Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, dicembre 29, 2005

Raffaele Ariè: "The Rake's Progress"

Molti anni fa ero a New York per il mio debutto americano nel Faust di Gounod. Da bravo europeo, mi sentivo spaesato e con un po' di nostalgia per le nostre care abitudini.
Ghiotto come sono per la cucina balcanica, volevo rasserenarmi cercando a destra e a sinistra un "posticino" che potesse soddisfare le mie debolezze gastronomiche. Finalmente, mi venne indicato l'indirizzo di un ristorante nella 57esima strada, che molto speranzoso raggiunsi immediatamente.
Il locale era piccolo, ma accogliente, nonostante fosse quasi vuoto. Al tavolo non lontano dal mio, sedevano chiacchierando due persone, un ometto piccolo ed occhialuto ed un signore alto e smilzo, completamente calvo.
Quando tentai di ordinare al cameriere il mio piatto preferito mi trovai in serie difficoltà, giacché il buon uomo non parlava nessuna lingua straniera. Provai in italiano, francese, spagnolo, senza alcun successo, ma quando alfine gli chiesi se parlava forse il russo l'ometto occhialuto, che evidentemente aveva seguito la gustosa scenetta, s'intromise ed in purissima lingua russa mi chiese se poteva essermi utile.
Rallegrato da quel provvidenziale intervento, spiegai quali fossero le mie brame "culinarie".
Lui allora, rivolgendosi al cameriere monolingue, ordinò in inglese il piatto da me desiderato.
Tra di noi si stabilì così una breve e piacevole conversazione. L'ometto volle sapere da dove venivo e perché mi trovavo a New York e quando seppe che stavo per debuttare nel ruolo di Mefistofele, drizzò ancor più le orecchie e tradusse la nostra conversazione al suo amico smilzo.
Con mia somma sorpresa m'invitarono gentilmente a giungermi al loro tavolo. Intimidito, mi sentii un po' a disagio, ma accettai con sollievo il loro invito.
Mi presentai con nome e cognome e loro fecero altrettanto, e alzandosi in piedi, l'ometto indicò lo smilzo dicendo: "Le presento il maestro Mitropoulos" ed indicando se stesso aggiunse: "Il mio nome è Igor Stravinsky"!
Impietrito, mi accasciai sulla sedia e rimasi ammutolito.
Ci volle parecchio prima che io potessi riprendere il controllo di me stesso.
Intanto, il grande maestro volle sapere tante cose sulla mia carriera e mi disse che stava scrivendo un'opera dove c'era anche un ruolo di basso, e sarebbe venuto, senz'altro, in teatro a sentirmi.
Poi più tardi ci congedammo, dopo aver passato una piacevolissima serata assieme.
La mia tournée americana si svolse positivamente e presto dimenticai la promessa fattami e tornai in Italia. Stavo cantando alla Scala, quando dopo alcuni mesi, il segretario generale mi chiamò per comunicarmi, che il maestro Stravinsky mi aveva richiesto per la "Prima" mondiale della sua nuova opera The Rake's Progress (La Carriera di un libertino)!
Così, per un piccolo "peccato di gola" ebbi la grande soddisfazione di prendere parte alla "storica prima" alla Fenice di Venezia, diretta dallo stesso, "ometto occhialuto" che avevo conosciuto nel piccolo ristorante greco di Manhattan.

Raffaele Ariè (da "Ricordi teatrali")

martedì, dicembre 27, 2005

Intervista a Pierre Boulez

Scala Festival Berg - Milano
Si è svolto a Milano dal 18 al 31 maggio 1979 il "Festival Berg", un ciclo di concerti e rappresentazioni liriche che il Teatro alla Scala ha programmato, con la collaborazione del Théatre National Opéra de Paris.

Lei ha sempre vissuto profondamente e con passione i momenti fondamentali e gli sviluppi della musica del nostro secolo. In che misura questi hanno inciso sul/nel sociale? Nella formazione ed emancipazione dell'«uomo» dei nostri giorni?
E' una domanda molto difficile cui rispondere. L'evoluzione della musica non è per forza parallela all'evoluzione sociale. Ciò che tuttavia si può senz'altro constatare è che la musica ha enormemente ampliato il suo campo d'azione, il pubblico; gli ascoltatori poi sono molto più numerosi rispetto al passato. Ma anche la musica contemporanea resta, malgrado tutto, legata ad un certo numero di persone che vogliono fare uno sforzo per seguire anche questo genere. Per quanto ci si voglia impegnare, e sia detto senza allarmismi, rimarrà sempre ristretto il numero di coloro che seguiranno veramente, con uno spirito che va al di là dell'interesse, e ricco di maggior competenza. Il che non impedisce certo che le cose, più avanti, si estendano maggiormente e che, qualora raggiungessero un punto di diffusione sufficientemente grande, la musica contemporanea venga assorbita ...
La crisi morale, culturale, di valori che la nostra società (o il nostro sistema sociale) sta vivendo (ci riferiamo all'Italia e alle nuove generazioni, disgregazione intorno al privato, terrorismo ... ecc.), come viene recepita o sentita dal «mondo musicale»?
Il «mondo musicale» risente delle stesse crisi degli altri ambienti, non è un mondo a sé, ci sono gli stessi riferimenti. E' dunque certo che, anche qui, ci sia il timore del futuro, come sempre, e che questa paura del futuro si manifesti in diversi modi: conservatorismo nell'insegnamento, conservatorismo nel repertorio, conservatorismo nella forma del concerto e conservatorismo persino in tutto ciò che è implicato nella cultura musicale. E' evidente che esistono delle trasformazioni, ma queste trasformazioni sono molto lente e, in quanto molto lente, non si potrà parlare tanto di evoluzione. I programmi e la forma dei concerti si stanno evolvendo moltissimo e, probabilmente, in un certo numero di anni molte cose cambieranno.
La nostra scuola musicale sembra vivere al di fuori «del resto del mondo», anche se con importanti eccezioni ancora non capaci di diventare forza trainante. L'esperienza formativa del suo paese è diversa? Qual è? Quali sono gli elementi per una completa formazione del futuro musicista?
La situazione è la stessa anche in Francia. Certamente l'ambiente musicale è molto isolato dal resto. E un ambiente molto specializzato. E se si decide di analizzare in profondità un'azione sulla società, giustamente bisogna vederla attraverso il proprio mestiere e per mezzo della forza di cui si è portatori. Altrimenti ci si comporta da dilettanti in primo luogo e, secondariamente, si agisce senza alcuna forza in quanto si è al di fuori della competenza personale d'azione. E io credo fermamente che la capacità d'azione dipenda essenzialmente dalla professionalità di cui si è capaci.
Una domanda al compositore più che all'organizzatore o al direttore d'orchestra. Non ritiene che per le nuove generazioni sia venuto a mancare un punto di riferimento quale è stato Darmstadt dei primi anni per lei e la sua generazione?
Certamente la situazione è cambiata ma non si è semplificata. La situazione non è mai semplice ma è certo che, dopo la guerra, molte cose erano migliorate in quanto l'anticultura, se così si può definire, che si era venuta a formare tra il '32 e il '45 aveva provocato un gran desiderio di rinnovamento e questo desiderio non doveva incontrare ostacoli di sorta. In quanto si era visto a che cosa l'ostacolo poteva condurre. Quindi, dal mio punto di vista, della mia generazione intendo, il terreno era molto «libero». Questa specie di visione globale ora non esiste; si ripresenterà probabilmente non tanto in occasione di un altro conflitto ma certamente in caso di crisi. Ritengo che le crisi permettano di avere una visione globale di una certa situazione mentre i periodi normali sono al contrario soggetti alla dispersione. E non si può certo dire di che crisi si possa trattare proprio perché, in quanto crisi, non la si può prevedere ...
E più specificatamente Darmstadt?
Darmstadt è stata soprattutto un'esperienza internazionale. Quando sono arrivato a Darmstadt, cioè nel '52 la prima volta, poi nel '55, avevo già tutta una evoluzione musicale alle mie spalle, dal '45 a Parigi. Per cui Darmstadt ha rappresentato molto di più di un'esperienza personale perché è stato un incontro di persone di diversi paesi. E' stato probabilmente il primo incontro veramente internazionale che si è tenuto dopo la guerra. E, a mio parere, è questo un fatto molto importante, molto più del linguaggio musicale stesso. E' il confronto di persone che nascono da orizzonti musicali «diversi», da paesi che erano stati tenuti a lungo isolati gli uni dagli altri, che si sono infine incontrati e ciò ha dato la possibilità di raggiungere dei punti mai esistiti prima di allora. Chi dice confronto dice giustamente esperienza comune, finalmente, e esperienza comune significa in gran parte un nuovo linguaggio.
Che cosa ha rappresentato per lei questa esperienza musicale milanese?
Ne ricavo un'esperienza decisamente positiva, in tutti i sensi. So che Abbado ha fatto qui un grosso lavoro con la gente per cambiare i programmi. Non di meno Pollini. Esiste dunque una mentalità molto diversa da quello che avevo conosciuto venti, venticinque anni fa. Gli «animi» sono molto più aperti, più pronti, se si vuole, a ricevere la musica che si ascolta. Devo tuttavia riconoscere che il mio soggiorno a Milano non ha prodotto una musica attuale nel vero senso del termine. E' una musica che appartiene al passato, benché si tratti di un passato recente. Ma se mi si presentasse ancora l'occasione, vorrei andare più lontano, proporre la musica di oggi.
Può suggerire un modulo per avvicinare il pubblico non acculturalizzato alla musica contemporanea che viene solitamente definita estremamente ostica?
La gente bisogna andarla a prendere, è quanto noi in Francia facciamo, bisogna andarla a trovare, tenere sempre i contatti con comitati, enti ... con chi organizza corsi o concerti ...
Come interpreta la differenza di giudizio, spesso opposta, tra la critica e il pubblico?
Direi che è un fatto del tutto normale. E' una situazione che esiste da sempre, non è per niente nuova. E' chiaro, il pubblico ha un'opinione più generale, e non c'è un solo pubblico, ma tanti così come non c'è una critica ma i critici. Costoro hanno opinioni personali, si esprimono su organi di stampa diversi. Ritengo del tutto normale che nell'«esistenza», esistano degli opposti.
Quali sono, secondo lei, le cause e a chi attribuire le responsabilità - oggettive e soggettive della suddivisione netta fra musica d'impegno, accademica, e musica di consumo?
La musica e anche «molte cose». C'è la musica che si può ascoltare, senza dover prestare troppa attenzione, una specie di sottofondo musicale e c'è anche la musica che, contrariamente, richiede concentrazione, attenzione, ascolto attivo che, tuttavia, non significa necessariamente entrare in profondità. Da parte mia non ritengo possibile un ascolto impegnato ventiquattrore su ventiquattro. Esistono quindi dei momenti che sono più adatti all'ascolto passivo degli altri al contrario, nei quali ci si può concentrare. Del resto, nella stessa musica «seria», troviamo delle opere che richiedono più attenzione di altre ... E un fenomeno che esiste anche nella letteratura, dove, per fare un esempio nella letteratura francese, ci sono poeti come Rimbaud o Mallarmé che sono sempre più difficili da leggersi che non Victor Hugo o la Sagan.

da Laboratorio & Musica (Anno I m.2/3, lug/ago 1979)

domenica, dicembre 25, 2005

Schnittke o l'artificio della tradizione

Compositore sarcastico e vivace, impetuoso e delirante, la suo musica oscilla audacemente tra il sorriso bonario d'un Haydn e il ghigno mefistofelico d'un Sostakovic. Nuove registrazioni rilanciano l'arte del musicista russo.

Non è ciò che si fa che può essere nuovo, ma il modo di farlo. La «personalità del compositore conta nuovamente. Occorre procedere a tentoni ed avere fiducia». Oggi contano le idee e i pensieri inaspettati e nulla più di questa frase del compositore Alfred Schnittke (1934) può condensare con maggiore efficacia il senso profondo del suo comporre.
Scrivere di un artista contemporaneo della classe di Schnittke costituisce un'impresa assai ardua a causa dell'eseguità dei riferimenti critici; per questo si è costretti a confidare unicamente sulle riflessioni e le emozioni suscitate dall'ascolto diretto della sua musica e su sommarie indiscrezioni sulla sua persona.
Una condizione indispensabile per accostarvisi con la dovuta obiettività, è quella di evitare di orientare l'analisi critica secondo i paradigmi tipici della nostra cultura, e partire, cioè, da una prospettiva storica che lo inquadri in sequenza con le esperienze, più o meno recenti, dell'avanguardia europea. Peggio ancora sarebbe sviscerarne eventuali significati e valori attraverso un cavo critico di natura prettamente ideologica. Una tendenza che, seppure abbia influenzato e continui ad influenzare le giovani generazioni di compositori e storici europei, non può, per sua natura, adattarsi ad un contesto geopolitico radicalmente diverso dal nostro, dotato di sue specifiche connotazioni culturali; connotazioni in sé imprescindibili per la comprensione di un compositore che, nel bene e nel male, è di quel contesto uno specchio fedele.
Nonostante la «glasnost», dunque, è difficile per noi europei, abituati alla più totale libertà di espressione, forse solo virtuale, comprendere l'opera di un artista fecondo e polimorfo come Schnittke, appunto, costretto, suo malgrado, a conciliare ricerca e sperimentazione con una condizione esterna caratterizzata da un avvilente ostracismo, pervicacemente ancorata a preconcetti e rigorosi canoni estetici. Ma paradossalmente questi odiosi impedimenti sono stati degli stimoli potenti dell'attività creativa del compositore che, in quelle avverse condizioni, ha affidato i propri strumenti e dato corpo ad un linguaggio personale, originale ed universale insieme, che ha nella storia il suo orizzonte linguistico. Fare di Schnittke un baluardo contro le degenerazioni di certa avanguardia europea, in vero più che mai avvezza alla prassi del travestimento ideologico, è una forte tentazione, ma anche un grossolano abbaglio. In tal senso maggiore sarebbe, quindi, l'errore di associarlo alla corrente della «nuova semplicità», che in Europa, proprio sulle macerie della cosiddetta «avanguardia storica», ma non per questo negandola, ha cercato di ricostruire un sano rapporto con la propria identità tornando a riflettere, con mente sgombra da schemi preconcetti, su elementi teorici fondativi del proprio statuto, con la sana intenzione di recuperare alla musica la sua concreta, originaria natura comunicativa.
Al di là, quindi delle molteplici tendenze che oggigiorno orientano i contemporanei compositori europei, Schnittke è da analizzare come un artigiano che pone la propria sensibilità ed il proprio ingegno al servizio della musica e, perché no, del suo pubblico. In verità non può definirsi, a ragion veduta, un innovatore in senso stretto: il «risultato», la struttura comunicativa del comporre, l'uso della parodia e dell'artificio musicale, sono tutti sapidi ingredienti della sua poetica, che reinterpreta i valori storici integrandoli armoniosamente in un contesto formale ed espressivo di grande suggestione.
Il percorso formativo di Schnittke è quanto mai vario e, ad eccezione di due sue opere giovanili (Nagasaki del 1959 e Canti di guerra e di pace del 1960), non è fortunatamente scaduto nella retorica di regime che ha segnato in parte l'opera di alcuni suoi celebri modelli, in primis Sostakovic e Prokof'ev. Il suo atteggiamento verso il proprio tempo è sostanzialmente sarcastico, impietoso addirittura delirante. Egli strania l'ascoltatore con arditi procedimenti, con inaspettati cambiamenti di tempo, ritmo ed atmosfere, oscillando audacemente tra il sorriso bonario e rassicurante di Haydn e il ghigno mefistofelico di Sostakovic, in una alternanza di tragico e comico, sarcastico e allucinato, severo e giocoso. Le sue esperienze di vezzosa calligrafia musicale (Stille nacht, Suite in alten stil, etc.) sono invece immerse in una atmosfera profondamente melanconica. Una melanconia che affonda le sue radici nell'humus della antica cultura russa, una cultura popolare che ha mancato diversi e decisivi appuntamenti con la storia, dalla rivoluzione borghese a quella telematica.
L'originale polistilismo di Schnittke, appunto, intende colmare queste lacune, proiettando quelle esperienze sulla superfice instabile e schiava del presente, attraverso un gioco di combinazioni, implosioni e scontri della sintassi musicale. Abbiamo definito vario il percorso formativo di Schnittke. Di famiglia tedesca il compositore ha compiuto i sui primi studi musicali a Vienna, e conserva un ricordo intenso e nostalgico di quella città (pensiamo al suo «(K)ein sommernachtstraum»).
La sua vasta opera si articola sostanzialmente in tre fasi. Quella iniziale, alla fine degli anni Cinquanta, vede Schnittke seguire il tracciato imposto dalle autorità sovietiche, diplomandosi in direzione di coro presso l'accademia musicale «Rivoluzione di Ottobre» di Mosca, dando alle stampe i suoi primi lavori. Si trattava di due oratori perfettamente integrati nella tradizione ufficiale e permeati da certo pompierismo di maniera. Negli anni '60 Schnittke si rivolge ad uno studio approfondito dei parametri e delle strutture musicali, avvicinandosi alla contemporanea esperienza europea del serialismo integrale di Darmstadt. Sono di questi anni alcune delle sue composizioni più interessanti: il Concerto per violino n.1, la Sonata per violino e pianoforte, la stupenda Sonata per violino e orchestra da camera, ed il Concerto per violino n.2 in cui, seppure una sequenza di 12 note costituisca il fondamento tematico, nondimeno è possibile individuare un centro di gravidazione tonale (il periodico riapparire del sol). E' questo il tempo della fervida collaborazione con Denisov e Volkonskij a Mosca, in un clima arroventato dalle diatribe ideologiche e da una recrudescenza del rigore censorio. Il ricorso a strutture antiche ha inizio negli anni '70 con alcune composizioni come la Suite im alten stil e Stille nacht (sarcastica ed allucinata parodia sul celebre tema), in cui la calligrafia musicale manifesta un crescente interesse verso le componenti storiche del linguaggio. E' un inconsueto recupero degli idiomi perduti, che non si piega all'oleografia, ma immerge le immaggini poetiche di sfatte rovine lessicali in un ambito tematico moderno e graffiante. E' invece degli anni '80 il suo approdo al polistilismo maturo, che concilia in un contesto sincretico, linguaggi, stile e sonorità diverse ed apparentemente inconciliabili. Sulla linea dell'ultimo Sostakovic, Schnittke si dimostra capace di governare strutture ampie, il più delle volte addensando il materiale sonoro in grandi blocchi saturi di suono: è il caso dei suoi quattro concerti grossi (in cui si evocano forme tipiche del barocco insieme a palesi riferimenti a Mahler, Beethoveen etc), delle cinque sinfonie, dei due concerti per violoncello ed orchestra, della cantata. Soprattutto i concerti per strumento ad arco ed orchestra, sembrano come vitalizzati da una veste melodica di rara immediatezza espressiva, nella quale non è azzardato ipotizzare una celata intenzionalità autobiografica.
Negli ultimi tempi stampa, pubblico ed istituzioni hanno mostrato ampio interesse per Schnittke, ed una piccola casa discografica svedese, la BIS, contravvenendo finalmente alle rigide leggi di mercato, si è impegnata coraggiosamente nella registrazione dell'opera di Schnittke, avvalendosi di artisti prestigiosi e sicuramente affidabili. Alcuni tra questi, Lubotsky, Markiz, Krysa, Klas, come sono stretti collaboratori del compositore e spesso suoi committenti. Se questo è un segnale, c'è di che sperare per una diffusione «intelligente» della musica contemporanea.

di Francesco Caporale (Musicalia, Anno III n.12, feb/apr 1994)

venerdì, dicembre 23, 2005

Giulio Confalonieri a vent'anni dalla morte

Gli scritti di Giulio Confalonieri, i suoi articoli settimanali che ora nemmeno ricordo dove comparissero (Oggi, Epoca?), hanno accompagnato e consolidato la mia formazione di giovane musicista. Devo a lui, e a lui solo, l'interesse prima e l'amore poi per Wolf, e le sue perorazioni per Grieg mi hanno messo in guardia contro le scale di valori troppo consolidate. La musica è un fattore troppo totalizzante per consentire scelte manichee, di qua i buoni, di là i cattivi, e se c'è una piccola grande musica, c'è posto anche per una grande piccola musica. Erano anni di apprendistato, di curiosità vorace e ormivora che veniva soddisfatta principalmente dalla radio (i dischi erano merce rara e costosa) per la conoscenza dei testi, e dai periodici per la sistemazione critica delle esperienze d'ascolto: Mila, Gara, Vigolo, D'Amico, Confalonieri, Del Fabbro erano i referenti più accreditati; com'è giusto per un ragazzo che viveva in provincia, per di più periferica, tendevo a fare di ciascuno un oracolo e mi era difficile distinguerne le tendenze, i tic, i pregiudizi e le convinzioni più profonde; poco alla volta però il quadro mi si fece più chiaro e decisi di privilegiare quelli che sentivo più affini alla mia sensibilità, se ne ho una, e scelsi D'Amico e Confalonieri. Non mi sono mai pentito di quella scelta e penso che tutti in Italia siamo molto in debito con l'uno e con l'altro: stando al solo Confalonieri, basterebbe rifarsi ai capitoli su Schubert e Schumann della sua Storia della Musica per capire che la sua preparazione culturale specifica e generale, la finezza di analisi, la profondità dell'indagine (e tutto espresso con una chiarezza e bellezza di linguaggio che non temono confronti) appartengono a uno scrittore che non è soltanto un musicologo avvertitissimo, ma un prezioso, insostituibile compagno di strada, una guida trascinante e sicurissima per chi voglia entrare in contatto con la musica, decifrarne gli enigmi, poterla familiarmente frequentare. Solo molti anni dopo la conoscenza del critico Confalonieri ebbi l'occasione d'incontrare, io molto reverente ed emozionato, l'uomo Confalonieri; l'impressione, fortissima, che ne ebbi mi lasciò tuttavia vagamente perplesso. Un volto bellissimo, un'espressione volitiva e nobile, una voce fascinosa contraddicevano un corpo un po' sfasciato e segnato da una pronunciatissima zoppia, tristissimo retaggio di un incidente ferroviario. L'eloquio, leggermente ridondante e compiaciuto, era però innervato da un pensiero di stampo settecentesco, lucido e tagliente fino ad apparire cinico; ma l'aristocratico ch'era in lui amava ogni tanto mascherarsi inserendo nella conversazione e negli atteggiamenti parole e modi smaccatamente plebei, provocando un curioso effetto di straniamento che rinforzava l'evidenza della sua origine "alta" e confinando il suo vocabolario "basso" fra le innocue manifestazioni di un infantile snobismo. Eravamo a Busseto, convocati per non so quale occasione celebrativa, e passai con lui qualche giorno fra i più intellettualmente eccitanti della mia vita. Alla fine credevo di averlo capito; appreso che fra i suoi divertimenti preferiti c'era quello di tirare l'alba in qualche osteria del suburbio milanese giocando a scopone con ceffi pittoreschi ma poco raccomandabili, mi sembrò di poterlo assomigliare a qualche gentiluomo del secondo impero che attratto dal color locale frequenta bassifondi e simula un socialismo di maniera; avrebbe potuto essere, data anche la sua pronunciatissima capacità di apprezzare la bellezza femminile, una sorta di principe dei Misteri di Parigi di Sue, o in terra nostrana un duca di Mantova abilissimo a truccarsi da Gualtier Maldè per assaporare al meglio le inconscie grazie delle Gilde di periferia. Così credetti fino alla fine del nostro soggiorno bussetano, fino cioè al verificarsi di un episodio singolare che rimise tutto in discussione. A Busseto, luogo verdiano, non mancava naturalmente un omaggio marmoreo al genius loci, un suo busto. Del resto anche l'albergo più bello (o l'unico) di Busseto ha camere in stile verdiano, dedotto dalle più oleografiche scenografie delle sue opere, che, se ricordo bene, si distinguono non solo col numero, ma anche col nome: per esempio credo di aver dormito nella camera chiamata dei due Foscari: e in più, mangiando (benissimo) al ristorante dello stesso albergo, dal melone col culatello fino al caffè finale il pasto è discretamente accompagnato dal "Va, pensiero" o dal "Si ridesti il leon di Castiglia" diffusi da sofisticati e nascosti altoparlanti.
Non so se fosse brutto o bello, il monumento, ma aveva un torto, era stato eretto da un'amministrazione rossa.
Verdi prigioniero dei comunisti? Mai, tuonarono i democristiani, e pensarono di erigerne uno nuovo praticamente in faccia al vecchio. I due Verdi, il rosso e il bianco, stavano per fronteggiarsi arcignamente; non erano ancora nemici perché il nuovo busto, dovendo essere inaugurato, era coperto da un drappo nero che ne celava l'espressione. Bene, i "bianchi" avevano chiesto a Confalonieri di pronunciare, allo scoprimento del busto, qualche parola d'occasione e Confalonieri aveva accettato l'incarico. Viene il momento solenne, il drappo cade e Confalonieri inizia il discorso. Io mi aspettavo qualcosa di intelligente, di semplice, di breve, perché l'atmosfera guareschiana induceva piuttosto al sorriso che alla commozione. Ed ecco la sorpresa: il discorso si trasforma in orazione, Confalonieri assume i toni se non le sembianze di un Bossuet, una sinistra aura controriformistica cala sulla piazza, ai dissenzienti o agli ignari vengono minacciati roghi e terribile stridore di denti, la celebrazione cede il passo alla crociata, in un crescendo di intolleranza che porta alcuni al delirio e altri, pochi fra cui me, alla sensazione di vivere un sogno.
Quando Dio volle l'allocuzione finì e Confalonieri, riassunta l'espressione normale, mi si rivolse con una timida e gentile domanda: "Come sono andato?". Non ricordo se e che cosa gli risposi, certo ero impietrito dallo stupore. Ancora non so se Confalonieri abbia creduto a una sola parola di quanto aveva detto: può darsi di sì, ma le sue affermazioni erano in totale contrasto con quel che avevo letto nelle sue opere; tendo perciò a pensare che a elencare i suoi talenti si mancherebbe gravemente a non ricordare il suo genio del travestimento, quello di sapere e volere recitare tutte le parti del gran teatro del mondo: aristocratico autentico ma rinnegato, falso scioperato e lavoratore accanito, Confalonieri ha trovato alimento alla sua capacità di intuizione psicologica, che rende tanto preziose le sue pagine nella verifica sul campo, nella assunzione fittizia e temporanea di personalità contraddittorie, vissute però con tanta intensità da consentirgli di incarnarle come un moderno Sosia. E in questo affascinante rimando di specchi sto ancora domandandomi chi era il vero Giulio Confalonieri.

di Giorgio Vidusso (Musica Viva, Anno XVII n.1, gennaio 1993)

mercoledì, dicembre 21, 2005

La fede laica di Kokkonen

C'è un identikit del compositore finlandese che si può ragionevolmente azzardare e al quale neanche Sibelius è sfuggito: un uomo o una donna dediti all'arte dei suoni e, nello stesso tempo, profondamente inseriti nelle strutture organizzative della vita musicale del Paese. Musicisti e docenti, oppure musicisti e dirigenti, le combinazioni di questa formula possono variare all'infinito: non vi fanno eccezione neanche i cantanti, come è dimostrato dai casi del basso Martti Talvela, per anni direttore artistico del Festival di Savonlinna o del baritono Jorma Hynninen che dopo aver diretto dal 1984 al 1990 l'Opera Nazionale Finlandese, da quest'anno assume la direzione del citato festival.
Joonas Kokkonen (nato nel 1921) testimonia anch'egli di questo consolidato costume: decano dei compositori contemporanei finlandesi, e reputato come il più significativo musicista di quel Paese dopo Sibelius, parla volentieri delle sue esperienze che lo hanno portato prima all'incarico di lettore all'Accademia Sibelius nel periodo 1950-59 e poi alla cattedra di composizione nella stessa Accademia del 1959 al 1963. Presidente della Società dei Compositori Finlandesi dal 1965 al 1970, è stato anche Rettore dell'Accademia Sibelius dal 1966 al 1980. Mi parla di questi incarichi nel più antico dei ristoranti russi di Helsinki, durante un incontro organizzato dal Ministero degli Affari Esteri finlandese. Parto da questi dati "burocratici" perché la partecipazione alla militanza amministrativa e didattica (di per sé lontane dal puro momento creativo) attribuisce a Kokkonen - come agli altri esponenti dell'attuale generazione - concretezza, realismo, totale assenza di pose "sublimni": aspetti che non siamo soliti associare, da noi, al musicista.
Me lo conferma il colloquio svoltosi nel corso dell'incontro: la deferenza verso l'illustre musicista cede presto il passo a una semplicità e cordialità che il suo tono schietto e ironico autorizzano.
Kokkonen ha al suo attivo numerose composizioni, fra le quali spiccano 4 sinfonie, l'opera in due atti Le ultime tentazioni e il Requiem scritto nel 1981 in memoria della moglie Maija morta nel 1979.
E sono proprio l'opera e il Requiem che gli hanno assicurato - dopo quasi mezzo secolo di attività creativa, la sua prima composizione, un trio per violino, pianoforte e violoncello è del 1948 - una fama che valica i confini degli amatori e quelli geografici del suo Paese.
E dire che Le ultime tentazioni non ammicca a temi popolari, né gioca la carta, che è sempre latente nella drammaturgia finlandese, del nazionalismo e del richiamo alla saga del Kalevala. A giudicare dai commenti raccolti e da quanto me ne riferisce l'autore nel corso dell'intervista, è soprattutto il messaggio morale che ha fatto breccia nel pubblico, fino a fare di un'opera contemporanea un successo (più di 200 repliche nella sola Finlandia): come in certe opere verdiane (e Verdi è l'autore che preferisce in campo operistico) coi valori musicali passa la concezione etica del compositore. Così ne Le ultime tentazioni, la storia del riformatore religioso Paavo Ruotsalainen, personaggio storico (1777-1852) sceneggiata nel libretto scritto da un cugino del musicista, narra la vicenda d'un uomo semplice che lotta contro il dogmatismo e contro concetti stereotipi della religione. Il protagonista è uno dei numerosi anti-eroi di cui è ricca la letteratura europea dal Decadentismo in poi: tant'è vero che la sua avventura umana e religiosa ci viene mostrata in controluce, un calvario di fallimenti e di cadute. La sua fede semplice ma forte riesce a trasmettere il convincimento che lo ha sostenuto nel corso della sua difficile vita: la superiorità della legge di Dio rispetto agli schemi confessionali e legalitari costruiti sopra e ai danni della parola rivelata.
Questa stessa fede laica anima il Requiem, ove il clima non è quello fortemente chiaroscurato delle analoghe composizioni di Mozart e di Verdi, ma semmai quello pacato e meditativo del Deutsches Requiem di Brahms, sì da rinforzare la diffusa opinione che contrappone i Requiem cattolici a quelli protestanti (la confessione di riferimento è per Kokkonen il luteranesimo). Se ne ha conferma nella scelta che ha portato Kokkonen a rinunciare al Dies irae, sostituito da un passo del Tractus che si conclude con l'invocazione alla «lux aeternae beatitudinis». E in questo motivo della luce la partitura trova il suo centro di gravità.
Kokkonen si congeda con un'anticipazione: sta lavorando alla sua quinta sinfonia. Alla confidenza, aggiunge l'invito ad andarlo a trovare nella sua casa di Jarvenpäa, a pochi chilometri da Helsinki. Già, perché nell'identikit dell'artista finlandese (Sibelius docet) c'è la casa fra i boschi che si specchia su uno dei mille laghi di questo paese. E quella di Kokkonen è firmata da Alvar Aalto.

di Franco Onorati (Musica & Dossier, Anno VII n.53, gen/feb 1992)

lunedì, dicembre 19, 2005

Balanescu Quartet

Rumeno ma trapiantato a Londra, un aspetto da John Belushi, Alexander Balanescu racconta la sua storia, il suo quartetto, la musica che cerca al di fuori dei confini.

Una parola da mandare volentieri nel ripostiglio è contaminazione. Molte furberie, cosucce origliate, personaggi di dubbia qualità cercano di darsi un tono superiore usando la contaminazione come griffe. La geografia della musica contemporanea negli ultimi anni si è allargata di questa nuova penisola, dove stanno pigiati insieme i contaminati, come in quarantena; un posto che vorrebbe essere di frontiera, ma che spesso somiglia di più a una periferia urbana, col suo brandello di pubblico giovanilistico un po' ghettizzato, che a furia di non muoversi di lì smette anche di esser giovane. I coloni di questa strisciolina di terra sono in genere figli di chi ha una storia alle spalle, e vorrebbero farsi capire dalla moltitudine che non ha alcuna storia di sé, un mare magno indifferente con coerenza a tutto ciò che non esiste dentro al televisore. Hanno come caratteristica un disperato bisogno di trovare una lingua qualunque per parlare.
L'idea di mescolare le culture, di sporcare il linguaggio alto con quello basso, di appiccicare con lo scotch frammenti del Nord e del Sud del mondo, non è sconosciuta al Novecento. L'ambiguità di questo procedimento però richiede una raffinatezza e una onestà artistica fuori dal comune. Di fronte a certi personaggi si rimane incerti, titubanti, come Ercole al bivio. Mi sta vendendo una patacca musicale, o sono io che non capisco lui? Questo Re è nudo davvero, o lo snobismo culturale non mi permette di vedere il velo delicato che lo avvolge?
Il Quartetto Balanescu appartiene a questo tipo di persone. Il braccio armato di parecchia musica di "contaminazione" è stato il quartetto d'archi: prima il Kronos Quartet, poi via via altri, tra cui quello di Alexander Balanescu. Il dubbio su di loro era forte, specie dopo gli ultimi dischi, come Luminitza. L'unico modo di schiarirsi le idee era di approfittare di un passaggio del Balanescu a Milano per conoscerli meglio.
Bisogna intendersi: il Balanescu Quartet è soprattutto lui, Alexander, perché gli altri leggii hanno un turnover vorticoso per un quartetto d'archi, e non c'è quasi disco con la stessa formazione. Durante l'intervista non usa mai la parola contaminazione. Invece parla quasi sempre di quello che proverà a realizzare domani, delle cose ancora da scoprire, come se la vita fosse una serie ininterrotta di cassetti da aprire. Se il futuro fosse la misura del contemporaneo, non ci sarebbe musicista più all'avanguardia.

Mi può dire che cos'è esattamente il Balanescu Quartet?
"Il Balanescu Quartet è forse più che altro un'idea, una concezione. Cerchiamo di uscire dalle convenzioni di un classico quartetto d'archi. Non perché ci sia un ricambio dei componenti, ma forse perché questa idea a volte cambia le persone. E' abbastanza difficile ottenere che i musicisti di formazione classica siano aperti. Noi cerchiamo sempre nuove cose, e non sempre è facile accettarlo. La preparazione tecnica deve essere quella di un musicista classico, ma poi bisogna essere disposti ad accettare esperienze nuove come l'improvvisazione, il suonare tutto a memoria senza nascondersi dietro lo spartito, l'asnetto teatrale della comunicazione."
Da dove proviene sia musicalmente che culturalmente?
"Ho cominciato a studiare musica da bambino a Bucarest, la mia città, in una scuola speciale. Si lavorava moltissimo, spesso la mia insegnante, che veniva dalla scuola di Enescu, mi ascoltava al mattino e poi di nuovo alla sera, per controllare quello che avevo studiato. Ma la preparazione era quasi esclusivamente di tipo solistico, molto tecnica, non ricordo di aver mai studiato musica da camera per esempio. Ho debuttato a nove anni in recital, e a dodici con l'orchestra. Nel '69 la mia famiglia emigrò in Israele; di lì continuai gli studi al Trinity College di Londra, e dal '75 alla Juilliard di New York con Dorothy Delay.
Della Romania di allora non ho dei ricordi molto buoni. Mio padre era un giornalista, un intellettuale non conformista col regime, così vivevamo in una situazione di incertezza, non eravamo mai sicuri di quel che poteva succedere. In più il fatto di essere ebrei era una complicazione ulteriore. I miei fratelli ed io siamo cresciuti con la convinzione che quello non fosse davvero il nostro paese, che dovevamo cercare di andarcene. Abbiamo aspettato cinque anni per avere il visto di uscita, e un altro anno per poter partire. Fu un anno molto eccitante, perché anche se mio padre perse il lavoro immediatamente, e altri guai, non ce ne importava più nulla; vendemmo tutto e alla fine partimmo per la Francia. Due anni fa sono tornato a suonare in Romania, dopo ventidue anni. E' stato molto interessante, ne ho avuto un'impressione molto diversa. Da adulto, ho cominciato ad apprezzare certe caratteristiche della cultura rumena, delle persone. Sento di avere delle radici in quella terra, anche se mi sento straniero fondamentalmente. I primi giorni, parlando alla gente per la strada, ero costretto a chiedere di ripetere quello che dicevano. Mi sono reso conto che parlo un rumeno con l'accento inglese, e un inglese con l'accento rumeno. Comunque mi diverte sentirmi un po' straniero in qualunque cultura."
Vale anche per la musica?
"Sì, mi piace che nella mia musica ci siano molte influenze. Non credo tuttavia che si possa catalogare la musica; infine l'unica categoria valida è bello o brutto. Penso che la musica etnica sia molto importante come fonte di ispirazione; naturalmente lo è anche la musica classica, o l'improvvisazione, il jazz, certe zone del pop, ma in un certo senso la musica etnica è la più importante, perché penetra molto a fondo. Ciò che mi interessa è di confrontare gli elementi, ogni volta che li trovo, della musica di ogni parte del mondo. Ci sono, secondo me, certi elementi molto basilari, connessi all'esistenza umana, che forse nella cultura occidentale sono diventati un po' separati dalla vita di ogni giorno. Nella musica popolare ci sono momenti molto importanti della vita legati alla musica, e amo l'idea che la musica sia qualcosa che guida l'esistenza."
Nella nostra esperienza però mi pare che la musica etnica sia più distante da noi di quanto lo sia per esempio la musica pop.
"Anche questo è interessante. Penso che ci sia un rapporto con lo sviluppo economico. In un paese meno avanzato economicamente come la Romania la musica popolare sopravvive in modo più forte. Per contrasto in un paese industrializzato come l'Inghilterra la vera musica folk è il pop. Quello che cerco di fare nella mia musica è di combinare le due cose, di prendere certi elementi del folk come il ritmo e l'emozione, e combinarli con elementi del pop. E' una sorta di musica popolare urbana."
Ma all'inizio lei è saltato dal repertorio classico a quello contemporaneo, entrando a far parte del Quartetto Arditti.
"Ho cominciato a interessarmi alla musica contemporanea quando ero alla Juilliard. Era una sorta di liberazione da quelli che mi sembravano i limiti del repertorio classico, certe imposizioni commerciali, certi schemi nel suonare i pezzi classici, certi criteri di interpretazione. Ho ascoltato a New York negli anni Settanta artisti che mi hanno acceso una scintilla come Laurie Anderson, Meredith Monk, Glenn Branca, Bob Ashley. Quando sono tornato in Inghilterra ho cominciato a lavorare nell'area della musica contemporanea, e nell'83 fui invitato dall'Arditti a unirmi a loro. Ne fui molto felice perché era esattamente ciò di cui avevo bisogno a quel tempo. Ho lavorato con loro per quattro anni, e ho imparato moltissimo sul modo di suonare in quartetto, sul repertorio contemporaneo. Ma mi rendevo conto sempre di più che quel tipo di musica non era completamente soddisfacente per me, perché l'enfasi posta sulla parte intellettuale era sproporzionata agli altri elementi. A quel punto ho fondato un mio quartetto. Ritengo che il quartetto d'archi sia un mezzo formidabile, attraverso il quale è possibile suonare nuova musica in modo più comunicativo con un pubblico vasto, che sia coinvolto non solo col cervello ma con tutto se stesso, con le proprie emozioni. Musica di contenuto ritmico, perché sento che il movimento è molto importante per la musica, ancora in relazione alla musica popolare di cui si diceva prima."
Quel carattere intellettualistico a cui si riferiva era dovuto alla personalità di Irvine Arditti, o era insita nelle composizionì stesse?
"A quel tempo penso che il Quartetto Arditti avesse un certo ruolo. La filosofia del quartetto era quella di essere al servizio del compositore, suonando un impressionante numero di nuovi lavori, più di cento all'anno, pezzi che quasi sempre venivano suonati solo una volta o due. Irvine era solito dire che in realtà non era lui a scegliere la musica, ma era la musica che veniva al quartetto. Non penso che alla fine questo sia corretto, ci deve essere una scelta, perché non si può suonare tutto. L'Arditti forniva una sorta di expertize tecnico, e in certi casi questo aveva un senso: in effetti autori di particolare complessità come Ferneyhough, Elliot Carter o Boulez li possono suonare solo loro. Per noi è diverso, perché penso che si debba scegliere chi suonare e per chi. Suoniamo anche spesso gli stessi pezzi, perché una nuova composizione ha una sua vita, un suo percorso che si sviluppa man mano che lo suoni."
I primi autori che il Balanescu ha suonato erano degli "eretici" come Michael Nyman e Gavin Bryars.
"Sì, ed era proprio per questo che sentivamo che la loro musica era importante, perché erano considerati la parte radicale del movimento post-modern, assieme alla musica di Arvo Pärt, di Gorecki. Ora sento il bisogno di cercare altra musica, altre direzioni. Uno come Nyman oggi fa parte dell'establisliment. In un contesto più ampio, tutto il minimalismo oggi non ha più quell'aspetto radicale che noi cerchiamo."
In seguito avete cercato autori che venivano da mondi ancora più lontani, come David Byrne e John Lurie.
"Sì, e l'abbiamo fatto con grande piacere. Cercavamo di trovare elementi interessanti in musicisti che non avessero una preparazione in alcun modo accademica. Lurie non scrive neppure la musica, perlomeno non in modo tradizionale. Abbiamo improvvisato, registrando, e poi sceglievamo ciò che ci sembrava riuscito, sviluppando il pezzo insieme. Ci costringeva a usare il quartetto d'archi dal punto di vista di uno che suona la chitarra. Penso che sia importante lavorare con musicisti che normalmente non usano il quartetto, ma che abbiano prospettive musicali molto aperte sulla nuova musica."
Accanto a queste collaborazioni col pop "intelligente" e con la musica d'improvvisazione, avete rapporti anche con compositori vorrei dire tradizionali, come Kevin Volans, gente che scrive partiture e ha un curriculum di studi. Sono interessi separati, o a volte sentite il bisogno di tornare a un rapporto più sicuro con l'autore?
"A dir la verità, si tratta di una relazione piuttosto interessante con due differenti case discografiche. Ha a che fare con la differente impostazione delle due etichette, una più attenta all'autore e l'altra più rivolta al tipo di ricerca che svolgiamo noi come quartetto. Il lavoro con Kevin Volans è interessante per via degli aspetti etnici molto forti della sua musica, in questo caso della musica africana. Si tratta di entrare nel linguaggio musicale di un'altra persona, fino al punto di sentirlo come proprio. Speriamo di sviluppare ancora il rapporto con lui. Cerchiamo anche altri rapporti, sebbene in questo momento siamo più orientati a guardare a musicisti di altri campi. Credo che sia necessario aspettare una nuova generazione che raccolga l'eredità di Gavin Bryars e di Nyman. E' curioso comunque che in questo momento i fenomeni nuovi siano iniziati più dagli esecutori, specie dai quartetti, piuttosto che dai compositori."
Lei come spiega il successo attuale del quartetto d'archi?
"Il quartetto ha una grande flessibilità, e poi costa molto meno di un'orchestra. Se vuoi tentare qualcosa di nuovo è molto più semplice farlo con quattro musicisti. Da questo punto di vista, il quartetto ha una ricca tradizione sperimentale, dai tempi di Haydn in poi. E' il mezzo col quale i compositori hanno provato le idee più radicali. Lo stesso Nyman per esempio ha sempre provato le idee col quartetto, prima di trasferirle alla sua orchestra. "
Vi considerate più un quartetto da sala di registrazione o da palcoscenico?
"Spero entrambi. Ma anche qui ritorna il discorso sulle etichette. Con la Mute il nostro lavoro è in pratica svolto in studio. Il lavoro al banco di missaggio, cioè, è altrettanto importante dell'esecuzione vera e propria. Con la Argo invece tendiamo più a documentare come si sviluppano le nostre esecuzioni in concerto, la parte di produzione del disco è ridotta."
Prima di concludere vorrei che mi dicesse nell'ordine qual è la canzone, il film e il libro, che lei preferisce.
"Superman di Laurie Anderson, Otto e mezzo di Fellini, La metamorfosi di Kafka".

(Musica Viva, Anno XVIII, dicembre 1994)

sabato, dicembre 17, 2005

Bruno Walter scrive a Gustav Mahler

probabilmente giugno 1910

Caro, onoratissimo amico!
In occasione dell'esecuzione della sua Ottava sinfonia mi è stato richiesto di scrivere qualcosa sulle sue opere; questa richiesta coincide con la necessità, sentita nel profondo del mio animo, di esprimere finalmente, approfittando di questa occasione, la gratitudine che provo verso di lei, come verso tutti i creatori di quelle opere piene di spiritualità, che hanno arricchito la mia vita. Non posso però limitarmi ad esprimere solo la gratitudine, se voglio soddisfare allo stesso tempo il senso della richiesta e i miei sentimenti. Oltretutto le sue composizioni per me non fanno soltanto parte dei monumenti dello spirito, elevati nel corso dei millenni da uomini creativi che sono stati per noi maestri prima che nostri piú cari amici; sono anche opere del mio tempo e la comprensione della natura intelleggibile del loro creatore, che esse rappresentano, mi viene certamente facilitata dalla familiarità con il suo carattere, grazie alla nostra conoscenza personale. In queste circostanze non ho quindi il diritto di parlare delle sue opere non solo come uomo pieno di gratitudine ma anche come conoscitore? I vantaggi di una vicinanza cronologica e di una conoscenza personale con il compositore non sono piuttosto degli svantaggi? Non dovrebbe essere proprio una certa distanza di tempo a rendere possibile un giudizio sereno? Tranquillizzo dunque la mia coscienza, pensando che oggi nessuno può avere ancora raggiunto questa distanza, e che d'altronde non ho la minima intenzione di dare un giudizio sereno e distaccato sulle sue opere, ma voglio invece dichiarare il mio amore ardente e appassionato per esse. Credo, quindi, che avrò assolto il mio compito solo quando avrò cercato di dire perché le amo e cosa amo in esse. E' una domanda a cui non si può rispondere, lo so. Ma chi meglio di lei può capire che siamo attirati solo dalle domande cui non è possibile ríspondere e dai problemi che non è possibile risolvere? E' sempre stato cosí, e nelle ricerche in tal senso sono state trovate non le verità ricercate ma altre preziose verità (o nobili e preziosi errori). Sperando di apportare un contributo, sia pure piccolo e modesto, alla conoscenza - e per me otterrei soltanto maggior chiarezza su cose che ho già intuito - tento quindi di render conto del perché ami le sue opere.
E', forse perché a modo loro cercano la soluzione di problemi insolubili? Perché cantano questi problemi? Forse perché la soluzione di questi problemi è nel cantarli, per lo meno in questa esistenza terrena? Le sue trombe fanno crollare le mura e i bastioni che cingono i segreti eterni? Oppure amo queste opere perché sono« bella musica»? Sono convinto che ogni musica pura offra a suo modo una soluzione ai problemi metafisici. Ma che la sua musica sembri parlare in modo cosí particolarmente potente del segreto della nostra esistenza riesco a spiegarmelo non certo con le parole che lei ha usato, in alcune sinfonie, e che rimandano al regno della trascendenza, ma per due motivi: innanzitutto lei ha proprio scritto una musica nuova, che dice quindi qualcosa di nuovo a questo proposito; in secondo luogo le sofferenze di un animo, scosso cosí violentemente dai quesiti sul senso della nostra esistenza, e le gioie di uno spirito, che si offre beato alle innumerevoli fonti di felicità di questo mondo, dovranno dare alla musica, creata da un uomo simile (dotato di creatività musicale), un carattere specifico di commovente solennità. Le forme armoniose e severe di questa musica non potranno nascondere ad un attento uditore quali forze violente e elementari, quale continuo, profondo e struggente anelito di superare l'esistenza terrena canti qui il proprio Lied, gravato pesantemente di tutto ciò che è umano. Anche nelle costruzioni melodiche piú leggiadre e serene, come per esempio nel quarto movimento della Settima sinfonia, si indovina - e proprio in questa con particolare commozione - quale anima terribilmente appassionata vi si trasformi e riveli una dolce serenità. Grande è solo la serena bellezza che nasce da una bellezza appassionata, e commovente è solo la passione che fluisce da un'anima giunta alla serenità interiore. Tale serenità e tale passione sono proprie della sua musica.
Ho parlato di forze violente e elementari, di un continuo anelito struggente di superare l'esistenza terrena; questi sono il primo e il secondo tema della sinfonia di quello spirito universale che si chiama Gustav Mabler. Ho avuto la possibilità di esser testimone dell'ardita esposizione di quei temi, anzi di diverse ardite esposizioni (il numero di tali esposizioni lei ama copiarlo dal buon Dio). E mi aspetto sorprendenti riprese! Cosí come piacciono a lei: tutti i temi variati e sviluppati, tutto su un piano superiore. Dato che sulla scorta di questo paragone sono arrivato a «parlare di argomenti specifici», vorrei esprimere in linguaggio musicale come trovi antiquato il suo stile: nessuna utilizzazione melodica dell'intera gamma tonale, nessuna orizzontalità nella polifonia. Sempre quell'ormai superata attenzione alla verticalità; nessuna aritmia, nessuna immersione puramente armonica o amelodica in misteriose combinazioni dei suoni. Le sue opere indicano ancor sempre che l'elemento melodico è l'elemento principale, che non c'è alcuna combinazione né sequenza armonica interessante di per sé, ma che gli effetti potenti e incomparabili dello sviluppo armonico nascono solo dall'unità con quello melodico, che rimane quello principale. In tal modo, l'audacia dello sviluppo melodico giustifica l'audacia delle sue combinazioni armoniche. Nella sua musica si incontra anche un'ardita sovrapposizione di tonalità diverse: ma solo quando due linee melodiche simultanee, appartenenti a queste diverse tonalità, portano con sé il loro train armonico. Per me è fuor di dubbio che melodia e armonia rappresentano un'unità perfetta, nel senso che nella melodia, dal momento della sua concezione, è latente tutto il suo contenuto armonico, che deve quindi solo essere in essa sviluppato. Ma nego completamente che all'armonia spetti un ruolo piú autonomo. Soprattutto nelle ultime opere, lei ha man mano evitato di armonizzare la sua ispirazione melodica in modo esplicito: lei sviluppa piú linee melodiche simultanee, che sembrano essere completamente indipendenti una dall'altra (quindi un'apparente pura orizzontalità), la cui coincidenza verticale produce uno sviluppo armonico nel modo più semplice possibile, eppure ricco quanto necessario. Seguendo questa via lei è approdato a uno stile polifonico estremamente complesso, il cui elemento di contrasto, artisticamente necessario potrebbe essere individuato solo in un'eventuale conduzione molto semplice e omofona. Mi sembra interessante notare anche quanto sia superata la sua forma sinfonica; queste audaci fantasie musicali che deviano volentieri nel colossale, sembrando spesso improvvisate e rapsodiche, si adattano interamente, per la forte impressione suscitata dalla bellezza delle proporzioni, all'antica forma della sinfonia. La tendenza radicale della sua natura, che la spinge ad estrarre dai suoi temi tutte le possibili variazioni sinfoniche con un ampliamento, e talvolta perfino con un raddoppiamento, della forma e anche con un suo originale sviluppo della Coda, ha portato a una certa modificazione della forma, che però non può essere definita come una innovazione formale fondamentale. Questa tendenza radicale della sua natura! Questa tendenza a spingersi fino agli estremi confini! Troviamo qui anche l'origine del suo humour. Poiché, per riuscire ad esprimere anche ciò che sta al di là di questi confini estremi, è necessaria una rottura del pathos, ricorrendo allo bumour. Le sue luci selvagge rendono l'oscurità della disperazione piú spaventosa di quanto sia possibile con l'espressione patetica; penso al terzo movimento della sua Prima, allo Scherzo della Seconda sinfonia e a molti altri passi. Non solo per la disperazione, ma anche per il giubilo e per l'ardente dolore, per la dolce estasi, per tutte le sensazioni, lei si sente spinto ad un'espressione portata all'estremo, resa possibile da uno humour sublime. Come si deve considerare questa forza naturale, selvaggia e ribelle? Come una natura di salamandra, che nasce dalle fiamme ardenti dell'inferno, suo elemento nativo? 0 come un demone della terra, stretto parente del terribile Alberico? Ecco, ora l'ho evocata come salamandra e come coboldo; la sua musica mi offre molti motivi, per evocarla ancora come ondina o come silfide, ma... «nessuno dei quattro si trova tra gli animali», lei è... un musicista; cioè Paradiso e Inferno e ancora qualcos'altro. Però, se il fuoco è una delle province del suo regno, non può certo sorprendermi il fatto che anche le braci dell'altare del Signore, di cui parla Isaia, possano toccare e consacrare le sue labbra senza farle danno. Infatti, la sua tendenza verso il colossale non è tanto espressione della sua natura interiore, quanto una tendenza verso il sublime. Ho già parlato del suo anelito struggente di superare l'esistenza terrena; di questo ci parla, in tono raro e commovente, la sua Quarta sinfonia, la forma piú incantevole in cui si sia mai espresso il suo humour. Con un'elevazione piú solenne, parla di questo anelito nella Seconda e nell'Ottava; quest'ultima è una specie di Seconda sinfonia, su un piano piú alto. In tal modo, nella sua produzione identifico due periodi. Nei suoi canti, il primo periodo comprende le composizioni da Des Knaben Wunderhorn e il secondo le poesie ispirate da Rückert. Nelle sinfonie (la cui periodizzazione coincide con quella dei canti), il primo periodo comprende dalla Prima fino alla Quarta e il secondo dalla Quinta fino all'Ottava sinfonia. Nelle prime quattro sinfonie, lei canta i problemi eterni, ricorrendo in parte alla parola espressa, in parte influenzato dalla parola inespressa (ma diventata musica pura). La Quinta, la Sesta e la Settima non sono piú influenzate dalla parola inespressa, ma vivono in una struttura puramente musicale. L'Ottava riunisce tutto ciò che lei ha raggiunto in uno dei canti piú profondi e segreti, sostenuto dalla parola.
L'elemento nuovo della sua musica non è certo la sua missione metafisica: questa è propria di ogni musica vera. Nuovo è il suo ampliamento della gamma di espressioni musicali, influenzato dalla sofferta partecipazione ad ogni problema. Nuovo è l'ampliamento della tecnica del movimento musicale, nato dai suoi sforzi per esprimerlo, ed è nuova la conquista dei mezzi strumentali per esprimere questa creazione cosí complessa, cioè la sua potente strumentazione. Se l'ampia gamma delle espressioni musicali nel primo periodo della sua produzione, sembra predominare sulle questioni tecniche, facciamo bene a ricordare che, nel secondo periodo, siamo di fronte solo a una duplicità apparente di espressione e tecnica, il cui rapporto non è dissimile da quello sopra definito tra melodia e armonia.
Per finire, le chiedo il permesso di abusare della nostra amicizi, a per raccontarle un sogno che feci alcuni anni fa: mentre passeggiavo, la vidi arrampicarsi sopra di me, su un sentiero ripido, in alta montagna; dopo un po' dovetti chiudere gli occhi, accecato dalla luce. Quando li riaprii la ritrovai, dopo lunga ricerca, in un punto completamente diverso del monte, mentre scalava un sentiero ancora piú in alto. Di nuovo chiusi gli occhi, di nuovo li riaprii, non la trovai, e poi la scorsi che saliva datutt'altra parte. Questo si ripetè varie volte. Ho fatto veramente questo sogno e penso che chi la conosce ne capirà il significato simbolico e dirà che era un sogno veritiero.
I piú cari saluti dal suo fedele

Bruno Walter

giovedì, dicembre 15, 2005

Aleksandr Skrjabin a Bogliasco

In occasione del 75° anniversario della scomparsa, Bogliasco ha reso omaggio a Aleksandr Skrjabin ricordando che il geniale compositore e pianista russo soggiornò nel piccolo e delizioso centro alle porte di Genova tra l'estate del 1905 e la primavera del 1906.

A Bogliasco, deliziosa cittadina rivierasca alle porte di Genova, è avvenuto "qualcosa" che ci sembra sia il caso di registrare. Se si vuole, una volta tanto a simbolo dell'avvenimento si può assumere una cerimonia ufficiale, ossia la intitolazione di una piazzetta nei pressi della stazione ferroviaria ad Aleksandr Skrjabin, che a Bogliasco soggiornò per alcuni mesi tra il 1905 e il 1906 e vi compose una delle sue opere più note (e fondamentali), Le Poème de l'Extase; sempre qui, il 26 ottobre 1905, la sua compagna Tatjana Schloezer gli donò una figlia, Ariadne, destinata a ribadire con la tragica morte in terra di Francia nel 1944, come eroina della Resistenza antinazista, l'amore per la libertà e la fede nel riscatto dell'umanità che il padre aveva coltivato per tutta l'esistenza.
Dunque, dallo scorso novembre, in Bogliasco esiste un Largo Aleksandr Skrjabin proprio dove un tempo sorgeva la casa abitata dal musicista (che fu abbattuta per fare posto a una seconda linea ferroviaria).
Già di ciò ci si dovrebbe sorprendere, visto che non capita di frequente che una civica amministrazione del nostro Paese, che pure è Paese di solerzia e irruenza edilizie impareggiabili, ammetta che anche i musicisti del '900 hanno fatto storia e di loro si rammenti al momento di procedere a "battesimi" urbani. Comunque, questa volta non ci si è limitati all'omaggio toponomastico. La cerimonia di cui si è detto (presenti anche autorità sovietiche) ha suggellato, infatti, una ben più impegnativa assunzione di responsabilità culturali: la nascita (promotrice la Pro Loco e il Comune) di "Bogliasco per Skrjabin", appuntamento che si vorrebbe annuale per studiare il "caso Skrjabin" e le sue implicazioni. E ciò ci sembra davvero importante.
Anche se non si può affermare che la bibliografia e la saggistica dedicate alla vita e all'opera di Aleksandr Skrjabin siano così inconsistenti, resta tuttavia vero - per dirla con le parole di Armando Gentilucci - che, pur essendo Skrjabin uno dei musicisti più singolari tra quelli che operarono a cavallo tra Otto e Novecento, è ancora oggi uno dei meno studiati e sviscerati criticamente. Le due proposizioni (ragguardevole, anche se non foltissima, entità di scritti da un lato, scarso approfondimento esegetico dall'altro) parrebbero contraddirsi. E invece no. Il peso delle indagini e delle interpretazioni non si deduce, infatti, dal loro numero e in fondo neppure dalla loro qualità, bensì dalla loro effettiva incidenza. Il che chiama in causa la curiosità che le accoglie. Di fatto tale curiosità (almeno sinora, perché attualmente vi sono confortanti avvisaglie di un'inversione di tendenza) ha latitato e l'impegno, spesso devoto, di quanti (soprattutto nell'Urss, ma anche in Francia e in Inghilterra) hanno voluto comprendere e chiarire il cosmo creativo ed esistenziale di Skrjabin non ha suscitato reazioni particolarmente vivaci, feconde di ulteriori puntualizzazioni. E' per ciò che il compositore russo, protagonista di una stagione culturale che ha intrigato la Storia proprio in forza della deflagrazione di singolari energie concettuali e creative, s'è trovato (e ancora si trova) a rischiare il frettoloso fascino di iperbolici luoghi comuni, appartato in una eccentricità sensual-mistico-esoterica che, in genere, già pare esaurientemente definitoria, defilato in una visionarietà che viene considerata sostanzialmente tardoromantica ed evasiva rispetto alle più inquietanti problematiche dell'epoca, ancorché non si disconoscano in lui taluni profili "rivoluzionari".
Per noi le cose non stanno proprio così. Anzi, alla luce di quanto ha segnato i cammini della musica nel Novecento e sino all'oggi, ci sembra sia davvero giunto il momento di riesaminare il "caso Skrjabin", non escludendo l'ipotesi che si debba, infine, operare un deciso ribaltamento di prospettive e giungere magari a rilevare - con qualche pur simpatica temerarietà - che l'eccentricità skrjabiniana consiste nel fatto che il musicista russo non solo si sentì profondamente coinvolto nel coacervo delle problematiche estetiche, umane e filosofiche del tempo, ma, più di qualsiasi altro compositore a lui contemporaneo, andò oltre e intuì anche molto di ciò che ne sarebbe conseguito.
Il suo pensiero compositivo ridonda di lucida consapevolezza e di profetica tensione. Consapevolezza e tensione inestricabilmente intrecciate in quella sorta di turgore sensitivo che indusse Skrjabin a coniugare le ragioni della più rigorosa razionalità (da qui l'individuazione di un personalissimo "sistema" armonico e compositivo inteso come struttura radicale del processo creativo) e quelle della più liberatoria super-razionalità o irrazionalità che dir si voglia (in ciò comprendendo le varie pulsioni teosofiche, rituali e di rigenerazione trascendentale che egli intese come anima e scopo del processo creativo stesso e come universalistico messaggio del proprio operare artistico). Al centro del cosmo skrjabiniano si pone, chiaramente, una sensibilità forgiata dalle incertezze che, nel volgere di un'epoca, si rispecchiarono - in musica - nel crollo della potestà organizzativa della tonalità. Meno chiaro, però, è il tenore delle risposte che egli cercò di dare a tali incertezze. In esse si colgono, infatti, vari versanti che danno vita a un complesso caleidoscopio di ascendenze, di presentimenti e di dialetticità.
Certamente Skrjabin cercò un "modo di esprimere" nel quale i moti psicologici ed emotivi potessero dispiegarsi in duttile, malleabile e sensuale immediatezza, eludendo le mistificazioni di una rappresentatività fatta più di regole che non di interiori necessità. Basta notare l'impressionante ricchezza e fantasiosità delle "caratterizzazioni" con cui egli chiosò le sue partiture, al fine di palesarne il clima programmatico e di fornire indicazioni per la loro interpretazione, e ci si rende perfettamente conto della febbrile ansia comunicativa che sottende l'atto compositivo (e in ciò gli slanci romantici trasmutano in gestualità persino espressioniste). Nel contempo, per Skrjabin ogni anelito espressivo non poteva prescindere da un'intima coerenza logica che, senza imbrigliarne le esigenze, ad esso garantisse insieme la dignità suprema dell'intelligenza facitrice e l'intelligibilità obiettiva del suo farsi opera d'arte. Il "sistema" di cui già si è detto; che, mentre riveicola sedimenti armonici tradizionali, li smentisce in un'aura decisamente a-tonale. Si pensa allora a Schoenberg. Ma subito si nota che, progressivamente, Skrjabin conquistò orizzonti più avanzati, inoltrandosi in essi attraverso il dissolversi nella sua musica della distinzione tra verticalità (dimensione armonica) e orizzontalità (dimensione melodica). Ed allora si pensa a Webern. Del resto, non solo per questo Skrjabin e Webern, personalità tanto lontane all'impatto, si rivelano arcanamente vicini. Nell'opera di entrambi ad esempio il lirismo è stimolo coinvolgente (d'assonanza chopiniana nel primo e schubertiana nel secondo); e, poi, tanto quello di Skrjabin quanto il pensiero di Webern sono nutriti dal convincimento della presenza di una ragione fondamentale, cosmica, alla cui essenzialità la mente e la sensibilità dell'uomo devono tendere e, magari, in essa naufragare. Una referenza "religiosa" che, così cqme è stata utilizzata per tracciare gli estremi confini del limpido mondo weberniano, altrettanto è valsa come approccio al fervore stordente dell'opera di Skrjabin.
Senonché, nel caso di Skrjabin, la messa in gioco della prospettiva religiosa come ipotesi di lettura ha aperto varchi piuttosto facili all'irrompere di valutazioni parzializzanti e distorcenti. E' certo che la religiosità skrjabiniana, al di là del minimo comun denominatore metafisico che connota ogni religiosità, ha accenti tutt'affatto diversi da quella weberniana. E' una religiosità rigogliosa e immaginifica, intrisa di aromatiche pretese liturgiche, vibrante di trascendentalismi, appetiti attraverso vertigini sensuali. Anzi - sotto quest'aspetto - si configura come ultimo e definitivo approdo dell'"mpero dei sensi", come fulgore catartico di una mistica orgiastica; infine, come composizione, nel perenne "respiro" primordiale, dell'ambiguità luciferina, supremamente angelica e supremamente demoniaca.
L'istanza religiosa, così fisionomizzata, può dirsi latente da sempre nell'immaginazione musicale struggentemente "liberatoria" di Skrjabin, anche se divenne "proclamazione programmatica" soprattutto a partire dalla Terza Sinfonia del 1904, detta - appunto - Le divin Poème, e da quel Le Poème de l'Extase che il compositore russo portò a termine durante il suo soggiorno a Bogliasco, nel 1905, e che continuò a limare neidettagli sino al 1908.
Tuttavia, è importante rilevare che tale istanza, motrice non solo di sentimento ma anche di ipotesi sperimentali nel suo tradursi in "opera d'arte", venne assorbendo energie da molteplici esperienze intellettuali e culturali, e il suo stesso evolversi pone in campo tematiche straordinariamente affascinanti.
Non c'è dubbio che in molte pagine pianistiche di Skrjabin, segnate come sono da un'esultanza torrida e sulfurea, si debba riconoscere l'ombra lunga del "mefistofelismo" lisztiano e in altre, di carattere opposto, una pur sempre lisztiana voluttuosità trasfigurativa (e ciò vale, nonostante la strepitosa novità degli esiti, anche per la Settima Sonata, detta Messa bianca, e per la Nona Sonata, detta Messa nera, entrambe compiute nel 1913, quindi a soli due anni dalla morte); neppure è dubbio che di totalizzante misticismo in qualche modo wagneriano si possa parlare allorché si consideri la sinergia suoni-colori di Prometheus (Le Poème du feu) per pianoforte, coro (che però non ha un testo da cantare, si badi!), clavecin à lumière e orchestra, del 1910, oppure allorché ci si trovi a sconcertarsi di fronte a quel Mistero, che Skrjabin concepì negli ultimi anni di vita, da celebrarsi in un "tempio" emisferico e trasparente eretto "sull'acqua" e ai piedi dell'Himalaia, in cui avrebbe dovuto eventualizzarsi il radicale coinvolgimento di tutti i sensi (udito, vista, odorato, gusto, eccetera) di tutti i partecipanti (esecutori musicali compresi) in una danza rituale propiziatoria, e avrebbe dovuto prodursi quella "rigenerazione dell'umanità e del mondo attraverso l'arte" (Restagno), quella permeabilità dello spirito al respiro cosmico, che Skrjabin riteneva possibile.
Ciò detto, ci sembra tuttavia povero dar conto della visionarietà skrjabiniana riducendola sostanzialmente (se non esclusivamente) all'elaborazione sfrenata di riporti lisztiani o wagneriani, insomma di ipoteche del passato; quanto, almeno, ci sembra limitante attribuirne il tenore al pensiero teosofico europeo, notoriamente abbracciato da Skrjabin, senza sottolineare adeguatamente il progressivo aderire del compositore a discipline e a valori propri della spiritualità d'Oriente. Poiché, se si sposta il punto di vista e si considera in tutta la sua portata il cammino e il dinamismo della ricerca interiore, estetica, linguistica e concettuale di Skrjabin, ecco che ci si trova a collocare il compositore e pianista russo accanto a Debussy, prepotentemente all'avvio di quel processo di disgregazione dell'eurocentrismo che rappresenterà uno dei rovelli progressisti più fecondi del Novecento. Ma non solo: nei termini esotici del suo approdo, il misticismo skrjabiniano non si rivela, forse, profeticamente proteso verso un futuro che conoscerà il ridente nichilismo artistico di Cage, il "rigenerazionismo" oriental-galattico-luciferino di Stockhausen e il meditativismo profumato al sandalo di tanti altri?
E ancora: se ci si ricorda che per il poema Icaro, poi non scritto, Skrjabin pensava all'utilizzazione di un motore d'aereo, non viene alla mente il Futurismo? E, se si osserva da vicino il pianismo skrjabiniano, non si avverte, forse, che - ben oltre le connivenze impressioniste - vi è in atto la restituzione al virtuosismo della sua originaria (e filologica) attitudine all'indagine delle "virtù" di uno strumento, dellì"inaudito" che da esso può scaturire, attitudine che sarà preziosissima per varie esperienze musicali del Novecento avanzato? Anzi, se ancor più ci si approssima ai particolari strutturali di tale pianismo, non si può forse parlare di intuizioni folgoranti quando - ad esempio - si configurano nuvolosità e ventosità di eventi fonici da gruppen musik, gestazioni materiche che espressivamente e teoricamente sarebbero state esplorate non decenni dopo, ma "epoche" dopo? Ed altro ancora.
"Bogliasco per Skrjabin", stando ai presupposti da cui l'iniziativa ha preso avvio, dovrebbe essere un permanente omaggio alla personalità e all'opera di Skrjabin in quanto crocevia di interrogativi storici, di polivocità sinestetiche e di fertili "utopie". Dunque, dovrebbe essere un punto di riferimento per quello svisceramento critico del quale Armando Gentilucci denunciò, giustamente, l'inaccettabile ritardo.

Claudio Tempo (Musica Viva, Anno XV n.2, febbraio 1991)

martedì, dicembre 13, 2005

Nietzsche: ecce Musica

"Dio ci ha dato la musica in primo luogo per indirizzarci verso l'alto. La musica raduna in sé tutte le virtù, sa essere nobile e scherzosa, sa rallegrarci ed ammansire l'animo più rozzo con la dolcezza delle sue note melanconiche, ma il suo compito principale è guidare i nostri pensieri verso l'alto, così da elevarci, da toccarci nei profondo".

Queste parole, scritte da Nietzsche ad appena quattordici anni, si possono considerare come la radice, l'essenza stessa del suo pensiero nei confronti della musica. Infatti quando quindici anni più tardi scrive: «Io considero l'arte come il compito supremo e come l'attività metafisica propria della nostra vita...» dimostra di non scostarsi molto da quelle prime considerazioni, pur frammentarie ed immature, della giovinezza. La musica per Nietzsche rimarrà, insomma, non solo una compagna inseparabile per tutta la vita ma anche l'Arte per eccellenza, eletta al ruolo di sutura tra l'Uomo e il Dionisiaco. Ma il rapporto tra l'autore di «Zarathustra» e la cosiddetta «Arte dei suoni» non rimane solo confinato nel terreno delle speculazioni filosofiche o delle stofiche polemiche ma si è sviluppato ed approfondito sul piano strettamente tecnico e, diremo, artigianale.
La conferma di ciò la si è avuta nel 1976 grazie alla pubblicazione curata dalla «Bärenreiter-Verlag Basil» della sua intera produzione musicale.
Si tratta di 74 brani di differenti dimensioni che coprono un periodo che va dal 1854 al 1888, diligentemente raccolti e annotati da Curt Paul Janz.
Bisogna però precisare che gran parte di questi brani sono in realtà solo abbozzi incompiuti, schizzi e frammenti che testimoniano l'eterna indecisione con la quale Nietzsche affrontava il mestiere di compositore e il grande squilibrio qualitativo di cui soffre l'intera produzione.
Le opere compiute vere e proprie prevedono l'uso di un organico quasi sempre cameristico e constano di una numerosa serie di pezzi per pianoforte solo, a quattro mani, di due brani per violino e pianoforte, di uno per quartetto d'archi, uno per orchestra d'archi a quattro per voci e pianoforte, uno con voce recitante e di un gran numero di Lieder su testi di Nietzsche, Groth, Rückert, Eichendorff, Fallersleben, Petöfi, Puschkin, Geibel, Chamisso e Lou Salomè.
Contrariamente alle apparenze però, non è sempre l'intimismo cameristico, suggerito dalla scarsità numerica degli esecutori e dai generi musicali coltivati, ad interessare il compositore, ma la ricerca di una grandiosità di faustiana memoria, insoddisfatta solo dalle limitazioni tecniche di cui spesso egli aveva a lamentarsi con i suoi amici.
Ecco la causa dell'assenza da questo «corpus» di musiche di brani per grande organico, eccezion fatta per il Lied «Preghiera alla vita» su testo di Lou Salomè, che fu poi trascritto per coro e orchestra da Peter Gast, amico e discepolo del filosofo.
Non è questa forse la sede per effettuare un'attenta analisi di tutte le musiche compiute comprese nella recente pubblicazione, ma si può forse tentare di abbozzare un rapido schema del «cursus» stilistico che Nietysche seguì nell'arco della sua carriera di compositore. «Mozart e Haydn, Schubert e Mendelssohn, Beethoven e Bach: ecco le uniche colonne sulle quali la musica tedesca e io ci fondammo».
Questa dichiarazione del giovane Nietysche è fondamentale per comprendere lo stile che sigilla le sue prime composizioni, ma subito occorre identificare anche gli scopi che si era prefisso e l'origine degli stimoli che sorreggono l'impalcatura musicale del suo pensiero.
Per esempio grande influenza diretta sul giovane compositore l'ebbe senz'altro il suo amico Gustav Krug che, oltre a conoscere personalmente Mendelssohn, era anche un virtuoso del violino e compositore egli stesso. L'adolescente Friederich narra diffusamente nelle sue memorie dei lunghi pomeriggi passati insieme a studiare musica e della ferrea volontà dell'altro nell'applicazione e nell'esercizio, così che questi diventò presenza insostituibile per la sua formazione musicale.
Anche la musica di Listz, e in particolare lo spirito magiaro di cui era permeata, ebbe la sua influenza.
Eß noto che egli stesso si era formato una falsa genealogia, immaginando una fantasiosa discendenza polacca, così che, tutto preso da questo processo di identificazione geografica, cominciò a scrivere una sorta di sinfonia (ovviamente per due pianoforti ed incompiuta) su modello della listziana «Sinfonia Dantesca» ma infarcita di umore slavo tanto forte da indurlo ad intitolarla: «Serbia»!
Dopo questi episodi giovanili Nietysche alternerà per la composizione lunghi periodi di pausa a intensi momenti di febbrile lavoro.
Durante uno di questi scrive, nel 1971: «Nachklang einer Sylvesternacht, mit prozessionlied, bauertanz, und glockengeläut.» per pianoforte a quattro mani, che è un pezzo per molti aspetti particolarmente significativo. Prima di tutto perchè il tema principale deriva da un'altra sua composizione per violino e pianoforte e che sarà ripreso una terza volta nella posteriore «Manfred-Meditation». E' questo un dato interessante perchè caratterizza la capacità, non solo musicale, di sviluppare, dalla medesima matrice, problematiche e conclusioni differenti, creando, così, un gioco di legami e riferimenti che diventano e formano quasi un lessico di «affetti» del suo tempo sul quale è possibile applicare numerose griglie interpretative.
Formalmente il brano ha la struttura di una vasta fantasia a programma, dove, episodicamente, sono illustrati i diversi momenti (la festa contadina il suono delle campane, etc.) di una nottata di Capodanno.
L'autore stesso lo considerava come «caduto dal cielo» e, scrivendo proprio al suo amico Krug affermava che «esso suona bene, ha qualcosa di popolare, non scade mai nel tragico ... » e, a riprova di quanto accennavamo prima: «il timbro è abbastanza orchestrale, mi sarei addirittura appassionato nella strumentazione, ma, tu lo sai, qui non ce la faccio più».
Il brano, come spesso capitava, non fu particolarmente apprezzato dai principali «giudici» musicali di Nietzsche: i coniugi Wagner.
Richard si liberò della faccenda affermando che «per essere un dotto» egli componeva «abbastanza bene», Cosima, invece, non diede giudizi di sorta.
Il brano, come molti altri, rimane comunque interessante come prova degli sforzi di sottrarsi alla forza centrifuga causata dalla presenza «storica» degli altri compositori.
In questo sforzo egli prenderà anche dei clamorosi abbagli, come farà bollando Schumann, l'antico maestro, con l'appellativo di «Sassone dolciastro». Ma esiste anche un'aspetto profetico del Nietzsche musicista, quello che ha permesso ad un grande dilettante di sottoporre, in pieno fine secolo, all'attenzione dei posteri, possibilità di indagine sonora e di ricerca tali da meritare, come è avvenuto recentemente da parte del gruppo «Spettro Sonoro», la riproposizione integrale delle sue musiche.
Ed è considerando i nuovi aspetti che la sua personalità di filosofo ha rivelato, grazie a letture liberate finalmente da superficiali e demagogici preconcetti e in virtù di studi sempre più approfonditi, che questa iniziativa acquista un significato diverso e particolare.

di Michele dall'Ongaro (Laboratorio & Musica, AnnoI n.7-8, dic/gen 1980)

domenica, dicembre 11, 2005

Lorenzo Ferrero su Luciano Berio

L'opinione di un giovane compositore.
Lorenzo Ferrero, giovane compositore torinese, interessato da sempre ad esperienze di musica elettronica - lavorerà per tre mesi all'Ircam di Parigi per una ricerca - del quale è andata in scena il 23 febbraio al Teatro dell'Opera di Roma, in prima rappresentazione assoluta, l'opera "Marilyn - scene degli anni '50 in due atti". Gli abbiamo chiesto un breve saggio sulla figura e sulla musica di Luciano Berio.


Insieme a pochi altri compositori Luciano Berio è indicato ormai ovunque come uno dei maggiori protagonisti musicali del secondo dopoguerra. Non è quindi il caso di spendere parole celebrative, rivolte a convincere chissà chi della qualità della sua musica. Semmai, tanto per non usare a vuoto comuni modi di dire, è bene chiarire cosa significhi protagonista: non solo figura di spicco e non solo la notorietà diffusa fino ai più larghi mezzi di comunicazione, ma soprattutto compositore che rappresenta ad un altissimo grado di consapevolezza una o molteplici risposte alla domanda «come è perché scrivere musica oggi».
Una domanda del genere non nasce oggi dalle generiche incertezze di un adolescente aspirante compositore, ma accompagna costantemente l'attività di chi scrive musica «colta», se non altro nella forma estrema della rimozione del problema.
Mancando, a differenza di quanto avveniva nell'ottocento e fino a Schönberg e Strawinsky, il confronto con una opinione pubblica (borghese) in grado di definire, discriminare, determinare le forme e i modi della comunicazione, è oggi più che mai significativo osservare con quale grado di consapevolezza ogni compositore mette in relazione il proprio linguaggio musicale con le proprie idee sul ruolo del musicista nella società, con i «mezzi di produzione» che decide di mettere in gioco in relazione a contesti sociali determinati, scontrandosi spesso con le resistenze delle istituzioni musicali, o accettando come inevitabile il rapporto privilegiato con una ristretta cerchia di conoscitori, o ancora stimolando e prefigurando condizioni alternative di ascolto.
E' persino banale notare come l'impegno esplicitamente politico di Nono si esprima spesso attraverso grandi forme sinfonico-corali, in modo che l'esecuzione di certe sue composizioni nel momento stesso in cui giunge davanti a un grande pubblico pare quasi essere l'occupazione di uno spazio politico-istituzionale. Come hanno dimostrato le polemiche di destra intorno alla rappresentazione da parte della Scala di - «AL grande sole carico d'amore» -. Diversamente, l'atteggiamento di Bussotti che giunge alla dimensione collettiva attraverso l'amplificazione del privato e del privatissimo, trova la sua strada fra raffinatezze studiatamente eccessive, echi del passato e di un presente filtrato dalla memoria, ed è a suo agio tra forme cameratistiche, impegni solistici, «ad personam» o per contrasto si affida ai grandi complessi sinfonici con intenzioni dichiaratamente «romantiche».
Ancora diversa è la posizione di Berio. La sua musica tocca vari generi musicali, che vanno dalla sperimentazione più vicina al «laboratorio», all'impegno difficile nel campo del teatro musicale di grandi dimensioni (Opera), e comprendono tante musiche di rigoroso impegno stilistico quanto elaborazioni di musiche popolari, non soltanto per l'ovvia ragione della sua fin troppo spesso ricordata abilità artigianale, ma per il bisogno di intervenire in ogni campo in favore di un avvicinamento e persino di una conciliazione delle forme molteplici di comunicazione musicale che sono intorno a noi. Tentativo che ha la sua ragion d'essere nel fatto che la separazione fra musica colta e musica di consumo non è nella realtà dell'esperienza individuale e sociale contrapposizione netta, ma è intersecata da un'infinità di aspetti intermedi e interagenti, non solo sul piano della molteplicità dei generi (jazz, rock, canto popolare, musica classica ecc.,), ma anche nella più riposte stratificazioni di codici. Tanto che si potrebbe polemicamente (e paradossalmente) affermare che vi è distanza minore tra le banalizzazioni meolodico-armoniche del linguaggio tonale nella canzonetta e le riduzioni arbitrarie del linguaggio musicale ad un limitato repertorio di materiali operato da qualche compositore «colto», che fra il jazz non necessariamente più avanzato e alcune delle più serie produzioni contemporanee. Nel contesto più generale di un'intervista sulla sua musica, Berio si è espresso in modo che vale significativamente per questi temi: «La coordinazione del molteplice è una condizione essenziale alla sopravvivenza, non solo musicale».
E in altra occasione, rispondendo ad una domanda sull'impegno politico che considera significativo soltanto se riferibile organicamente alla produzione musicale o altrimenti inutile o quanto meno accessorio (ciò spiega come anziché sviluppare una tematica riferibile facilmente a «contenuti» particolari l'attività di Berio si sia sviluppata coinvolgendo il massimo numero di manifestazioni e generi musicali): «Oggi c'è un solo problema che mi interessa nel rapporto musica-politica: quello di colmarne il fossato fra la musica linguisticamente «popolare» - che si paga da sé, sulla quale si specula industrialmente e ideologicamente - e la musica che non si mantiene da sola e deve essere clamorosamente protetta. I modi di gestire questa protezione sono politicamente più significativi dell'opera musicale che, per sua natura, non è politica ( ... ).
Quando il musicista che crea si pone il rapporto musica-politica come un problema da risolvere e da rappresentare in un pezzo di musica, allora quel rapporto diventa una faccenda piuttosto arbitraria, musicalmente astratta e, per assurdo, politicamente privata».
Il discorso fatto fin qui potrebbe essere riduttivo, e richiamare soltanto una parte delle composizioni di Berio, che va dai «Folksongs» il cui titolo parla da sé, fino alle più complesse ricerche sulla voce e sull'articolazione del messaggio verbale («A-Ronne»), e comprende anche quei momenti in cui le varie espressioni della nostra cultura musicale si presentano nella loro immediatezza, in forma di citazioni più o meno identificabili, come gli stacchi jazzistici di «Laboriutus II» o nella riscrittura Mahleriana del III Movimento di «Sinfonia».
Sono questi gli aspetti in cui la ricerca di Berio nel senso della «coordinazione del molteplice» è più evidente e nello stesso tempo meno radicale, poiché si presenta in modi non ignoti alla nostra storia musicale, dal rinascimento in poi.
Nelle composizioni più neutre da questo punto di vista, che appaiono come elaborazioni e sviluppi di materiali di pura invenzione (da alcune delle «Sequenze» a «Points ori the curve to find» ed altri movimenti di «Sinfonia») si trovano indizi più profondi della disponibilità ad accettare, aldilà dei confini imposti dalla seprazione fra i generi, e dai primitivi strumenti di cui anche la musicologia sedicente radicale si serve per determinarli, il fatto che «quella cosa... alla quale diamo per convenzione il nome di musica, può essere fondata su qualsiasi elemento base, su qualsiasi «signifiant» e può produrre ed elaborare segni specifici da apprendere e da porre in relazione... con un universo generale dei segni in lieve ma continua trasformazione. Questo universo generale dei segni non è un fatto privato, riducibile ad una fenomenologia dell'«io»... ma, piuttosto, a una interazione di archetipi percettivi, nel senso più responsabile, dinamico, e anche un po' junghiano del termine».
Si trova qui un'espressione («archetipi percettivi») che illumina un altro e complementare carattere della musica di Berio: le speculazioni astratte che tanta parte hanno avuto in certa musica contemporanea, che ha tratto dal proprio isolamento giustificazione per sdegnosi ritiri aristocratici, gli sono piuttosto estranee.
La sua musica vive nella realtà della percezione, non soltanto nel senso cui lo spinge la sua natura particolarmente musicale nel senso tradizionale del termine, la propria curiosità per il suono nelle sue più diverse dimensioni (a cui si è dato il nome di artigianato confondendo l'interesse per l'effetto con la capacità di ottenerlo), ma soprattutto attraverso l'assimilazione consapevole delle più recenti richerche psicologiche, semiologiche, linguistiche, verso le quali ha dimostrato sempre un interesse superiore a qualunque altro compositore.
Il fatto poi che i risultati di tale consapevole lavoro, tra cui la relativa immediatezza anche per pubblici piuttosto vasti di molte sue composizioni, siano stati rubricati come piacevolezza istintiva da commentatori ignari degli strumenti culturali di cui sopra, non è che un segno delle difficoltà che incontra il rinnovamento, nel senso anche più direttamente politico-sociale, della vita musicale.

di Lorenzo Ferrero (Laboratorio & Musica, Anno II, n.10, marzo 1980)