, Gesualdo dedica “Felice primavera!”: un esplicito dono ai luoghi della sposa Eleonora d’Este in quanto vengono citati i luoghi fioriti del fiume Po che scorre poco distante da Ferrara gettandosi nel mare Adriatico, e “Bella angioletta” madrigale esplicitamente commissionato a Tasso dal duca Federico d’Este per corteggiare una donna di nome Angelica. La musica di Gesualdo in questo libro è il risultato di una maturazione precedentemente avviata, non un primo affacciarsi al mondo editoriale di un giovane musicista: è un libro da amare, da studiare, da approfondire. Già nella Musurgia Universalis, 1650, Athanasius Kircher cita proprio il madrigale Baci soavi e cari come esempio, dicendo che la musica di Gesualdo deve essere oggetto di studio per la sua finezza e maestria. Molti teorici e musicisti dell’epoca considerano Gesualdo quale elemento fondamentale della svolta espressiva della musica tardo rinascimentale; lo stesso Monteverdi lo includeva fra i musicisti del mutamento radicale verso la seconda prattica. Giulio Cesare Monteverdi, concludendo la difesa del fratello dall’attacco di Giovanni Maria Artusi ai madrigali contenuti nel Quinto Libro de’ Madrigali scrive: “il Sig prencipe di Venosa, Emiglio del Cavagliere, il conte Alfonso Fontanelli, e il conte di Camerata et altri signori di questa eroica scola”. Pubblicare a Ferrara, entrare in quell’ambiente culturale, poter confrontarsi con i più innovatori dell’arte, doveva essere per il Principe, la consacrazione nell’olimpo dei musici più rinomati del tempo: quel 1594, fu il momento di realizzazione di un grande sogno, isola felice nella sua impetuosa e turbinosa vita.
Un sentito ringraziamento al Prof. Giovanni Iudica per averci donato la bella biografia dedicata al Principe dei musici (fondamentale per una conoscenza del nostro autore, come gli studi di G. Watkins) nonchè per i proficui e piacevoli incontri milanesi sgorgati dalla medesima passione.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.570548)

sabato, novembre 12, 2011

Gustav Mahler: 18/11/2011 Maratona Radiofonica


MARATONA RADIOFONICA MAHLERIANA
18 novembre 2011

Una sinfonia deve essere come il mondo. Deve contenere tutto.

Gustav Mahler è stato uno dei compositori fondamentali nel passaggio tra Ottocento e Novecento, una delle incarnazioni più efficaci e potenti della tensione estrema tra un passato ormai irrecuperabile ed un futuro tragicamente incerto. A livello musicale, ma anche umano, sociale, politico.
La sua esistenza, come la sua produzione musicale, 10 sinfonie e numerosi lieder, disegnano con tratti drammatici il profilo di un uomo e di un mondo che anticipano i grandi temi del Novecento, bevendo sino in fondo il calice della crisi di un secolo che si chiude.
Dalla provincia boema a Vienna e New York, incrociando i destini dei personaggi del crepuscolo di un impero, da Klimt a Freud, da Mann a Schoenberg, da Max Reinhardt a Gropius…

Nel 2010 si è ricordato il centocinquantesimo anno della sua nascita (1860), mentre nel 2011 il centenario della morte (1911). In tutto il mondo musicale questi ultimi due anni sono stati dedicati a Mahler, il cui successo in Italia è giunto soltanto a partire dagli anni Sessanta, e con fortune critiche alterne. La Maratona Radiofonica Mahleriana si propone di:
  • rendere omaggio alla figura di Mahler;
  • fornire un invito all’ascolto della sua opera e alla conoscenza dell’autore e della sua vita;
  • fotografare l’universo culturale di un periodo storico fondamentale per il Novecento;
  • con un approccio divulgativo e non specialistico, attraversare vita e opera con l’ausilio di aneddoti tratti dalle numerose biografie;
Nel corso della Maratona Radiofonica Mahleriana si alterneranno:
  • introduzione alla figura di Mahler attraverso la lettura di stralci da saggi, biografie e documenti dell’epoca, coordinata in studio dal conduttore e da una voce recitante affidata ad un’attrice professionista;
  • ascolto guidato di una parte dell’opera di Mahler, con frequenti comparazioni da differenti versioni orchestrali degli interpreti più noti (Abbado, Bernstein, Rattle, Maazel, Von Karajan, Walter ecc..);
  • l’intervento attraverso collegamenti telefonici con direttori d’orchestra, musicisti, critici ed appassionati di Mahler, italiani e stranieri (sono stati invitati musicisti provenienti da orchestre quali Boston Simphony Orchestra, MaggioMusicaleFiorentino, Orchestra dell’Arena di Verona ecc…) che commenteranno ed introdurranno parte degli ascolti;
Elenco degli ospiti confermati:
  • Paolo Borsarelli – contrabbasso della Lucerne Symphony Orchestra
  • Massimo Castagnino – Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
  • Gaston Fournier-Facio – coordinatore artistico presso il Teatro Alla Scala
  • Stefano A.E. Leoni – docente presso l’Università di Urbino
  • Marco Ravasini – docente presso il Conservatorio di Torino
  • Charles Schlueter – ex prima tromba della Boston Symphony Orchestra
  • Angelo Vinai – clarinetto dell’Orchestra dell’Arena di Verona
La Maratona Radiofonica Mahleriana si articolerà:
  • dal vivo, sia la conduzione, sia i contributi di lettura da parte di un’attrice, sia gli interventi degli ospiti in collegamento;
  • in un unico frammento temporale, della durata di 6/8 ore circa;
  • senza interruzioni pubblicitarie;
  • e terminerà con l’esecuzione dal vivo dagli studi della radio di alcuni lieder di Mahler per voce e pianoforte, eseguiti dai M.i Paola Roggero e Andrea Stefenell.
La trasmissione sarà:
  • in diretta su RadioStereo5 FM 100.600
  • in live streaming su www.radiostereo5.info
  • e video streaming su www.cuneoronaca.it

venerdì, novembre 04, 2011

Frescobaldi: i "Capricci" (1624)

Il Libro dei Capricci di Frescobaldi del 1624 deriva da un'estensione del libro dei Ricercari del 1615 ma la sua concezione è marcatamente rivolta verso una strumentalità tastieristica che ne fa un capolavoro, oltrechè di tecnica contrappuntistica, di raffinatissima arte e tecnica clavicembalistica ed organistica. Vero è che, a sottolineare l'interdipendenza dei due libri, essi saranno uniti nelle vicende editoriali fin dalla seconda edizione dei Capricci del 1626, e successivamente in quelle del 1628 e del 1642. Le prime edizioni dei ricercari (1615 e 1618) comprendono cinque canzoni, dopo di che l'eventuale "secondo libro" assumerà in realtà caratteristiche talmente peculiari di elaborazione da indurre Frescobaldi a dare un titolo proprio all'opera, quello appunto di "Capricci": "In questi componimenti intitolati Capricci, non ho tenuto stile così facile come ne' miei Ricercari".
Ancora una volta il magistero di Luzzaschi è, secondo l'ammissione del Frescobaldi nella dedica ad Alfonso d'Este principe di Modena, all'origine di tale opera: "Devo a Vostra Altezza, come a Principe, che per nascita ritiene da' suoi maggiori l'antica ed ereditaria protezione delle buone arti, il frutto di quelle fatiche musicali, a cui mi diedi ne' miei primi anni sotto la disciplina del signor Luzzasco Organista sì raro, e servitore sì caro alla Serenissima Casa d'Este".
Il Capriccio mostrerà il cammino alle Toccate del Secondo Libro sia nella sezionalità chiara e distinta dei passaggi che nell'uso della mensuralità le cui vestigia compaiono solo come gioco ritmico nella contrapposizione tra ternario e binario nella Toccata nona per evidenziarsi maggiormente nelle Canzoni, particolarmente la quinta e la sesta. Tale ormai impropria segnatura proporzionale cederà quindi il passo all'esplicita indicazione di movimento "allegro" e "adagio" delle Canzoni del 1628 e dei Fiori Musicali un processo inverso dalla Toccata al Capriccio è verificabile al contrario nella conclusione binaria delle sezioni in trippola, quali ad esempio a battuta 48 (ed. Suvini-Zerboni) del Primo Capriccio, a batt. 36 del Terzo e così via. Analogo procedimento si riscontra anche nelle Canzoni del 1628 e nei Fiori Musicali del 1635 (ad esempio la fine della seconda sezione della Canzon dopo l'Epistola della Messa della Domenica).
Anche se a tutt'oggi manca uno studio comparativo dei vari temi di Ricercari è certo che la circolazione a stampa permettesse la diffusione di temi e la verifica di stili differenti reciprocamente influenzantisi. Tuttavia è legittimo opinare che Napoli sia stato il tramite grazie al quale la musica iberica, da Frescobaldi forse conosciuta anche nello stilisticamente misterioso soggiorno fiammingo, abbia potuto pervenire ad influenzare la concezione del Capriccio, sia nella tematica che nella sua stessa estensione, notevolmente più ampia del Ricercare.
Particolarmente il libro di Mannel Rodriguez Coelho, Flores de Musica, pubblicato a Lisbona nel 1620 in partitura contiene elementi ben precisi di raffronto con l'opera di Frescobaldi. In esso sono contenuti vari esempi di canto all'organo (i Magnificat) ed il titolo stesso è analogo all'opera del 1635, Fiori Musicali. Inoltre il tema del IV Tento del quarto tom è molto analogo a quello del Capriccio X ed al Recercar della Messa della Modonna, ambedue con obbligo di cantare la quinta parte senza toccarla. L'opera è in partitura a quattro voci ed è fornita di una serie di avvertimenti molto utili per il raffronto con quelli del Frescobaldi.
Per quanto attiene al Capriccio con l'obbligo di cantare la quinta parte esso è in linea con una tradizione iberica che ritroviamo anche in Antonio Carreira nel Tento com Cantus firmus a Cinco: Quinta voz de fora "Conque la lavaré la flor de la mi cara" per non parlare dei Versos para se cantarem ao argao ou Arpa em Tiple ou Tenor contenuti nel Ms 964 di Braga. Ancora nel corso del XVIII secolo J.J. Cassanea de Mondonville, pubblica un libro di Pièces de clavecin avec voix ou violon, opera V, 1748 a Parigi, in cui dichiara che il volume "interesseroit particulièrement ceux qui joignent au talent du Clavecin celui de la voix, puisqu'ils pourront executer seuls ce genre, de Musique. Les personnes qui ont l'usage de s'acompagner en chantant, auront plus de fácilitè à remplir mon idée".
Né è da dimenticare che Frescobaldi stesso ebbe fama di avere ottima voce di tenore, tessitura per la quale è scritta la quinta parte del Capriccio e del ricercare. Nel caso del Capriccio X tale consuetudine di cantare viene posta come obbligo non solo compositivo ma anche esecutivo. Sussiste qualche dubbio sulla recente identificazione della quinta parte con la melodia dell'Inno Jesu corona Virginum. Se l'incipit dell'Inno presenta una evidente somiglianza con quello del Capriccio non è così per la conclusione del Cantus, in cui proprio le due note finali sono invertite rispetto al tema gregoriano. La predominanza compositiva nella concezione dei Capricci e la piena aderenza alla tradizione dell'obbligo, esasperato come detto fino a coinvolgere anche l'esecutore, rendono evidente il fatto che, come avviene per gli obblighi dei Ricercari e dei Capricci basati su note di solmisazione, la sillaba RE sottoposta alle entrate della quinta parte indichi proprio l'obbligo di cantare le note della solmisazione. Il contesto dei Capricci pare tutto incentrato su base profana e l'esecuzione, pur nou escludendo l'organo anche sulla base polimorfica e polifunzionale cui Frescobaldi fa più volte cenno, trova il suo mezzo più adatto alla tastiera del cembalo "signor di tutti gli strumenti del mondo" su cui "si possono sonare ogni cosa con facilità" al dire del Trabaci. Che un organista componesse soprattutto per il cembalo non è da meravigliarsi: la qualifica di organista è molto generica e più etimologica che non legata all'organo vero e proprio. La quantità di musica organistica nel senso attuale del termine è molto esigua se comparata a quella vocale composta dai vari "organisti". Alla mentalità moderna sfugge il fatto che l'organo come strumento di studio era fino a qualche decennio fa legato alla collaborazione necessaria di un tiramantici, come il gustoso episodio riportato da Costanzo Antegnati nell'Arte Organica ci fa rilevare. Del resto la titolazione dei Libri di Toccate del Frescobaldi porta la dicitura prevalente di Intavolatura di cimbalo, che comunque vuole altresì porre l'accento sulla forma di scrittura usata: l'Intavolatura tastieristica. Le prefazioni del Frescobaldi non formulano mai una destinazione precisa, facendo anzi riferimento alla tecnica di arpeggiare le dissonanze che pare più propria di uno strumento da penna.
Si parla di "suono de' tasti" (Fantasie) mentre l'articolazione dei brani del I Libro di Toccate è indubbia destinazione clavicembalistica. Per contro proprio nel II Libro di Toccate, nel quale la distinzione strumentale è chiaramente indicata, nella dedica al Nunzio Gallo si parla in termini entusiastici della virtù "del sonar Gravecembalo" del Dedicatario, Vescovo di Ancona, prelato "dotato di grazia, agevolezza, varietà di misura e leggiadria", condizioni necessarie "alla nuova maniera", vera seconda prattica di tecnica tastieristica. Inoltre i Fiori Musicali che rappresentano un distillato ed una sintesi dello stile del Ricercare, del Capriccio e della Toccata vengono indicati nell'avvertimento al lettore come espressamente dedicati agli Organisti, quasi a contrapposizione della destinazione strumentale delle opere che elenca immediatamente prima e cioè "le stampe d'Intavolatura, ed in Partitura di ogni sorte [di] Capricci e d'invenzioni". Ai fini della destinazione strumentale può rivestire un qualche significato anche la lunghezza veramente notevole dei Capricci rispetto alle analoghe composizioni dei Fiori (la Bassa Fiamenga della Canzon dopo l'Epistola, la Bergamasca basata anche sul Ruggero e la Girolmeta, in cui la sezionalità è ben più marcata ed indicata, come del resto più volte nel corso delle altre Messe, dall'indicazione alio modo). Temi, questi, profani collegati ai Capricci ed eccezioni all'interno di una condotta rigidamente sacra, tra i cui paludamenti essi ammiccano in qualità di veri e propri "divertissements" siglati furbescamente dalla firma della Girolmeta.
Opere difficili da sonare i Capricci per il fatto di essere in "diversi tempi e variazioni", di "stile non così facile come ne' miei Ricercari". Difficoltà accresciuta dall'essere scritti in Partitura di cui "pare che da molti sia dismessa la pratica". Pur tuttavia anche dopo il successo tipografico delle Toccate "di grandissimo gusto per non essere in Partitura" il fatto della lettura "contrappuntistica" spinge il Frescobaldi ad insistere sulla necessità dello studio della Partitura.
Le ragioni sono indicate nella Prefazione dei Capricci: la lettura "polifonica" permette di risolvere alcune irregolarità contrappuntistiche con la giusta ricerca di affetti e del "fine dell'autore circa la delettazione dell'udito" e del "modo che si ricerca nel sonare". L'insistenza sullo studio della Partitura viene senza mezzi termini conclamata nella Prefazione dei Fiori Musicali.
"Stimo di molta importanza a sonatori, il praticare le partiture perchè noti solo stimo a chi ha desiderio affaticarsi in tal composizione ma necessario, essendo che tal materia quasi paragone distingue e fa conoscere il vero oro delle virtuose azioni da l'Ignoranti. Altro non mi occorre, solo che l'esperienza è del tutto maestra: provi ed esperimenti, chi vuol in questa arte avanzarsi, la Verità di quanto ho detto [e] vedrà quanto esequirà di profitto".
La pratica odierna, così attenta al recupero delle prassi esecutive antiche ignora per lo più tale avviso. Uno degli scogli per l'esecuzione sulla partitura da parte degli esecutori secenteschi era l'imperfezione nell'allineamento delle parti nelle stampe dell'epoca per cui secondo il Grassi "avviene che son affatto dismesse, essendo necessario alli sonatori di divenir prima buoni compotisti per imparare a compartire il valor delle note".
Passando ad esaminare la struttura dell'andamento del Capriccio il quale, come le toccate, è basato sulla varietà di misura, si può verificare come l'architettura base della composizione Frescobaldiana venga elaborata secondo una struttura "oratoria" che prende le mosse da un solenne esordio cui seguono le varie argomentazioni gestite con l'episcopale "varietà di misura del bravo Nunzio Gallo. Tale varietà nel Capriccio è dal Frescobaldi stesso spiegata secondo quella riduttività del segno proporzionale tipico della scrittura mensurale, piegato e semplificato ad una mera indicazione di andamento e finalmente abolita nelle Canzoni e nei Fiori dalle esplicite indicazioni di Allegro e Adagio "nelle trippole o sesquialtere se saranno maggiori si portino adagio, se minori alquanto più allegre, se di tre semiminime più allegre, se saranno sei per quattro si dia il lor tempo con far camminare la battuta allegra". Alle quali chiarissime e fin troppo semplici indicazioni aggiungiamo come già detto l'impassibilita del tema che passa attraverso le vicende variative rimanendo identico pur nella necessaria caratterizzazione affettiva: è questo il caso del terzo Capriccio sopra il Cucco e dei Capricci basati sugli obblighi di solmisazione.
Certamente i Capricci sono l'opera più impegnativa e riuscita del Frescobaldi, nella quale egli profonde virtuosità compositiva, felicità inventiva e sapiente tecnica tastieristica.
L'uso limitato di tale opera, rispetto alle altre del Ferrarese, è stato certamente determinato dalla difficoltà esecutiva e di studio, fino ad ora condotto esclusivamente in forma armonica sull'Intavolatura. L'impiego dello stesso tema, l'esacordo, per i primi due Capricci determina tuttavia una diversissima caratterizzazione degli stessi: nel primo l'uso ascendente crea un'attiva tensione solenne e allegra dove per contro la discendenza dello stesso esacordo nel secondo crea una malinconicità assorta.
La meraviglia del terzo Capriccio, vero modello barocco per le generazioni successive, è determinata dall'ossessiva presenza in tutte le sezioni (ognuna organizzata attorno ad un tema proprio) dell'obbligo Re Si con cui risuona il canto del Cucù.
La seconda parte del tema gregoriano del Kyrie Cunctipotens percorre il quarto Capriccio con una fantasia fantasmagorica assoluta.
Il tema del quinto Capriccio, la Bassa Fiamenga (o Tedesca) è elaborato secondo un'eccelsa tecnica espressiva e compositiva tale da porsi come "obbligo" esecutivo per ogni tastierista. Da rilevare qui in particolare la struttura-tipo del Capriccio generalmente solenne e densamente contrappuntata nella prima sezione, cui seguono le altre, variamente trippolate secondo un criterio di intensificazione ritmica, per sfociare nella quasi onnipresente sezione cromatica, vero adagio al centro della composizione: infine compare una chiusura solenne o ritmicamente densa con il tema talora aggravato. Tale retorica è il modello elaborato dal Frescobaldi sulla scorta del Madrigale la cui forma poetica è generalmente costruita secondo un sillogismo contenuto spesso in un'unica frase in cui la chiusa è generalmente a forma di motto a rima baciata, finale esemplata dall'ottava, anch'essa forma chiusa di ragionamento epico-cavalleresco il cui codice viene trasposto nei casi amorosi. In tale senso la forma stessa della chiusa esemplifica "madrigalisticamente", il suggello amoroso del bacio.
Talora il tema-base del Capriccio è, sviluppato orizzontalmente: è, il caso della Spagnoletta la cui completa citazione, due volte ripetuta, percorre e caratterizza le varie sezioni, dividendo in due parti la composizione stessa. L'inadeguatezza all'assunto del libro da parte del settimo Capriccio, ed il suo carattere toccatistico e galante fa sì che venga espunto nelle due seguenti edizioni per ricomparire in forma variata come Aria detta Balletto nel Secondo Libro di Toccate.
La modernità del Capriccio ottavo con ligature al contrario è talmente sconvolgente che solo uno studio approfondito può rivelarne la grandezza. Esso nasce come un virtuosismo sul vezzo napoletano di durezze e legature realizzato dal Capriccio seguente.
Già si è parlato del Capriccio X di cui si vuole qui rilevare l'intensificazione emotiva determinata dalle tre sezioni in trippola susseguentisi fino a sfociare nell'ampio finale. Anche qui la forma del Capriccio indicata per la Bassa Fiamenga è realizzata in pieno con esordio solenne cui si susseguono vari passi che conducono alla sezione cromatica, centro della composizione da cui scaturisce l'impeto finale testè rilevato.
Del Capriccio sopra un soggetto (undecimo nella prima edizione, nono nelle due seguenti) colpisce il piglio di Canzon Francese, specificato anche dalla ternarietà del secondo episodio. Tale genere è all'origine di tutte le fughe "frescobaldiane" presenti nelle varie intavolature seicentesche, per non parlare delle innumeri attribuzioni sette-ottocentesche nelle Antologie organistiche: grandiosa la sezione finale in aggravamento del tema.
L'ultimo Capriccio è esempio magnifico di "madrigalizzazione" tematica. In esso il tema, basato sull'incipit Ariostesco del canto XLIV dell'Orlando Furioso, è il cosiddetto Ruggero in cui Bradamante dichiara la propria fedeltà al Paladino. I due versi iniziali, intonati con la melodia variata più volte nell'opera del Frescobaldi, recitano: "Rugger, qual sempre fui tal esser Voglio / sino alla morte e più se più si puote". La prima sezione si divide in due parti di cui la prima (batt. 1 a 17 secondo l'edizione Suvini-Zerboni) vede il primo verso diviso in due emistiche: "Ruggier qual sempre fui" solennemente affermativo, si contrappone a "tal esser voglio", rassicurantemente affettuoso. La seconda parte (batt. 18 a 35) suddivide anch'essa il verso: "fino alla morte" con le sue note ribattute è accompagnato da un contrappunto costituito da un moto continuo di crome ad indicare la durata illimitata del sentimento sul quale si innesta la solenne dichiarazione "se più si puote".
La sezione seguente in trippola maggiore interviene solennemente a commento parziale dell'esposizione dei caratteri tematici, ribadendo la solennità "eterna" del giuramento del secondo verso. Lo schema di Capriccio frescobaldiano vede la trippola maggiore in tale funzione anche nel Primo e nel Terzo Capriccio, in quest'ultimo proprio nella stessa situazione gerarchica di seconda sezione. La seconda parte del Capriccio inizia con un episodio in cui l'intero distico è citato due volte per intero (batt. 48 a 56 e batt. 56 a 64) con eccezione dell'ultimo emistiellio "se più si puote" che interviene solo in conclusione a partire da batt. 61 a fugare ogni dubbio del Paladino. Segue anche qui una trippola, questa volta minore, (batt. 65 a 77) basata su un eco di "tal esser voglio" per sfociare (batt. 78 a 86) in un'espressivissima intensificazione dei tre segmenti "tal esser voglio, fino alla morte, se più si puote" incastrati in tale forma, efficacissimamente madrigalistica: "sino alla morte" è seguito da una quintuplice affermazione di "tal esser voglio" (con inversione testuale di grande effetto); alla ripetizione al basso di "sino alla morte" (batt. 80-81) segue due volte "tal esser vaglio". Il soprano riprende il "sino alla morte" cui si interseca l'alto con il "tal esser voglio" mentre unitamente al soprano il basso conclude col "se più si puote" Alla battuta 82 il tenore riprende il dialogo col "sino alla morte" seguito dal "tal esser" del soprano cui s'ntersecano l'alto e quindi il tenore con il "se più si puote", il basso con due ripetizioni di "tal esser"(batt. 83 e 84), il soprano con "se più si puote", ma tutte queste ultime inserzioni sono veri e propri "inganni" ossia false entrate. Alla battuta 84 l'alto proclama il suo "sino alla morte", seguito dal "tal esser voglio" del tenore, concluso finalmente dal "se più si puote" del basso con un piccolo eco del "tal esser voglio" del soprano.
L'epopea continua con una terza parte al cui prima sezione (batt. 87 a 111) vede il tema esposto nella sua interezza all'interno delle varie voci, una prima volta da batt. 87 a 98 per poi riprendere col "sino alla morte se più si puote" fino a 111. Il tutto accompagnato da un trottante controsoggetto. Dolce ed affettuosa, la sezione centrale cromatica (batt. 112 a 132) canta cinque volte "Rugger qual sempre fui" per sfociare nella quarta ed ultima parte che conclude il cielo con intensificazione eroica e cavalleresca del contrappunto che nella prima sezione (batt. 132 a 151) accompagna con un vero "moto del cavallo" i due eroi-cavalieri-amanti, Ruggero e Bradamante, che si ridicono allontanandosi all'orizzonte il secondo verso, mentre il "Ruggier" è già stato sufficientemente esposto nella scena amorosa cromatica. L'ultima sezione (batt. 152 a fine) prolunga nell'eternità, grazie alle gamme ascendenti e discendenti, l'ultimo verso, con l'terazione finale (batt 55 a 158 e batt. 160 a fine) del "se più si puote".

Sergio Vartolo