Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, gennaio 31, 2016

Ivo Pogorelich: l'ultimo romantico

Ivo Pogorelich (20 ottobre 1958)
Figlio di un contrabbassista, Ivo Pogorelich è nato a Belgrado il 20 ottobre 1958. A sette anni inizia a studiare il pianoforte, a 12 si trasferisce in Russia dove completa gli studi al Conservatorio di Mosca. A vent'anni vince il Concorso "Casagrande" di Terni e due anni dopo trionfa all'International music competition di Montreal, Canada. Ma è la partecipazione al Concorso "Chopin" di Varsavia, nel 1980, a dare una svolta alla sua carriera. La commissione decide di non ammetterlo in finale. Marta Argerich, che è membro di giuria, in segno di protesta si dimette. E il nome di Pogorelich fa subito il giro del mondo. Nel frattempo sposa Aliza Kezeradze, la sua maestra di pianoforte. È molto più anziana di lui: per i benpensanti è uno scandalo. Debutta a Londra, Parigi, New York, Zurigo, Madrid, Bruxelles, Amsterdam, Roma, Milano, Tel Aviv, Tokio. Nel 1981 esce il suo primo disco con la Deutsche Grammophon con la quale firma un contratto in esclusiva. Lavora con le maggiori orchestre sinfoniche. Conosce Herbert von Karajan. Tra il leggendario direttore d'orchestra e il giovane artista jugoslavo il clima è teso. Alla fine il capo dei Berliner gli dice: «Si cerchi un altro direttore». E lui sceglie Claudio Abbado con il quale registra il 2°concerto di Chopin e il 1° di Ciakovski. Nel 1993 fonda in California il concorso pianistico "Ivo Pogorelich" per aiutare i giovani artisti di talento. Il montepremi è di 150 mila dollari, circa 200 milioni di lire. Per il suo impegno a raccogliere fondi per l'ex-jugoslavia l'Unesco lo nomina "Ambasciatore di buona volontà". Sulla sua arte il mondo pianistico è diviso in due: chi lo considera l'ultimo grande virtuoso del Novecento e chi trova insopportabili le sue interpretazioni. Ma ogni volta che tiene un concerto fa il tutto esaurito. Oggi ha 38 anni, la moglie Aliza è morta, e lui è rimasto solo nella grande casa alle porte di Londra. Nel 1980 venne criticata la sua eliminazione al concorso "Chopin" di Varsavia. Adesso è impegnato in prima persona al Concorso "Pogorelich" in California. Non è una contraddizione? No, sono due cose diverse. Lo "Chopin" di Varsavia era organizzato dallo stato, con implicazioni politiche. Il mio concorso non ha niente a che fare con la politica. Ha delle regole diverse da quelle solite. Per esempio i concorsi impongono un limite d'età massimo, di solito 30-35 anni. In questo caso invece c'è stato soltanto un limite d'età minimo (22 anni). Non c'è orchestra, e per la seconda e terza prova il programma è a scelta. La prima edizione è stata nel 1993, hanno vinto a pari merito un cinese e un australiano, che si sono divisi un monte premi di 150 mila dollari (circa 200 milioni di lire). Ho insistito per avere un premio molto alto, perché potesse essere d'aiuto per dei giovani all'inizio della carriera. Il pubblico femminile l'adora. Per come suona e per la sua avvenenza. Quanto importante la bellezza per un artista? Non me ne sono mai curato tanto, sono troppo concentrato sul mio lavoro. A volte trovo che gli aspetti più frivoli di una carriera di successo, anche commerciale, siano in realtà controproducenti per il lavoro più serio e accademico. Ho deciso di tornare a studiare, in un certo senso per me è importante considerarmi ancora uno studente. Mi affascina imparare e non tengo in grande considerazione questi aspetti di marketing. Le donne si interessano di me? Non ho niente in contrario. Quanti concerti tiene in un anno? Cinquanta, sessanta al massimo. La maggior parte come solista, il resto con l'orchestra. Ha studiato per molti anni al Conservatorio di Mosca; la scuola pianistica russa è ancora la più forte del mondo? In realtà i miei studi non hanno niente a che fare con la cosiddetta scuola russa. Mi sono rifatto a una tradizione che affonda le sue radici più indietro, partendo da Franz Liszt. Per quanto riguarda la situazione attuale non posso dare nessun giudizio perché il panorama musicale mondiale è molto cambiato. Non esiste più nessun posto che si possa definire "il" centro musicale per eccellenza. Motivi economici e sociali hanno reso la società odierna dispersiva. I musicisti viaggiano di più, accumulano esperienze e ci sono tanti centri di gravità. Prima ha detto che si sente ancora studente; che cosa intendeva dire? Tanto per essere chiari: ho sempre studiato il mio strumento. Intendevo dire che adesso studio anche aspetti più generali di cultura musicale. Per esempio sto approfondendo il concetto di musica etnica. Perchè nei suoi programmi non suona quasi mai musica contemporanea? Tutta la musica è contemporanea. D'accordo, allora diciamo che suona poca musica composta negli ultimi cinquant'anni. Prima di tutto perché non ho abbastanza informazioni su questo tipo di musica. E poi nel mio repertorio c'è della musica scritta esattamente in quel periodo, come Prokofiev. Non intendo dire che non mi piace la musica contemporanea, solo che non la conosco bene. Suonare senza convinzione non mi interessa. Devo trovare degli stimoli per fare qualcosa. La maggioranza degli artisti vuole primeggiare in quello che fa. In certi momenti della vita si sente il desidero di fare nuove esperienze, di approfondire le proprie conoscenze, di affrontare altre aree di attività. Per adesso aspetto. Ha mai provato a comporre, o anche solo a improvvisare alla tastiera? Per queste cose ci vuole un speciale talento. No, credo che ognuno debba stare al proprio posto. Negli ultimi tempi molti pianisti si sono messi a dirigere orchestre, per esempio, Vladimir Ashkenazy. Lei ha mai avuto questa tentazione? Non ho niente contro questa moda. Dopotutto, nel passato, c'erano dei musicisti che suonavano più di uno strumento, e c'erano solisti che dirigevano l'orchestra che li accompagnava. Però va anche tenuto presente che essere un buon direttore d'orchestra richiede la stessa esperienza e studio necessari per suonare uno strumento. È una questione di scelta: ognuno deve decidere quale attività tenere come un hobby e quale come professione. Molti anni fa Glenn Gould decise di non suonare più dal vivo e di dedicarsi esclusivamente alle incisioni. Lei che rapporto ha con il disco? Il caso di Gould è speciale. All'epoca, il progresso tecnologico della riproduzione sonora era stato sbalorditivo. Da un anno all'altro venivano scoperte nuove invenzioni, basta pensare alla stereofonia, all'alta fedeltà, ai long playing. Era comprensibile che un musicista potesse convincersi che l'esibizione dal vivo fosse una cosa superata e venisse tentato di abbandonarla. Credo tuttavia che per un artista sarebbe una restrizione eccessiva limitarsi a una delle due forme di espressione, altrimenti prima o poi ne dovrà pagare le conseguenze. Spesso si scoprono nuove sfumature grazie all'interazione col pubblico che può soltanto avvenire in sala da concerto. Perciò la cosa migliore è considerare sala d'incisione e recital come due modi completamente diversi di fare musica, ognuno dei quali segue le proprie regole. Non mi piacciono, invece, i dischi registrati dal vivo, perché è impossibile soddisfare allo stesso tempo le richieste dei microfoni e quelle del pubblico in sala. A proposito di CD, quali sono i suoi prossimi impegni discografici? Verso marzo dovrebbe uscire un'incisione per la Deutsche Grammophon con i Quadri di Mussorgsky e i Valses nobles di Ravel. Poi dovrei registrare Chopin, probabilmente una sonata di Rachmaninov e due concerti di Sciostakovic. Ci sarà spazio anche per la musica da camera? Non mi è mai interessata, perché, come per la direzione d'orchestra, è un'attività che richiede molta partecipazione e un impegno a tempo pieno. I musicisti che suonano insieme dovrebbero avere, se non la stessa scuola, almeno la stessa estetica musicale, la stessa educazione, lo stesso background culturale. E anche questo non basta. È necessario un tempo molto lungo per affiatarsi. Una curiosità: le è mai capitato di ascoltare un collega e di pensare «diavolo, suona meglio di me!» Mi sforzo di non pensare mai in termini di confronti. La questione principale è dare il massimo. È importante studiare sempre a fondo, porsi continuamente in discussione, anche durante un concerto. Un'interpretazione deve essere onesta, genuina. Non ci si deve accontentare di conoscere superficialmente un pezzo. In questo senso non sono mai veramente soddisfatto di me stesso. A 38 anni lei è un virtuoso della tastiera. Ha paura di invecchiare? In realtà il dominio più profondo dello strumento si sviluppa con l'età, non il contrario. Ed è giusto che sia così. Di recente mi sono impegnato in un programma di esercizio fisico studiato appositamente per chi non può fare sforzi troppo impegnativi per le braccia. Mi sono rivolto a un dottore che è stato così colpito dalla mia richiesta che ora ci sta scrivendo un libro. È la prima volta che faccio ginnastica seriamente! I risultati sono ottimi, pensi che riesco a stare per ore seduto al pianoforte senza il minimo mal di schiena. È proprio vero il proverbio latino mens sana in corpore sano. Qual è stato il complimento più bello che ha ricevuto? No, no... non è il caso. Glielo dico dopo, a intervista terminata. Ascolta mai le esecuzioni di altri pianisti? Mi affascinano le esecuzioni dei grandi maestri del passato, e ascolto le registrazioni storiche dei pianisti dell'inizio del secolo. Rachmaninov, Hoffman... Mi interessa quell'epoca perché i canoni estetici sono cambiati, il modo di affrontare il fraseggio è cambiato, ma non la loro profonda musicalità. Mi piace molto ascoltare la lirica e musica vocale. Adoro Montserrat Caballé. A proposito di bel canto, negli ultimi anni la lirica è diventata più spettacolare, basti pensare ai tre tenori. Non crede che anche i pianisti dovrebbero aprirsi a un pubblico più ampio? Credo che il fenomeno dei tre tenori sia collegato, soprattutto, alla televisione. È un'ottima cosa che la lirica sia così popolare, ma non sono sicuro che guardare un pianista alla tastiera sia altrettanto interessante per il pubblico televisivo. Inoltre, sono convinto che la diffusione della musica dipenda più da un'istruzione capillare. Purtroppo c'è un trend mondiale per cui i governi stanno tagliando i fondi alla cultura. Più che a una presentazione commerciale della musica per pianoforte bisognerebbe investire nell'educazione. Ascolta mai musica leggera? Durante il mio ultimo viaggio in Sud America sono stato colpito dalla musica popolare brasiliana. Tutte le volte che avevo un momento libero cercavo di andare a sentirla. Mi piace la loro musica tradizionale, ma anche il rock. Una sera a Rio sono andato a sentire uno famoso gruppo locale. I musicisti della band mi hanno riconosciuto e la sera dopo sono venuti al mio concerto e la cosa naturalmente ha fatto sensazione. Erano veramente di talento, tanto che chiesi se avevano studiato composizione, le loro armonie erano così complesse. Mi hanno risposto di no, ma ho avuto l'impressione che l'intera nazione sia molto musicale; in Brasile si fa musica dappertutto. Perché la musica di Chopin si dice classica e non leggera? Non bisogna dimenticare che Chopin era un musicista molto colto, aveva viaggiato, e i suoi soggiorni avevano arricchito la sua formazione musicale. Per esempio in Spagna venne a contatto con la musica folk di quella nazione, ci sono delle influenze evidenti in alcune delle sue mazurche. Tuttavia la sua musica appartiene a un mondo esclusivo, aristocratico, raffinato, e perciò difficilmente popolare. Lei è un grande interprete di Chopin. Se fosse ancora vivo che cosa vorrebbe chiedergli? È una cosa a cui non ho mai pensato. Per me é importante che la musica rimanga enigmatica. Ci sono stati casi di interpreti che conoscevano i compositori di cui suonavano la musica. Ma anche allora non era davvero importante che il compositore sviscerasse tutte le sue intenzioni con l'interprete. Anzi, deve restare sempre una parte d'ombra e di mistero per il pianista che entra, tramite la musica, nell'animo di un altro essere umano. Ha mai suonato un pianoforte digitale? Che cos'é? Non li conosco. Forse ne ho visto qualcuno in Giappone. Comunque, tutti gli strumenti sono una buona cosa. La musica va diffusa, le scuole di musica non sono mai abbastanza, e se i pianoforti digitali permettono a più persone di avvicinarsi alla musica, perché no? Un solista è spesso in tournée da solo. Come affronta questa situazione? Le pesa, è faticosa? Chiunque viaggi molto deve trovare una propria routine che va osservata. La cosa più importante è di riposare abbastanza, intendo proprio dormire un numero sufficiente di ore. Una delle cose che mi disturba di più è il continuo cambiamento di clima, e l'imprevedibilità. Sono in Italia da una settimana, e non ho visto ancora il sole una volta. È importante avere cura della propria forma fisica, fare passeggiate. C'è qualcosa di intensamente impersonale in questo stile di vita. Cambio letto ogni sera, e anche se scelgo hotel confortevoli, è qualcosa a cui non mi sono mai abituato. Ogni volta è diversa l'acqua, cambia la cultura, i paesi, i continenti. Certo, è una vita che ha il suo fascino, ma l’uomo non è fatto per questi ritmi. Bisogna essere forti sia fisicamente sia psicologicamente. Io cerco di concentrarmi solo sul lavoro. L'importante è che ci sia sempre un pianoforte. Oggi dove vive? A Londra, ma fuori città, quasi in campagna. Lei è originario di Belgrado. Finalmente sembra che la guerra in Jugoslavia sia finita. Era davvero necessaria? È una questione troppo complicata, preferisco non discuterne. Vorrei restare completamente estraneo a simili discussioni. L'intervista finisce qui. Il maestro accende il sottile sigaro che ha tenuto tra le labbra per tutto il tempo. Mi guarda in faccia e dice sottovoce: mi aveva chiesto il complimento più bello? Quando Herbert von Karajan ha detto che il mio pianoforte sembrava un'orchestra.
 
Filippo Michelangeli, 1996  (in collaborazione con Cecilia Rivers)

domenica, gennaio 17, 2016

Omaggio a Maderna, veneziano cosmopolita


Bruno Maderna (1920-1973)
Nel 1938 Hermann Scherchen, forse incoraggiato dal prestigio delle prime edizioni del Festival internazionale di musica contemporanea, propose a Goffredo Petrassi, allora sovrintendente del Teatro La Fenice, di istituire un corso estivo di direzione d’orchestra, dove i giovani avrebbero studiato sotto la sua guida le opere di autori del passato, come Monteverdi e Scarlatti, insieme a quelle di autori contemporanei, quali Dallapiccola, Hartmann, Webern. La proposta fu azzerata allora da un telegramma proveniente dal MinCulPop, che proibiva l’ingaggio sotto qualsiasi titolo di Scherchen, perché «noto comunista».
Il progetto fu ripreso con esiti ottimi nell’estate del 1948, e portò a risultati insperati, che Giovanni Morelli ricorda con parole emozionanti:
 
"Il corso di direzione «quarantottana» di Scherchen è divenuto oggi un piccolo mito storico: in poco meno di un mese il Maestro tedesco richiamò a Venezia uno stuolo di gioventù musicale che non aveva vissuto appieno gli anni bui (erano, nel ’38, tutti dei bambini, seppure alcuni bambini prodigio), che proveniva da diversi paesi del mondo, spedito appunto a Venezia a studiare con Scherchen, nel torrido agosto, da Maestri di musica, di Composizione e di Direzione d’orchestra, perlopiù tedeschi ed austriaci o ebrei costretti dalla emigrazione a far musica o a insegnare musica nei paesi disperatamente inomogenei. Quell’occasione […] era simbolica ma anche reale; sembrava voler essere, e difatto forse lo fu, un atto di fondazione di una internazionale-giovani per l’affermazione dei valori artistici già umiliati dai regimi nazifascistici, sperabilmente risorgenti a Venezia, presso il suo Festival e il suo Teatro […].
Ebbene, in quell’estate del 1948, Malipiero chiamò Bruno Maderna e Luigi Nono, espose loro una certa sua rinuncia a poterli seguire personalmente nello sviluppo della loro già espressa vocazione avanguardistica, e, autorevolmente, autoritariamente, li obbligò a iscriversi e a frequentare intensivamente il corso di Scherchen, a cercare lì il loro radicamento formativo, ideologico, tecnico. E in effetti accadde che in quel brevissimo mese di apprendistato a contatto con il Maestro e con i giovani compagni venuti da quelle scuole decentrate nel mondo fondate ovunque dai musicisti emigrati, Luigi Nono e Bruno Maderna, per loro espressa testimonianza, trovarono tutti gli input elementari della loro imminente carriera artistica: idee e tecniche per la creazione delle loro prime opere originali (emblematicamente forse, in prima posizione,
Il canto sospeso). Opere originali e rinnovatamente veneziane."
 
Due dati emergono con evidenza da queste considerazioni: la generosità consapevole di Gian Francesco Malipiero – il quale, pur non condividendo le tendenze stilistiche di Bruno Maderna e Luigi Nono, ebbe la modestia di farsi da parte per consentire che il loro talento ‘radicale’ esplodesse davvero, a contatto con quel formidabile catalizzatore di novità linguistiche ed estetiche che rispondeva al nome di Hermann Scherchen – e il segno della continuità fra tradizione e modernità autentica ancora per poco di là da venire, nel nome di Venezia, città di esperimenti per eccellenza. Si trattò di una tappa importante per la fioritura delle nuove tendenze musicali dopo le macerie belliche: Scherchen invitò Maderna a Darmstadt, che stava per diventare una delle capitali della composizione contemporanea, nel 1949, e nell’anno successivo Bruno vi tornò con Luigi Nono. Furono anni che cambiarono decisamente il modo di concepire l’arte dei suoni.
Quando frequentò il corso della Biennale di Venezia, Bruno Maderna era già un compositore che si affacciava alla notorietà anche come direttore d’orchestra. Era stato protagonista, ad esempio, di un importante «Concerto dedicato alla giovane scuola italiana» nell’ambito del IX Festival di musica contemporanea (settembre 1946), una rassegna in cui fu dato un segnale forte di discontinuità col passato, specie dopo i rigurgiti di Salò. Il compositore, allora ventiseienne, diresse il gruppo strumentale «Benedetto Marcello» nella propria Serenata per undici strumenti e, tra l’altro, nelle Variazioni per pianoforte e orchestra del ventiquattrenne Camillo Togni, compagno d’avventura a Darmstadt (solista Enrica Cavallo).
A quel tempo molti veneziani dovevano serbare memoria viva delle sue esibizioni in veste di bimbo prodigio, visto che aveva dimostrato una precocità rara e un talento innato per la concertazione e la direzione d’orchestra.4 La prima grande occasione di salire alla ribalta era infatti arrivata nel settembre del 1932, quando ‘Brunetto’ diresse, appena dodicenne, complessi di dimensioni davvero ragguardevoli a Milano in un programma di forte impronta popolare, imperniato sulle sinfonie e intermezzi d’opera italiana più celebri (dal Barbiere di Siviglia a Cavalleria rusticana). Meno di venti giorni passano, e stavolta Maderna, presentato nei manifesti come «il Concittadino Brunetto Grossato bambino di 9 anni», ebbe la possibilità di dimostrare le sue doti a casa sua, e nella prima vera sala teatrale della sua vita, quella del Teatro La Fenice. A Venezia poté presentare un programma più sofisticato del precedente, che includeva Mendelssohn (uno dei suoi autori favoriti anche nella maturità) e, nella ripresa, l’ouverture dei Maestri cantori. Un anno dopo Maderna, di nuovo alla Fenice, allargò ulteriormente il proprio repertorio includendovi la Quinta sinfonia di Beethoven e il Wagner imprescindibile di Tristano e Isotta.
Non vale dunque per Maderna il detto «Nemo propheta in patria», visto che in laguna nacque il suo talento e che, forte della protezione di calli, ponti e canali, poté affrontare serenamente una carriera internazionale di primo livello sia come direttore sia come compositore. Anche la sua tendenza a mescolare l’antico al contemporaneo nacque e crebbe a Venezia, città che era vissuta di commistioni sin dai tempi del suo splendore, quand’era incrocio liberale di popoli, culture e lingue. La musica della Serenissima entrò anche nella programmazione del Festival internazionale di musica contemporanea come uno fra gli elementi di raccordo tra passato e presente, fin da quando fu ripresa L’incoronazione di Poppea di Monteverdi seguita da un «concerto sinfonico-vocale di musiche inedite di Antonio Vivaldi» nel 1949, e si rafforzò negli anni successivi.7 D’altro canto non era raro udire alla Fenice la musica d’avanguardia nei cicli di concerti tradizionali, mescolata a composizioni d’altre epoche. Nella stagione sinfonica d’autunno del 1952, ad esempio, Scherchen diresse Haydn e Beethoven, ma anche la suite sinfonica del Lieutenant Kije di Prokof’ev, e soprattutto la prima italiana di Polifonica/Monodia/Ritmica di Luigi Nono.
E Bruno Maderna recitò un ruolo di primo piano nel proporre programmi dove convivevano musiche di diverse epoche, come fece nel primo concerto in cui tornò a Venezia da direttore d’orchestra oramai d’eccellente livello (15 maggio 1951), proponendo tre sonate di Legrenzi, un concerto per tastiera di Bach nella revisione di Busoni seguito dal Quarto concerto per pianoforte di Malipiero (solista Gino Gorini), insieme all’Adagio dalla Decima sinfonia di Mahler – da vero allievo di Scherchen, che ne aveva diretto la prima italiana nel corso dell’XI Festival di musica contemporanea (1948)8 – e alla Mer di Debussy. Non meno misto il programma dell’appuntamento veneziano successivo, inserito nel ciclo di concerti di primavera (11 aprile 1955), in cui Maderna accostò le Variazioni per orchestra op. 30 di Webern al Concerto per violino di Brahms (solista Aldo Ferraresi), aprendo con la sinfonia di Sant’Elena al Calvario di Leonardo Leo, e chiudendo con brani di Ravel (Suite di Ma mère l’Oye) e Stravinskij (Suite n. 2).
Per Maderna fare musica significava dunque muoversi a tutto campo. Nato come violinista in erba, si era esibito nelle orchestrine del padre Umberto, musicista dilettante molto noto in città, e da lì era salito sempre più in alto, fino a diventare un punto riferimento imprescindibile per la nuova musica italiana e mondiale, ma anche un compositore che non disdegnava di occuparsi di altri repertori, come la musica da film, e un trascrittore estroso che aveva alimentato nel contatto con Gian Francesco Malipiero la sua innata passione per la musica del Seicento e in particolare per quella di Monteverdi. Rimase memorabile la sua interpretazione dell’Incoronazione di Poppea alla Scala nel 1967 (prima di lui l’aveva diretta Giulini nel 1953). Maderna diresse allora la partitura nella ‘revisione’ di Giacomo Benvenuti pubblicata da Suvini-Zerboni nel 1937 (sei anni dopo quella curata da Malipiero), la cui orchestrazione tardo-romantica farebbe infuriare gli ascoltatori odierni, abituati al recupero delle sonorità originali, al pari del cast, peraltro stellare, che comprendeva Grace Bumbry nel ruolo di Poppea, impegnata nel duetto finale con Giuseppe Di Stefano (Nerone), mentre Leyla Gencer incarnava la dolente, ma colpevole Ottavia. L’idea di vivere la musica antica e di volgerla al presente era eredità diretta di Malipiero, mentre il contatto con Scherchen aveva spinto Maderna a «proiettare nel futuro la musica del presente».
Ma il gesto più rappresentativo della volontà di accostare l’antico al moderno era già stato compiuto nel 1963, in una tra le sale di esperimenti più in vista di allora, la Piccola Scala. Confermando una generosità sconosciuta ai colleghi, che tanto spesso lo spinse a sacrificare la propria musica per dare impulso a quella altrui, Maderna aveva proposto la prima milanese di Didone ed Enea di Purcell come pannello d’apertura di un dittico con la prima assoluta di Passaggio di Luciano Berio, collega e sodale nello Studio di fonologia della RAI di Milano da loro fondato nel 1955, nonché marito della cantante Cathy Berberian, autentica musa ispiratrice della nuova musica vocale. Fino a quel momento il capolavoro di Purcell, dopo la prima ripresa del 1940 al Maggio Musicale Fiorentino diretta da Gui con le coreografie di Aurelio Millos, era stato rappresentato soltanto all’Opera di Roma nel 1949, e nuovamente a Firenze nel 1959, nell’allestimento firmato dallo scrittore Riccardo Bacchelli. A Milano Adriana Martino era Belinda, Teresa Berganza Didone e Antonio Boyer Enea, mentre lo spettacolo era firmato dalla regista Margherita Wallmann (che curò anche la coreografia) e, per le scene, da Jacques Dupont.11 Maderna diresse Passaggio nelle repliche, lasciando la première all’autore che fu letteralmente sommerso di fischi. L’operazione tentata allora non fu ben compresa nemmeno dalla critica cosiddetta ‘militante’, tuttavia l’amore per il passato non lo abbandonò mai.
Maderna morì a Darmstadt, la sua seconda patria, dieci anni dopo le recite del dittico Didone-Passaggio, stroncato da un male incurabile il 13 novembre 1973: aveva lavorato fino a pochi minuti prima di morire. Questo lutto irreparabile per la cultura mondiale fu l’ultima tappa di un anno terribile anche per la sua città, Venezia, e per il suo teatro, la Fenice. Nel 1973 scomparve infatti anche Mario Labroca (21 luglio), direttore artistico della Fenice e della Biennale dal 1959, e in questa veste promotore di una delle imprese più importanti di Maderna direttore della nuova musica: Intolleranza 1960 di Luigi Nono, artatamente fischiata da mestatori codini alla Fenice il 13 aprile del 1961; nove giorni dopo Labroca se ne andò Gian Francesco Malipiero (1 agosto).
In queste pagine abbiamo ripercorso solo alcune tappe di una carriera straordinaria di direttore-compositore che rendono toccante l’omaggio che gli viene tributato come compositore, con Le rire, e come direttore di repertori desueti, nella convinzione che l’abbraccio tra la musica contemporanea e la musica del passato sia una delle premesse migliori al rinnovamento del gusto. Una carriera paragonabile a quella di Gustav Mahler, non a caso fra gl’idoli di Maderna, purtroppo anche per la fine prematura di entrambi: poco più di cinquant’anni per Mahler (7 luglio 1860 – 18 maggio 1911), tre di più per Maderna, che era nato il 21 aprile del 1920.

Michele Girardi

venerdì, gennaio 01, 2016

Intervista a Christina Pluhar

Christina Pluhar (1965)
Christina Pluhar nasce a Graz dove sviluppa una precoce passione per la musica barocca che la porta a studiare il liuto, la tiorba, la chitarra barocca, l’arpa barocca e l’arciliuto. Ha collaborato, tra gli altri, con Jordi Savall, Il Giardino Armonico, Les Musiciens du Louvre, Marc Minkowski, Ricercar Consort, Cantus, Cölln, René Jacobs, Ivor Bolton. Insegnante al Conservatoire Royal di L’Aia e all’Universität Graz, nel 2000 fonda L’Arpeggiata, fucina di esplorazioni della musica rinascimentale e barocca, di sperimentazioni e di contaminazione tra le arti. Con dieci album già all’attivo, l’ensemble, in continua tournée per il mondo, pubblicherà nel marzo 2013 un nuovo album dal titolo “Mediterraneo”.
Il suo esordio nel mondo della musica è segnato dal barocco. Cosa l’ha portata a scegliere questa particolare cultura musicale e quali sono state le tappe salienti che hanno dato avvio alla sua carriera? 
Sono nata a Graz e all’epoca l’Austria era un Paese musicalmente accentrato sul classicismo tanto che nomi come quelli di Mozart e Haydn sono stati una costante nella mia età evolutiva. Abbastanza giovane, iniziai lo studio della chitarra classica e a diciotto anni ebbi la fortuna di seguire degli stage in Italia, molto numerosi negli anni ’80. In questo frangente della mia vita mi imbattei nel liuto, col quale m’appassionai anche degli altri strumenti a corde pizzicate e del repertorio barocco, in particolare di quello italiano; è stata un’esperienza fortissima che comunque serbavo già negli anni dei miei studi sulla chitarra.
Lo studio della liuteria barocca mi portò anche alla scoperta dell’immensa libertà interpretativa che il suo repertorio offre. Se le strade del classicismo sono oggi abbastanza standardizzate, non si può dire altrettanto del barocco perché l’artista ha spesso il compito di scoprire individualmente una partitura che nessuno ha mai suonato più per secoli e conseguentemente il pubblico contemporaneo non ha mai sentito. L’interprete ha, dunque, una grande libertà di creare un mondo nuovo sia per sé stesso, ma anche per il pubblico fruitore ed è in questo particolare contesto che deve emergere la singolare arte dell’improvvisazione.
Inevitabile non fare un cenno alla filologia che spesso dà linfa vitale a dibattiti molto accesi.  Lavorando su una cultura che spesso crea questioni che potrebbero definirsi di “archeologia musicale” nella quale (come ha avuto modo di illustrare) quella dell’improvvisazione è un aspetto inscindibile, quali sono le strategie che adotta? 
Anche se la mia generazione ha avuto la fortuna che tanto studio tecnico sia stato già fatto da quelle precedenti, rimane comunque l’impossibilità a specializzarsi su tutta la musica prodotta dall’Occidente. In tal caso è bene concentrarsi su un determinato periodo verso il quale si è maggiormente inclinati, studiandone ogni singolo aspetto, anche interpretativo, tramite una capillare ricerca in biblioteche e archivi. Una volta acquisito un buon bagaglio nozionistico, lo stesso artista, supportato da una figura musicologica, deve lavorare di concerto col liutaio che gli realizza uno strumento antico in quanto è indispensabile, tra le altre cose, anche la ricostruzione di un suono ben preciso. Questo processo che ho adottato è complesso, ma indispensabile perché siamo di fronte ad una tradizione che è stata interrotta negli anni ed è comparabile allo studio che si fa di una lingua non più parlata: per chi desidera studiare il latino o il greco antico per potersi esprimere con questo linguaggio che la massa non parla più, le fonti letterarie acquistano una fondamentale importanza in quanto in esse ci sono informazioni di grammatica, intonazione, dialetto, melodia: tutti aspetti che comunque rimangono difficili da ricostruire perché de facto non ci sono esempi sonori facendo dell’arbitrarietà un fattore dal quale non si può prescindere.
Quello dell’arbitrarietà è infatti un aspetto, spesso scottante, di primaria importanza: se dei compositori del secolo scorso abbiamo registrazioni che ci permettono di captare come essi interpretavano le loro partiture, allo stesso tempo non possiamo sapere come effettivamente Mozart diresse il suo Don Giovanni a Praga o qualsivoglia altra sua composizione. 
Esatto. Fino agli anni ‘60-’70 del Novecento le musiche di Mozart erano interpretate tenendo fede ad una tradizione esecutiva romantica. Lo studio della musica “antica” ha apportato una ventata di riflessioni sull’articolazione, sulla vocalità, sul fraseggio e sugli stessi strumenti per arrivare a rileggere Mozart in maniera più corretta e non più secondo l’ottica di un gusto posteriore ed estraneo al compositore e che si è protratto fino alla vigilia del nostro millennio. Tuttavia con Mozart siamo in possesso di molte indicazioni già scritte da egli stesso nei suoi manoscritti e, man mano che si scorre a ritroso nel tempo, le indicazioni autografe vanno scemando, offrendo all’interprete di oggi ampi spazi d’improvvisazione. Per rendere l’idea della profonda disparità che persiste tra il classicismo e il barocco si può prendere ad esempio la differenza strutturale che c’è tra un’aria mozartiana, costituita da una linea vocale e una orchestrale, e un’aria barocca che è invece composta da una linea di melodia col testo e una di basso senza nessuna precisa specificazione rendendo tutti i colori degli strumenti che accompagnano la voce a libera scelta dell’esecutore.
Ha avuto comunque modo di esplorare altre epoche? 
Quando mi trovo ad ampliare il repertorio trovo riferimenti che mi riconducono all’epoca di mia competenza che è il ‘600, come avviene per il programma di “La tarantella” che ho affrontato di recente per i concerti di ottobre 2012 a Siena, Leytron e Wittenberg…
Toccando questo tema mi anticipa un quesito su “La tarantella” che avevo in serbo…  
È infatti un buon esempio per rispondere a questa domanda…
Uniamo l’utile al dilettevole… 
[Sorride] Un vasto corpus di scritture come quelle di Athanasius Kircher che, risalenti all’incirca al 1650, ci forniscono trattati sul tarantismo e sulla tarantella che è una musica che non si è conservata in partiture manoscritte autentiche ad eccezione di alcuni rarissimi esemplari…
Effettivamente abbiamo a che fare con la musica popolare… 
È per via orale che questa tradizione s’è tramandata ed è difficile sapere quando è nata. Lo strumento della chitarra battente è autoctono dell’Italia meridionale. Le prime testimonianze della sua esistenza risalgono al ‘600 e, evolvendosi nell’attuale chitarra acustica, ha la peculiarità di essere rimasto uno strumento popolare: fenomeni come questo ci fanno capire che ci troviamo di fronte a un barocco vivo. Una simile realtà è riscontrabile anche nella musica sudamericana [a tal proposito si segnala l’album che  ha recentemente pubblicato “Los Pajaros Perdidos”, ndr] che è vivacizzata da strumenti che somigliano molto a quelli barocchi.
Obiettivo della mia ricerca, nella definizione dei concerti, è quello di dar voce ad una musica tradizionale viva che abbia una forte connessione con quella scritta del XVII secolo. Dal tentativo di ascrivere la musica tradizionale in un contesto più antico ne consegue l’ulteriore interessante possibilità d’assistere ad artisti che suonano strumenti solitamente custoditi nei musei, ma la cui linea culturale non ha sostanzialmente conosciuto una vera e propria interruzione.
Nei vostri concerti fondete la musica col canto, la danza, il teatro. Qual è il vostro lavoro che porta a questo armonioso abbraccio tra le arti? 
Coinvolgimento e improvvisazione. Il pubblico di oggi è diverso da quello di qualche anno fa in quanto ha acquisito la volontà di partecipare ad uno spettacolo non più solo intellettualmente, ma anche di emozionarsi in prima persona. Per questo motivo mi pongo l’obiettivo di una forma di spettacolo più complessa e stimolante, rispetto a un tradizionale concerto, che possa instaurare una massima comunicabilità reciproca tra l’artista e lo spettatore.
Una similitudine con il flamenco, dove il tersicoreo improvvisa con il musicista e viceversa, è riscontrabile nella cultura indiana: anche qui una danzatrice è in costante dialogo con i musicisti e viene addirittura a mancare la figura del coreografo che pone regole ben precise sui passi da eseguirsi. La continua improvvisazione rende lo spettacolo vivo: è questa la peculiarità coreutica che ho incluso nel programma de “La tarantella” avvalendomi della danzatrice Anna Dego con la quale ho il piacere di lavorare da parecchio tempo.
Il mercato discografico odierno, si sa, privilegia i prodotti commerciali alla qualità. L’Arpeggiata ha già alle spalle una discografia di tutto rispetto, ma al contempo c’è un’innegabile differenza tra il poter assistere ad un vostro spettacolo dal vivo e il fruirlo per mezzo di un compact-disc. Quali strategie adottate? 
Oggi c’è una differenza tra la musica pop e la musica classica della quale ci sono in commercio dischi di ottimo livello…
Il problema è che sono pochi, troppo pochi, ad acquistare questi prodotti… 
Non sono d’accordo. Ritengo invece che c’è un profondo bisogno del pubblico di ascoltare la bella musica. Nonostante la diffusa crisi del mercato discografico questa generazione ha una grande opportunità di accedere alla musica registrata come mai è avvenuto prima grazie a strumenti come registratori, iPhone ecc., offrendo all’artista, allo stesso tempo, un’ulteriore grande opportunità di comunicare con un pubblico molto più vasto rispetto al passato. Anche per il fatto di rappresentare un caso eccezionale nel campo della musica colta, i cd del nostro ensemble ricevono costanti successi dei quali ne beneficiano anche le case discografiche che credono in noi. In ogni parte del globo in cui approdiamo, troviamo sempre un rapporto che è già stato virtualmente costruito grazie al disco per mezzo del quale il nostro messaggio è giunto agli spettatori già prima di noi stessi. Nel ‘600 tutto questo era impensabile perché, oltre alla mancanza delle tecnologie d’oggi, la musica era elitaria ed esclusivamente riservata ad una strettissima cerchia di persone.
Nel corso della sua carriera ha avuto modo di lavorare con ensemble e artisti di grande levatura: si pensino, solo per citarne alcuni a titolo d’esempio, Marc Minkowski e Les musiciense du Louvre, Il giardino armonico, Jordi Savall o René Jacobs. Quali sono le esperienze che oggi reputa di averla segnata maggiormente? 
Devo dire di essere felice di aver vissuto diverse esperienze prima di aver creato un mio ensemble. Ritengo molto importante, per la formazione di ogni artista, il compimento di un particolare cammino nel quale si ha l’opportunità di studiare le metodologie lavorative dei vari direttori e dei solisti che già hanno una consolidata carriera professionale, oltre ad analizzarne i diversi punti di vista perché in nessun caso della vita c’è un unico modo di fare le cose: ognuno ha una sua idea e tutte contribuiscono alla realizzazione di un propria concezione d’interpretazione. Noto in molti giovani, appena terminati gli studi, la volontà di fondare fin da subito un proprio ensemble privandosi della straordinaria opportunità di conoscere le altre opinioni e gli altri modi di fare la musica correndo il rischio di avere un’unica idea personale, mentre sono ben poche le persone che hanno la genialità di seguire le tappe della vita. [sorride] L’aver avuto l’opportunità di lavorare con persone completamente diverse tra loro m’ha portato al punto in cui è sorto il bisogno di creare programmi miei e miscelare esecutori che apprezzo, ma comunque dopo un lungo cammino di maturità.
Ed ecco che si giunge al 2000, anno in cui fonda L’Arpeggiata. Un ensemble barocco, ma non solo…  
L’idea ha sempre albergato in me. Come ho appena avuto modo di illustrare, ho atteso molto tempo prima di compiere un simile passo in quanto volevo creare un gruppo diverso dagli altri con una precisa intenzione di rinnovare l’idea di musica con un concetto originale. Non mi reputo tuttavia un leader che detta precise regole ai suoi strumentisti: pur ricoprendo il ruolo di direttore in questo ensemble, quello a cui miro è la creatività che deve emergere da ogni artista concedendo ad ognuno lo spazio necessario. È un lavoro non semplice, ma il risultato è un valore al quale ha concorso una pluralità di punti di vista e non solamente il mio.
Mi perdoni se posso sembrare indiscreto. Nonostante siamo nel terzo millennio il monopolio maschile detiene ancora il podio orchestrale. Lei è una rarissima direttrice donna: come vive questo ruolo? 
[Sorride] Il mondo della musica non è fatto solo di artisti, ma di un insieme molto più complesso e sotto questo punto di vista non è facile essere donna ed effettivamente essere a capo di un gruppo è un caso eccezionale nonostante siamo nel 2012. L’indole femminile tende a mettere da parte una certa irascibilità mettendo in campo una strategia di lavoro diversa che permette di realizzare cose diverse rispetto ad un collega uomo. Questo non vuol dire che viene a mancare la figura di un leader che sia un punto di riferimento artistico per tutti, ma tengo piuttosto ad armonizzare il tutto in un’unica forza comune senza che essa difetti di una guida. Sotto questo aspetto siamo al pari di un gruppo jazz dove c’è un leader, ma tutti gli altri componenti sono solisti di pari importanza.
Torniamo al tema della tarantella. Un’artista come lei che è di estrazione culturale nordica come si approccia con un programma che tratta aspetti propri del costume mediterraneo? 
Le mie origini hanno permesso di osservare questo repertorio musicale da un punto di vista diverso e distaccato rispetto a quello degli italiani. Questo approccio mi ha dato modo di notare che il barocco italiano è sorprendentemente disseminato di elementi che si avvicinano alla tradizione della tarantella. Come descritto da Athanasius Kircher, la corrente della tarantella di quest’epoca non si avvale di una metrica in 12/8 come avviene del XIX secolo. A titolo d’esempio egli fornisce un passo di basso ostinato in 4/4 che nella tradizione italiana è rintracciabile in una variante individuabile sotto il nome di “Tarantella del Carpino”.  Ci troviamo davanti a un’abbondante varietà di forme musicali non scritte e profondamente diverse da quelle composte a partire da due secoli fa delle quali invece abbiamo partiture pervenute. Oltre a quelli forniti da Kircher, altri passi di questa danza sono presenti in opere di altri trattatisti italiani, ma anche spagnoli e sudamericani del XVII secolo: questo denuncia che all’epoca era ben viva una certa musica tradizionale che, riuscendo a penetrare nelle partiture di compositori della quale ne ha fatto uso, continua a sopravvivere tutt’oggi. La mia identità austriaca non si è rivelata un limite, ma mi ha permesso di mantenere una sana distanza scientifica nei confronti di questo genere italiano.
Nel 2004 L’Arpeggiata lavora sulla “Rappresentazione di Anima e di Corpo” di Emilio Dé Cavalieri, del quale cura una versione integrale pubblicandone un album e dimostrando di non tralasciare quel genere che oggi conosciamo sotto il nome di opera, ma che all’epoca della composizione di questo capolavoro era individuato come “recitar cantando”. 
Oltre a “Rappresentazione di Anima e di Corpo” abbiamo realizzato qualche mese fa “Il Paride” di Giovanni Andrea Angelini Bontempi; mentre in estate siamo andati in scena con “Il combattimento di Tancredi e di Clorinda” di Claudio Monteverdi e “Il palazzo incantato” di Luigi Rossi insieme alla Compagnia Figli d’arte di Mimmo Cuticchio, e, in un passato più remoto, ci siamo imbattuti in “L’Euridice” di Jacopo Peri. Oggi è difficile sapere con quali voci e quali risultati i compositori rinascimentali e barocchi hanno lavorato per la messinscena delle loro opere, per via dell’estinzione dei cantanti castrati. Trovo oggi non propriamente facile nemmeno la realizzazione del recitar cantando vero e proprio perché la sfera spettacolare attuale, a differenza del ‘600, scarseggia di cantanti che siano anche attori.
Progetti futuri? 
A marzo 2013 l’uscita del nuovo album “Mediterraneo” che percorre la stessa strada tracciata da “La tarantella” in quanto il punto di partenza è la tarantella cantata in “griko” nel sud del Salento. Da qui la partenza per compiere un viaggio culturale in Grecia, Turchia, Spagna e Portogallo.

intervista di Massimo Festa (www.gbopera.it)