Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, dicembre 16, 2019

In tourneé: Philip Glass e Powaqqatsi

Curiosa emozione, quella di Powaqqatsi: ti aggredisce, inesorabile, fin dalle prime immagini: e fin dalle prime immagini obbliga a un dubbio tagliente: bisogna difendersi o concedersi? Lasciare che quello spettacolo anomalo si beva cuore, cervello e tutto quanto o arroccarsi nel sospetto e schivare l’astuta impostura?
Per chi non l’ha visto e sentito, Powaqqatsi è uno spettacolo senza nome costruito dall’unione di un film di un’ora e mezza girato da Godfrey Reggio e di una suite musicale di un’ora e mezzo scritta da Philip Glass. I due elementi, quello visivo e quello sonoro, procedono come i due binari di un’unica ferrovia (una ferrovia per dove, questo è il problema). Powaqqatsi è parente di Koyaanisqatsi, nel senso che è la seconda tappa di una trilogia di cui è in fase di gestazione la terza e conclusiva parte. Rispetto a Koyaanisqatsi, presenta una parte cinematografica più curata, più "patinata", più ricca e più incisiva. La musica di Glass resta sempre quella, con intromissioni etniche su cui gli specialisti potrebbero essere più precisi. L’impressione è che il baricentro dell’emozione si sposti più sulle suggestioni visive, lasciando qualche passo indietro le invenzioni musicali.
Nel film non c'è una sola parola: solo immagini. E' stato girato in mezzo mondo: Egitto, India, Nepal, Hong Kong, Kenya, Perù, Brasile, ecc. Per riassumere la sua ambizione in una formuletta che può parere sproporzionata ma non lo è: è un film che racconta l’Uomo. Fa sorridere, ma è così. Il bello è che ci riesce. In un gran calderone di immagini in cui razze, culture e volti di mezzo mondo si mescolano nel profilo di un unico immenso villaggio globale, Reggio annota i gesti fondamentali dell’umano e il respiro del suo esistere (e resistere). Non c’è una vera e propria storia, ma le immagini sembrano raccogliersi intorno ad alcune "stazioni" fondamentali: il lavoro, la festa, il cibo, la preghiera. Questa regressione alla ricerca dei fondamenti, delle radici, dei gesti elementari e originali dell’umano e l’aspetto più significativo dell’operazione. C’è qualcosa, in quest’ambizione a pronunciare la sacralità dei fondamenti, che ricorda l’armonica sapienza di civiltà non più possibili. E' ormai lecito pensare che faccia parte del corredo destinale della modernità l’impossibilità di pronunciare, tout court, le parole originarie, i termini totem della creazione. La modernità pronuncia se stessa, e ciò significa che dà nome, soprattutto, alla lontananza dalle origini e dai fondamenti: la lingua della modernità è la lingua dell’esilio. Quando si affaccia la pretesa di cancellare questa distanza destinale dalle proprie radici per rispolverare la purezza dei nomi originari, immediato affiora il sospetto dell’impostura: e si profila il fascismo degli slogan a buon prezzo e della falsa autenticità.
Nel caso del film di Reggio, il sospetto è aggravato dagli strumenti con cui l’opera insegue la propria ambizione: cioè con tutto l'armamentario della più ruffiana seduzione cinematografica. Esempio: il film si apre con le miniere d’oro a cielo aperto del Brasile: veri formicai umani dove centinaia di lavoranti spremono da montagne di fango una ricchezza che mai sarà la loro. Condizioni di lavoro animalesche, facce derubate di qualsiasi espressione, vite senza più storia. Non esistono quasi attrezzi di lavoro: il rapporto con la terra è quasi senza mediazioni: un duello primitivo, con in gioco la sopravvivenza. E', davvero, la pronuncia di una categoria primordiale, il lavoro, nella sua forma più elementare e originaria.
Reggio complica però le cose scegliendo un linguaggio cinematografico altamente spettacolare: la fotografia è degna di Storaro, le inquadrature sono d’effetto, tutto è sciolto in un sacrale ralenti. Anche a voler dimenticare provvisoriamente le suggestioni della musica di Glass, resta un impianto rappresentativo che senza pudore insegue un preciso obiettivo: un’acuminata spettacolarità. E qui si apre la forbice del dubbio.
Lo smantellamento delle certezze borghesi ottocentesche ha, dalle avanguardie in poi, creato un luogo comune che è assurto a precetto: la parola che denuncia, la parola che smaschera e demistifica, dev’essere una parola scarna, austera, indigente. Tagliente perché sottile ed elementare. L’avara spettacolarità è diventata sigillo dell’autenticità, contrapposto a qualsiasi retorica d’effetto, sigillo dell’inautentico. Si potrebbe discutere a lungo se un simile precetto sia giusto o sbagliato: ma il punto non è ormai più questo.
Probabilmente quel precetto oggi è, più che giusto o sbagliato, decaduto. E' un precetto che appartiene al patrimonio genetico del novecento europeo e che oggi è rimesso in discussione dalla cultura americana. E' una cultura, quella, che intrattiene un rapporto con la spettacolarità completamente diverso: non sa demonizzarla, e anzi la sceglie come condizione della propria espressione. Per dirla senza mezzi termini: la cultura americana ha dimostrato che la spettacolarità non è, a priori, l’inautentico: ma che può essere veicolo e forma dell’autenticità. Da La folla di Vidor a Andy Wahrol è tracciata una linea che mescola le carte e non consente più di fermarsi all’equazione che vuole la demistificazione inesorabilmente vestita col saio.
La resistenza dell’intellettuale europeo a questa diversa prospettiva è riassunta bene nella trovata lessicale con cui l’esorcizza: un’americanata. Ma non è nell’astuzia di un’etichetta d’effetto che si ammutolisce quel che lì è pronunciato: cioè la maturata capacità di assorbire il potere mistificatorio della spettacolarità e di volgerlo al servizio della parola che saggia l’autentico. Di fronte a questa capacità la cultura europea vacilla: perché ancora non le appartiene pienamente e perché il timore di abdicare al proprio compito di vigilanza sulla menzogna è reale e giustificato. E' con un simile vacillamento che gioca Powaqqatsi: come il gatto col topo. Di fronte alle patinate immagini di un mondo ritratto con occhio arcaico e sacrale, la coscienza critica dell’Europa che pensa se ne sta lì a misurare l’efficacia straordinaria di tutto quello e la sua inesorabile puzza di Hollywood.
Al gioco partecipa, puntualmente, la musica di Glass. Anch’essa si fa forte di una impudica spettacolarità, anch’essa allestisce una regressione verso l’elementare che riesce ad avere il sapore di una nuova innocenza. Lascia per strada l’afasia della musica contemporanea e ritrova un’efficace comunicatività. Potrebbe sembrare, in effetti, una nuova frontiera. Ma ancora una volta sorge il dubbio, ineliminabile, che si tratti semplicemente di una "nuova banalità". Il confine fra la confezione astuta e un reale pensiero musicale rivoluzionario è, purtroppo, molto sottile. Così la si ascolta, quella
musica, e la reazione è ancora sempre quella: un’ostinata resistenza a concederlesi.
Si esce da Powaqqatsi senza sapere se si è stati incastrati in una mistificatoria fantasmagoria o se si è toccato con mano ciò che d’ora in poi potrebbe essere il linguaggio, senza cilici, di un’intelligenza nuova. Devo dire che non aiuta a propendere per l’ottimismo il riconoscere, all’uscita, il più schietto entusiasmo sui volti dei presenzialisti più ottusi e degli abbonati all’ultima moda, qualunque essa sia. E se incroci uno sguardo che sai intelligente viene istintivo scambiarsi la complicità di un sereno scetticismo. Anche questo, qualcosa, vorrà pur dire.
Alessandro Baricco
("Musica Viva", n. 6, Giugno 1991, Anno XV)

sabato, dicembre 07, 2019

Quirino Principe: Musica e filosofia (3/14)

Gli dèi, temendo la morte, si rifugiarono nei metri della poesia.
Ma anche là li rintracciò la morte.
Allora gli dèi si rifugiarono nel suono,
e il suono primordiale è la sillaba OM,
l'immortale e senza paura.
Chandogya Upanishad, I, 4, 1-3
 
MUSICA E FILOSOFIA NELLE VISIONI ORIGINARIE DEL MONDO
Terza parte.
 
Scultura indiana
Nella ricerca del nesso musica-filosofia, assumiamo come centro di una prima descrizione l'area di civiltà che, da occidente ad oriente, abbraccia l'antico Egitto, l'ebraismo dai primi scritti biblici alla diaspora, l'India classica. La cornice può sembrare arbitraria, e in parte lo è. Tra l'Egitto, la Palestina e la Mesopotamia esiste una continuità geografica, e persino etnica; l'India costituisce un altro spazio terreno, e le montagne più alte del pianeta sono la linea di separazione. Eppure, la tentazione di osservare insieme quei territori è forte, né mancano ragioni a darle conforto. L'Egitto da un lato, l'India dall'altro sono i limiti intellettuali e psicologici del mondo antico secondo la visione occidentale, e all'interno di quei limiti furono possibili sguardi convergenti, nozioni precise e occasioni d'incontro: greci e romani conoscevano l'India, Alessandro di Macedonia la raggiunse e il suo nome deformato percorse il subcontinente indiano come quello di un minaccioso dèmone. Anche oggi ne restano tracce. Al di là dell'India cominciava davvero un mondo favoloso e quasi irreale, della cui esistenza molti dubitavano. All'inverso, a occidente dell'Egitto la civiltà ellenistico-latina vedeva terre la cui fase antica era poco interessante barbarie, e la cui esistenza reale s'identificava soltanto con la più tarda civilizzazione attuata da greci e romani. Tutto questo consente una visione d'insieme, e non mancano altre immagini unificanti. Una soprattutto appartiene a eventi successivi: l'area dal confine occidentale dell'Egitto al limite orientale dell'India è divenuta nel tempo il centro geografico della cultura islamica, chiuso entro due ali estreme, l'Africa settentrionale a ovest del Nilo e l'Asia sud-orientale a est del Bengala fino all'Indonesia. Così riusciamo ad avere la visione tutt'altro che omogenea ma almeno tale da cadere tutta insieme entro il cerchio della nostra lente. Esistono, al di là dello schema geografico, qualità comuni ai tre luoghi di civiltà. La valle del Libro dei morti, la terra della Bibbiae la penisola consacrata dalla tradizione dei Veda fondarono tutte e tre una musica di prim'ordine e di prim'ordine fu il ruolo che la musica ebbe nelle tre culture. In tutte e tre si sviluppò un pensiero "forte" come visione del mondo, con un fondamento metafisico. Le difficoltà irrompono quando osserviamo le diversità, non tanto quelle che esistono in sé e che per noi non è facile individuare oggettivamente, quanto le diversità che appaiono a noi attraverso il diaframma del tempo e delle memorie nascoste. Sulla musica dell'antico Egitto la nostra conoscenza si riduce a pochi frammenti, anche se il mistero si schiude in vividi lampi. L'antica musica ebraica dovrebbe esserci più nota poiché ad essa ci lega una tradizione intrecciata con la musica d'Occidente, ma proprio la mediazione ininterrotta è deformante. Abbiamo ampie e organiche notizie, invece, sul sistema musicale dell'India classica. Quanto al pensiero " forte" e altamente metafisico che nacque in varie forme nelle tre aree, esso dà prove antichissime e straordinarie nella valle del Nilo, ma la sua decifrazione è resa ardua dal linguaggio mitico che di quel pensiero è insieme la forza e il velame. Il popolo della Bibbia mostra un'irresistibile vocazione al filosofare, ma la sua tradizione antica, davidica, salomonica e profetica sente il peso del linguaggio teologico che insiste sulla rivelazione divina e occulta in gran parte il vero nucleo filosofico; paradossalmente, quel nucleo viene alla luce nel momento in cui la tradizione biblica incontra la filosofia ellenistica, di tradizione platonica e stoica, e con essa avvia un processo di fusione: il cui maestro è il giudeo ellenizzato Filone d'Alessandria. In questo caso, gli epigoni ci spiegano meglio la natura delle prime fonti, e l'eccezione che l'ebraismo rappresenta nella storia della filosofia è addirittura confermata dagli esiti ulteriori: il talento filosofico di quell'anima e di quella cultura raggiunge il vertice nell'epoca moderna e secolarizzata, da Baruch Spinoza a Martiri Buber a Harmah Arendt. L'India classica, a sua volta (ecco un'altra diversità che colpisce), è al di fuori dell'Occidente il terreno che più di ogni altro ha prodotto una filosofia vasta, organica e autonoma rispetto al mito e alla cosmogonia (la variante egizia) e rispetto alla teologia e all'etica (la variante ebraica): quindi, l'unico terreno di cultura in cui la parola "filosofia" abbia il significato di speculazione assoluta proprio della civiltà ellenica, e, in prospettiva, dell'intera civiltà occidentale. Chi cerchi un "pensiero speculativo" nei documenti dell'antico Egitto (e per molti aspetti, in quelli dell'antica Mesopotamia) difficilmente troverà nelle fonti scritte un "pensiero" in senso stretto. Pochi passi mostrano la disciplina e la forza raziocinante che siamo soliti associare alla filosofia come in Occidente la intendiamo. Nell'antico Medio Oriente, il pensiero è ammantato di immagini, e potremmo considerarlo contaminato dalla fantasia. Tuttavia, la differenza si attenua se ricordiamo che le origini del pensiero ellenico furono anch'esse intuitive, immediate e imaginistiche, più vicine alla poesia che alla scienza, e che proprio in Occidente l'ultima fase, reagendo a secoli di filosofia sistematica e rigorosamente logica, si è orientata verso una editazione assai più vissuta che non o oggettiva sul "sé" dell'uomo (Kierkegaard, Nietzsche, Bergson, Sartre, Husserl, Heidegger).
La differenza fondamentale tra l'atteggiamento filosofico moderno e quello antico e mitico è la seguente: per l'uomo moderno dell'Occidente "scientifico" il mondo fenomenico è in primo luogo un quid; per l'antico egizio è un "Tu". Questo cancella la rigorosa distinzione tra soggetto e oggetto: durante le alluvioni, il fiume non rifluisce perché "si rifiuta" di rifluire, e l'uomo è costretto a identificarsi con le sue acque per capire le ragioni del rifiuto. Per l'antico egizio, filosofia era essenzialmente trovare le vie per legarsi alla natura nel contesto delle sue misteriose relazioni, all'universo nella sua totalità. I simboli illustri presenti nella scrittura geroglifica, che è tutt'uno con l'iconografia egizia, non sono segni, ma realtà attive. La notissima croce ansata o ankh (ankh significa "vita" o "vivere" o "vivente" cara una ventina d'anni fa agli hippies che la ostentavano al collo manifestando velleità di primitivismo e di originarietà contro l'oggettivismo della tradizione occidentale, non era, per l'abitante dell'antico Egitto, un segno: era realtà e sovrappiù di forza vitale. Per lui, disegnare la croce ankh su una parete o scriverla su un papiro, non era "indicare" un concetto ma "essere" quel concetto. Era l'intensificare la propria vita, magari un garantire meglio la propria speranza d'immortalità. Era, quindi, un modo di fare della filosofia. Ora, fra i simboli fondamentali dell'antico Egitto c'è l'udjat, parola che significa "occhio del suono". Per collocare l'udjat (sormontata da un vigoroso sopracciglio, l'immagine è quella di un occhio sagomato a testa di falco con un'iride rossa e una grossa pupilla; dalla palpebra inferiore si dirama il ricciolo della corona faraonica) nel suo ruolo metafisico, siamo costretti in prima lettura a riconoscerne il mito. Seth, il dio del male, strappa un occhio a Horus, il dio-falco, il quale, privo del suo organo essenziale, cade in pezzi. Thot, che vuole restituire Horus alla vita, ne ricompone le membra, ma l'opera è inutile finché non sarà ritrovato l'occhio. Thot lo cerca pazientemente, e già dispera di trovarlo, quando è colpito da una musica misteriosa la cui fonte è irrintracciabile. Si accorge alla fine, guidato dal suono verso la sua origine, che la musica proviene dall'occhio, anzi, è l'occhio. Meglio: l'occhio di Horus è la fonte di tutta la musica esistente sulla terra. Thot raccoglie il prezioso organo, lo reinserisce nel corpo di Horus, il quale riprende a vivere. Disincarnando l'apologo dal suo rivestimento mitico, otteniamo una formula illuminante. Tutta la realtà è vivente, nel pensiero dell'antico Egitto, ma la musica è l'essenza segreta e intima del reale. Quando la musica è "al suo oosto naturale", cioè insita nell'essere vivente, non riusciamo a udirla, proprio perché essa è là dove dev'essere e l'armonia assoluta che essa garantisce fa sì che il suono non sia posto in evidenza. La musica che può essere ascoltata, la musica-suono, è quella sottratta all'organismo vivente e diffusa nel mondo. Di conseguenza, la musica è segno di trauma, di crisi e di provvisorio disordine, di eccitazione in cui lo spirito esce da se stesso, o addirittura di morte. Questo sottolinea le due funzioni primarie della pratica musicale nell'antico Egitto, la festa sfrenata e il rito funebre. Ma poiché, in quella strana civiltà che privilegiava la necropoli rispetto alla città dei vivi (posta la prima a occidente, la seconda a oriente del corso del Nilo; ma il palazzo del faraone, il sovrano-dio, era al centro della necropoli), il rito funebre era il momento in cui più si affermava il richiamo alla vita e ai mezzi per goderla in pieno, la musica aveva il compito di ricordare continuamente l'esistenza del piano spirituale: era una specie di vita isolata in vitro. Un altro insegnamento che riceviamo dall'udjat rappresenta una delle caratteristiche più tipiche dell'antica civiltà egizia, e che a noi appaiono più strane: l'occhio-suono rivendica alla musica-vita una facoltà visiva. La musica, nascosta nell'essere vivente e perciò inudibile, è nel vivente la parte che "vede" ne consegue una filosofica identificazione della musica con la visione.
Un altro mito, importantissimo per il suo tema ma per noi moderni, a causa delle fonti poco decifrabili, enigmatico, è quello che descrive l'origine del mondo. Come nasce il mondo dal nulla? Che cosa esiste, se esiste, prima del mondo? Fra le molte e svariate narrazioni mitiche, la prevalente e per molte generazioni investita di un ruolo ufficiale nell'Egitto faraonico è quella che ancora una volta si riferisce al dio Thot. Essa rientra nell'archetipo, comune a molte cosmogonie, secondo cui tutto ha avuto inizio con la Parola. Il richiamo a qualcosa di vicino a noi, di "nostro", è immediato: in principio erat Verbum. Se spogliamo la formula delle sue connotazioni teologiche, il significato puramente filosofico sopravvive e anzi emerge. Il concetto di Parola rende però soltanto parzialmente il senso originario, poiché, come osserva Marius Schneider, qui si tratta di qualcosa che geneticamente precede qualsiasi parola determinata e qualsiasi concetto logico. Qui si tratta di qualcosa di primario e di sovraconcettuale, indefinibile per il pensiero logico. Gli egizi, alludendo a questo elemento primigenio, parlavano di un "grido" o di una "risata" del dio Thot, e in alcune fonti si lascia intendere velatamente che lo scoppio di risa era stato intonato musicalmente, anche secondo diversi suoni. Prendendo alla lettera queste allusioni, si può indurre che gli egizi immaginassero un'origine del mondo prodotta dalla musica, o dal primo nucleo di essa. Un'importante pagina del Libro dei morti offre maggiori dettagli sulla nascita musicale dell'universo e sull'azione creatrice di Thot. Il dio crea il mondo battendo le mani e accompagnando con questo battito di gioia (modello di ogni strumento a percussione) i suoi scoppi di risa (modelli, forse, del suono dell'arpa), i quali sono in magica successione numerica: sono sette, in toni crescenti. Dalle sette risate nascono altrettante realtà, divinizzate dagli egizi: la terra, il destino, la giustizia, l'anima, il giorno, la notte, l'intelletto. "Vedendo tutto ciò, il dio fu colpito da stupore, come dinanzi a un nuovo essere più potente di lui, e abbassando il suo sguardo verso la terra proferì tre note musicali: IAO. Allora il dio che è padre di tutte le cose nacque dall'eco di quei tre suoni".
IAO: la successione dei tre suoni è discendente, dall'acuto I all'intermedio A al più grave O. In tal modo, si disegna un moto contrario a quello ascendente dei sette scoppi di risa. Nelle istruzioni al Thot Tarot Deck, il terrificante mazzo di tarocchi da lui stesso dipinto e ispirato alla tradizione di Ermes Trismegistos (e quindi, alla lontana, all'esoterismo dell'antico Egitto), il satanista Aleister Crowley invitò gli adepti, sessant'anni fa, a iniziare il rito cartomantico recitando le magiche vocali IAO. Esaminando il mito di Thot artefice dell'universo, e svestendolo ancora una volta della sua simbologia immaginistica sì da ridurlo per quanto è possibile a un nucleo concettuale, osserviamo come la musica racchiuda interamente il mondo come entità creata, anticipandolo e concludendolo: i moti contrari delle serie di suoni sottolineano la simmetria. Sopravvive un enigma: se Thot crea, chi è il dio padre di tutte le cose cui si allude allu fine? Unìpotesi è che egli sia Ptah (l'"immenso Fta" di Aida) e si dovrebbe ammettere in tal caso che il dio padre sia a sua volta oggetto di creazione da parte di Thot. L'incongruenza non sarebbe incontrasto con la mentalità pre-logica della cultura egizia. L'altra ipotesi è che il dio sia di nuovo lo stesso Thot, il quale, secondo una concezione speculare (anch'essa non estranea a quella cultura), creerebbe se stesso. In termini non metaforici: la musica creerebbe se stessa. Un esito teorico si rivela comunque: il mondo e l'uomo, essendo fatti dalla musica, sono fatti di musica, di essa materiati, e mediante la musica in atto nelle occasioni terrene e quotidiane gli uomini imitano la divinità e rinnovano l'atto della creazione.
Il numero sette, nella successione delle risate musicali di Thot, è tale da indurre suggestioni fin troppo facili, quando si parli di musica. In realtà, il sette degli egizi, come il sabaoth ebraico (il "settenario", struttura archetipica dell'universo), è un modello simbolico e mistico, ideogramma numerico della perfezione. Come illustrò, per primo in Occidente, Antoine Court de Gébelin (Le monde primitif, analysé et comparé avec le monde moderne, Boudet, Paris 1775-1784) l'uso simbolico di quel numero discende dalla "formula del sette" applicata dagli egizi alla musica come all'astronomia, all'alchimia come al calendario. Da quel poco che risulta alle nostre conoscenze, il sistema musicale in uso nell'antico Egitto non accoglieva scale di sette suoni. Le ricerche archeologiche hanno posto nelle nostre mani alcuni strumenti aerofoni, ma i tentativi d'individuare i suoni che essi potevano emettere danno risultati incerti. Osservando la posizione delle dita sulle corde delle arpe egizie, così come c'e la presentano le sculture e le pitture murali o papiracee, Curt Sachs ha supposto un'accordatura pentatonica. Ciò sarebbe in armonia con un passo delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, il quale chiama l'arpa egizia organ on trigonon enarmonion, ciò che suggerirebbe una scala pentatonica senza semitoni. D'altra parte, la musica suonata in Egitto ma importata dall'Asia faceva uso di brevissimi intervalli, compreso il quarto di tono (ancora secondo Curt Sachs, Die Tonkunst der alten Aegypter, in "Archiv für Musikforschung", 11/ 1920, 9). Soltanto un dilettante spericolato o un battistrada scapicollato oserebbe istituire un rapporto "filosofico" tra la meditazione dell'alta cultura egizia sull'origine del mondo e un sistema musicale, tra l'altro incerto nella sua vera realtà ai nostri occhi di uomini moderni. Ma se la scala per toni interi corrispondeva davvero a una vocazione dell'anima nazionale e dell'etnia, potremmo persino interpretarla come l'elemento di un linguaggio non interiorizzato, animoso nel volgersi verso l'altro e nel farlo proprio, disposto ad abbracciare il reale in una musica-visione, in un suono-occhio.
La stessa lingua egizia, quale ci viene incontro dalle scritture geroglifiche, sottolinea il ruolo primario che l'arte musicale aveva nell'antica valle del Nilo. In un idioma monosillabico-agglutinante, i puri monosillabi sono gli elementi originari e primari, le fonti del pensiero e della parola. Tali sono tutti i termini principali riferiti all'arte dei suoni; hy (musica), henw (canto), teh (suonare).
Agli oggetti primari, connessi con l'inizio delle cose, va attribuita una semantica soltanto in parte svelata: la zona di mistero persiste intatta. L'origine della musica è misteriosa come l'origine della filosofia. Il cono d'ombra che le nasconde è forse un fascio di luce troppo accecante, e su ciò che è al di là dello schermo o della cortina di nubi (o sulle insondabili profondità sotterranee, secondo una diversa prospettiva) può aprirsi con dovizia una discussione. Non dissimili arcani gravano sulle origini del pensiero, della scrittura e della musica nell'aurorale cultura ebraica. Ci è oscuro se sia esistita una riflessa e speculativa distinzione intellettuale tra i due strumenti musicale che nell'antica terra d'Israel rappresentarono una polarità, il corno d'ariete (sofar), guerresco, aggressivo e demoniaco nelle sue risonanze soprannaturali, e la nobile lira (kinnor) compagna della meditazione e ispiratrice di saggezza. Analoga è la nostra incertezza sulla natura propriamente filosofica del pensiero diffuso nelle Scritture storiche, didascaliche e profetiche della Torah. E' difficile definire "metafisica" l'immensa meditazione biblica; essa discende spesso dal livello metafisico a quello etico (ed è il suo lato più sgradevole) oppure si libra verso una zona superiore al pensiero stesso, inabissandosi in un "Tu" impenetrabile e confondendosi con la formulazione teologica, Nella Bibbia, Dio è troppo presente perché una vera filosofia dell'uomo non ne esca soffocata. Perché si possa parlare di filosofia dovremmo riconoscere un linguaggio propriamente logico e astrattivo nella speculazione sulle realtà supreme, e invece il piano logico, nella Bibbia, si dissocia da quelle realtà e slitta in basso, là dove meno ne sentiamo l'urgenza: nella morale, che ne risulta coartata e irrigidita e diventa facilmente odioso moralismo. Soprattutto la sessuofobia, nella Bibbia non ancora onnipresente come nel cristianesimo paolino o nel cattolicismo posttridentino ma già proterva, rende la morale biblica lontanissima dal solare costume egizio in materia sessuale: solare, stranamente, forse soltanto sotto quell'aspetto, nel contesto di una simbologia essenzialmente funeraria.
Eppure, l'invisibile filosofia della cultura biblica è latente, e il suo talento è forte. Ce ne accorgiamo scoprendo la novità che l'antico Israel, unico fra le civiltà dell'era precristiana nell'area mediterranea, aggiunse al dominio della filosofia: la meditazione sulla storia, sull'attesa degli eventi. L'Ellade e l'Egitto faraonico erano mondi privi d'interesse per l'interpretazione storica della realtà, culturalmente inadatti a storicizzare i concetti; fu invece questo il talento dei profeti biblici, ma anche gli autori del Pentateuco e dell'Ecclesiaste ne diedero prova. Il tempo, elemento irrazionale e non concettuale per la maggior parte degli intellettuali ellenici ed ellenistici, diventa chiave precisa di lettura e strumento di verità nelle pagine della Bibbia. La stessa creazione, che in altre cosmogonie è un semplice atto, nel Genesi si configura come un "periodo" con le sue scansioni. Pochi secoli dopo la composizione del Pentateuco, nei libri profetici, i giorni della creazione già suggeriscono un'interpretazione allegorica, e tendono a rivelarsi come "epoche" la cui successione è razionale, sorretta da una logica che ha sentore di filosofìca modernità. L'analisi secondo allegoria è un progetto compiuto nel momento in cui è storicamente possibile la fusione culturale tra la sapienza della Torah e il logos platonico, e ciò avviene nell'opera di Filone d'Alessandria, massimo rappresentante della filosofia ellenistico-giudaica, nato nella metropoli dell'Egitto greco-romano tra il 30 e il 20 a.C., morto verso il 40 d.C. poco dopo avere guidato una sfortunata ambasceria di ebrei alessandrini a Roma per invocare da Caligola una pofitica più umana verso l'etnia giudaica, e considerato il "Platone ebraico" dagli intellettuali suoi contemporanei. Ebbene, proprio quando la rivelazione mosaica viene illuminata dalla razionalità del logos, l'oggetto privilegiato di quell'operazione è il nesso tra la creazione e la musica.
Il passo di cui parliamo è nel grande trattato filoniano De opificio mundi, 45-52. La creazione non è soltanto "buona", connotato etico che Filone non accentua troppo, ma è soprattutto tecnicamente perfetta. Perfetta come che cosa? Adottando un termine di paragone, il filosofo ricorre a un'analogia musicale, lasciando intendere che la musica è il paradigma di ogni perfezione: argomento squisitamente platonico, ma applicato a un concetto, la creazione dal nulla, estraneo a Platone, e tipicamente ebraico. L'osservazione rivelatrice si riferisce, nel commento filoniano del testo biblico, al quarto giorno della creazione. "Il quarto giorno, dopo avere creato la terra, Dio fece il cielo, dandogli ordine e bellezza come un auriga alle redini, come un pilota afferrato al timone. Egli guida tutte le cose nella direzione da lui voluta, secondo legge e giustizia, non avendo bisogno di altro: tutto infatti è possibile a Dio. Il cielo, creato il quarto giorno, fu ordinato a sua volta secondo quel numero perfetto, il quattro, che contiene i rapporti numerici delle consonanze musicali: gli intervalli di quarta, di quinta, di ottava, di doppia ottava. Nell'intervallo di quarta, il rapporto è di 1 1/3:1 (4:3), e quindi l'intervallo di quarta contiene altri due numeri perfetti, l'idea di 3 e l'idea di 7. Il 4, radice dell'intervallo di quarta, è il punto di partenza dei quattro elementi e delle quattro stagioni". Temi di tradizione pitagorico-platonica, intimamente fusi con il racconto biblico; e più avanti (De op. m., 70) Filone fa propria l'idea platonica di un universo di sfere che produce "leggi di musica perfetta" (mousikés teléias nómous).
Fino a questo punto, la ricerca di legami organici tra pensiero filosofico e pensiero musicale ci ha concesso soltanto lampi che solcano zone oscure. Il panorama che ci offre l'India classica è, al contrario, vasto e maestoso. La filosofia indiana, come ha scritto cinquant'anni fa lo studioso singalese Ananda Kentish Coomaraswami (1877-1947) in Am I My Brother's Keeper?, è l'unica filosofia che si proponga come pensiero ecumenico, capace di accogliere in sé le filosofie di tutte le altre civiltà, così come, su un altro piano, la religione islamica vanta se stessa come la più ecumenica fra le tradizioni religiose. Ugualmente ampio e onnicomprensivo è l'apparato strumentale e il sistema musicale. In particolare, il celebre liuto a manico lungo, il sitar, con le sue 7 corde di cui 5 per la melodia e 2 per il ritmo sembra alludere contemporaneamente all'uso di scale pentafoniche, alla maniera dell'estremo Oriente, e a scale eptafoniche come le nostre. Più vicino all'Occidente è il fondamento della teoria musicale. Gli svara ("suoni intonati") sono 7: shadja (Sa), rishaba (Ri), gandhara (Ga), madhyama (Ma), panchama (Pa), dhaivata (Dha), nishada (Ni). Nella tradizione, la teoria musicale indiana si fonda su tre scale (grama) fondamentali, che prendono il nome dalla nota iniziale: sagrama, magrama e gagrama. Poiché nella sagrama la successione delle note corrisponde, sia pure approssimativamente (gli svara non hanno un'altezza assoluta), alla nostra scala diatonica di do maggiore, ne risulta che nella magrama e nella gagrama gli intervalli (shruti) si combinano in modi diversi, un po' come avviene nelle scale discendenti dell'antica musica greca o nei modi ascendendi del medioevo cristiano. Inoltre, poiché le 7 note della gamma subiscono alterazioni mediante diesis (tivra) o bemolle (komal), si creano diversi "modi" (raga). Ogni grama e ogni raga hanno una loro connotazione etica o estetica, relativa a tensioni dell'animo e a disposizioni intellettuali. La gagrama, per esempio, è la "scala celeste".
Il significato filosofico della musica, che nella tradizione dell'India classica è la decisiva chiave di lettura del mondo, appare in tutta la sua chiarezza dalla tavola delle connessioni tra gli svara e le realtà mondane, naturali e simboliche, concettuali e metafisiche, fisiche e astrologiche. In ogni giorno della settimana si rispecchia un'era del mondo, un elemento costitutivo della natura, un connotato sessuale, un corpo celeste; e tutto, sesso e scansione temporale, sostanza terrestre e astro celeste, è riassunto con densità di significato (e con impegno ad agire secondo "quel" carattere e non secondo altri) in uno svara:
 
Il significato filosofico della musica appare soprattutto nei paesi in cui i testi della tradizione induista affrontano il tema supremo: le origini del mondo. Noi possiamo avvicinarci a questi enunciati, esposti in linguaggio sublime e con assoluta limpidezza concettuale, percorrendo due vie di accesso. Esiste, nella Brihadáranyaka Upanishad, una "narrazione etica". Prima del mondo, anzi, prima dell'esistenza in quanto tale, esiste ciò che noi occidentali chiameremmo un ente ideale, una pura potenza non tuttavia irrazionale (come quella aristotelica) bensì luminosa e trasparente: il suono musicale. La musica delle origini ha in sé la potenzialità della parola assoluta, che però è ancora ineffabile (come, nell'esoterismo ebraico dello Zohar, il linguaggio con cui Dio parla soltanto a se stesso): non è ancora linguaggio comunicabile. Questa musica cosmica è l'universo nella sua fase di immobile eternità prima del tempo. Poiché tale musica è perfetta, non scandita dal tempo che ancora non c'è, essa è inudibile, né d'altra parte alcuno esiste che possa udirla. Quando, misteriosamente (ma può esistere un "quando" se ancora non esiste il tempo?), appare la paura nell'universo-musica, lo splendore e il suono si offuscano e nasce il linguaggio articolato, comunicabile e umano. Nel Samaveda, il tema è ripreso larvatamente: la paura che appare all'improvviso nella sfera dell'essere è null'altro che il tempo, che si unisce con il suono primordiale: dalle nozze del suono e del tempo nasce la musica degli uomini, scandita, diffusa sulla terra e misurabile nella storia. Esiste poi la più celebre "narrazione metafisica", esposta nella Maitráyana Upanishad (VI, 3). In principio non esiste l'universo: esiste soltanto un buio universale pieno di suono, e questo suono primordiale è il più aperto, chiaro e diffuso. Perciò è condensato nella vocale A. In urla fase intermedia, la creazione prende avAo dalle mani di Bráhman (ma da dove esce Bráhman?). Una certa materia, ancora fluida e nebulosa, comincia a condensarsi, ad essere "visibile"; la sua visibilità paga un prezzo, ed è l'oscurarsi del suono, il quale diviene più cupo e meno brillante. La tradizione induista lo connota con U: sempre una vocale, ossia sempre una risonanza squillante, ma è la vocale più chiusa. Nella terza e ultima fase della creazione, il mondo si fa solido, la luce invade lo spazio, e all'inverso il suono si spegne, riducendosi a un brusìo, a un rumore: M. Ai suoni vocalici, nell'ideogramma alfabetico, subentra un suono consonantico. Così il mondo è creato, e l'eternità è offuscata dal tempo, peraltro necessario all'esistenza degli uomini. Le tre lettere AUM formano una sillaba sacra, che nella tradizione, contraendo le due vocali, diviene OM. Nel diagramma OM è la sintesi dell'universo nato dalla musica.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 3, Marzo 1990, Anno XIV)

giovedì, novembre 28, 2019

Chi ha mandato Beethoven all'enoteca?

I traduttori di libri sulla musica sanno spesso le lingue ma quasi mai la musica. E la loro è una vita difficile.

Si calcola, approssimativamente, che due terzi dei libri di argomento musicale pubblicati in Italia siano traduzioni. Non vogliamo qui discutere se ciò sia o non sia un fatto positivo (positivo lo è di certo per la circolazione delle idee e il confronto delle metodologie; anche se troppo spesso si traducono libri inutili, togliendo così spazio ai nostri autori, che oggi non sono o non sarebbero affatto inferiori ai colleghi di altri paesi). Quel che qui vogliamo trattare è invece il problema delle traduzioni in quanto tale. Delle traduzioni, appunto, di libri di argomento musicale. Che del problema generale delle traduzioni in Italia costituiscono un caso particolare, con aspetti e risvolti specifici, ma non settorialmente esclusivi. Ma è davvero un problema, quello delle traduzioni? A prima vista, parrebbe proprio di sì. La qualità media delle nostre traduzioni, si dice, è insoddisfacente, sotto il profilo sia dello stile sia della affidabilità. Eppure sarebbe inesatto affermare che in Italia manchi una tradizione di alto livello in questo settore. A tacere delle traduzioni per così dire d’arte, o d’autore, dei nostri poeti, scrittori e letterati anche maggiori, che hanno fatto conoscere e amare molti testi fondamentali scritti in altre lingue, anche musicologi e critici del valore di un Mila, un D’Amico, un Bortolotto, un Bianconi e altri, si sono prodotti in veste di traduttori, con risultati apprezzabilissimi. Perfino musicisti come Luigi Dallapiccola e Giacomo Manzoni figurano in questa schiera. Ciò però avveniva in un’epoca in cui le traduzioni erano assai meno diffuse di oggi, e per autori o temi che in qualche misura rientravano direttamente negli interessi di questi studiosi (Busoni per Dallapiccola, Wagner per Mila, Adorno per Bortolotto, e più recentemente Dahlhaus per Bianconi).
Non sempre però è possibile attingere a queste personalità in altre occasioni; soprattutto quando i libri da tradurre sono diventati tanti, e del genere più diverso.
Che cosa occorre per essere un buon traduttore? Anzitutto, come è chiaro, una buona conoscenza della lingua; anzi, delle lingue. D’Amico, che è stato un traduttore fenomenale, era solito dire che il traduttore deve conoscere bene la lingua in cui traduce (ossia l’italiano), più ancora di quella da cui traduce; giacché qualcuno che ti aiuta a capire l’originale, se ci sono dei dubbi e il vocabolario non basta, lo trovi sempre. Ma se non sei padrone dell'italiano in tutte le sue sfumature, se non hai sensibilità per la costruzione della frase e l’armoniosità del periodo, sarà difficile che la traduzione riesca elegante e convincente. Quasi sempre ne deriveranno invece stile contorto, frasi zoppicanti, pensiero cieco, costruzioni involute e oscure, da far venire le vertigini, o il mal di mare. E una prosa faticosa o incomprensibile è, se si vuole, qualcosa di ancora più grave degli errori o degli abbagli, in cui tutti, quando traducono, possono talvolta cadere.
Ma nel caso di traduzioni di libri o saggi di argomento musicale occorre un altro requisito fondamentale: la conoscenza specifica del linguaggio musicale, della sua terminologia e della sua tecnica; e, più in generale, del suo ambito storico e culturale. Naturalmente l’incidenza di questi fattori cambia a seconda dei casi, si tratti di una biografia, di un testo critico-estetico o di un lavoro di analisi musicale. Lo stesso, presumo, accade in altre discipline, come la medicina o la chimica: dove sapere bene l’italiano (e l’inglese o il tedesco o il francese) non è sufficiente per venire a capo di questioni e terminologie specificamente tecniche. Ne consegue che al traduttore di cose musicali si richiede un bagaglio di conoscenze e di esperienze non propriamente leggero.
Da qualche tempo a questa parte è diventato un vezzo dei recensori - ma forse è davvero una necessità - accanirsi sui traduttori additandone al pubblico ludibrio le malefatte. Spesso, per maggior disprezzo, non se ne cita neppure il nome, come si fa appunto con gli individui della peggior specie; o viceversa si sbatte il mostro per così dire in prima pagina, coprendolo di ridicolo. E' giusto farlo. Ma io dico che è pure un vezzo: cioè un modo, tipico dei nostri intellettuali, di ostentare la propria superiorità facendosi belli alle altrui spalle, anziché sforzarsi di dare una mano, pacatamente, affinché le cose migliorino, strutturalmente.
E' vero che le nostre traduzioni, mediamente, non sono purtroppo granché. Il problema esiste, è grave e ha ragioni complesse. Ho detto prima che una tradizione in questo campo non mancherebbe; ma è una tradizione di vertice, non di base. Il considerevole aumento delle traduzioni, che è un fatto di questi ultimi anni e denota un’apertura della nostra cultura musicale ai contributi provenienti dall’estero, ha ingigantito questa debolezza di base. In altri termini, da noi mancano i traduttori di professione, abituati a lavorare sistematicamente in questa disciplina, messi in condizione di affinare tutta una serie di capacità che di per sé non sono né semplici né automatiche, né alla portata di tutti. Ancora una volta dobbiamo ribadire che da questo punto di vista all’estero sono molto più avanti di noi: il traduttore di professione ha non solo una sua dignità, ma anche un preciso riconoscimento culturale. La sua funzione è determinante e come tale viene considerata, anche sotto il profilo economico. Basti fare il nome di William Weaver, che è oltretutto un finissimo critico musicale, mediatore insostituibile e per ciò stesso corteggiatissimo della nostra letteratura nei paesi di lingua inglese. Da noi sembra invece sfuggire che quello del traduttore è un lavoro di enorme responsabilità, perché da esso dipende, semplicemente, che un testo venga reso in modo non solo fedele ma anche leggibile. Ciò non sempre accade. Si può tirare in ballo la mancanza di una scuola specifica che insegni a farlo (per esempio durante i corsi di studio universitari, già indirizzati verso determinate discipline: letteratura, storia dell’arte o musica). Oppure l’inesistenza di un albo professionale, a cui essere ammessi solo dopo aver sostenuto esami e prove di idoneità. Privo di una guida e di esperienze preliminari, l’aspirante traduttore non ha modo di riflettere, se non quando è già al lavoro, sulla tecnica che sta alla base di ogni attività professionale. Che cosa significa tradurre? Non basta concepire la traduzione soltanto come un fatto di resa letterale, parola dopo parola, frase dopo frase. Il principio della cosiddetta traduzione letterale può portare a equivoci colossali, e di per sé non garantisce neppure la fedeltà. Giacché ogni lingua, come tutti sanno e spesso solo i traduttori dimenticano, ha non solo una propria organizzazione strutturale, ma anche un suo respiro, una sua articolazione, un suo “tempo”. Una volta compreso il contenuto, si tratterà perciò di operare una trasposizione -- in musica si direbbe una trascrizione - da un mondo concettuale e linguistico a un altro, e da uno strumento di comunicazione a un altro diverso. Non basta capire, se possibile con la massima esattezza, ciò che sta scritto e ciò che vuol dire quel dato testo in lingua straniera; bisognerà poi trasferirlo nel sistema linguistico della nuova lingua, impiantarlo e svilupparlo in questo. Il rischio di allontanarsi troppo dal contesto originale (ciò che impropriamente si chiama "traduzione libera") o addirittura di far dire cose che non sono scritte, è sempre in agguato: per evitarlo occorrono proprietà linguistica, dominio lessicale, lucidità, autocontrollo e una buona dose di allenamento. Tutte cose più facili a dirsi che a farsi. Eppure da ciò dipendono la bontà e l'attendibilità, in una parola la riuscita della traduzione. Da noi questa capacità si scontra, da ultimo, con due fatti pratici, che però hanno il loro peso.
Il primo è che nelle nostre scuole le lingue sono insegnate male e disorganicamente, con fini più astratti che applicati all’esercizio concreto della traduzione. Nelle Università per esempio si approfondisce la letteratura, senza pretendere una preventiva, solida conoscenza della lingua straniera allo stesso livello (non so se le cose siano cambiate nel frattempo: io ricordo che ai miei tempi l’esame di lingua - facoltà di Lettere - consisteva nella traduzione estemporanea di un testo elementarmente facile; poi si passava a discutere, in italiano, di Thomas Mann o Proust o Shakespeare: su una bibliografia rigorosamente in italiano). Chi dunque impara una lingua, riceve nozioni di carattere generale, per lo più finalizzate alla conversazione. Ognuno deve poi arrangiarsi da solo se vuole raggiungere il possesso vero e completo della lingua. E quando lo raggiunge, sarà in grado di leggere un testo in lingua originale; ma non sarà, per ciò stesso, anche un buon traduttore.
Il secondo fatto può apparire più prosaico, ma non deve venir sottovalutato. Da noi i traduttori sono pagati male. Il loro lavoro è considerato alla stregua di una manovalanza, se non di una sotto occupazione (infatti il nome del traduttore è relegato nel colophon, accanto al copyright). Salvo casi speciali, una traduzione viene pagata dalle 12 alle 16 mila lire lorde a cartella, e non è molto. Ciò significa che, per far tornare i conti, un traduttore deve lavorare sulla quantità più che sulla qualità: spesso accontentandosi della prima stesura, che non è mai quella definitiva, senza curare lo stile, la chiarezza della frase, il respiro del periodo, le proporzioni dell’insieme, che variano da una lingua all’altra. E raramente è spinto a controllare criticamente il testo, oltre all’esattezza della sua comprensione. Anche se non si giustificano, si spiegano anche così le sciatterie e le inesattezze di molte traduzioni. Per fortuna qualcosa in questi ultimi tempi si è mosso, e si è cominciato a vedere nel traduttore quasi una specie di coautore, da cui dipende in gran parte la riuscita di un prodotto anche sotto l’aspetto commerciale. E dunque a valorizzarlo. Può accadere che al traduttore venga richiesto non solo di volgere il testo da una lingua all’altra secondo criteri variabili di equilibrio e di proprietà nella trasposizione (e stabilire questi criteri in modo chiaro e fondamentale), ma anche di smontarlo e di ricostruirlo, quasi reinventandolo nella nuova lingua per estrarne tutte le potenzialità (una sorta di traduzione critica del testo, per cosi dire). In questi casi aumentano le responsabilità, e con essa i requisiti richiesti al traduttore.
Ma come vengono reclutati allora i traduttori? Prescindendo dai casi in cui una certa traduzione venga proposta direttamente da chi è interessato a farla, o che sia l’autore stesso a proporre una persona di sua fiducia, gli editori di solito pescano nel gruppo più o meno selezionato di coloro che, magari per mancanza di un altro lavoro, si rendono momentaneamente disponibili. E' raro, ma può accadere, che ci si rivolga sempre alle stesse persone. Ed è sintomatico di una certa sfiducia - capitò anche a me, anni fa - che l’editore si riservi di accettare la traduzione solo dopo averla sottoposta alle cure di un revisore: il quale, non avendo una visione completa del lavoro, interverrà dal suo punto di vista, dall’esterno, rendendo ancora più complicata l'omogeneità del prodotto. Il compromesso a cui si giunge alla fine è di solito insoddisfacente, con ulteriori frustrazioni per il traduttore. A meno che non sia sorretto da autentica passione, è normale che appena possa egli si sottragga a compiti di tal genere. Spesso proprio nel momento in cui del mestiere, a sue spese, qualcosa aveva proficuamente appreso.
I traduttori di cose musicali dovrebbero avere, dell’argomento, conoscenze specifiche e sapere già prima di fronte a che cosa si troveranno accettando il lavoro. Tradurre uno scritto di Wagner o un epistolario dell’Ottocento presuppone la conoscenza di forme, stili e convenzioni ben precise (e anche il linguaggio scelto dovrà adeguarvisi). Affrontare un testo di Dahlhaus o di Kerman o di Nattiez, personalità forti dotate ciascuna di un proprio mondo concettuale e analitico, è impresa ben diversa dal rendere in italiano una voce di enciclopedia o un saggio divulgativo. Del resto, spesso non si capisce neppure con quali criteri vengono scelti questi titoli, in un paese che degna di traduzione lavori vecchi e sorpassati e non si cura, per esempio, di rendere disponibili in traduzione documenti fondamentali di autori classici come Beethoven, Mozart o Schubert (dov’è un'edizione critica delle lettere, dei diari, dei taccuini, delle testimonianze contemporanee?).
In questi frangenti, se il musicologo offre garanzie in teoria maggiori del semplice, generico traduttore, così che almeno l’esattezza terminologica sarà garantita, spesso vengono a mancare quella scioltezza e quella abitudine a pensare con la testa degli altri che rendono la lettura limpida e scorrevole, se non piacevolmente attraente. Ci si imbatte allora in una lingua del tutto sui generis, il “traduttese”, un ibrido di lessico, sintassi e grammatica bizzarri e improbabili, affetto dalle peggiori malattie organiche: rachitismo, artrosi, asma e stitichezza. In casi simili si impone la traduzione della traduzione; ed è un compito ostico e poco gratificante, di fronte al quale può anche capitare di richiudere il libro con un gesto di stizza. E l’occasione di conoscere un testo straniero, magari importante o interessante, nella nostra lingua andrà perduta per sempre, ripercuotendosi sul futuro per anni e anni; giacché - per quanto utopisticamente ogni generazione dovrebbe avere la sua traduzione almeno dei testi fondamentali, il concetto stesso e la prassi della traduzione modificandosi col tempo - i casi di una traduzione nuova che rettifichi le manchevolezze e gli errori della prima sono più unici che rari. E, per pigrizia o ignoranza, si continuerà ad attingere a quella come fonte attendibile, o autorevole, senza più controllarla. Molte citazioni fasulle, che si ritrovano continuamente tramandate di lavoro in lavoro, stanno a dimostrarlo.
Ma anche nel caso opposto, cioè in quello di traduttori “generici” bravi e allenati, privi però di specifiche conoscenze musicali, che tuttavia si avventurino in questa disciplina, non c'è da stare tranquilli. Ciò che si guadagna in facilità di lettura si perde in attendibilità e proprietà terminologica. Qui si potrebbero fare millanta esempi, tra il comico e il tragico, tra l’imbarazzante e l’esilarante. Non sarebbe carino riferirli in questa sede; anche perché non sarei proprio sicuro di esserne immune, nelle mie traduzioni. Se ciononostante azzardo due eccezioni, è solo per far riflettere su una situazione e un costume generale, ampiamente diffuso, che nel nostro rapporto con la cultura e con la musica ci riguarda tutti, Dove siamo noi stessi testimoni, più che giudici.
La Einaudi, vale a dire una casa seria, ha pubblicato di recente un libro molto importante, irritante ma sostanzioso, di Joseph Kerman: L’Opera come dramma, si intitola (la resa letterale del titolo originale, Opera as Drama, in italiano non è bella; ma capisco che è difficile cambiare la congiunzione: forse sciogliendola, L’Opera in quanto dramma?). La traduzione di Sandro Melani funziona bene nelle parti per così dire espositive o discorsive; ma non appena si entra in questioni tecniche, si aprono voragini incredibili. Si parla di “ingannevole cadenza” anziché di “cadenza d’inganno” (che è un procedimento armonico ben definito), di “ordinarie sonate per terzetto che dimentichiamo” (eh già, più che dimenticarle vorremmo conoscerle, nella musica strumentale del Settecento; si tratta evidentemente di Sonate a tre, come chiarisce il contesto); e che dire poi di una frase come questa: “Il terzetto dell'origliamento, con la razionalizzazione degli ‘a parte’ di Otello, è uno dei pezzi più belli della partitura, con l’arpeggio canzonatore del tema del riso di Cassio...". Ora, il traduttore è senz’altro persona stimabile; ma, digiuno di cognizioni musicali, ha proceduto a senso senza preoccuparsi di verificare una terminologia tecnico-musicale che, com’egli poteva almeno sospettare, gli avrebbe teso qualche tranello. Ma quel che è peggio è che nessuno, nella casa editrice, ha avuto l’accortezza di correre ai ripari: sarebbe bastata la lettura attenta di uno specialista per evitare spiacevoli frittate. Evidentemente, e questo è il punto, che la musica sia una disciplina con le sue leggi e le sue regole, oltre che con un suo vocabolario, è un fatto non ancora entrato nella coscienza comune, tanto meno in quella delle redazioni degli editori.
Al confronto fa solo tenerezza, e induce a un sorriso benevolo, il caso del traduttore dei ricordi beethoveniani di Gerhard von Breuning (Dalla Casa degli Spagnoli Neri. Ludwig van Beethoven nei miei ricordi giovanili, a cura di Artemio Focher, editore SE): il quale, pensando che un genio come Beethoven non potesse o dovesse frequentare delle semplici osterie, nobilita il termine e traduce “enoteche”. Effettivamente, Beethoven all’enoteca fa tutta un’altra impressione.
Traduttori, vil razza dannata, per qual prezzo vendeste il vostro bene?
Sergio Sablich
("Musica Viva", n.10, Ottobre 1990, Anno XIV)

sabato, novembre 16, 2019

Il disco tra novità antiquariato e bricolage

Siamo di fronte ad un fenomeno così evidente che si finisce quasi per darlo per scontato, ed è invece complesso e decisivo per il futuro dell'ascolto. E anche della musica.
 
Arruga. Oggi il disco offre un’esperienza di ascolto così vasta e diffusa da cambiare il rapporto con la musica da parte della gente.
Ed in Italia in particolare, perché vi si è verificato uno dei picchi della diffusione del compact disc.
Foletto. I dati del primo trimestre 1989 testimoniano ormai che il compact disc nell’ambito della musica “colta” è arrivato a coprire il 27-28 % del totale distribuito in Italia. Il CD dunque non è più oggetto di culto tecnologico: è diventato nel nostro campo strumento di cultura e di conoscenza come l’LP.
Arruga. Indubbiamente uno dei vantaggi che dà il CD è la qualità dell’ascolto. Abbiamo scoperto che la presunta freddezza imputata al CD alla sua apparizione sul mercato dipendeva o dai primi apparecchi o dalle prime registrazioni o dall’idea preconcetta che l’oggetto nuovo tecnologicamente piu avanzato ci potesse allontanare dalla musica. Il vinile nero, il caro LP, ci era più familiare. Ma il CD indubbiamente ci porta ad ascoltare meglio, con più punti di riferimento acustico e anche con una maggiore ampiezza spaziale.
Foletto. A proposito delle applicazioni tecnologiche, con il CD possiamo permetterci di lavorare sulle musiche non dico come sul pianoforte ma con l’illusione di poter smontare e rimontare i pezzi con rapidità e comodità. In alcuni casi abbiamo aiuti preventivi come i track stessi che ci danno gli inizi, le risoluzioni oppure i passaggi di alcuni episodi che altrimenti sarebbe difficile recuperare sull’LP. In questo senso anche chi non si è mai posto il problema di “smontare” dei pezzi attraverso l’ascolto può allora venire stuzzicato a farlo. Dall’altra parte consente l’ascolto di una sinfonia per esteso.
Arruga. La facilità di produrre CD ha portato a una lievitazione del mercato. Abbiamo così un numero elevato di case discografiche insieme ad una miriade di piccolissime case che si sono gettate a capofitto a far uscire CD che propongono, riversati, vecchi nastri. Questo perché sul piano tecnico si può migliorarne la qualità iniziale riversandoli in CD, fino ad ottenere una qualità d’ascolto dal decente al buono (e comunque migliore di quella in cassetta).
Queste piccole case si sono trovate a disposizione venticinque anni di produzioni che, almeno in Italia, non sono più soggette ai diritti d’autore. Questa legge è assolutamente inspiegabile, però è, come dire, una “mascalzonata provvida” in quanto abbiamo le grandi esecuzioni a portata di mano. Ma in tutto questo c'è una questione assai più grave del danno economico sui diritti, e cioé la perdita di qualunque controllo da parte di autori e interpreti: tutto è nelle mani di chi fa i CD.
Foletto. In molti casi poi non è nemmeno nelle mani di chi fa i CD ma di chi a suo tempo fece la prima registrazione, spesso fortunosa, su nastro: Dio sa chi fosse e come abbia potuto essere stata fatta.
Arruga. Per non parlare poi degli errori e dei falsi. Esistono molti aneddoti significativi. Una casa italiana ha dovuto ritirare dal mercato un CD che celebrava - con tanto di saggio critico che spiegava come fosse inconfondibile - un’interprete in una storica registrazione. Ma controllando le date si sono accorti che l’interprete era tutta un’altra.
Foletto. E proprio in questi giorni è in vendita un’edizione di Don Giovanni attribuita a Mitropoulos ed è invece quella, riconoscibilissima, di Karajan con tutt’altro protagonista. Coincide solo l’anno, il 1954.
Arruga. Chissà come si troverà spiazzato un collezionista di Mitropoulos! Abbiamo avuto anche dei casi di CD fatti a collage di pezzi. C'è stata una casa discografica che ha inserito improvvisamente la frase di un tenore diverso dal titolare nell’esecuzione di un’opera!
Foletto. Finisce così che uno dei grossi limiti che abbiamo sempre denunciato delle incisioni attuali in studio lo ritroviamo proprio nei CD che dovrebbero avere valore di documentazione storica, per di più su esecuzioni dal vivo.
Arruga. Inquietante è anche il fatto che - nella assoluta libertà dai diritti d’autore - ci si possa anche copiare a vicenda. Mettiamo ad esempio che una casa discografica, poniamo la Fonit Cetra, stia incidendo un Don Carlos e si accorga che il suo nastro originale è difettoso. Mettiamo anche che un’altra casa discografica, ad esempio la Claque, faccia contemporaneamente uscire un’altra registrazione di quella stessa edizione del Don Carlos: non si vede come non potrebbe la prima casa utilizzare, bell’e pronto com’è, il CD della seconda. Di qui la possibilità che le piccole case godano di di un grande momento di diffusione e di ricchezza di materiale per il pubblico, ma che possano venire poi fagocitate dalle grandi che non hanno che da accaparrarsi i loro CD per poi affidarli alla loro rete distributiva.
Foletto. Oppure, cosa ancor piu dispersiva, che si finisca poi col fare semplicemente un altro CD della stessa opera magari registrato inizialmente una sera prima o una replica dopo.
Con la “legge dei venticinque anni” ci ritroviamo poi ad avere già i nastri “pirata” di Muti, tanto per fare un esempio, agli esordi alla Scarlatti di Napoli.
Arruga. Per fortuna la legge prevede di datare ogni uscita discografica, cosa che fino a poco tempo fa non avveniva nemmeno. Resta il fatto che gli interpreti non hanno nessun controllo artistico diretto
né lo possono demandare a qualcuno.
Foletto. Questa disordinata uscita discografica crea confusione nel pubblico. L’incisione storica può avere molto interesse, offrire spunti nuovi e spesso più autentici dei dischi fatti in sala d'incisione, oltre naturalmente ad essere, per molti, motivo di ricordo, documento importante di un avvenimento vissuto. Ma il livello è molto disuguale: spesso l'interesse di un’incisione è in una frase, in un’espressione, in un intervento orchestrale e non nell’incisione totale. Prendiamo le opere: spesso sono interessanti dal punto di vista vocale e poco interessanti - non sempre, naturalmente - dal punto di vista orchestrale. Spesso poi hanno dei tagli, non sempre dichiarati. C'è poi la strada delle registrazioni dal vivo delle opere messe in scena oggi: è una scelta che evidentemente funziona, consente alle piccole case discografiche di farsi un  catalogo, di mettere in circolazione cose abbastanza inedite e di aggirare il problema degli interpreti legati a "scuderie". Forse serve anche da stimolo ai teatri in cui queste registrazioni si fanno, e magari funziona da stimolo per la soluzione di trattative sindacali. Si sta creando dunque una produzione anomala, una via di mezzo tra produzione discografica live e incisione programmata con i teatri.
Arruga. E' un’apertura molto opportuna e necessaria in quanto l’unica possibilità per difendere la qualità è che un teatro se ne faccia garante.
Ma con il gonfiarsi del mercato ci troviamo ora ad un punto delicato: abbiamo contrapposti l’audience e la professionalità. Quello che immediatamente dà successo non deve necessariamente passare attraverso la professionalità. Una piccola casa che produce CD può mettere in giro prodotti ghiotti, ma spesso non ha una linea. I procacciatori di nastri diventano dunque produttori di fatto. Con queste premesse non si costruisce perché non c'è tutela di professionalità, non c'è esperienza. Si rischia di andare verso un qualunquismo qualitativo: la musica registrata finisce per essere un accumulo di momenti interpretativi senza avere più riferimento con la storia delle partiture e con le partiture stesse.
Mentre si sta facendo il grande lavoro delle edizioni critiche per dare la maggiore rispondenza alle indicazioni dell'autore, il rischio che qui si corre è quello di andare verso il deposito della tradizione routinière da cui ci si cerca di liberare. Il problema è anche quello delle note di copertina che quasi sempre sono un commento estetizzante o una notizia storica e apologetica priva delle indicazioni per comprendere quella incisione.
Foletto. Tocca a noi critici filtrare, recensendo, questi tipi di prodotti. Se il mercato accoglie con molto interesse le registrazioni storiche, noi che recensiamo e scriviamo dovremmo far capire perché alcune registrazioni storiche sono interessanti non solo in quanto documento storico ma perché ricche di indicazioni e indizi interpretativi espressi magari trent’anni fa; ci sono ad esempio casi leggendari, come i_Mozart di Busch anni 1929-32, che sono punti fermi per interpretare Mozart oggi.
Questo vale anche per interpreti vicini a noi che però venticinque anni fa avevano visioni interpretative diverse dalle attuali ed è necessario inquadrarle, analizzarle e spiegarle.
Ci sono poi le interpretazioni d’oggi fatte in studio. La presenza anche di piccole etichette discografiche ha portato da una parte una ventata di freschezza con l’immissione sul mercato di interpreti che avrebbero ieri dovuto attendere molti anni prima di entrare in sala d’incisione. Questi interpreti però pagano lo scotto di avere meno prove di registrazione, di avere orchestre o complessi che non sono ancora all’altezza di quelli che lavorano ai massimi livelli in campo discografico e le cui interpretazioni sono pensate spesso per il disco, per essere storicizzate. Una cosa va sottolineata a questo proposito: le registrazioni dal vivo di venticinque anni fa sono in qualche modo “false” perché non nascevano per essere riascoltate vent’anni dopo.
Arruga. Segnalo il pericolo che stanno correndo ora i teatri: molti spettacoli sono fatti in funzione della registrazione discografica.
Prendiamo la Scala ad esempio: il Guglielmo Tell ha dimostrato che la posizione dei microfoni è più importante dell’azione scenica. L’idea di Ronconi del “tutto immagine” a scapito dell’azione scenica nasceva probabilmente anche da questo fatto. Abbiamo visto Merritt - che pure è uno che si da generosamente all’arte - muoversi in scena per andare a quei microfoni che avevano una “pista” separata da quella del coro. Non possiamo non essere consapevoli che ciò accade.
Quando c'è un mezzo di riproduzione, nessuno può non esserne condizionato. La differenza fra il disco live storico e quello live attuale resta dunque forte perché l’interprete sa oggi quali sono i punti essenziali su cui far leva. La registrazione live prevede comunque oggi una seduta per le eventuali correzioni.
Nella presentazione e nella recensione del disco bisogna avere la coscienza culturale di ciò che è un disco: un momento comunque provvisorio, l’interpretazione di una partitura in un determinato momento, fatta da determinate persone, per un determinato scopo. Se ci si discosta da questa consapevolezza per fare un discorso promozionale del tipo “la migliore Turandot”, “il vero Beethoven” considerando il disco un prodotto "finito", assoluto, con cui confrontarsi, allora non si fa un discorso onesto. Il disco è comunque una scelta provvisoria. Lo stesso strumento che ci consente l’ascolto del disco live o storico ci rende un suono sostanzialmente diverso dall’originale, se pure fedele. E nell’ascolto dobbiamo immaginare gli spazi originali e, se si tratta di un'opera, anche gli allestimenti, la regia di allora. Bisogna anche ricordare che in studio si possono ottenere cose che non si ottengono "dal vivo". Ma non si riuscirà mai a riprodurre in disco l’emozione fisica del suono della Filarmonica di Berlino ascoltata dal vivo.
Foletto. A meno di non sdrammatizzare tutto immaginando che in futuro questo settore produttivo - che è oggetto di evoluzione tecnologica continua e insospettata - non produca una specie di CD Polaroid, vale a dire un CD che registri la stessa esecuzione alla quale si assiste e che possa venire acquistato come souvenir a fine serata così come un tempo venivano acquistati i programmi di sala. Dei CD souvenir, dunque. Come avviene all’estero per certe visite ai castelli: si entra, si fa la visita, si dà la mancia alla guida e si ritira la propria fotografia scattata all’ingresso con i compagni di viaggio.
("Musica Viva", n. 6, Anno XIII, giugno 1989)

sabato, novembre 02, 2019

Quirino Principe: Musica e filosofia (2/14)

Une conscience musicale est toujours en situation: elle appartient à un certain milieu, à une certaine époque, et se trouve informée par une certaine culture.
Ernest Ansermet
 
LA MUSICA E LE IMMAGINI DEL MONDO
Seconda parte.
 
Carlo Carrà
La musa metafisica, 1914
Disegnare a grandi linee una mappa delle civiltà musicali alla luce del rapporto tra musica e filosofia è un nostro impegno che avevamo promesso ai lettori. Apriamo la ricognizione con una frase custodita da Ernest Ansermet fra le mille pagine del suo libro capitale Les fondements de la musique dans la conscience humaine, ispirata a ragionevole relativismo storico. Con il suo senso del relativo, la frase non è propriamente clamorosa, il suo rilievo è basso e non emoziona. Ma nell'esteso intreccio di pensiero che costituisce l'opera filosofico-musicale di Ansermet, essa è soltanto un presupposto dialettico alla scoperta del senso universale, non relativo, e persino a priori, presente nella musica. Quando interroghiamo la musica, continua Ansermet, essa ci richiama al suo atto d'esistenza, e poiché un atto non può essere compreso se non partiamo dal suo senso, è necessario intuire il rapporto tra la coscienza e il mondo dei suoni. Soltanto il carattere universale di questo significato che dobbiamo attribuire alla musica ci permette di capire la chiave di lettura di un'opera particolare.
Questa qualità della musica, che s'impone come un sublime paradosso, rende quest'arte la più idonea a entrare in rapporto con la filosofia. Esiste, nella natura dei due linguaggi, quasi uno scambio di ruoli. La filosofia è un linguaggio universale, e perde i suoi connotati se trae le proprie ragioni da fenomeni definiti nel tempo e nello spazio. La musica è anch'essa un linguaggio universale, ma trova la propria universalità soltanto nell'opera, o in un frammento, che nel tempo e nello spazio s'individualizza. Esiste però un terreno che permette a musica e filosofia di affiancarsi come due forme di suprema conoscenza del mondo, o addirittura di convergere. Quel terreno è la facoltà, propria ad entrambe, di rappresentare in termini simbolici le connessioni tra le realtà che costituiscono il mondo; la simbologia rende inevitabile l'uso delle immagini, le quali non sono il mondo, ma ad esso alludono per analogia. Nella musica, la realtà fisica del suono ha significato perché si articola e si delinea secondo rapporti di pausa e di durata, di simmetria o di asimmetria, di ritmo binario o ternario, regolare o irregolare, di superiorità o inferiorità nella gamma, di prolungamento o di suddivisione, di orizzontalità o di verticalità. Sono tutti criteri che consentono di vedere il mondo sub specie musicae. Nella filosofia, malgrado la necessità di formulazioni rigorosamente astrattive, la stessa terminologia non può sfuggire alle idee di trascendenza e immanenza, di connessione sillogistica; il rapporto di mimesi che alcune filosofie hanno definito tra il trascendente e l'immanente (per esempio, il platonismo: un rapporto eminentemente "visivo", costruito su immagini) è adombrato, nella musica, dai procedimenti d'imitazione (il canone, la fuga), l'angoscioso tema filosofico dell'uno e del molteplice si riflette in chiave analogica nella forma musicale del tema con variazioni. Paradossalmente, risulta anzi che il linguaggio della filosofia è più "visivo" di quello della musica; di conseguenza, le filosofie si sono assunte il compito, soprattutto agli esordi delle diverse civiltà, di tradurre in immagini la relazione tra la musica e il mondo. Nelle diverse strategie di pensiero che hanno tentato di definire questo legame è il tono, il carattere e lo stile delle diverse civiltà nella loro integrale fisionomia.
Nella mappa che illustra il nesso filosofia-musica così come diverse civiltà lo hanno interpretato, entrano in gioco tre fondamentali alternative: la prima è in relazione con l'idea a priori e con il principio di causalità, la seconda con l'analisi del linguaggio, la terza con la dialettica soggetto-oggetto.
1) La questione dell'assoluto a priori metafisico e della catena causale si presta all'alternativa:
- (a) Il mondo è il modello della musica, l'exemplar secondo le cui forme essa si genera e prende forma; il mondo crea la musica ed è creato dalla musica.
- (b) La musica, all'inverso, è il modello del mondo, l'archetipo di cui l'universo è imitazione; la musica crea il mondo, o almeno la sua esistenza precede il mondo.
2) Nella visione, sia essa mitica o prescientifica o scientifica, della struttura che regge le cose, due tendenze opposte si alternano o si escludono:
- (a) E' possibile riconoscere caratteri formali comuni, quasi un comune scheletro portante, nella musica e nella realtà universale.
- (b) Non esiste alcun carattere comune; anzi, strutturalmente la musica e l'universo sono l'una la negazione dell'altro, sicché la musica rappresenta una ra~ dicale antitesi nei confronti del mondo.
3) Il grande tema della possibile coincidenza tra pensiero ed essere, della soggettività come possibile specchio della realtà cosiddetta oggettiva, divenuto drammatico e destabilizzante con la "rivoluzione copernicana" di Kant, è in verità presente, con il suo potenziale angoscioso, in diverse epoche e in diverse aree culturali del pensiero filosofico. In un'accezione che sembra particolare e persino marginale agli occhi del "realismo ingenuo" dominante nella prima Scolastica, ma che si rivela essenziale e addirittura riassuntiva dell'intera relazione soggetto-oggetto nelle sue molteplici varianti, il problema è in sostanza se il linguaggio sia unicamente lo strumento conoscitivo che ci consente di decifrare la realtà, inesorabilmente intesa come "altro", oppure se non sia esso stesso la realtà. Nella filosofia occidentale, cui ci riferiamo non perché più importante ma perché a noi più immediatamente nota, la terribile questione è aperta scandalosamente dalla sofistica, è adombrata dai nominalisti medievali, tende le sue reti insidiose a insospettabili filosofi di ortodossa tradizione cristiana (Anselmo d'Aosta e la sua prova "ontologica" dell'esistenza di Dio), si fa acuta e insanabile, come sappiamo, nella dialettica trascendentale di Kant, dilaga irrefrenabile nel pensiero neopositivistico di Carnap, di Gödel e di Wittgenstein come nella più recente indagine analitica di Foucault. La musica è per essenza un linguaggio, e quindi entra nel gioco; fra le varianti interpretative, esiste quella secondo cui la musica non è un linguaggio, ma il linguaggio conoscitivo per eccellenza. Si delineano così due alternative fondamentali:
- (a) La musica è oggetto di conoscenza metafisica, oppure, all'inverso, conoscenza ausiliaria e rivelatrice.
- (b) La musica non è né oggetto né strumento di ausilio al sapere filosofico, ma è essa stessa filosofia: una sapienza suprema, che tutto risolve in sé.
Nel rapporto musica-filosofia emergono così, in tre coppie di alternative, sei indirizzi fondamentali. In modo decisivo, segnando ciascuno una direzione che incide un segno incancellabile nelle diverse tradizioni e scuole di pensiero, essi collocano la musica in un ruolo centrale all'interno dello sforzo con cui le filosofie costruiscono ciascuna la propria visione del mondo o Weltanschauung. La nostra elementare analisi ha l'intento di mostrare come i sei indirizzi, variamente combinati, finiscano per aggregarsi in una serie di formule più complesse attraverso cui è possibile riconoscere le particolari vocazioni che hanno sospinto le diverse civiltà verso una definizione del rapporto musica-filosofia, sul rischioso terreno dell'immagine del mondo così come il pensiero filosofico tende a disegnarla. Il nostro schematismo è deliberato e vuol essere un'ipotesi classificatoria iniziale. La formula combinatoria individua fedelmente, crediamo, le grandi manifestazioni storiche della filosofia, nel tempo e nello spazio, ma le varianti, le sottovarianti e le sfumature sono innumerevoli. Prima del nostro tentativo di classificazione, s'impone un'ultima premessa, che richiama al nostro intervento precedente. Esaminare la filosofia occidentale, nel suo arco storico, a fianco delle grandi tradizioni filosofiche nate in altre aree di civiltà, significa paragonare termini eterogenei. Le filosofie orientali hanno nella storia uno sviluppo di debole rilievo; la loro sostanziale uniformità nel tempo è il prezzo pagato alla persistente forza delle loro premesse tradizionali, che hanno continuato a incidere nelle cose, nelle istituzioni pubbliche e nel modo di vivere, con un mordente ormai non familiare all'Occidente, dove la più accentuata tendenza alla libertà della filosofia e delle arti, alla democrazia autentica, coincide con il "pensiero debole". Un esame diacronico di quelle civiltà filosofiche ce le rivela analoghe, per quanto riguarda la loro omogeneità e persistenza se non sotto altri aspetti, a ciò che la Scolastica medievale fu nell'Occidente cristiano, ma certo esse non potrebbero essere più lontane dalla ricchezza di posizioni autonome, articolate e spesso autentiche presenti nell'antico pensiero ellenico come nella filosofia europea dell'era moderna. La circostanza ineludibile ci suggerisce, nella mappa che segue, di considerare anche l'Occidente filosofico nella sua vocazione di fondo, nei suoi inizi, e piuttosto come tradizione che non come storia.
Nella cultura filosofica dell'India classica, nata a fianco della letteratura religiosa induista, la musica non è soltanto il modello del mondo: ne è la creatrice, o piuttosto è lo strumento di cui Brahma si serve per trarre il mondo dalla non esistenza. Nulla tuttavia, in quella tradizione, lascia intendere che la musica sia essa stessa oggetto di creazione nel senso ebraico-cristiano: essa è preesistente ab aeterno. Ma se il mondo è inizialmente modellato secondo archetipi musicali, questa fase aurorale cede il posto a un allontanamento progressivo dell'universo creato dalla sua fonte generatrice. La musica è il Bene e la Verità, mentre il mondo ne è l'antitesi, ed è quindi il Male. La via alla salvezza consiste essenzialmente nel negare il mondo, tendendo asceticamente alla condizione premondana, oggetto di speculazione metafisica: la pura musica preesistente. Il totale straniamento del mondo dalla musica originaria rende impossibile l'attribuire alla musica una funzione di sapienza interprete delle cose e dei loro nessi; nulla di simile alla sofia ellenica. Filosofia è il tendere del mondo a riconfluire nella musica, ma non può essere la musica stessa (formula 1-b/2-b/3-a [=0]). A proposito dell'alternativa (3-a), da noi data come uguale a zero, conviene osservare che nella civiltà filosofica dell'India classica la musica è, come si indicava nella precedente distinzione analitica posta a premessa di questa classificazione, oggetto di conoscenza metafisica, ma soltanto nel senso che è la "conoscenza di una non conoscenza del mondo".
Nelle civiltà dell'Estremo Oriente, e in particolare nella cultura cinese classica lucidamente analizzata in Occidente, nella sua filosofia, da Marcel Granet, e nella sua musica da Maurice Courant e Alain Daniélou, non ha alcuna evidenza l'idea di creazione in senso ontologico, e tanto meno in una prospettiva trascendente. La musica non è il modello del mondo, ma si modella su di esso secondo principi universali, che riproducono, anche in vista di una minuziosa educazione estetica da cui dipende (a un livello inferiore) l'educazione etica, le strutture e i nessi universali. Non soltanto esistono, tra la musica e il mondo, precisi caratteri comuni, oggetto di attenta analisi da parte dei teorici, ma in generale tutta la simbologia della musica e delle arti (altezza del suono, colore, sapore, modo musicale secondo cui intonare gli strumenti, foggia degli abiti, punti cardinali cui orientarsi, ciclo stagionale, animali e vegetali) viene classificata secondo un'immensa tavola sinottica di corrispondenze e analogie. Le varie simbologie dividono l'universo in settori intellettuali: la musica è un settore della sapienza suprema, ma non è la filosofia, anche se in una fase della cultura cinese classica, che osserveremo da vicino in un prossimo intervento, essa aspirò a tale funzione (formula 1-a/2-a/3-a).
Nella civiltà dell'antico Egitto, il mondo è creato da un dio mediante una risata intonata su sette note musicali: la musica, come appare da questo mito filosofico-matematico costantemente ripetuto nel Libro dei Morti, non è quindi la creatrice del mondo, ma ne è uno dei possibili modelli. La rarità di testi il cui senso possa convergere con questa sorta di cosmogonia musicale rende incerto il carattere universale del nostro giudizio. Ma la civiltà egizia, negativa e antivitalistica, dà alla sfera notturna e funebre una centralità che esclude la connessione strutturale tra le cose votate alla dissoluzione, le cui radici sono sprofondate nel mistero: soltanto la musica svela, in un atto di fede prossima all'autoannientamento dell'intelletto, l'ordine in cui collocare le essenze arcane, dalle viscere contenute nel canopo agli ideogrammi magici e salvifici. La musica, che nella civiltà egizia occupa un posto più ampio a paragone con le altre culture dell'antico Oriente, è così anche la sintesi della sapienza suprema, in cui magia, medicina e scienza della scrittura confluiscono e si annodano (formula 1-b/2-b/3-b). Altissimo ruolo assegnato alla musica, forse il più alto fra le diverse grandi tradizioni; tenebrosa Weltanschauung.
Pìù luminosa, ma certo meno emozionante, è l'immagine del mondo e del legame tra musica e filosofia in una tradizione che ci è più familiare, quella ebraica, ma in un settore percorso abitualmente non tanto dai credenti ortodossi quanto dagli specialisti di studi storico-filosofici. Si tratta, infatti, della prima vera scuola filosofica fiorita nella cultura ebraica sul terreno della rivelazione biblica, quella dell'ebreo ellenizzato Filone di Alessandria (tra il I secolo a.C. e il I d.C.). Malgrado il vigoroso innesto del platonismo (Filone fu il "Platone giudaico", come lo definirono i Padri della Chiesa orientale), la radice ebraica conserva la sua forza determinante. Nella analisi allegorica che Filone fa della Bibbia, Dio crea il mondo usando la struttura della scala musicale dorica come modello, o "cartone" per il grande affresco, e ciò spiegherebbe la perfezione di quel "buon lavoro" dopo il quale Dio, il settimo giorno, si riposò. Ciò spiega anche i caratteri formali comuni alla struttura delle scale musicali e all'ordine dell'universo. Tuttavia, Filone attribuisce alla musica, in quanto arte umana, un carattere educativo, o di decorativo allietamento della vita: il pregiudizio moralistico e antiedonistico, tipico delle grandi tradizioni legate a una religione monoteistica, lascia il segno indelebile (formula 1-b/2-a/3-a).
La civiltà islamica è quella che, almeno in una precisa e delimitata fase storica, meno si allontana in termini filosofici della vivacità e rapidità di sviluppo della filosofia occidentale. Dopo il X secolo, il fiorire di molte eresie in campo religioso favorì anche la nascita di scuole filosofiche diverse tra loro, e assai poco eterodosse. Ma se vogliamo limitarci al tronco centrale del pensiero filosofico, che nel mondo islamico si proclamò come una via alla sapienza universale (all'ombra del Corano) tra il trionfo di Muhamad e la fine della dinastia abbasside (cioè tra il VII e il X secolo), siamo colpiti da un paradosso apparente. In tutti i settori della società islamica, in quel periodo aureo, e a tutti i livelli, la musica è la privilegiata fra le arti: ricchezza di me o e, grande numero di musici compositori cui la tradizione letteraria attribuisce fama e agiatezza, alta considerazione in cui i professionisti di musica sono tenuti, varietà di strumenti musicali molto elaborati. A fronte di quel mondo di delizie sonore, una filosofia dominante che assegna un ruolo decisamente umile alla musica: un mezzo di devozione, un'utile e dilettevole pedagogia, o una maniera raffinata di arricchire i piaceri dei sensi (e quali piaceri!). Nella cultura islamica, fatta eccezione per una celebre setta ereticale del Khorasan, la musica non è mai un elemento archetipico dell'universo, né la chiave per decifrare, in nome di linee strutturali comuni e universali, i segreti delle cose; non ha una parte decisiva nella magia: non è mai assunta al livello di linguaggio assoluto e di sapienza suprema (formula 1-a/2-0/3-0). Nella tradizione filosofica greco-ellenistica, che è l'asse centrale della nostra eredità, esiste già quella caratteristica dello spirito occidentale che è la varietà di orientamenti e la sostanziale laicità del pensiero. Sotto questo aspetto, come vedremo in successivi interventi, il legame tra musica e filosofia è diverso in Platone e nel suo immediato discepolo Aristotele. La natura filosofica e sapienziale della musica è privilegiata lungo il segreto filo di pensiero che collega i pitagorici delle prime scuole al Platone, appunto, "pitagorico" (quello della Politeia e del Menone), ad alcune sette gnostiche del III e IV secolo d.C. Qui la visione del mondo è tale da innalzare la musica a somma realtà metafisica, universale ed eterna, di cui il mondo è ombra e mimesi: i rapporti tra i suoni sono archetipi delle cose, la cui struttura è su essi modellata, e la musica è rivelazione delle cose ultime (formula 1-b/2-a/3-b).
La classificazione ha posto volutamente in ombra la dimensione diacronica, la quale, una volta illuminata in pieno, rivelerebbe come tra le diverse tradizioni sono esistite in alcune fasi storiche ora coincidenze, ora divergenze graduali da radici comuni, ora confluenze e sincretismi. Anche per esaminare più da vicino questi dettagli, tratteremo, nel nostro prossimo intervento, il rapporto musica-filosofia nell'ambito di tre tradizioni orientali poste a occidente, al centro e a oriente della "fertile mezzaluna": l'antico Egitto, il mondo ebraico, l'India classica.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 2, Febbraio 1990, Anno XIV)

sabato, ottobre 26, 2019

Trivio e Quadrivio

Con puntuale regolarità, ogni tanto salta fuori qualche bell'ingegno a prendersela con l'opera in musica. Questa volta il turno è stato di Sandro Veronesi, giovinotto scrittore di belle speranze, svezzato come è d’uso nei corridoi delle case editrici e dei giornali. Il titolo dell’articolessa, apparsa su "L’Unità", recitava, manco a dirlo, "Accuso il melodramma: non è cultura". "Accuso": sentilo un po’, questo Zola in formato tascabile. "Ma davvero le purce hanno la tosse", direbbe Belli. Gli argomenti erano i soliti, vecchi di secoli e ignari della propria scontata decrepitezza; ed è stato sin troppo facile imbastire, secondo l’andazzo corrente, un dibattito scomodando Gramsci Bontempelli Baldini D’Amico ed altri spiriti magni. Dalla polemica, in sé abbastanza penosa, sono emersi tutti gli angoletti porchi di quell`ignoranza atavica per le cose d’arte (musica non solo, ma anche pittura, scultura, architettura) che l’intellettuale italiano di tipo medio si porta addosso da sempre, insieme con la biancheria intima. Non è mancato chi ha sentenziato che l’opera è "un genere sul quale si può ironizzare, specie ora che è morto"; che in essa sarà forse da salvare la musica, ma i libretti, Dio santo, sono "degni delle avventure del Signor Bonaventura sul Corriere dei Piccoli" (dove non si sa se più deplorare la mancanza del riguardo dovuto a Busenello Da Ponte Romani Giacosa, o a Sergio Tofano, autore dei deliziosi ottonari del "Corrierino" di buona memoria). Nessuno, poi, al quale sia passato per la testa che melodramma è una parola che, buttata lì con fatua insipienza, vale tutto e niente: una notte nella quale tutti i gatti, da Monteverdi a Mozart, da Wagner a Musorgskij, da Leoncavallo a Stravinskij, diventano grigi.
Ma una considerazione si fa strada, tra queste periodiche cicalate pro e contro l’opera in musica, propinateci con implacabile monotonia di contenuti da gente per la quale tre secoli di riflessioni sull’argomento sono evidentemente passati come acqua fresca. L’esperienza personale mi ha insegnato che i migliori fruitori del melodramma, e più in generale della musica, non sono i cultori delle discipline umanistiche, ma gli uomini di scienza, gli economisti, qualche volta i politici. I discorsi più intelligenti ed informati sulla musica te li senti fare dal fisico, dal biologo, dal chimico, dal medico, anche dallo storico e dal filologo. Meno bene vanno le cose col filosofo, che spesso muove da postulati estetici e astrazioni teoretiche con scarso o nullo riferimento alla realtà sonora; ancora peggio col letterato, imbevuto di preconcetti extramusicali; a rotta di collo col sociologo, che nonostante Adorno rimane il peggior frequentatore delle sale da concerto (se pur le frequenta).
Con l’uomo di scienza è tutt’altra cosa. Indipendentemente dalle conoscenze tecniche, il suo parlare di musica è innanzi tutto un parlare sano, immune affatto dalla chiacchiera e dalla fumisteria; è un parlare lucido e concreto, che presuppone la capacità intellettuale di reagire intuitivamente sulla viva realtà dell’arte dei suoni come da dietro un microscopio, percependone l’organizzazione, la dinamica e le leggi intrinseche e cavandone deduttivamente delle conclusioni. E' il parlare umile e colloquiale di chi di regola si dichiara (anche se i fatti gli daranno torto) profano di musica, crede di non avere altre frecce al proprio arco tranne una certa nativa sensibilità e non calza mai il coturno del savant, come Verdi chiamava i Dottor Balanzoni del suo tempo. Senza contare che questi uomini di scienza spesso sono dei pozzi di San Patrizio in fatto d’informazione e documentazione musicale a livello internazionale, possiedono biblioteche e discoteche degne di un dipartimento musicologico, sono in agguato col loro registratore a tutti gli appuntamenti che contano. Da parte sua, tra un mugugno e una bacchettata ai govemanti inetti e mariuoli, l’economista e politico Bruno Visentini si lascia andare talora a giudizi musicali che non passerebbero mai per la testa a certi sovrintendenti dei nostri enti lirici. Come il Sole del Copernico leopardiano rivisitai tempi in cui si chiamava Febo e prevedeva il futuro; così la Musica in mano ai filosofi naturali (come già venivano chiamati gli scienziati) riscopre le proprie radici di scienza esatta, quando era annoverata tra le arti del Quadrivio, in ottima compagnia con l’Aritmentica, la Geometria e l’Astronomia. E in quanto scienza, "per la memoria di quella mia virtù antica", gratifica tuttora i suoi fedeli di favori privilegiati.
Giovanni Carlo Ballola
("Musica e Dossier", Anno VIII, Numero 60, Marzo/Aprile 1993)