Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, agosto 29, 2009

Giancarlo Menotti in un profilo di Enzo Dara

“Nel 1969 conoscevo tutto di Menotti: le sue composizioni, i suoi successi, i suoi problemi con la critica italiana...”.

«Nel corso della mia carriera ho frequentato Giancarlo Menotti solamente in tre occasioni e ogni volta mi sono arricchito di qualcosa sia sul piano artistico sia su quello umano.
Il primo incontro risale al 1969 (mamma mia quanto tempo fa!) scritturato dal Festival di Spoleto per il ruolo di Mustafà nell’Italiana in Algeri di Rossini. La cittadina umbra era regno incontrastato del compositore italo-americano, da quando, nel 1958, egli aveva ideato il Festival dei Due Mondi, manifestazione che ha dato a Spoleto lavoro, ricchezza e fama. Senza il Festival e ovviamente senza Menotti, Spoleto sarebbe come tanti altri piccoli centri della nostra Italia, belli e preda del turismo “mordi e fuggi”. Anzi oggi, in piena crisi turistica, più “fuggi” che “mordi”. Non so che cosa Menotti abbia individuato in Spoleto e nelle antiche bellezze dei luoghi; di sicuro lo stimolò l’idea di un’affascinante avventura: far restaurare dei teatri, scovare, tra tante testimonianze, luoghi in cui fare musica e teatro.
Durante i giorni dedicati alle prove, accanto a colleghi quali Patricia Kern, Isabella, Piero Bottazzo, Lindoro, Alberto Rinaldi, Taddeo, incontro due o tre volte per le strade e le piazze di Spoleto Menotti girovagante in maniche di camicia con le spalle, il nasone aristocratico fendente l’aria quell’anno, a dire il vero, assai scarsa ché il caldo era soffocante. Naturalmente non ho il coraggio di avvicinarlo, anche perché il compositore era attorniato da anziane signore, certamente straniere le quali, al piacere di incontrarlo e all’onore di parlargli, emettevano acuti gridolini che l’accento americano rendeva più striduli. Il baritono Rinaldi mi traduceva quello che le dame (Spoleto allora ne aveva tante e con tanti dollari) dicevano a Menotti: “Caro Maestro, ricorda due anni fa a New York?” oppure: “Maestro Giancarlo ricorda cinque anni fa proprio qui a Spoleto?” e il Maestro, grande attore: “Yes... yes...” con tutta l’apparenza della sincerità.
Un altro giorno incontro il Maestro nel suo meditabondo girovagare che guarda con fissità un mattone spostato, un balcone fiorito, un negozio chiuso, proprio nel momento in cui è fermato da un allampanato signore di mezza età che, ancor prima di incrociarlo, gli rivolge il solito “Si ricorda di me?” Rimango esterrefatto dalla risposta secca del Maestro: “No, non mi ricordo di lei!” Menotti prosegue lasciando di stucco il malcapitato. Poiché un attimo prima dell’incontro stava canticchiando sottovoce presumo che lo sconosciuto signore gli abbia disturbato la scoperta di un motivo, di una bella melodia per una composizione. Seppi poi che l”’allampanato” altri non era che un famoso critico poco gradito al Duca.
Nel 1969 conoscevo tutto di Menotti (o quasi): le sue composizioni operistiche, i suoi successi, i suoi problemi con la critica, soprattutto quella italiana che non l’apprezzava molto. Per di più non è che i nostri teatri facessero a botte per allestire le sue opere. E queste forme di ostilità sono sempre state la sua spina nel cuore. Sapevo anche dei suoi capricci che sfogava soprattutto a Spoleto, come la pretesa che le campane del Duomo tacessero perché disturbavano la sua pace domestica. Le campane tacquero. Durante le prove si lavorava come matti con quel pazzo di Patrice Chéreau, rampante regista sessantottino che a me pareva un genio, un vero fiume di idee. Ed ecco Menotti arrivare in teatro, insieme a un giovane assistente segretario, l’immancabile golf a dargli l’aria di finto casual, la solita aria stralunata. Ha in mano un libro troppo piccolo perché possa leggerne il titolo senza farmi notare. Infatti, dopo alcuni inutili tentativi, il Maestro.con fare allegro mi sbatte sul muso la copertina: “Ecco, leggi - mi dice – visto che sei così curioso”. Consigli per vivere felici di... non ricordo più chi (forse Seneca?). Bel titolo, anche utile, penso, ma sono convinto che Menotti, in fatto di vita felice, potrebbe dare lui stesso consigli all’autore. “Vedo che ti piacciono i libri - dice - toh, te lo regalo”. E mi allunga il voIumetto finemente rilegato “Ma guarda - continua - non prenderlo molto alla lettera. Per essere felici non si ha bisogno di consigli. Si nasce felici, e basta…”. A questa gentilezza scorgo negli occhi del supposto segretario (più avanti saprò trattarsi di un laureando che vuole fare la tesi sul Maestro) una punta di gelosia subito dissolta non appena resosi conto che non potevo rientrare nei gusti estetici del Maestro. Notai anche che il ragazzo, alquanto belloccio, gli ricordava date, fatti, impegni, nomi mentre, a ogni frase del compositore, prendeva appunti.
Così le voci su un Menotti distratto e smemorato prendevano corpo. Le sue ruffianate alle signore sui selciati di Spoleto erano veramente false. Una piccola parentesi: sono anni che cerco disperatamente negli angoli più nascosti della mia biblioteca il volumetto menottiano senza trovarlo. La stessa sera il Maestro invita tutta la compagnia di canto e Chéreau a Palazzo Campello dimostrandosi un perfetto anfitrione: simpatico, loquace quanto basta, spiritoso, ride spesso di se stesso, soprattutto della sua memoria. E sentendolo parlare e raccontare molti aneddoti della sua vita, mi viene da pensare: “Ma come fa quest’uomo a vivere in Scozia, al freddo in un castello dove dicono ci sia anche un fantasma se ama tanto stare al sole come una lucertola?” Mah! A tavola tratta tutti con affabilità mantenendo la conversazione a un notevole livello di ironia sull’Arte e sulla Vita come sulla Morte. Alla signora Morte accenna spesso, certo per scaramanzia.
Appena viene a sapere che sono di Mantova mi racconta che con la mia città aveva preso contatti per un festival, prima di giungere a Spoleto. Ma i mantovani, sempre maestri nel dire di “no” e nel farsi sfuggire le occasioni, sempre colpiti da pigrizia cronica avevano tergiversato e perso, come si suol dire, il treno. Non chiesi con chi avesse avuto i contatti, tanto non l’avrebbe ricordato, mentre chiudeva il discorso: “Meglio così, troppo caldo umido, troppe zanzare”. Poi, vedendomi unpo’ mortificato, cercò di rimediare alla gaffe continuando: “Ma Mantova è così bella che non ha bisogno di un Festival per farsi ammirare”. “Sì - pensai tra me - Mantova è così bella ma anche tanto vuota”.
Nel 1969 il Festival dei Due Mondi di Spoleto compiva il suo undicesimo anno di vita con Verdi e Daudet, De Falla e Berio, Prokofiev e Rossini, Donizetti e Henze. In tutti questi anni grandi nomi alla ribalta: Visconti e Jerome Robbins, Rossellini e Carla Fracci, Paolo Stoppa e Zeffirelli, Patroni Griffi e Richter, De Lullo e Romolo Valli, scusate se è poco, oltre a tanti, tantissimi giovani talenti molti dei quali spariranno in seguito nell’inesorabile setaccio del teatro ma altri, quali ad esempio Thomas Schippers, Patrice Chéreau, Luca Ronconi e Bruno Campanella diventeranno qualcuno. Nei primi anni del Festival il suo creatore stette un po’ in disparte come compositore poi, piano piano, le sue creature ebbero peso crescente nel programma musicale. Proprio nell’anno del mio debutto a Spoleto ascoltai rapito la sua Medium, regia dell’autore, scene e costumi di Samaritani. direzione di Campanella che già si capiva sarebbe diventato un grande ed estroso direttore. L’opera di Menotti, abbinata a El retablo de maese Pedro di De Falla, mi piacque molto perché se anche la musica poteva suscitare dubbi e sospetti la resa teatrale era perfetta. Secondo il mio modesto parere la musica di Menotti non ha nulla da spartire con quella di Puccini, come imputatogli da molti: è invece la toccante drammaturgia che più si avvicina all’autore di Tosca. Inutile dire che la serata De Falla-Menotti fu un vero trionfo per tutti e il Duca di Spoleto, all’apparire al proscenio, fu salutato da un frenetico applauso di entusiasmo. Gli strilli delle solite dame furono coperti dagli applausi del pubblico.
L’infittirsi di allestimenti menottiani a Spoleto si pensa sia stato voluto dal compositore per compensare l’immotivata esclusione delle sue opere dai teatri italiani. Erano gli anni nei quali i suoi melodrammi avevano un enorme successo di pubblico mentre le composizioni della cosiddetta avanguardia (molte di queste opere poi, improvvisamente invecchiate e ora improponibili) erano sistematicamente fischiate. “Ah, voi bandite dai vostri teatri le mie creature? – avrà pensato Menotti - e io le faccio eseguire al “mio” Festival”. Detto fatto».

di Enzo Dara ("Personaggi in chiave", Azzali, 2004)

domenica, agosto 23, 2009

Igor Stravinsky: "The Rakes' progress"

Cinico, stupefacente artigiano del comporre, Stravinskij propone una poetica della musica aliena da ogni partecipazione affettiva all’atto creativo. L’orchestra di Basilea ce ne offre un saggio, ordinando il primo e ultimo frutto del neoclassicismo d’autore: “Pulcinella” e “The Rake’s progress”.

In un certo senso The Rake’s progress è un’opera autobiografica, e il libertino altri non è che Stravinskij stesso, compositore allo specchio della storia e dell’uomo», scrisse Sergio Sablich a proposito dell’opera ‘mozartiana’ eseguita la prima volta alla Fenice di Venezia poco più di mezzo secolo fa. Nella metafora, una sintesi perfetta. Si può solo provare a indagarne i dettagli, come suggerisce il programma monografico dell’Orchestra da camera di Basilea che accosta la suite della Carriera del libertino - titolo del ciclo di incisioni parodistico/moralistico di William Hogarth (1733), spunto del libretto di Auden e Kalmann - al “ballet avec chant” Pulchinella (Musique d’aprés Pergolesi) del 1919-20. La proposta ha una prima, esplicita, ragion d’essere ordinando il primo e ultimo frutto del neoclassicismo d’autore: un’applicazione stilico-compositiva che ha punteggiato con regolarità trent’anni di attività del musicista nato russo ortodosso e morto statunitense cattolico (a modo suo, come sempre). Nello scomodo ruolo di compositore di successo e allo stesso tempo di riferimento colto (ma non progressista, chiosò lo storico, filosofo e critico musicale Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno che lo contrappose a Schönberg), Stravinskij fu subito attratto dal camaleontismo. Anzi vi si riconobbe. E fece del trasformismo una pratica quotidiana (redditizia quando si dedicò a riscrivere le proprie partiture allo scopo di rinverdire i diritti d’autore) e uno stile musicale, prima che di vita. Con la medesima disinvoltura si convertì prima all’occidente dorato della capitale francese poi a quello lontano di Hollywood e delle prime major cine-discografiche; fu il più rapace allievo di Rimskij-Korsakov ma anche il più rapido compositore russo a sposare la causa artistica dello spettatore-tipo parigino, disposto a pagare qualsiasi cosa – anche a decretare un trionfale (in)successo – pur di avere una fastosa occasione di “scandalo”.
E fu altrettanto svelto nel rinunciare agli allori dei primi balletti fauve per acquisire quelli di fondatore (anche se non era vero: gli erano contro storia e date) e fecondo alfiere (sul campo: quest’è vero) del neoclassicismo musicale del 20° secolo. In realtà il neoclassicismo, reazione al soggettivismo romantico o contravveleno agli antiromanticismi estremisti dell’avanguardia, godeva di buona salute. Era praticato da molti musicisti - ma non solo - che l’avevano dotato d’un codice sintattico solido: mutuato dai (sedicenti) campioni storici della razionalità, Johann Sebastian Bach in prima fila, e da musiche che poggiavano su un’organizzazione geometrica impeccabile e uno strumentario espressivo privo di ambiguità; su forme inequivocabili e saldature armoniche a prova di serialità. Sfogliando qualsiasi storia della musica, al capitolo Neoclassicismo troveremo scritto a caratteri maiuscoli il nome di Paul Hindemith, ma la popolarità dell’idioma che prese piede nella Francia postdebussyana, con frange nelle capitali postschoenberghiane e occasionalmente anche in Italia, è indiscutibilmente legata alla metodica attenzione che gli dedicò Stravinskij. La stagione neoclassica prese le mosse dal Pulcinella parigino. Il balletto su musiche di Pergolesi (o presunte tali: in quei decenni la prospettiva musicologica era corta, e tutto ciò che apparteneva al settecento italiano era un corpus unico; nemmeno Vivaldi era stato ancora ‘scoperto’) nacque come impegno musicalmente semplice: il compositore doveva strumentare e collegare fra loro una serie di musiche “pergolesiane” (alla fine solo nove, dei diciotto pezzi, sono attribuibili all’autore: cavati dalle opere Flaminio e Lo frate ’nnammorato, da una Cantata e da una Sonata per violoncello), accostate per il comune estro popolaresco e mediterraneo che avrebbe acceso la fantasia di Picasso per le scene e di Massine per la coreografia partenopea (oltre che allietare le tasche di Diaghilev e i borderò dei Ballets Russes). Senza vincoli formali, il compositore si comportò da accorto restauratore, rispettando le forme esterne (cioè melodie e bassi d’armonia) ma sbizzarrendosi nei contenuti: intarsiando l’originale struttura con note estranee, sovrapposizioni politonali e scapestrate soluzioni ritmiche che misero a dura prova i cantanti. Pulcinella è una sorta d’irresistibile andirivieni sonoro tra suadenze settecentesche e acidità novecentesche: fondato sulla “poetica della distanza” (o di straniamento per dirla con un concetto brechtiano di quei decenni) più che motivato da atteggiamenti ‘critici’ o banalmente nostalgici nei confronti della tradizione. Stravinskij, che per la prima volta saggiava la tradizione musicale ‘antica’ e occidentale, scoprì vanità e vitalità di quelle forme-relitti d’un passato lontano: ne annullò la natura espressiva ma ne subì il fascino strutturale. Stravinskij riconobbe nella filigrana costruttiva pergolesiana un vocabolario essenziale e sterminato che bastava farcire di nuovi contenuti per rendere moderno. Il suo cinismo di stupefacente artigiano del comporre musicale gli offrì gli strumenti migliori per realizzare un proposito artistico, che tra l’altro era la più comoda e diretta conferma d’una Poetica della musica (titolo del suo saggio teorico degli anni ‘40) istintivamente schierata: contro qualsiasi idea di partecipazione affettiva all’atto creativo o di consenso a valori musicali che non fossero l’intrinseca organicità costruttiva delle partiture. Trent’anni dopo, esaurite altre pittoresche divagazioni stilistiche e coniugazioni rivolte alla tradizione, The Rake’s progress si riallacciò ai modi e al mondo pergolesiano. Ma il bersaglio fu più ambizioso. Nei tre atti, concepiti simmetricamente per numero di quadri e di tracciati drammatici, suonati da un’orchestra causticamente classica (clavicembalo compreso, ma il pianoforte è ammesso), l’ambizione neoclassica stravinskiana magnificò se stessa. A ben ascoltare, se non a leggere la sfavillante partitura che si apre con una toccata-ouverture di tinta ‘monteverdiana’ ma stranita dai ritmi asimmetrici, non c’è regola del passato musicale che non sia utilizzata, disinfettata e restituita con nitore moderno. Ancora prima di scrivere una nota Stravinskij aveva fatto sfoggio della sua onnivora e personalissima concezione neoclassica – definizione che rinnegò sempre; anche Debussy, del resto, disconobbe l’etichetta impressionista e simbolista – ridiscutendo nella realizzazione del testo la tradizione librettistica. Imponendo lo schema formale e letterario del dapontiano Così fan tutte, e la narrazione per arie, recitativi e pezzi d’assieme dell’operismo comico postpergolesiano, ma continuando a derogare dal modello: accogliendo suggestioni teatrali di segno lontano (e più vicine a noi, quelle hoffmaniane/offenbachiane e ciaikovskiane) mentre in musica gli evidenti rimandi all’operismo romantico italiano controbilanciarono gli ‘hogarthiani’ omaggi al barocco inglese e i richiami gluckiani. Tutto è citabile in The Rake’s progress ma non è citazione (a parte la canzonaccia da strada nel 3° atto). Tutto è falso eppure veritiero, e alla fine perfino drammatico e commovente. Perché anche se in palcoscenico il diavolo-Leporello-Shadow non vince – o meglio, vince solo in parte: ma contro un uomo modernamente “senza qualità” – mentre giganteggia l’eroico affetto di Anne trattata come una star del belcanto straussiano-settecentesco (alla prima cantava Elizabeth Schwarzkopf), in ogni pagina della partitura spadroneggia l’ennesima maschera del diavolo-libertin Stravinskij. Con un finale sberleffo alla storia. Capolavoro e epilogo della proficua stagione neoclassica europea, associata per troppo tempo alla retroguardia della musica moderna, The Rake’s progress andò in scena glorificando l’autore (anche in veste di direttore d’orchestra) l’11 settembre 1951. Arnold Schönberg, padre-mentore proclamato (ma con scarsa apertura di credito pubblico) dell’avanguardia era morto otto settimane prima, venerdì 13 luglio.

Angelo Foletto (Musicalmente, anno V, n.1, gennaio 2009)

venerdì, agosto 14, 2009

Igor Stravinsky: La Messa

Prologo
Musica sacra.
Un’espressione corrente, che indica abitualmente la musica destinata ad un utilizzo liturgico. Nel senso comune, tuttavia, il termine sacra tende ad assumere subito un peso esorbitante rispetto a quel significato puramente funzionale. Quasi che l’intima familiarità con la Parola divina carichi i suoni di un’insondabile profondità, la faccia in qualche modo partecipare al Mistero di Dio.
Accostarsi così, da autore, al compito di creare una pagina musicale sacra può essere un compito da far tremare i polsi; tale da richiedere - forse - una preparazione in fervente preghiera, come accadeva agli antichi iconografi bizantini.
Per secoli, musicare i testi canonici della messa è stato un compito svolto da compositori legati da un vincolo professionale pressoché esclusivo con la Chiesa (non importa se cattolica, come nel caso di Palestrina o Mozart, o luterana come per J.S. Bach). Musicisti che - per una parte rilevante della propria vita - si sono identificati con il servizio alla Parola divina. Musicisti che in alcuni casi (e pensiamo ancora una volta a Bach) hanno concepito - in una visione evidentemente ancora integrale della fede - il loro fare musicale come parte assolutamente integrante della propria vita cristiana.
In alcuni casi - al contrario - il musicare i testi della messa ha costituito semplicemente la testimonianza di un fugace erompere del senso religioso in animi, fino a quel momento (e, a volte, dichiaratamente), lontani da una reale fede cristiana. Pensiamo alla Missa Solemnis di Beethoven o a Giuseppe Verdi che - profondamente, e personalmente, colpito dalla morte di Alessandro Manzoni - scrive la sua drammatica, e popolarissima, Messa da Requiem.
Accostandoci invece alla Messa per coro e doppio quintetto di fiati, scritta tra il 1944 il ’47 da Igor Stravinskij, le cose cambiano. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un unicum sia per quanto riguarda la sua genesi sia per il ruolo che questo capolavoro ricopre nel panorama musicale del Novecento, così povero di opere sacre di significativo spessore artistico.
Ci troviamo di fronte ad un evento singolare anche nello spazio - in verità, circoscritto - della produzione religiosa del compositore. La Messa, infatti, si colloca come punto nodale tra i primi lavori sacri, che ricalcano - anche stilisticamente - la secolare tradizione musicale ortodossa, e le composizioni religiose dell’ultimo decennio di vita, nelle quali l’elaborazione musicale (basata in prevalenza sulla tecnica dodecafonica “scoperta” da Stravinskij nei suoi anni americani) assume alti livelli di complessità e di astrazione simbolica. Vedremo più avanti il ruolo che l’Autore attribuirà a questi ultimi, specifici elementi costruttivi.

L’autore
Igor Stravinskij (Oranienbaum, Russia, 1882 - New York, 1971) non può certo essere annoverato tra i grandi musicisti “sacri” del Novecento, per lo meno dal punto di vista puramente quantitativo (scrisse circa una dozzina di brani di carattere religioso, metà dei quali nell’ultimo decennio di vita).
Autore dal controverso ma folgorante successo con lavori sinfonici del calibro dei balletti Petrushka (1911) o La Sagra della primavera (1913), Stravinskij ci si presenta con l’aspetto di un onnivoro uomo di mondo, ugualmente a suo agio a Parigi come a New York, a Losanna come a Los Angeles.
La sua storia pubblica è quella del costituirsi progressivo di un mito: quello di un compositore capace di passare, nel giro di pochi anni, da brani ritenuti allora assolutamente sperimentali (o, per qualcuno, barbari) a ciò che superficialmente potrebbero apparire come semplici riesumazioni del passato.
Un autore, per qualcuno, in grado di assimilare e riproporre in modo assolutamente personale tutta la storia musicale precedente; per altri un irresoluto, eterno fanciullo che ha saputo mantenere con la musica un rapporto esclusivamente ludico e forse - si vuol fare intendere - leggermente irresponsabile.
Un personaggio pubblico che passa con disinvoltura dai doveri di una cattedra all’Università di Princeton, alla tavola del Presidente John Fitzgerald Kennedy (in memoria del quale scriverà poi, nel 1964, Elegy for JFK).
Sotto questo turbinoso viaggiare, emigrare, dirigere, comporre, scrivere saggi, apparire e scomparire, si muove tuttavia un fiume sotterraneo, invisibile e potente, che a tratti emerge con forza producendo eventi (musicali e non) inattesi. Accadimenti che possono assumere aspetti e valenze apparentemente diversi ma riconducibili tutti alla forza di quel flusso nascosto.
Il primo di questi eventi - ben lungi dal costituire un fatto unicamente interiore e privato - è il suo ritorno, all’età di 44 anni, alla fede cristiana. Dopo essersi allontanato, come anche oggi tanto spesso accade ai più giovani, dalla pratica religiosa (si deve peraltro riconoscere che la sua educazione non era stata ispirata ad una religiosità particolarmente sentita) nel 1926 “riscopre” la Chiesa Ortodossa Russa, nella cui fede ogni buon russo si era per secoli riconosciuto.
La sua conversione ha, probabilmente, anche a che fare con la frequentazione del circolo parigino di artisti e intellettuali che faceva capo al grande filosofo cattolico Jacques Maritain, come pure con la profonda esperienza religiosa che lo investì durante la sua visita al Santuario di S. Antonio a Padova, sempre nel 1926. Il “concreto” Stravinskij definirà quel momento come “l’esperienza più reale della mia vita”.
Da quel momento in poi, il fitto e multicolore tessuto della sua produzione sarà periodicamente rischiarato da gemme rare e luminose: le sue composizioni sacre (o, comunque, di ispirazione religiosa).
La serie si apre con il Pater Noster del 1926, seguito da un Credo e da un’Ave Maria (i tre pezzi furono pubblicati con la dicitura “per l’Ufficio Divino” e mostrano i caratteri più tipici della musica liturgica russa: quella di Alexander T. Gretchaninov, per esempio) e giunge subito ad un clamoroso culmine con la Sinfonia di Salmi in tre movimenti (1930), nata da una commissione ricevuta per il cinquantesimo anniversario della Boston Symphony Orchestra. Alla rituale richiesta del suo editore di scrivere un pezzo “popolare”, Stravinskij rispose scegliendo di utilizzare - all’interno di un lavoro sinfonico - il testo del Salmo 150, ritenendolo popolare nel senso di qualcosa di universalmente ammirato. Non era secondario, in questa scelta, neppure l’orgoglio di dimostrare quale uso si potesse fare di un testo tanto elevato che - secondo lui - nelle mani di molti compositori era stato un puro e semplice “aggancio per i loro sfoghi lirico-sentimentali”. Il risultato fu la grandiosa e severa Sinfonia che porta la dicitura “composta per la
gloria di Dio” (come non pensare al Soli Deo Gloria che Bach premetteva a molte delle sue composizioni, non importa se profane?).
Nulla per ora, tuttavia, che apparisse seriamente implicato con un’effettiva collocazione liturgica delle composizioni.

La genesi
Sappiamo che l’idea di comporre la Messa venne a Stravinskij come reazione istintiva ad alcune messe di Mozart, scovate a Los Angeles nel ’42 in un negozio di libri di seconda mano. Lo stile mozartiano gli apparve “rococò e operistico”; le messe come “dei dolci peccatucci” musicali. Esattamente il contrario di ciò che, nella sua mente, avrebbe dovuto essere una vera messa. A questa istintiva repulsione, si univa l’impressione di completa decadenza che il compositore ricavava dalla musica sacra ascoltata nella chiesa ortodossa di Nizza, città nella quale soggiornò prima del trasferimento a Parigi (1920).
A composizione della Messa per coro e doppio quintetto di fiati ultimata il compositore, da buon neoconvertito, si schermirà affermando di “non conoscere alcunché della musica liturgica ortodossa di quei tempi” e ciò gli sarà di occasione per chiarire che “probabilmente le parti della Messa fondono ricordi infantili della musica sacra a Kiev e Poltava, con lo scopo cosciente di aderire ad uno stile armonico semplice e severo”.
La scelta di comporre - lui di fede ortodossa - una messa cattolica può apparire eccentrica (ed avvalorare, quindi, la patente di leggerezza e irresponsabilità di cui si è già detto), ma le motivazioni sono serie, tenendo anche conto del fatto che l’opera è una delle sue pochissime nate indipendentemente da commissioni esterne, ma solamente per una personale esigenza interiore.
Innanzitutto, la Chiesa ortodossa non ammetteva - e non ammette - l’uso degli strumenti musicali nella liturgia (fatta eccezione per le campane divenute, nei secoli, il simbolo sonoro della Russia cristiana stessa) e Stravinskij non poteva tollerare la musica sacra a cappella, senza accompagnamento strumentale, se non in uno stile - a suo dire - “armoniosamente primitivo” (riferendosi, probabilmente, al Canto Gregoriano e ai primi esempi di polifonia medioevale).
Più interessante, e decisiva, è invece la seconda ragione: la sua dichiarata aspirazione a scrivere un brano non destinato al mondo concertistico, bensì ad un reale ed esteso impiego liturgico. Per questo, il compositore mette in musica unicamente i testi delle preghiere comuni a tutto l’anno liturgico, il cosiddetto Ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei.

Le idee, i fatti
Eccoci, allora, finalmente di fronte ad uno di quei punti emergenti del fiume sotterraneo che ribolle al di là - e al di sotto - della consapevolezza dell’Autore stesso.
Alcuni passi erano però ben chiari alla sua coscienza.
Innanzitutto, la sua Messa non avrebbe dovuto rivolgersi al mondo delle emozioni e dei sentimenti (proprio questo egli rimproverava alle messe mozartiane!), bensì “direttamente allo spirito” dell’ascoltatore (e quindi, nelle sue intenzioni, del fedele). Per riuscirci, il compositore sentiva di dover scrivere una musica “fredda, assolutamente fredda”.
L’idea che l’affettività, la carnalità possano costituire un ostacolo ad un’autentica esperienza di fede ci lascia probabilmente un po’ perplessi. Nei fatti, siamo stati redenti attraverso il dolore, il sudore e il sangue di Gesù Cristo nato dal ventre di Maria: se tutto ciò si può chiamare puramente spirituale… Ma, probabilmente, nell’animo di Stravinskij prevalevano indirizzi più astratti e “parigini”.
In secondo luogo, la sua Messa, per essere “realmente liturgica”, avrebbe dovuto essere “quasi priva di ornamenti”. Con questo, il compositore sentiva di dover prendere le distanze dai grandi esempi monumentali che incombevano dal passato (la Messa in Si minore di Bach, la Missa Solemnis di Beethoven e - naturalmente! - la Grande Messa in Do minore di Mozart) a favore di qualcosa di più modesto e familiare.
Il suo lavoro avrà così una “ragionevole” durata di soli 17 minuti circa.
Terzo, la composizione della Messa non fu mai concepita come un solitario (seppur alto) atto di fede individuale, ma come servizio funzionale alla certezza della fede. Sono particolarmente illuminanti, a questo riguardo, le affermazioni di Stravinskij stesso: “Nel musicare il Credo volevo proteggere in modo particolare il testo. Come si compone una marcia per facilitare chi sta marciando, così io spero con il mio Credo di fornire un aiuto al testo. Il Credo è il tempo più esteso. C’è molto da credere”. Così, come nelle migliori intenzioni controriformistiche, il testo liturgico è sempre integralmente rispettato e reso facilmente comprensibile, anche nei punti di maggior complessità della polifonia.

L’opera
Detto - come già sopra - che l’Autore mette in musica unicamente i testi dell’Ordinario, mille sarebbero i particolari da mettere in luce all’interno delle cinque parti che formano l’opera completa; lavoro di una ricchezza e di una sapienza costruttiva che - ad un primo ascolto - possono anche risultare non immediatamente evidenti.
Cercheremo quindi di evidenziare alcuni aspetti di carattere globale che ci possano aiutare a percepire la Messa di Stravinskij nella sua assoluta originalità, e in tutto l’enorme valore artistico che le è proprio.
Chi vorrà poi dedicare del tempo ad un ripetuto ascolto - o chi vorrà prendere in mano la partitura, facilmente rinvenibile nei negozi musicali - scoprirà più nel dettaglio tutta l’enorme sovrabbondanza della fantasia di questo campione del Novecento musicale. Iniziamo dalla formazione impiegata. Ci troviamo di fronte ad un coro misto a quattro voci che in brevi tratti si divide in cinque, o anche sei, parti. La raccomandazione dell’Autore è che la parte più acuta - quella dei soprani - sia affidata a voci maschili di fanciulli (voci bianche). Questa scelta, non sempre rispettata nelle esecuzioni concertistiche, è il primo indizio del desiderio di freddezza di cui si è già detto.
Le voci bianche hanno un timbro limpido e possiedono una ricca sonorità, ma sono prive del patetismo di cui le voci femminili sono naturalmente cariche.
Il coro è accompagnato - ma meglio sarebbe dire, affiancato - da un doppio quintetto di fiati. Il primo quintetto è formato da due oboi, un corno inglese e due fagotti, tutti strumenti appartenenti alla classe dei cosiddetti legni. Il secondo da due trombe, due tromboni tenore e un trombone basso, tutti ottoni.
Chi conosce un poco gli strumenti musicali tradizionali, noterà che Stravinskij fa una scelta che già fu di Mozart (ancora lui!) nella Grande Messa già citata: quella di escludere il timbro sensuale dei clarinetti a favore di quello più nasale degli oboi, e di non utilizzare i corni - dal suono caldo e dall’enorme estensione - privilegiando i tromboni. Il risultato è estremamente significativo: un timbro arcaico e distante, che (negli oboi) ricorda il Barocco tedesco e (nei tromboni) si richiama alla grande tradizione veneziana - tardo rinascimentale e barocca - della Basilica di S. Marco dove, accanto agli organi, i tromboni univano la loro voce a quella dei cori battenti, cioè spazialmente contrapposti, in una sorta di stereofonia ante litteram dagli effetti stupefacenti e maestosi.
Se consideriamo che spesso i due gruppi strumentali suonano separatamente, ci troviamo di fronte ad una sorta di triplo coro (anche questo di veneziana memoria) in parte umano, in parte artificiale: aria, voci, legno, metallo, uniti in una lode concorde. Il suono del mondo, insomma; un mondo con lo sguardo rivolto al suo Creatore.
Stravinskij stesso ci informa che i dieci strumenti sono destinati ad accordare il coro; probabilmente non solo nel senso più banale di “suggerire l’intonazione ai coristi” (compito che indubbiamente svolge), ma in quello più sostanziale di colorire timbricamente - e quindi espressivamente - l’impasto vocale. Il suono privo di vibrato - e, quindi, di patetismo - le dinamiche (i livelli di intensità sonora) piatte e l’utilizzo di un legato e di uno staccato assoluti, senza sfumature, tendono a evocare il suono di un organo primitivo, “raffreddando” decisamente
il clima espressivo.
In questo senso, possiamo senz’altro dire che la doppia formazione strumentale rappresenta l’aspetto musicalmente più oggettivo (!) del complesso.
Al coro sono invece affidati gli elementi di maggiore e più immediata espressività: le voci si dipanano in figurazioni piuttosto lineari, chiaramente ispirate alla polifonia dei grandi maestri rinascimentali (Palestrina, innanzitutto) e alle scarne e ossessive cellule ritmo-melodiche della polifonia tardo medioevale. Un ricercato ritorno all’antico, insomma; ad una semplicità (o “primitività”, secondo le parole dell’Autore) sentita come patria e salvaguardia dell’autentica fede, di fronte a ciò che veniva percepito come generalizzata decadenza della musica sacra.
Non sarà inutile ricordare che il termine oggettività è uno di quelli più frequentemente utilizzati - al limite dell’abuso - nei confronti della produzione stravinskiana.
Troppo spesso è stato inteso nel senso (improprio) di neutro, anti-sentimentale, ma è il compositore stesso a sgombrare il campo da ogni equivoco.
Per Stravinskij, il carattere proprio della musica non è l’espressione, bensì la costruzione. Egli non nega certo il potere di evocare idee e sentimenti che ogni brano musicale degno di tale nome possiede, ma questo costituisce per lui un aspetto secondario (nel senso di non originario, derivato): in definitiva, di superficie. Questa “ovvia” implicazione espressiva è in relazione con la capacità della musica di modellare il tempo psicologico, soggettivo, suscitando analogicamente in noi un vasto mondo di immagini e sensazioni. Ma è la costruzione (si potrebbe dire: la forma) che ci mette in contatto con un tempo più profondo e originario (più “Ur-” direbbero i tedeschi); con ciò che il compositore russo definisce tempo ontologico. Secondo l’Autore, il contatto con questo tempo profondo è in grado di generare in noi uno stato di euforia, o meglio di “calma dinamica”.
Comprendiamo finalmente, così, che il suo obiettivo di freddezza non è nient’altro che l’espressione del desiderio di prendere per mano l’ascoltatore e di condurlo al centro della musica, verso quel misterioso tempo ontologico. Per usare le parole di Stravinskij, “mettere l’ascoltatore in condizione di partecipare all’universale realtà dell’Essere assoluto”.
Venendo ora alla concretezza della Messa, scorriamone rapidamente i cinque tempi evidenziandone gli elementi di una qualche importanza (senza alcuna pretesa di esaustività) per un’iniziale comprensione dell’opera.
Il Kyrie si apre con il doppio quintetto di fiati che, partendo in successione dagli oboi per arrivare al trombone basso, enunciano su più ottave un bicordo DO-MI bemolle, allusivo forse della tonalità di Do minore (il coro, pochi secondi dopo, intonerà quelle stesse note). A questo riguardo, Stravinskij stesso ebbe modo di precisare più volte che la sua musica, piuttosto che a-tonale, era anti-tonale. Tralasceremo quindi (anche per ragioni di brevità) ogni riferimento al piano armonico dell’opera, che pur costituirebbe un campo di indagine interessante e promettente.
Ci interessa invece notare il modo in cui vengono suonate quelle prime note: ogni nota porta l’indicazione poco sfp (= poco sforzando, piano).
L’effetto è quello di un’improvvisa percussione, seguita immediatamente da una coda di suono tenuto, quasi un riverbero. Come non pensare a rintocchi di campana? Come non intravedere le pianure sterminate della Santa Madre Russia, e immaginare il nostro Igor con il naso all’insù sotto le navate delle chiese ortodosse della sua infanzia? Questo effetto musicale (o figura) si riproporrà più volte nel corso del Kyrie, anche nella variante di un arpeggio discendente distribuito tra tutti gli strumenti del doppio quintetto. Ma lo ritroveremo anche in significativi punti-chiave delle sezioni successive.
Nel Gloria, per esempio, dove il “rintocco” richiamerà inesorabilmente l’attenzione dell’ascoltatore introducendo, e separando tra loro, le parole “Quoniam Tu solus Sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus Altissimus, Jesu Christe” (che costituiscono il vertice concettuale del testo sacro).
E all’inizio del Sanctus, dove legni e ottoni si alternano nell’introdurre e nel concludere gli interventi di due tenori (e del coro) che enunciano selvaggiamente la Triplice Lode. E poi una ventina di secondi più avanti, quando i tromboni e le trombe scandiscono con profondi e inquietanti rintocchi (prevalentemente a distanza di quinta: uno degli intervalli acusticamente perfetti, che i pitagorici prima, e il Medioevo poi, mettevano in relazione con la perfezione dei rapporti numerici che reggono l’Universo) l’esposizione di fuga che in una figurata “ascesa al cielo” - dal MI di un basso solista, su fino al SOL estremo di un soprano - incarna il testo “Pleni sunt coeli et terra gloria tua”. O ancora quando un breve ma evidentissimo rintocco introduce all’imprevedibile tenerezza del “Benedictus”.
Non possiamo certo tacere del Credo che costituisce - dal punto di vista materiale, come pure nelle intenzioni formali del compositore - il centro dell’intera Messa. Al punto di maggior densità teologica (ricordiamo: “…c’è molto da credere”) corrisponde, inaspettatamente, la maggior semplicità di scrittura. Le quattro voci enunciano tutte insieme il testo, senza ripetizioni, sullo sfondo di accordi tenuti dei fiati (veramente il suono di una sorta di organo arcaico) in un piano uniforme, senza alcuna enfasi.
In questo contesto le tre brevi sottolineature sonore (unicamente poco più f) delle parole “Ecclesiam… peccatorum… mortuorum” balzano violentemente in primo piano, come scagliate interrogativamente contro l’inerzia della coscienza. Questa compatta uniformità di andamento delle voci ricorrerà in altre sezioni dell’opera, eloquente immagine sonora di un’umanità implorante (come nel Kyrie iniziale, e nell’Agnus Dei conclusivo) o in preda all’esaltazione assoluta del giubilo (come nei due travolgenti “Hosanna in excelsis” del Sanctus).
Impressionante, sia sul piano espressivo che su quello formale, risulta anche il brano finale della Messa, l’Agnus Dei. Per la prima e ultima volta, nel corso della composizione, le voci del coro sono lasciate a se stesse, senza accompagnamento strumentale (a cappella). Ecco, allora, che nella definitiva resa al Mistero fattasi richiesta di misericordia e di pace (“Agnus Dei… miserere nobis… dona nobis pacem”), il pathos delle voci umane nella loro nudità si fa finalmente, completamente evidente. I fiati introducono solennemente la preghiera, e si alternano alle voci con movenze e scelte sonore (tanti intervalli di quarta e quinta, dalle sonorità trecentesche) degne di una messa di Guillaume De Machaut. Le voci (prima femminili, poi maschili, poi unite) e il gruppo compatto degli strumenti si alternano in modo tranquillo e assolutamente privo di enfasi: un intimo dialogo tra umanità e materia, una commovente supplica alla quale il Creatore non potrà certo - allora, come ora - non prestare orecchio.

Epilogo
Bisogna purtroppo constatare che la Messa non conobbe - di fatto - la diffusione e l’utilizzo liturgico che Stravinskij sperava. Banalmente, alcune ragioni del mancato obiettivo sono di carattere eminentemente pratico.
La scrittura corale utilizzata non è certo facilmente affrontabile da un coro parrocchiale medio (o anche di livello qualcosa più che medio) e, oltre a ciò, richiede la presenza delle voci bianche, ormai raramente disponibili nelle chiese cattoliche, anche di una certa importanza. Il gruppo strumentale, inoltre, è un po’ troppo nutrito per essere assemblato senza difficoltà, ma un po’ troppo ridotto per interessare immediatamente la sezione fiati di un’orchestra sinfonica.
Nei fatti, la Messa avrà la sua prima esecuzione il 27 ottobre 1948 al Teatro alla Scala di Milano, sotto la direzione di Ernest Ansermet (che, intelligentemente, terrà a battesimo molti brani ritenuti, poi, pietre miliari della musica colta del ’900), e vivrà essenzialmente nel circuito sfavillante - ma chiuso - delle programmazioni concertistiche internazionali.
Sul piano della ricezione dell’opera, inoltre, non ha certo positivamente influito la sempre crescente tendenza del compositore russo - particolarmente evidente a partire dagli anni Sessanta - ad esprimersi in un linguaggio musicale scarno e conciso (influenzato, in uguale misura, dalla tardiva “scoperta” della tecnica dodecafonica e dall’aforistica estetica weberniana), facendo ricorso a scelte timbriche aspre e inusuali (la parte strumentale della Messa ne costituisce un esempio eloquente). Ma non possiamo non riconoscere che - come c’era da attendersi dall’autore del Sacre - Stravinskij utilizza una formazione tanto insolita in modo subito perfetto e naturale: perfettamente naturale, ovviamente, per il fine espressivo che lo spinge ad intraprendere “senza rete” un’avventura compositiva dall’esito tanto incerto.
A noi non resta che metterci all’ascolto di questa sua capitale fatica con orecchio sgombro e cuore aperto.
E speriamo, oggi, che la nostra gratitudine possa giungergli intatta là dove ora finalmente contempla il Volto Santo di quell’Essere assoluto nel seno del quale - esplicitamente o meno - ha concepito e deposto tutta la sua straordinaria opera.

© Umberto Bombardelli - Milano, 10 agosto 2006

venerdì, agosto 07, 2009

Alma Mahler già Gropius e Werfel

Il seguito? Una vita da emigrati fra emigrati. I Mann, gli Schönberg, Bruno Walter, Erich Maria Remarque, molti altri meno conosciuti... Vivono fra di loro, si aiutano reciprocamente... I Werfel, per quanto li riguarda, hanno scelto di abitare in California. Almeno il clima è buono.
Si stabiliscono in una piccola casa a Los Angeles dove Franz si mette immediatamente al lavoro. Non hanno problemi finanziari urgenti perché Alma ha sempre lasciato a New York una parte dei dollari che Mahler aveva depositato alla banca Lazard. E poi, se si può osare dirlo, si compie il miracolo di Lourdes. Coerente con il suo voto, Franz ha scritto Bernadette e, appena pubblicato, il libro conosce un successo enorme. Viene acquistato da «Book of the month», comperato da Hollywood... Da un momento all'altro Franz diviene negli Stati Uniti un autore quotato.
Il poveretto ne ha proprio bisogno, perché sopporta male, anzi malissimo, l'emigrazione. Nessuno è più intimamente europeo e in particolare viennese di lui.
In seguito scrive una commedia brillante, Jakobowsky e il colonnello, sullo sfondo della sconfitta francese. Non se la passano male nel sole, in una casa nuova a Beverly Hills, dove hanno a disposizione quello che per loro è essenziale, vale a dire dei libri, un pianoforte e un cuoco nero. Ma nello stesso tempo: «Franz è stanco», scrive Alma. «Non desidera lavorare, è chiuso, come morto. Gli farebbe bene un nuovo amore. Per me sarebbe una grave sofferenza, perché io sono completamente perduta in lui e non desidero niente altro - né posso volere nient'altro».
No, non ha più la possibilità di volere qualche cosa d'altro. Ci sono dei limiti, perfino per Alma. Sarebbe proprio una grande novità nella sua vita, se fosse Franz a innamorarsi di qualche giovane dama di Hollywood invece di essere sempre lei nella parte della traditrice, dell'infedele, del carnefice come di solito. Ma questa prova le verrà risparmiata. Il suo affettuoso, piccolo marito non ha questa inclinazione, anche se talvolta recalcitra sotto la bacchetta di Alma e allora succedono delle scenate fragorose dalle quali lei esce, come di solito avviene dopo un bagno di mare, tutta rinvigorita e di nuovo in forma. Werfel fuma troppo, beve troppo. Per sopportare la tensione dell'esilio gli manca la forza particolare che mantiene Alma tutta d'un pezzo, sempre certa che il centro del mondo è esattamente là dove si trova lei.
Franz ha una crisi cardiaca, poi un'altra, questa volta seria, che lo costringe a letto proprio la sera in cui il film tratto dal suo Bernadette viene presentato, con grande pompa, a Hollywood. Ascoltano la registrazione della serata alla radio. Alma scrive: «Ho una disperata paura di perdere Franz Werfel». Ma, coerente con se stessa, scrive anche: «La sera è stanco e di mattina ha un cattivo odore, una situazione alla quale una moglie non dovrebbe mai essere esposta».
Sempre impietosa con i deboli. Ma non ha più né l'età né il desiderio di cambiare uomo. Questa volta sa che Werfel sarà l'ultimo. E allora, senza compassione ma con efficienza, se ne prende cura.
La malattia ha reso Franz momentaneamente incontinente, ma guarisce e torna a lavorare a un romanzo, La stella di quelli che non sono nati. Il 25 agosto 1945 siede nel suo studio, dopo il pranzo. Verso le cinque, Alma vuole andare da lui per proporgli un tè. Bussa, lui non risponde, entra. Lo trova morto. Prima di morire, a cinquantasei anni, ha avuto la gioia di sapere che la Germania hitleriana e stata sconfitta.
Viene sepolto, come l'eroe del suo ultimo romanzo, in smoking, con una camicia di seta e un'altra di ricambio, gli occhiali nel taschino.
Per tenere compagnia alla sua salma, in una di quelle sinistre sale funerarie dell'America, avrà un salotto di persone veramente scelte: i Mann, Otto Klemperer, Igor Stravinskij, Otto Preminger, Bruno Walter - che suonerà al piano un brano di Schubert... Alma non si fa ' vedere.
Trent'anni o quasi di vita in comune, e poi questa lacerazione... Ma Alma supererà anche questo. Manon non si è sbagliata nel giudicare sua madre.
Ha sessantasei anni, il suo udito si indebolisce ogni giorno di più, si beve una bottiglia di Benédictine al giorno, ha avuto tre mariti, quattro bambini e adesso è sola. Sola: è duro.
La sorella maggiore di Franz Werfel impugna il testamento che nomina Alma crede di tutti i diritti d'autore di Franz: il ricorso viene respinto. Senza essere ricca nel senso più proprio del termine, Alma non si troverà mai in ristrettezze.
Un giorno la radio annuncia che la vedova di Franz Werfel sta per risposarsi con Bruno Walter: lei smentisce in modo sprezzante questo «scherzo di pessimo gusto». Bruno Walter attraversa il prato che separa le loro due case a Beverly Hills e, tutto divertito, le dice: «E allora! Sarebbe dunque cosi terribile?». Alma lo fulmina.
Una volta si ferisce la mano destra. Un'amica le fa avere le musiche di Skrjabin per la mano sinistra, e lei si mette a suonarle con passione.
Riceve, da Londra, una richiesta di aiuto per il direttore d'orchestra olandese Willem Mengelberg: questi possiede i manoscritti della Quarta Sinfonia e del movimento finale del Canto della terra di Mahler e ha bisogno di venderli. Alma si oppone vigorosamente, del tutto indifferente alla situazione di Mengelberg.
Infine, divenuta cittadina americana, prende l'aeroplano per l'Europa, con Platone in una tasca e una bottiglia di Bénédictine nell'altra.
Fa scalo a Londra per incontrare Anna - che non tarderà a lasciare il suo quarto marito -; la trova prematuramente invecchiata, la sua nipotina le sembra brutta, e riparte. Non ha mai amato, nel senso di quello che si chiama amare, i suoi figli, salvo Manon che lusingava la sua vanità. E vuole ancora meno bene ai nipotini. Essere nonna non è certamente la sua vocazione.
Lascia quindi Londra per Vienna. E' Vienna che vuole rivedere. E la assale l'orrore. L'Opera, il Burgtheater, la cattedrale sono rovine. Nella città non conosce più nessuno, se non una vecchia cameriera e la vedova di Alban Berg, Helene, che ormai si interessa solo di occultismo.
L'ultimo piano della casa della Hohe Warte è stato distrutto dalle bombe americane, con il tavolo di lavoro di Mahler, quello di Werfel. La casa del Semmering, venduta ai sovietici, è stata «ridecorata», e sull'affresco di Kokoschka è stata passata una mano di calce.
Karl Moll ha venduto tutto quello che lei gli aveva affidato, compreso il famoso quadro di Munch, Il sole di mezzanotte, prima di suicidarsi con la figlia e il genero, il giorno dell'ingresso a Vienna dei sovietici.
Quello che irrita Alma è l'atteggiamento dei funzionari e dei giuristi cui si rivolge per tentare di recuperare i suoi beni. Sono tutti - siamo nel 1947 - nazisti. Ai loro occhi il colpevole non è Karl Moll, ma lei, Alma, perché ha sposato due ebrei.
Allora riparte, indignata. Un avvocato americano si incaricherà di recuperare il possibile.
Per Alma, Vienna è cancellata dalla carta geografica. Più tardi tornerà ancora in Europa, a Parigi, a Roma. Ma a Vienna mai.
Nonostante la solitudine nella quale Alma ha trascorso la sua vita dopo la morte di Franz sembra che, in certo modo, si sia sentita liberata. Non più mariti, non più amanti, non più creazioni artistiche da alimentare, questi piccoli animali feroci che succhiano il sangue, non più costrizioni, libera, finalmente!
Allora, adesso può mettersi a comporre? E' troppo tardi. Spesso, da qualche anno a questa parte siede al pianoforte e improvvisa, arte nella quale eccelle. Ma comporre è un'altra cosa, un lavoro, una tecnica, una disciplina. Alma non riprenderà mai più il suo sogno interrotto. Si è affermata, e con quale forza, ma attraverso il dominio che ha esercitato su alcuni uomini, piuttosto che per mezzo della propria creatività. Avrà avuto il diritto di coltivare soltanto un'arte: quella di farsi amare. Qualcuno, da qualche parte, è stato assassinato, e il suo sangue ha irrorato opere che non gli appartengono. Concluderà i suoi giorni con una nobile parte, quella della Vedova.
Adesso abita a New York, in uno dei tre appartamenti di cui è divenuta proprietaria - è una padrona di casa particolarmente esosa -, servita dalla fedele Ida, che ha fatto venire dall'Austria, e vi ha ricostruito il suo mondo: una biblioteca, una stanza per la musica, il suo ritratto di Kokoschka, il ritratto di Mahler sul pianoforte, una gran massa di opere d'arte. Ne ha tante che non sa dove metterle, e allora le regala. In questo modo Stravinskij riceverà un Klee, che a quel tempo non vale niente.
Sempre vestita di nero, ma ricoperta di gioielli, l'irriducibile vecchia signora è tornata ad assumere l'ufficio di «Vedova di Mahler», visto che la musica dei suo primo marito comincia a diventare di moda, mentre progressivamente abbandona quello di «vedova di Werfel», dato che la fama del suo terzo marito va declinando. Certi impertinenti le daranno il soprannome di «vedova delle quattro arti».
A questo punto classifica la sua corrispondenza, ricopia le lettere di Franz, corregge e censura il suo diario, brucia, distrugge, scrive memorie. Sua figlia Anna vive negli Stati Uniti, adesso, ma in California: vale a dire che sono separate da tanti chilometri quanti se vivesse in Europa.
Alma continua a svolgere un certo ruolo all'interno della comunità musicale. Nel 1959 Benjamin Britten le chiede il permesso di dedicarle il suo Notturno per tenore e piccola orchestra. E' l'invitata d'onore a tutti i concerti nel cui programma c'è musica di Mahler, assiste alle prove, cena con Leonard Bernstein, riceve Georg Solti e la moglie... E' diventata una specie di istituzione.
Ha sempre delle persone che la vanno a trovare, alle quali intima l'ordine di visitarla. E che lo fanno.
Gropius passa da casa sua ogni volta che si trova a New York. E un giorno arrivano anche due righe da Kokoschka: è in città e vorrebbe vederla. Lei esita. Ma poi dice di no. E ha ragione: non può mostrare il proprio viso distrutto a un uomo che l'ha amata nel fulgore della sua bellezza.
Allora Kokoschka le manda questo telegramma, l'ultimo: «Cara Alma, siamo eternamente uniti nella mia Fidanzata del vento».
E' stata più che l'amore della sua vita: la sua luce, la sua passione, il suo sole.
Quanto a lei... In una sera di solitudine si é posta delle domande su questo piccolo mucchio di uomini caduti ai suoi piedi, concludendo: «Io non ho mai veramente amato la musica di Mahler, non mi sono mai veramente interessata a ciò che scriveva Werfel - e non ha mai capito che cosa veramente facesse Gropius - ma Kokoschka si, Kokoschka mi ha sempre colpita».
L'asso di cuori di questo poker d'assi è senza dubbio lui, se si può parlare di cuore a proposito di questa donna. Ma le cose sono andate in modo tale che, per l'eternità, sarà sempre Alma Mahler.
La sirena dagli occhi blu è morta a ottantacinque anni, l'11 dicembre 1964, di una polmonite, con la mano stretta a quella della figlia.
Da un anno la sua mente non era più limpida e soffriva di un diabete che rifiutava di curare con il pretesto che si trattava di una «malattia ebraica» che, di conseguenza, non poteva colpirla.
Si doveva seppellirla in California con Franz Werfel? O in Austria con Gustav Mahler? Secondo i suoi desideri, riferiti dalla cameriera, Alma divide con Manon la pace dell'eternità nel cimitero di Grinzing.
Là, nella sua prigione di pietra, non vi è più spazio per l'arroganza.

Françoise Giraud (da "Alma Mahler o l'arte di essere amata", Garzanti, 1989)