Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, marzo 28, 2020

Il commento Look e stravaganza: così s’'inventa un divo

Giovanni Allevi
Se i Beatles si fossero tagliati i capelli, non avrebbero perso un pelo della loro immagine musicale e della loro fama. Nel suo piccolo, Allevi, non lo so. Così minuziosamente e pezzo a pezzo è costruita la sua notorietà e la sua qualità è così precaria, che ho paura che gli accadrebbe quello che temono i bambini quando giocano alle costruzioni: il palazzo può essere alto, ma basta togliere un legnetto che tutto casca.
Giovanni Allevi è un prodotto brillante di questo tipo di costruzione su misura. Ogni grande successo va impostato da specifiche organizzazioni: è stato dimostrato come fu eccellentemente seguito, anno su anno, Toscanini, facendo coincidere la bravura musicale con la spasmodica autorità sul podio e con il patriottismo da italiano esule contro la dittatura; e fu possibile perché Toscanini a queste qualità rispondeva stupendamente sul campo. Abbiamo visto celebrare settimana su settimana Pavarotti, la voce che ammaliava, l'emiliano simpatico dovunque nel mondo fedele a se stesso, cavalli e beneficenza, opera e pop; qualità che mostrò tutta la vita. Questi sono miti creati per la storia, qualità assolute, su cui le case discografiche, gli editori, la radio, i giornali possono puntare seguendo le leggi internazionali della pubblicità.
Poi c'è invece la costruzione del personaggio che si fa notare per qualche gesto che risponde a esigenze momentanee della società: allora tutti i riflettori si accendono su di lui, o su di lei, cercando di cogliere il momento decisivo e irripetibile della sua vendibilità. Allevi era adattissimo per questa operazione: abbastanza preparato come tecnica, sufficientemente estroso per collage di trovate e memorie brevi musicali, coglieva l'onda vincente di coloro che, sulla scorta del grande e inimitabile Keith Jarrett, riportavano il pianoforte da cassa di musicale risonanza del passato classico o da strumento funzionale ai linguaggi d'avanguardia, cose da palcoscenico, idealmente al centro di amichevoli ascoltatori, improvvisando. Più degli altri, aveva l'improntitudine felice di dichiarazioni da finto filosofo un po' svitato, a cui, seguendo una sua impronta naturale, si è dato anche un ritratto fisico coerente.
Da qui, l'impatto. E lo slogan che oggi, in una società sempre più anziana, va sfruttato come ancora irresistibile: è musica che piace ai giovani. L'immagine lo rafforza: con tutte quelle matite nel cervello quello dev'essere uno che pensa a colori. Graduatissima l'operazione: dopo alcuni dischi ripetitivi al pianoforte, il miracoloso evento di dirigere un'orchestra, e le dichiarazioni di avere imparato guardando i direttori veri su YouTube, che cosa di più nuovo e giovanile? Tanto le orchestre, con i direttori sotto un certo livello, si organizzano da sole, basta guardare il suo attacco del Minuetto di Puccini, in YouTube naturalmente, e ascoltare che cosa invece suonano gli strumentisti. Il guaio è che scrive anche per orchestra, e qui bisognerebbe almeno avere qualche cognizione di timbrica e di contrappunto, perché i musicisti sembrano marciare tutti insieme alla ricerca di un'idea. Ma questa può passare per una fase magmatica fra tradizione classica e novità, non è roba da giovani? Basta dirglielo.
Mi piacerebbe parlarne con qualcuno dei parlamentari, che l'hanno applaudito al Senato pensando di accogliere la musica che piace ai giovani. Non ho occasione di incontrarne, per mio carattere e perché non frequentano l'opera e i concerti. Non c'è dunque da stupirsi se l'hanno preso a pacchetto chiuso. Il quiz dei pacchi continua a piacere. Se non va bene uno, ce ne sarà un altro confezionato bene, ecco tutto.
Lorenzo Arruga
("il Giornale.it", 27 dicembre 2008)

venerdì, marzo 20, 2020

Nascita, vita e avventure della "Signora Pinkerton"

Madama Butterfly è il sesto spartito di Giacomo Puccini. Dopo l'esordio lusinghiero con Le Villi (1884) e il meno felice Edgar (1889) il vero grande successo e il primo grande risultato erano arrivati con la terza opera, Manon Lescaut (1893), ancora legata al tardo romanticismo ma già estranea al mondo di Verdi; la quarta, La Bohème (1896), si distaccò da quanto esisteva fin allora, e creò un teatro musicale non più del tutto ottocentesco e già orientato, col suo nervoso e agile discorso (un inquieto sinfonismo, solo apparentemente vocalistico) verso l’ormai vicino Novecento. Sempre, ormai, con grande successo mondiale seguirono la Tosca (1900), poi, a tre mesi una dall’altra, nel 1904 le due prime versioni di Madama Butterfly (le altre seguirono fino al 1907); poi l’opera “western” La fanciulla del West (1910), La rondine (1917), il Trittico (Il tabarro, Suor Angelica, Gianni Schicchi, 1918), Turandot (1924, data postuma nel 1926 con finale completato da Franco Alfano sugli abbozzi di Puccini). Nello scegliere ll soggetto della sua sesta opera (quella che sarebbe stata poi Madama Butterfly) Puccini aveva esitato a lungo. Scegliere il testo letterario dal quale far trarre il libretto da musicare, per Puccini fu sempre una indagine difficile e attentissima. È un aspetto della sua indole di artista scrupoloso e minuzioso, tanto diversa da quella idea di “facilità” suggerita da alcuni lati della sua produzione.
Prima di trovare a Londra il soggetto della Butterfly, Puccini aveva esaminato e scartato, tra gli altri, il romanzo Cento anni di Giuseppe Rovani, l‘Adolphe di Benjamin Constant, La locandiera di Goldoni (musicata poi da Mario Persico), Cyrano de Bergerac (musicato poi da Alfano), Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, Da una casa di morti di Dostojevski (musicato poi da Janáček), perfino Pelléas et Melisande di Maeterlinok (ma stava musicandolo Debussy) e anche una Maria Antonietta, e finanche Tartarin de Tarascon di Daudet: questi ultimi due, fino a metterli in lavorazione per poi piantarli in asso. Ci fu anche un nuovo tentativo di accordarsi con D’Annunzio, ancora fallito; le sensibilità dei due erano troppo diverse e: “troppa distillazione ubriaca, e io voglio restare in gamba”, aveva scritto Puccini a Illica.
Infine, nell’estate del 1900, a Londra per recite di Tosca, Puccini venne indotto a vedere un “dramma giapponese" dell’americano David Belasco tratto da un racconto di un altro americano, John Luther Long: Madam Butterfly. AI Duke of York Theatre, Puccini pur non capendo l’inglese (e men che mai il patois anglonipponico di maniera), si entusiasmò al soggetto e al suo effetto patetico, e alla fine si precipitò ad abbracciare Belasco e soprattutto a chiedergli il permesso di musicare il soggetto. Belasco disse subito di sì all‘“impulsive Italian” che aveva il non piccolo vantaggio di essere già celebre.
Racconto e pièce di teatro erano nati da una moda letteraria “giapponesca” viva da almeno quindici anni, e da un romanzo in cui Pierre Loti, al secolo Julien Viaud, ex ufficiale della Marina francese, raccontava una sua esperienza in Giappone, dove, secondo una abitudine alquanto colonialista, gli ufficiali delle marine occidentali ivi distaccati "sposavano" a pagamento e a termine una ragazza giapponese più o meno di piacere, secondo le leggi del paese. Da quando, nel 1854, le cannoniere del commodoro Perry avevano imposto i traffici occidentali, oppio compreso, ai porti giapponesi (poi aperti ufficialmente agli stranieri solo nel 1868), gli occidentali si consideravano in terra di conquista e agivanodi conseguenza.
Il libro di Viaud-Loti, Madame Chrysanthème, diede spunto al racconto di Long, dove si mescolava l’avventura di Loti a Nagasaki con un fatto accaduto davvero; malgrado la bomba atomica del 1945, a Nagasaki c’è ancora, su una collina sopra la città, la casetta dove il fatto avvenne; ed è diventata una specie di museo turistico "Puccini-Butterfly". Tra la protagonista di Loti e quella di Long-Belasco c’era qualche differenza; la Chrysanthème di Loti si affrettava a verificare il danaro lasciatole dal "marito", mentre lui, in partenza definitiva, era ancora fuori dell’uscio; invece presso i due scrittori americani esplodeva una “tragedy of Japan”, per cui la giapponesina, dopo essersi illusa di esser davvero amata, di esser davvero la moglie americana dell’ufficiale USA, e dopo averne avuto un bambino, si uccideva col rituale Harakiri quando scopriva che lui l’aveva lasciata e aveva sposato un’americana autentica.
Prima di cominciare il lavoro, Puccini meditò ancora per qualche mese, mentre si intrecciavano le trattative editoriali per definire il lato commerciale dell’operazione. Poi convoco i librettisti, ancora (per l’ultima volta) Luigi Illica e Giuseppe Giacosa come per Bohème e per Tosca; e cominciò la tipica collaborazione-lotta tra Puccini e i due letterati. Non meno di Verdi, se non ancora di più, Puccini esponeva le sue idee sull’impianto drammatico, anzi le imponeva, dettando la sua volontà su tutto. Probabilmente Puccini non si scriveva i libretti da sé soltanto perché si riteneva non abbastanza letterato, malgrado le tante poesie che aveva l’abitudine di scrivere, più spesso scherzose e goliardiche, ma talvolta patetiche e cupe. Ma, a parte ciò, il vero autore dell’opera e non soltanto della musica, era lui. Questo costava ai librettisti non pochi dispiaceri e complicate fatiche. Esigente e difficile con se stesso (vedere i suoi pentitissimi, scarabocchiatissimi abbozzi, terrore dei copisti di Casa Ricordi), non era meno spietato con i suoi collaboratori.
Anche stavolta non fu diverso.
Il dramma di Belasco era in un atto; Puccini ideò di premettere un prologo, che sarebbe poi diventato il primo atto; immaginò poi di far seguire due atti “belli lunghi" (così scriveva a Giulio Ricordi), uno collocato in America e l’altro in Giappone, derivandone il contenuto dal racconto di Long; infine si concentrò soltanto sul Giappone. I librettisti si erano illusi di aver lavoro meno tormentato del solito. Si sbagliavano. Però non potevano immaginare che a Puccini, fin allora accolto, alla peggio, cordialmente (Edgar) e ormai avviato ai trionfi mondiali, potesse toccare il fiasco che invece subì.
Tra le questioni che sorsero durante il lavoro c’era quella della suddivisione: due atti "belli lunghi" o tre atti normali? Illica aveva ideato una diversione al consolato americano che avrebbe dovuto formare l’atto centrale; però Puccini nel novembre 1902 spiegava a Giulio Ricordi, l’editore-papa, che "il Consolato era un grave sbaglio, il dramma deve correre alla fine senza interruzioni, serrato, efficace, terribile..." Come poi da questo ideale di “serrato” Puccini, Illica e Giacosa potessero arrivare al primo atto come venne presentato alla Scala, pieno di dispersioni, non è facile capire. Comunque, né Ricordi né Giacosa erano convinti dei due atti "belli lunghi", anche se Puccini, nel dichiarare che "il primo dura un'ora buona, il secondo un'ora e più", aggiungeva: "Ma quanta efficacia!". Oggi, a versione originaria riascoltata, possiamo giudicare che avesse ragione Puccini sotto certi aspetti (con intuizione allora alquanto inattuale), ma che per altri avessero ragione i librettisti e l’editore. Il disaccordo si inasprì: Giacosa si dimise, spiegando con molta chiarezza perché, secondo lui, "tra la vana attesa notturna e il riapparire di Pinkerton" ci volesse "una calata di sipario". Ma la spuntò Puccini; dopo il fiasco, si giudicò che avesse avuto torto, almeno presso il pubblico di allora, un pubblico non abituato alle durate d’atto wagner-straussiane, un pubblico che cercava i pezzi chiusi e li vedeva anche dove non c’erano, e che spezzettava gli atti con applausi a scena aperta chiamando alla ribalta, se il brano era piaciuto molto, anche l'autore.
Quasi assieme al lavoro per la Butterfly, Puccini aveva dato inizio anche ad un’altra attività non professionale, quella di automobilista pioniere; tra i primi in Italia aveva comperato “un” (come si diceva allora) automobile, una De Dion Bouton di potenza media; a quella sarebbero seguite altre auto in buon numero, fino alla costosa, elegante, veloce e avveniristica Lancia “Lambda” 2000 del 1924.
Non poteva immaginare che sia la Butterfly sia l’auto gli avrebbero procurato due dei peggiori momenti della sua vita. Cominciò l’auto: una serataccia invernale del 1903 il musicista finì fuori strada con la vettura; se la cavò per un pelo; trovato sotto la macchina capovolta, pieno di fratture, dovette rimanere in carrozzella per molto, e poi ancora a lungo con una gamba ingessata, tanto che quando potè rimettersi a comporre, dovette far venire a Torre del Lago un pianoforte a coda per potervi infilare sotto l'arto col gesso, diversamente quell'ingombro rigido avrebbe urtato nel cassone dei pianoforti verticali che il maestro adoperava abitualmente, com’è il Foerster che è tuttora nella casa-museo di Torre.)
Già quel periodo non era stato dei piu tranquilli per lui, c’erano dissapori familiari anche dovuti a una delle sue scappate erotiche; l’incidente d’auto non soltanto interruppe il lavoro per Butterfly, ma cadde su un uomo già affaticato, e dovette compromettere la sua efficienza non solamente fisica.
Nel foggiare l’opera, Puccini aveva badato molto all‘ambientazione giapponese dandole molto spazio (anche troppo, vedremo); ma aveva anche accentuato un aspetto che nei testi d’origine era meno intenso: il sentimento ingenuo della protagonista, l’amore genuino per il “marito” americano. La musmè di Pierre Loti, la Chrysanthème, non ne provava affatto, come abbiamo visto. Sviluppando quanto accadeva nel racconto di Long e nel dramma di Belasco, Puccini volle una Cio-Cio-San imprigionata nell’illusione di essere amata davvero, di essere diventata cittadina americana con pieni diritti, di poter rivedere il marito e padre del bambino nato nel frattempo, di vivere ancora con lui.
Per dare verità all’ambientazione, Puccini si era documentato, come del resto aveva già fatto per la Roma papale della Tosca; si era rivolto alI’attrice giapponese Sada Yakko e alla moglie dell'ambasciatore del Giappone a Roma (“la giapponese ministressa"); aveva raccolto notizie sugli usi e costumi, sulle movenze di laggiù, aveva raccolto motivi musicali nipponici originali. A questi, poi, affiancò altri motivi di tipo giapponese inventati da lui adoperando le due scale nipponiche, quella tipicamente orientale pentafonica antica (cinque note: due toni, un tono e mezzo, un tono; come sui tasti neri del pianoforte, per intenderci) e l’altra detta "moderna". Quella antica doveva piacergli già di per sé, visto che nella Tosca, dove l’Oriente non c‘entra, l’aveva adoperata. La seconda scala si collegava con un’altra particolare, che allora era d’avanguardia, quella esatonale (sei toni interi) che divenne piu nota come “scala debussyana” perché Debussy la adoperò molto largamente e in maniera caratteristica. Ma questa, Puccini aveva cominciato ad usarla, sia pure moderatamente, nella Manon Lescaut (1892-93), dunque contemporaneamente a Debussy senza conoscerlo; e anche Mascagni nell’Iris (1896), altra opera “giapponese”.
Del “caso Puccini” fa parte anche l’esser stato considerato un abilissimo assimilatore di aggiornamenti, soprattutto dell’area francese impressionista (Debussy, Ravel); eppure, in realtà aveva già cominciato ad usare (sempre moderatamente, questo sì certi procedimenti quando i due francesi erano ancora un giovinetto e un ragazzetto (vedi i primi due accordi iniziali di Le Villi, 1884); dunque il suo aggiornamento è, almeno in parte, un evolversi di quelle tendenze, sia pure incoraggiato dai risultati tecnici ed espressivi raggiunti ampiamente dai colleghi francesi.
Il maestro aveva riservato cure speciali all’entrata della protagonista al primo atto; ne aveva circondato la voce sempre più vicina con una orchestrazione raffinatissima, quasi cameristica, e aveva ideato un giro armonico non solo con accordi esatonali, ma addirittura con un percorso di tonalità basato sulla scala esatonale.
La prima rappresentazione, ormai fissata per il 17 febbraio 1904 a Milano, Teatro alla Scala, trovò Puccini convinto del lavoro fatto. Alla prova generale, l’orchestra aveva applaudito; la protagonista era Rosina Storchio, una celebrità; dirigeva Cleofonte Campanini, un maestro di spicco, amante del moderno. Eppure, qualcuno non era d’accordo, c’era qualche voce presaga di sciagure. Toscanini, per esempio, avvertiva che per lui l’opera era “troppo lunga e malsagomata", e ammoniva: "Andrete al macello".
E "macello" è il termine più adatto per riassumere quella serata. Tutto divenne occasione per incrudelire: dalla messinscena, a credute reminiscenze dalla Bohème o dall’Iris di Mascagni. D’accordo con i librettisti e con l’editore, Puccini ritirò lo spaitito quella notte stessa.
In genere si è sempre creduto che la Butterfly trionfante tre mesi dopo al “Grande” di Brescia e poi applaudita in tutto il mondo fosse diversa da quella fischiata alla Scala soltanto per piccoli ritocchi, per avere in più un pezzo del tenore ("Addio, fiorito asil", poco prima della fine) e soprattutto perché era in tre atti invece che in due, avendo Puccini suddiviso quello che era il secondo. lMa da pochi anni si sa e finalmente si scrive che neppure la Butterfly acclamata a Brescia era uguale a quella che si dà oggi, che le versioni della Butterfly non sono due ma quattro; e soprattutto si è potuto sapere e ascoltare come fosse realmente la Butterfly fischiata, perché nel marzo 1982 alla “Fenice” di Venezia essa è ritornata in scena, accanto alla versione abituale, per confronto.
Lì per lì il fatto potrebbe anche non sembrare molto rilevante; in realtà è il momento culminante di tutta una operazione dapprima critico-musicologica e poi, appunto, di verifica pubblica in teatro; per effetto di questa operazione Madama Butterfly è diventata adesso una delle chiavi (se non addirittura la chiave) per capire Puccini e il suo “caso” (sembra strano, eppure è esistito un “caso Puccini”, non ancora completamente sciolto), per scoprire meglio e più a fondo quale sia la sua levatura di musicista in assoluto, e di compositore di teatro. La Butterfly rimane ancora, certamente, l’opera popolarissima, perfino disprezzata da certi pseudoraffinati amanti della cultura punitiva; continua a poter piacere, soddistare, ad essere amata, può legarsi alla memoria, ai sentimenti, alle emozioni di chiunque, senza apparenti complicazioni intellettuali, solamente col potere immediato della musica e dei suoi "motivi" e con le sue possibilità di effetto vocale, che com’è noto è un effetto emotivo; può continuare a sembrare un’opera facile, per alcuni fin troppo facile (aggettivo usato spesso per Puccini); ma, per effetto di quella operazione veneziana legata alle sue differenti versioni e soprattutto alla prima, la Butterfly è diventata l’opera di Puccini più importante: in certo senso, grazie anche a quello screanzato fiasco iniziale. Messa in piena luce, più delle altre sue opere ha offerto occasione di studio; con nuova attenzione sono stati utilizzati documenti, in buona parte non nuovi ma finora trascurati, sugli arnesi di lavoro di Puccini compositore. Per questo, adesso, anche parlando della piu “normale” esecuzione di Butterfly non si può evitar di accennare a questa operazione e al suo signiticato.)
Come dicevo, tutti credettero e scrissero che le modifiche (“di poco conto”) fossero state soltanto quelle che ho elencato all’inizio, e che la Butterfly acclamata a Brescia il 28 maggio 1904, ancora diretta da Campanini ma con la Krusceniski protagonista, fosse identica a quella che si dà adesso abitualmente. Ma nessuna delle due cose è vera. D’altra parte, Puccini stesso, dichiarando all’inizio: "La mia Butterfly rimane qual è...", aveva contribuito a tendere alcune trappole, che in seguito si consolidarono e si complicarono.
La modifica più importante era l’entrata di Cio-Cio-San. Questo episodio mantenne effettivamente lo stesso numero di battute, lo stesso giro di tonalità lungo una Scala esatonale (la bemolle, si bemolle, do, re, mi, sol bemolle) e la stessa orchestrazione cameristica (un violino, una viola, un violoncello, su viole divise e tremolate, violoncelli e contrabbassi "pizzicati", violini divisi, clarinetti e corni "pp", arpa in suoni armonici, campanelli, coro dapprima interno); ma lo spunto, che era abbastanza statico e piatto, con pochissimi tocchi venne trasformato e trasfigurato: nella nuova versione la curva melodica è più fluida, il ritmo diviene “puntato”, e dunque più vibrante; e soprattutto, al posto dell’accordo di tonica "fermo", quello con la “settima maggiore” (e con il suo rivolto agrodolce, la "seconda minore") dà vita al tutto e crea un profumo e un fascino che si proiettano poi su tutta l’opera, e non soltanto dove questo motivo riappare. Anche i momenti successivi, che svolgono via via il motivo, erano abbastanza piatti e banali, e presero il nuovo, ben più alato aspetto. Spariva così anche una pretesa reminiscenza della Bohème (“...il primo sole è mio!”). Per il resto, Puccini tolse ben poco dagli spunti ridicoli antigiapponesi che appesantivano il primo atto (rimase quasi tutta la parte di un secondo zio, l'ubriacone Yakusidé), eliminò qualche raccordo orchestrale, divise in due il famoso secondo atto, aggiunse "Addio, fiorito asil" per il tenore al posto di un semplice "Mi passerà", modificò radicalmente la seconda parte di "Tu, tu, piccolo Iddio" ("O a me, sceso dal trono"), togliendone alcune frasi belle ma divaganti e dando slancio disperato ad una melodia che prima, stancamente, ricadeva su se stessa. Abbreviò anche la pagina finale, rendendo più teso e più bruciante il suicidio di Cio-Cio-San, che prima era una insistita, grave cerimonia.
Queste modifiche, e soprattutto quella apparentemente piccola ma fondamentale dell’entrata di Cio-Cio-San al primo atto, davanti al pubblico di Brescia ressero i pesi morti antigiapponesi che ancora gravavano il primo atto: i tre servitori gialli chiamati da Pinkerton "i tre musi", una ancor lunga, grottesca parte lasciata al secondo zio beone (specie di riscontro allo zio bonzo austerissimo), alquanti episodi dispersivi dove i giapponesi e i loro costumi apparivano sciocchi e pitocchi; e fu il grande successo ben noto. Però l’opera subì ancora almeno altre due revisioni, nel 1905 per Londra, e nel 1906 per Parigi; soltanto allora sparirono del tutto le apostrofi ai “tre musi”, lo zio beone Yakusidé venne ridotto a pochissime battute, e vennero eliminati gli assalti dei ragazzini ai dolci; sparì anche una diversione conversativa a metà del grande duetto d’amore che chiude il primo atto; inoltre Kate Pinkerton, la moglie americana, venne limitata a poco più che una presenza vaga e per questo ancor più tragicamente incombente. L’opera, ormai definita in tutto, girò il mondo più che mai; e più che mai si continuò a credere che le versioni fossero due, e che quella per Brescia fosse la definitiva, e si continuò ad ignorare come fosse stata in origine l’entrata di Butterfly. L’abitudine a non prender sul serio Puccini impedì di far caso, per esempio, agli spartiti stampati delle varie versioni; quelli “diversi” venivano tutti creduti della prima, ormai sconoscluta, e ne nacquero non pochi equivoci.
Rettificati questi equivoci negli ultimi anni, si è giunti infine alle verifiche in teatro a Venezia, come già ricordato. E in tale occasione parte della critica si è schierata a favore della prima versione per quanto riguarda il secondo atto, in certo senso più “moderno”, rischiando però di dimenticare che tra i gravi difetti del primo atto quelli musicali (entrata) si proiettavano su tutta l’opera, così come su tutta l’opera si proietta la luce della sua modifica "incomparabilmente superiore" (come giustamente osservava Fedele D’Amico). Ad ogni modo, chi considera perfetta la quarta e ultima versione può apprezzarla ancor rneglio quando ne conosca la differenza soprattutto con la prima e con la seconda.
Oggi quest’opera che il suo editore Giulio Ricordi, gran protettore di Puccini, definiva “un peso piuma”, si rivela una delle prove più adatte a chiarire come Giacomo Puccini, già etichettato come “musicista delle sartine“, sia invece uno dei maggiori maestri nel teatro musicale del primo Novecento europeo.
E ancora una volta, qui Puccini afferma la quasi miracolosa efficacia del suo stile "di conversazione". A ben guardare, soltanto in poche pagine il canto si trasforma veramente in melodia spiegata o in "romanza". E gli unici brani che la consuetudine ha considerate come pezzi chiusi e staccabili, sono il battutissimo "Un bel dì vedremo", “Addio, fiorito asil” e "Tu, tu, piccolo Iddio". Ma il più conformista e probabilmente il pezzo per il tenore - una di quelle pagine che Puccini chiamava ironicamente "aria del paltò" perché, poste quasi alla fine dell’opera, segnavano lo sgattaiolare dei mariti verso i guardaroba. “Un bel dì vedremo” lascia il canto del soprano sospeso sull’acuto, mentre la melodia si conclude in orchestra; “Tu, tu, piccolo Iddio” non ha conclusione, e termina su un cedere stanco dell’orchestra, trafitto da un dolente e dissonante ribattere della tromba. Ma quante impennate emozionanti, per chi sente il lirismo che c’è in Puccini unito a tanti altri aspetti: dal duetto del primo atto, all'esplodere della gioia di Cio-Cio-San nel secondo quando scorge la nave di Pinkerton; al celebre coro a bocca chiusa, che nelle versioni rivedute termina il secondo atto separato dal terzo. Ma il momento magico rimane l’entrata di Cio-Cio-San dove nasce quello che lungo l'opera diventa il tema di lei, così come Puccini lo modificò; da quel profumato, agrodolce secondo accordo con la "seconda minore" sembra sbocciare tutto il fascino dell’opera e del personaggio. Era l‘insieme che faceva sembrare “unanständig” (sconveniente) quest’opera a Ferruccio Busoni: i padri del Novecento musicale talvolta sono stati anche i genitori dei suoi pregiudizi. "Peso piuma"? Ma anche le parti “leggere” esprimono - e con quale eleganza! - i giusti sentimenti dei tenui protagonisti. È stato detto che da Madama Butterfly esce un Giappone da cartolina; ma non va dimenticato quale senso abbiano anche le cartoline nelle pieghe dell’animo umano. E poi, da quella “cartolina" emergono trafitture tragiche; quelle che Puccini ottiene, per esempio, adoperando a modo suo "accordi di Tristano" (uno ha anche un intervallo dissonante in più), o con l’accordo finale dell’opera non risolto, che ci fa credere di udire un’aspra dissonanza, mentre nella "materia" essa non è presente: sul si basso (eravamo in si minore) piomba l’accordo di sol maggiore rivoltato, e il fa diesis di si minore (che in realtà non c’è più) sembra urtare contro il sol di quella inattesa scure sonora. Anche nell’ottenere effetti come questo Puccini era un maestro (vedi il finale del secondo atto della Tosca, col “totale cromatico” fatto udire stemperato ma anche amalgamato idealmente nelle ultime battute).
Alfredo Mandelli
dell'Istituto di Studi Pucciniani

sabato, marzo 07, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (6/14)

Un'atmosfera leggera e gradevole a respirarsi avvolgeva quel paese.
Aure deliziose, spirando miti, agitavano la selva, sì che dai rami scossi veniva
una musica incantevole e ininterrotta, simile a quella dei flauti obliqui
sonanti nella solitudine.
LUCIANO DI SAMOSATA, Storia vera, II, 5
 
Secondo il filosofema o mito greco, nell'identità dell'Unico si scatena una
guerra, uno scisma, una divisione, e si polarizzano una tesi e un'antitesi.
In conseguenza di questo scisma, nel to theion la tesi diventa nomos,
o legge, e l'antitesi diventa idea.
SAMUEL TAYLOR COLERIDGE, On the Prometheus of Aeschylus
 
DOV'E' LA MUSICA?
Sesta parte.
 
György Ligeti
Già, la definizione di Hegel. E' legittimo, iniziando un esame dei rapporti tra musica e filosofia nel mondo occidentale, partire da una fase moderna, non "ingenua" e non autorale? Non era meglio, secondo una consuetudine manualistica modellata sulle opere di Zeller, Gomperz, Höffding, nonché sugli stessi presupposti hegeliani, prendere le mosse dalle cosiddette origini? Siamo certi che non era meglio, poiché la suddetta consuetudine è condizionata dal pregiudizio storicistico ed è perciò innaturale. La storia della filosofia come istituto ufficiale (e tale può essere soltanto in chiave storicistica) è tale da non lasciare più intendere il senso autentico dell'atteggiamento filosofico. In particolare, la speculazione filosofica sulla musica e il reciproco chiarimento che alla filosofia è offerto dal pensiero musicale ne risultano ancor più oscurati. E' giusto scegliere come luogo d'avvio una fase del pensiero d'Occidente in cui la filosofia è più che mai occidentale, in cui più che altrove essa dichiara il proprio destino. Non si tratta di condurre l'esame a ritroso nel tempo, ma di scegliere piuttosto una visione circolare anziché rettilinea (la relatività generale, teorizzata da Einstein nel 1915, e le recenti configurazioni dello spazio universale, lasciano ancora posto a visualizzazioni rettilinee?), radiale anziché segmentata. Esiste un tracciato univoco del tempo?
Nella definizione che Hegel dà della musica nelle Vorlesungen über die Aesthetik coesistono profondità e insipienza, acume e ottusità. Si tratta, sia chiaro, di un'insipienza e di un'ottusità "storiche", non da attribuirsi all'intelligenza del filosofo. Insipienza è in questo caso un "non sapere", o meglio un "non sapere più", un processo culturale inverso a ciò che è, nella sfera individuale, l'anamnesi platonica, e ottusità è il precipitare con un angolo troppo ampio, con un taglio troppo lungo e poco affilato, sulla superficie della realtà, trascurando il presupposto, poi illuminato da Hofmannsthal, secondo cui la profondità si nasconde in superficie. L'intelligenza della definizione hegeliana risplende nella nozione di musica come arte romantica per eccellenza: la musica è romantica non per essenza o per costituzione (il costruttivismo e la spazialità del Quattrocento fiammingo, il nesso ars-scientia che domina in Bach, lo stesso antico sistema musicale ellenico ed ellenistico lo escludono) bensì per vocazione e per destino, in quanto il punto d'incrocio con la filosofia romantica dà all'arte musicale l'occasione per trarre da sé tutte le possibilità espressive e i mezzi di trasformazione semantica. Né si può negare che Hegel colpisca nel segno là dove egli indica nella musica un'idealità iniziale della materia (in ciò, Hegel paradossalmente non contraddice le dottrine estetiche del platonismo medievale) che appare come non più spaziale bensì temporale (la lezione di Lessing nel Laokoon dà frutti), per cui il suono muta nell'udibilità l'astratta visibilità, sciogliendo l'ideale dal suo incatenamento nel materiale. Ciò non riscatta la definizione hegeliana da due errori. Il primo, meno grave, e in apparenza gratificante per la sua teoretica sistematicità, è il considerare la musica come "il punto di passaggio" (ah, i transiti hegeliani in cui tutto sfuma e viene superato, aufgehoben!) tra l'astratta sensibilità spaziale della pittura e l'astratta spiritualità della poesia. La musica, in verità, ha in sé forze materiali,e astrattive, produttrici di spazio e contemplatrici attraverso il distendersi dell'animo nel tempo. Semmai, la musica possiede mezzi che sostituiscono in maniera analogica o allusiva il linguaggio pittorico come quello poetico. Più grave è il secondo errore, che orienta culturalmente la musica verso la zona interiore dell'animo, e tendenzialmente la condanna a un'illegittima "purezza" incapace di tagliare in due la realtà, che per Hegel è soprattutto la Storia. Ecco il punto dolente. Prima di toccare il nervo scoperto, è utile uno sguardo alla definizione offerta da Kant là dove quest'ultimo si muove su analogo terreno (Kritik der Urtheilskraft, sez. I, libro II,  44 51-53): la musica parla "per mere sensazioni, senza concetti", e la sua natura, anzi, afferma Kant, la sua nobiltà è nell'essere l'"arte del bel gioco di sensazioni". Il giudizio parrebbe quasi opposto a quello di Hegel, ma guardando più a fondo è visibile in trasparenza l'elemento comune: la convinzione, storicamente radicata, secondo cui è impossibile conoscere con il corpo, mentre di tale conoscenza corporea la musica è testimone nelle sue intime fibre.
Per Hegel come per Kant, la musica è tale soltanto se è definita nella sfera del puro pensiero, ed è sottratta, nel suo ruolo artistico, al mondo sensibile, che essa traduce da fenomeno ad attività dell'io penso (Kant) oppure supera, hebt auf (Hegel). Ma per Hegel il pensiero è l'idea, e l'idea si attua nella Storia. Il punto dolente della filosofia moderna occidentale non è il suo essere moderna, laica (anche chi scrive queste righe parte da premesse non teologiche, propriamente nihilistiche piuttosto che laiche), e l'aver dimenticato che il mondo, in quanto creazione, è allegoria; punctum dolens è l'angustia del terreno su cui si edifica. Attribuire alla Storia, che è per definizione storia degli uomini su questo pianeta, l'universalità cui la filosofia per assunto aspira - né potrebbe fare diversamente, ché altrimenti non sarebbe filosofia e si confonderebbe con altre discipline - è illusorio, e dovrebbe apparirci addirittura puerile. La Storia non è la realtà non perché siano errate le leggi dialettiche teorizzate dal pensiero moderno, ma perché la vera realtà, evidentemente, è altra: è il misterioso universo in cui siamo frammento infinitesimo, e che ci atterrisce con la sua vaga immagine di ammassi galattici proiettati da un'indefinita espansione verso il nulla (che è probabilmente l'unica verità), oppure, secondo i cosmologi alla Fred Hoyle sostenitori dello "stato stazionario" nell'universo, mossi da energie inconcepibili e in equilibrio paurosamente instabile. In tale prospettiva, una teorizzazione radicale che rifiuti, com'è giusto, la riduzione della musica all'interiorità dell'uomo non può non collocare la musica, almeno come possibilità, al di fuori. Di questa radicale nozione, sia pure non dichiarata in termini filosofici, ci sembrano partecipi alcuni compositori del nostro secolo, diversi nelle premesse intellettuali ma immuni dalle debolezze dello storicismo, dello psicologismo e dell'intimismo, da Paul Hindemith a Karlheinz Stockhausen, da Olivier Messiaen a più giovani musicisti italiani come Azio Corghi o Francesco Valdambrini, da Pierre Boulez a György Ligeti. La musica, in chiave non storicistica, dev'essere intesa ormai come "sonanza infinita" diffusa nel cosmo, in forme la cui universalità è per gli eredi dello storicismo moderno inimmaginabile e per chi riparte da zero può essere soltanto un postulato. La sonda spaziale Voyager 2, che nell'estate del 1981 transitò in vicinanza del pianeta Saturno e registrò suoni musicalmente intonati la cui fonte d'emissione erano gli anelli planetari, suscita in noi, con le tracce d'involontario platonismo presenti nel fenomeno, una sottile emozione.
Opinioni personali, lo sappiamo, dóxai che dobbiamo filtrare a lungo prima di vederle tradotte in epistéme. Ma non c'è dubbio: la speculazione sulla musica va collocata definitivamente nell'ordine di problemi inerenti il continuum spazio-temporale, e sui rapporti tra tempo e spazio dev'essere giocata la partita intellettuale. A questo punto, la riflessione storica ridiventa legittima, ed è inevitabile polarizzarla tra due visioni filosofiche non conciliabili, la tradizione platonica proiettata nell'aristotelismo e nella Scolastica, e la moderna tradizione che ha in Kant e in Hegel, proprio a proposito dello spazio-tempo, le due grandi svolte.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 6, Giugno 1990, Anno XIV)