Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, ottobre 26, 2020

Glenn Gould: L'ala del turbine intelligente

Con un titolo inutilmente ampolloso (quanto più severo e giusto quello originale: The Glenn Gould Reader), Adelphi ha pubblicato - corredata da una pirotecnica Presentazione di Mario Bortolotto e da una dimessa Introduzione del curatore, Tim Page - un’ampia raccolta di scritti sulla musica del pianista canadese Glenn Gould: articoli di riviste, presentazioni di (suoi) dischi, recensioni, testi di conferenze, saggetti musicologici. L’ala del turbine intelligente (citazione colta al volo da Baudelaire; ma lo si capisce solo a pagina 63: eil riferimento è stranamente omesso nell’Indice dei nomi) è un supporto essenziale per la comprensione di uno dei casi (ma sì, leggenda: come da risvolto di copertina) più curiosi (emblematici?) dei nostri tempi, che dei nostri tempi ha appunto tutti i caratteri distintivi: l’eccentricità, l’eclettismo, lo snobismo, il fanatismo, il mistero, il paradosso, la disperazione, l’umorismo, la presunzione, la schizofrenia. Curioso è anzitutto il fatto che Glenn Gould, di professione pianista, sia diventato un riconosciuto e venerato protagonista della musica solo dopo la morte (nel 1982, a cinquant’anni giusti); giacché se episodi del genere si danno (o si davano) talvolta per i compositori, è piu raro che ciò avvenga per un’arte legata all’immediatezza del presente e della presenza, qual è quella dell’interpretazione. Ma Gould aveva posto per tempo i presupposti di una celebrazione a futura memoria: nel 1964, dopo nove anni di trionfi d’élite, aveva smesso di suonare in pubblico (con motivazioni accattivanti: "Durante i concerti mi sento umiliato, mi sembra di essere un artista del varietà") e si era rinchiuso in un eremo superprotetto e supertecnologizzato, per dedicarsi esclusivamente alle incisioni discografiche. Facendo, più che di se stesso, la fortuna della sua casa discografica, la CBS, depositaria di una “Legacy” milionaria.
E' stato Glenn Gould un grande pianista? Piero Rattalino, che se n’intende, lo giudica "trai maggiori del nostro tempo". A me la risposta suggerisce ampi margini di dubbio. Lo è stato certamente per la musica del Novecento, di cui ha lasciato testimonianze ragguardevoli; rivelando che nell’ansia di un’espressione repressa, nevrotica e lancinante, sensibile ad aperture di fulminea rivelazione e protesa verso la perfezione della tecnica, egli era un artista illuminato del nostro secolo: un angelo di fuoco di lucida e implacabile intelligenza, ma impermeabile alla tenerezza e al calore umano. E anche nelle numerose pagine dei suoi scritti dedicati ad autori e a musiche del Novecento (Schönberg in prima linea; Sibelius, Hindemith, Skrjabin, Ives, Krenek, Berg; i canadesi contemporanei, e poi Boulez e l’oggi) Gould ha impresso il marchio di una sensibilità acuminata, di un’acutezza che avvince e incide con squarci netti, fin nel terreno minato della profondità analitica. Par quasi che qui Gould pensi e scriva nel linguaggio di quella musica, e ne contempli per così dire il rispecchiamento.
Ma per quanto Gould fosse un caso limite dell’angosciosa sete di verità che in alcuni eletti ha animato il nostro secolo proprio per la sua inappagabilità, i suoi punti di riferimento - e dunque la sua visione dell’evoluzione della musica, nemica del progresso, nemica della storia in nome delle “finalità più vaste della creatività”, pagina 181 - trascendevano quei limiti e si confrontavano con altri ideali. Non solo gli antenati della musica moderna (Byrd, Gibbons, Scarlatti: gli albori del pianoforte e del linguaggio orientato verso la tonalità e la forma libera), ma soprattutto il sole Bach, astro maggiore e centrale di quel sistema planetario. E proprio a Bach Gould riservò attenzione speciale, riflettendola puntualmente negli scritti; dove, però, l'approccio - e ciò vale, a quanto pare, anche per le esecuzioni, fatte di tanti bei momenti continuamente contraddetti nella visione d’insieme - si dimostra sovente, più che impari al compito, stranamente convenzionale ed estrinseco, per non dire naif.
Alla fine dello scritto sulle Variazioni Goldberg, che fu per anni il suo cavallo di battaglia e un vero oggetto di culto dei maniaci del disco più raffinati, Gould conclude un’analisi alquanto scolastica con queste parole: "Non ritengo arbitrario soffermarmi su considerazioni che vanno oltre il fatto musicale, anche se ci troviamo davanti a quella che è forse la più splendida elaborazione mai realizzata su un tema di basso: penso infatti che la fondamentale ambizione di quest’opera per ciò che riguarda la variazione non vada cercata in una costruzione organica ma in una comunità di sentimento. In essa il tema non è terminale ma radiale, le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza, un’orbita di cui la passacaglia ricorrente costituisce il punto focale. (...) Essa ha quindi un’unità che le viene dalla percezione intuitiva, un’unita che nasce dal mestiere e dalla rigorosità, che è ammorbidita dalla sicurezza di una maestria consumata e che qui si rivela a noi, come avviene tanto raramente in arte, nella visione di un disegno inconscio che esulta su una vetta di potenza creatrice". Il sospetto di un che di intrinsecamente e forse inevitabilmente dilettantesco, sotto la formulazione colta e "impegnata", sorge legittimo di fronte a simili concetti, tanto contraddittori quanto oscuri: ma oscura è qui anzitutto la traduzione. Forse ciò si può spiegare con l’intenzione di fornire anche concettualmente un sostegno a una visione interpretativa di Bach che non ha mai, neppure nei momenti più ispirati e inventivi, il respiro calmo e solenne, la nobile grandezza e profondità di un arco compiuto, di un problema interamente risolto.
L’affermazione più provocatoria del volume si trova in fondo a pagina 77, nello scritto Mozart e dintorni (una conversazione con il documentarista francese Bruno Monsaingeon): "Come sai, io ho una zona buia che copre un secolo, all’incirca dall’Arte della fuga al Tristano: tutto quello che c'è fra questi due estremi riesco al massimo ad ammirarlo, non ad amarlo". Dichiarando di preferire il Paulus di Mendelssohn alla Missa solemnis (e di amare ancor più le opere giovanili di Glinka, subito dopo), Gould espone chiaramente una presa di posizione estetica e ideologica: l’avversione per la musica classica (per “le convenzioni esteriori della sonata classica e del suo schema strutturale in gran arte stereotipato”) e per quella romantica (i cui atteggiamenti "implicano in ultima analisi l’amp1iamento delle risorse mediante l’ambiguità e l’idea che ogni fenomeno osservabile abbia una sua occulta ombra psicologica"). Tale avversione ha per conseguenza la critica di Mozart (le cui opere sarebbero “testimonianze di un’esistenza edonistica”) e il rifiuto di Beethoven, categoricamente espresso nel divertente e un po’ goliardico Glenn Gould parla di Beethoven con Glenn Gould; accade così di leggere nel dialogo immaginario passi come questi: “... quelle che la disturbano di più sono proprio le opere centrali della cronologia beethoveniana. Sono le opere in cui un’espressione complessa, affrontabile solo da un professionista, si riferisce a un materiale che è accessibile a chiunque. E questo la disturba, signor Gould, perché costituisce anzitutto una riflessione su quello che è il ruolo ufficiale del musicista, sul professionismo così come si è stratificato nella tradizione musicale dell'Occidente e che lei mette in discussione non senza motivo. (...)”. Al che l’alter ego risponde: “Ma quando quella posizione non è stata ancora raggiunta o è già stata abbandonata, come dice lei, si incontra un’arte di tipo molto più professionistico - il professionismo di Wagner o quello di Bach, secondo la direzione che si sceglie - e per trovare una tradizione puramente dilettantistica occorre andare molto più indietro oppure molto più avanti”. Magari fino a Gould? Se così fosse, avremmo svelato il mistero.
Parole di ammirazione incondizionata sono invece rivolte alla figura e all'opera di Richard Strauss: per di più in anni nei quali non andava ancora di moda e poteva apparire controcorrente. In un articolo del 1962, Perorazione per Richard Strauss, dopo aver definito Strauss “il più grande musicista contemporaneo” (quasi d’accordo) Gould appassionatamente afferma: "Ciò che è soprattutto esemplare nella musica di Strauss è il fatto che essa rappresenti concretamente la trascendenza di ogni dogmatismo artistico, di ogni problema di gusto, di stile e di linguaggio, di ogni frivolo e sterile cavillo cronologico. E' l'opera di un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene, e che parla per ogni generazione perché non s’identifica con nessuna. E' una suprema dichiarazione d'individualità: la dimostrazione che l’uomo può creare una propria sintesi del tempo senza essere vincolato dai modelli che il tempo gli impone". Ma a questo punto saremmo già un po’ meno d'accordo. Giacché Strauss, come del resto ogni artista, non solo appartiene alla sua epoca, ma s’identifica con essa rivivendone l’intera parabola della civiltà artistica e culturale della giovinezza (quella Vita d'eroe che nella sua “esuberante estroversione” tanto turbava il giovane Gould) fino alle soglie del crepuscolo, e oltre; e muore in dolce agonia - cullato dalle melodie infinite, struggenti, dei suoi Finali d’opera - dopo averne prolungato sino al limite estremo la longevità. Ma evidentemente a Gould, di Strauss, interessava l’aspetto della sfida, nella quale potersi di lontano identificare.
Se ci siamo soffermati soprattutto su alcune delle sintesi più irrisolte fra quelle tentate da Gould anziché sulle molte, illuminanti analisi parziali, non è per sminuirne il valore; ma anzi per cercare di indicare in che cosa esso consiste. Gould era un outsider, un dilettante nel senso antico e un genio in quello moderno. In fondo, gran parte del suo fascino risiede nel fatto che egli, rifiutando il culto romantico del virtuoso e scegliendo un’esistenza claustrale, ha incarnato da artista ciò che ognuno di noi vorrebbe essere almeno in certi momenti e stati d'animo della vita. Chi non ha mai sognato di rinchiudersi in un eremo a coltivare le proprie passioni e a rettificare le proprie tendenze schizofreniche? Chi non ha avuto almeno una volta la tentazione di riscoprire un Gibbons, di sprofondarsi in Bach, di negare Beethoven? (Ma Mozart proprio no, quello rimane nostro fratello, sempre). Gould tutte queste cose le ha fatte per davvero e ce ne ha parlato a un livello superiore, dall’alto della sua individualità; è stato capace di essere assoluto e intransigente, senza scendere a compromessi, neppure con le sue nevrosi. Per questo lo ascoltiamo e lo leggiamo con rispetto, anche quando nella sua concitazione o ingenuità o ironia ci lascia interdetti. E lo sentiamo a noi vicino, anche se la compagnia è imprevedibilmente scomoda e sfuggente: vicino, con sincerità, ai nostri dubbi e alle nostre inquietudini, pronto a farci emozionare e sorridere.
Sergio Sablich
("Musica Viva", n. 4, Anno XIII, aprile 1989)

sabato, ottobre 17, 2020

Quartetto Italiano: "Qualcosa per tutta la vita: non è mica poco"

"Musica Viva" n. 3, marzo 1980
Dovreste conoscerli tutti. Il primo a sinistra è Paolo Borciani. Sembra il più severo e accigliato dei quattro ma, in confidenza, "ci fa" solamente. In "borghese" è amabile, anche se il temperamento polemicuzzo dell'emiliano purosangue ogni tanto prende il sopravvento, e gli piace ricordare le avventure artistiche passate. In concerto invece pare scolpito e duro: dà gli attacchi, dopo essersi inforcati gli occhiali, con gesto deciso, suona con il busto eretto, molto signorile.
Subito a destra, è Elisa Pegreffi, sua moglie prima ancora che secondo violino. Sembra riservata e minuta, con quel caratteristico modo di suonare tutta ripiegata sullo strumento. Ma è tutta apparenza e quando la sua "voce" entra si sente bene, con autorevolezza e bravura rare (e non dimentichiamo: non è quasi mai vero, come si crede, che nel quartetto d'archi la linea del secondo violino sia secondaria, anzi).
Poi c'è Franco Rossi. Che simpatico. Oltre al viso così dolce e gioviale, suscita simpatia immediata il suo modo di suonare, apparentemente svagato, come quegli artisti distratti delle favole, che suonando dimenticano perfino di respirare. Poi basta ci sia un "pizzicato": lo vediamo illuminarsi qualche battuta prima, si prepara, alza i tacchi delle scarpe, avvicina l'orecchio alla tastiera del violoncello e quando la nota si libra, vibra tutto, insieme a lei. E il semplice pizzicato diventa già una storia musicale, come nell'Andante, un poco Adagio del Quintetto op. 34 di Brahms eseguito alla Scala la sera del 28 gennaio.
L'ultimo a destra è Dino Asciolla, quello arrivato più di recente e anche il più giovane. E' un grande solista, e nel giro di un paio d'anni ha saputo donare alla sua cavata e al suo temperamento quella dimensione più raccolta (ma altruista) del suono che un quartetto esige. In concerto assomiglia un po' a quelle gustosissime caricature di Berlioz o di Paganini: tutto naso e ciuffo di capelli. In più rispetto a loro ha gli occhiali.
Questi quattro signori che qui abbiamo un po' preso in giro formano il Quartetto Italiano, forse la formazione cameristica più famosa nel mondo, sicuramente la più longeva, come sentiremo.
Era difficile e organizzativamente problematico parlare con tutti insieme. Siamo perciò andati a trovare Borciani che, tutto sommato, è il personaggio più rappresentativo, anche per questo suo attaccamento quasi patologico al "quartetto", visto come entità morale e musicale (gli ha dedicato anche un libro, più appassionato che rigorosamente storico). Cosa è uscito da questo incontro piuttosto lungo lo leggerete tra poco. Importa qui ricordare un paio di particolari significativi. Intanto Borciani non sbaglia mai i soggetti. E anche se le domande erano evidentemente rivolte a lui - non ho parlato con sua moglie, che era in tutt'altre faccende creative affaccendata: quando ha interrotto discretamente, senza farsi vedere, la nostra conversazione era solo per sapere dal marito in che maniera doveva preparare il baccalà - le risposte avevano sempre il "noi" come soggetto, con una naturalezza impressionante.
Altra cosa sorprendente è la commozione quasi, la riconoscenza con cui ricordano l'esperienza musicale con Furtwängler e Pollini. Soprattutto quest'ultima, così vicina e viva, sembra aver dato a questi nostri maturi compagni nella musica quella spinta per continuare a essere sempre così entusiasti e generosi che la stanchezza dei trentacinque anni di attività sembra talvolta (dalle parole almeno, ché i fatti per ora dimostrano altro) affievolire.
E dall'ultimo concerto scaligero con Pollini, partono le domande.
 
Suonare il Quintetto di Brahms al livello sentito l'altra sera e con Maurizio Pollini al pianoforte cosa rappresenta oggi per voi. Un punto di partenza o uno di arrivo?
Né l'uno, né l'altro. Punto di partenza, dopo più di trent'anni di carriera, sarebbe come dire: tutto da rifare. Nemmeno punto di arrivo perché speriamo di potere esprimere ancora molte cose. E' stata un'esperienza particolarmente importante, questo sì. Anche perché le volte in cui abbiamo suonato con altri solisti si possono contare sulle dita di una mano.
Abbiamo avuto, a suo tempo, tanti anni fa, il piacere di suonare con Furtwängler; però sempre in privato, mai in pubblica esecuzione. Eravamo a Salisburgo, nel '52 se ricordo, e facemmo una lettura di questo stesso Quintetto di Brahms; noi eravamo molto giovani, lui era il nostro dio, come lo è rimasto. Pur così improvvisato fu uno degli incontri più stimolanti della nostra carriera. Precedentemente avevamo avuta l'altra fortuna di conoscere e fare amicizia con Clara Haskil; con lei abbiamo eseguito soprattutto Mozart. Anzi, fu l'unica volta in cui suonai da solista al di fuori del Quartetto, le Sonate di Mozart con il suo sublime accompagnamento. L'altra esperienza, anche questa molti anni fa, con un bravissimo clarinettista che oggi fa prevalentemente il direttore, Anton de Bavier. Anzi esiste ancora un vecchio disco, inciso ancora per Decca nel '49, quasi ancora con le cere, del Quintetto di Mozart. Con Pollini è stato un incontro nato in vista di un disco. E dopo vari anni finalmente siamo riusciti a registrarlo. Contemporaneamente abbiamo deciso di eseguirlo anche in pubblico, quando i rispettivi impegni ce lo avessero permesso: finora l'abbiamo presentato a Torino, la prima volta, poi a Parigi, Roma, Amsterdam e un paio di volte a Milano.
Si può quindi parlare di esperienza occasionale, senza un vero seguito. Non avete mai pensato di suonare con un altro violoncellista il Quintetto di Schubert, per esempio?
Parlare di questo Quintetto è come mettere il dito sulla piaga. a varie riprese infatti eravamo stati invitati da Pierre Fournier, ma per diverse ragioni questo progetto che ci sta molto a cuore è stato accantonato.
Qual è stato il vero punto di partenza del Quartetto Italiano?
Nel '42 avevo conosciuto Rossi e mia moglie a La Spezia. C'era un concorso per solisti; Rossi e io eravamo i vincitori della nostra categoria, quella dei non diplomati. Poi ci siamo rivisti a Siena, dove ero allievo di Arrigo Serato. Con i primi apprezzamenti vennero le prime occasioni solistiche, ma Bonucci, insegnante di musica da camera, mi spinse verso quel repertorio. Con Rossi, mia moglie e Lionello Forzanti nacque la primissima formazione, quella con cui eseguimmo al saggio di fine anno il Quartetto di Debussy. Venne poi la guerra, la resistenza...
L'attività la riprendemmo nel '45 in maniera abbastanza avventurosa. Come membro del CNL di Reggio Emilia avevo ottenuto qualche aiuto per i miei amici (come andare a mangiare con i bollini) ma la vita era molto dura. Per fortuna avevo avuto la possibilità di alloggiarli in casa mia. Furono quattro mesi di studio intensissimo, da luglio in poi; a novembre pieni di slancio, di voglia di farci sentire venimmo a Milano. E in effetti riuscimmo a suonare davanti a tutti: agenti, presidenti di società, musicisti, salotti che "contavano": non guardavamo tanto per il sottile allora. E in effetti dovevamo aver fatto una certa impressione, se non altro per il fatto di essere molto giovani, una ventina d'anni per uno, e di suonare a memoria (lo abbiamo fatto per undici anni); cosa che dava una certa impressione di serietà. Avevamo preparato anche un programma un po' particolare: oltre a Beethoven, Debussy e Strawinskij. Un bel giorno alla Camerata Musicale Milanese si ammalò un cantante e l'allora presidente, che evidentemente ci aveva sentito nel nostro giro di propaganda, ci chiamò. Fu il vero debutto (avevamo sì suonato a carpi, in dicembre, ma quasi nessuno l'aveva saputo): vennero le prime critiche, il famoso articolo di Giulio Confalonieri e prese il via questa avventura.
Cosa rappresenta la scelta di fare musica da camera?
Era senza dubbio d'avanguardia. Ma c'era allora questo senso di rinnovamento che coinvolgeva un po' tutti e tutto, e dava coraggio. Infatti inizialmente la nostra denominazione fu Nuovo Quartetto Italiano, e quel "nuovo" per noi significava una posizione morale, un desiderio di fare musica soprattutto bene, insieme, in quartetto. Perché amavamo molto questo modo di viverla, pur non avendo mai avuto una specifica preparazione quartettistica.
Le prime difficoltà?
Difficoltà di luogo, oltre che di persone (poiché la viola se ne andò nel 1947 e subentrò Farulli): due abitavano a Venezia, uno a Genova e io a Reggio Emilia; poi con Farulli c'era anche Firenze. Altra difficoltà fu la mancanza di aiuti agli inizi: e erano difficoltà realmente economiche. La prima volta che venimmo a Milano fummo fortunatamente foraggiati da un conoscente con una forma di formaggio e una mortadella; poi quando trovammo un paio di stanze presso un'amica di famiglia e i letti erano solo due, abbiamo dovuto adattarci in tutti i modi. Anche perché quando ci mettemmo insieme, unanimamente decidemmo di provare a "fare quartetto" in modo indipendente, senza essere legati al lavoro fisso dell'orchestra.
Quale molla vi ha stimolato, invece, in questi trentacinque anni?
Non vorremmo sembrare retorici. Ma pensiamo sia stato l'amore per la musica, la musica più bella in assoluto, scritta in questa forma: che se non è la più bella... e l'impegno di base, il successo che abbiamo avuto, che ci ha spinto a "fare" con sempre maggiore coscienza, ci ha permesso di vivere. La stima che ci ha sempre unito, nonostante le diversità di carattere di ognuno, i singoli casi personali e famigliari; e la coscienza immediata di lavorare a una cosa molto bella e che non valeva la pena di lasciare perdere, di troncare per un qualche capriccio, per qualche debolezza.
Eppure una grossa defezione c'è stata.
Quella di Piero Farulli, nostra viola per trent'anni. Tutto è iniziato un paio d'anni fa quando Farulli per ragioni di salute ci fece rinunciare a un'importante serie di concerti a Parigi. Dopo qualche mese, visto che non si ristabiliva, pensammo di chiedere provvisoriamente a Dino Asciolla di suonare con noi. accettò, assicurandoci che avrebbe spontaneamente lasciato il posto non appena Farulli fosse stato di nuovo in grado di riprendere l'attività. Ma Farulli si oppose subito e impedì il concerto previsto alla Scala, concerto che avrebbe dovuto essere annunciato non come "del" ma "per" il Quartetto Italiano. A questo punto ci siamo preoccupati, attraverso il suo medico di fiducia, di verificare l'effettivo stato di salute e le possibilità di ripresa. Avuta assicurazione che la convalescenza sarebbe stata più lunga del previsto, abbiamo nuovamente chiamato Asciolla (che s'era già discretamente ritirato dalla scena per non rendere ancor più difficile la delicata situazione; la mossa seguente fu una pesante azione legale di Farulli. E i nostri rapporti si chiusero così, in modo inaspettatamente duro.
Questo dissidio cosa ha significato per voi?
Soprattutto un episodio molto doloroso, al quale hanno aggiunto molta amarezza le polemiche passate e quelle presenti. Ancora un paio di mesi fa il critico di un quotidiano romano, parlando di una nostra esecuzione beethoveniana, ha scritto che, vista la cattiveria mostrata nei confronti di Farulli, non avremmo mai potuto essere dei buoni interpreti della musica di Beethoven.
Comunque quell'episodio è servito a farci conoscere a fondo Asciolla. Prima come uomo disponibile e onesto, poi come musicista.
L'inserzione di questa nuova cellula ci ha dato un vigore enorme. Tutto ciò che era stato dispiacere e delusione, si è tramutato in stimolo. Tra l'altro dal punto di vista esecutivo siamo stati costretti a rivedere molti pezzi oramai di repertorio, con il vantaggio di poterli studiare sotto una luce diversa, più matura e moderna.
Com'è la vita di un Quartetto così attivo?
Molto faticosa, perché si tratta di suonare parecchio. Oggi non facciamo più di 90-95 concerti all'anno, ma una volta arrivavamo fino a 140, e per guadagnare andavano bene anche tournée molto stancanti. Ora abbiamo rallentato: siamo esseri umani, non crociati. Suonare va bene, ma è giusto pensare anche un po' a se stessi.
Cosa significa per voi essere "impegnati"?
Ha significato a suo tempo rifiutare sovvenzioni statali per strumentisti, ottenibili solo in seguito a dichiarazioni non oneste, per esempio. Oggi significa "anche" non accettare, nonostante le pressanti richieste di veri amici, le offerte per suonare alla Società del Quartetto di Milano. Fu una decisione presa dopo l'oramai famosa gazzarra suscitata intorno alla lettura del documento pro-Vietnam di Pollini, che avevamo firmato coscientemente e che quindi abbiamo sentito nostro anche dopo. Ma in generale pensiamo (al di là delle singole posizioni ideologiche) che una persona che "serve" l'arte non può non sentire determinate esigenze, non può ritirarsi quando è il momento di appoggiare certe iniziative o di protestare per altre.
La nostra sensibilità deve significare anche coerenza e moralità: dobbiamo assolvere al dovere di interpreti, ma anche e soprattutto, a quello di persone serie.
Il vostro esempio che influenza ha avuto su altre formazioni strumentali?
Beh, è un'accusa che ci viene rivolta spesso: il fatto di non aver creato degli allievi. Ciò è vero, ma solo in parte. Non abbiamo mai dedicato molto tempo all'insegnamento del quartetto in sé, ma io insegno violino, Rossi invece musica d'assieme. Comunque abbiamo fatto qualche corso di perfezionamento per quartetto negli anni sessanta a Venezia: tra gli allievi c'erano Luigi Alberto Bianchi, Wilhelm Melcher (attuale primo violino del Quartetto Melos). Quest'estate abbiamo accettato l'invito di Città di Castello e lì insegneremo per un paio di settimane.
Il vostro rapporto con la musica moderna data dagli inizi, perché?
Come persone che vivono il loto tempo ci sembrava doveroso e coerente esser disponibili a quelle esperienze. Crediamo di aver tenuto fede a quell'impegno. Se oggi la eseguiamo meno è colpa del repertorio limitato. Abbiamo richiesto a molti compositori contemporanei, come a suo tempo avevamo fatto con Milhaud e altri, di scrivere qualcosa per noi, ma non tutti hanno risposto. Luigi nono ha terminato da poco un Quartetto, ma purtroppo lo ha dato in prima al Quartetto LaSalle, peccato. Stiamo però aspettando con curiosità il pezzo promessoci da Franco Donatoni.
E' cambiato qualcosa nel vostro modo di interpretare i classici, da trent'anni a questa parte?
Senza dubbio; sarebbe triste dover ammettere il contrario. Non solo perché - come dice qualcuno - abbiamo approfondito molto il repertorio moderno: questo fatto ha avuto la sua influenza, ma non così determinante. Direi che ci portiamo dietro ancora la lezione sempre valida di Furtwängler nell'esecuzione dei classici. Cioè l'interpretazione non come apollineità estetica e formale fine a se stessa, ma come vera rivelazione poetica e creativa della pagina scritta.
L'esempio del Quartetto Italiano rimarrà isolato?
Temiamo lo possa rimanere per un po' di tempo. Ma da parte nostra faremo tutto il possibile perché ciò non avvenga. Altrimenti la nostra esperienza rimarrà come un fiore spuntato chissà dove.
Eppure i giovani oggi amano la musica in modo particolare.
Sì, senz'altro, ma è la vera educazione musicale che manca. Quella scolastica soprattutto. anche se questo fenomeno del maggiore interesse dei giovani per la musica classica ha dimensioni veramente inaspettate; ed è evidente in modo enorme in Italia, come in nessun altro paese. Forse solo nelle università americane abbiamo trovato questo desiderio di musica tra i giovani. Questo è di per sé consolante e sarebbe doppiamente colpevole non indirizzarlo nella direzione migliore.
Insomma il Quartetto Italiano è una bella favola della musica di questa seconda metà del secolo?
Non so, non spetta a noi dirlo, ci siamo troppo dentro.
Ma fino a quando continuerà?
Biologicamente un quartetto finisce intorno ai 65-70 anni. E' una questione fisica, di cedimento strumentale e tecnico. Ma noi ci siamo logorati prima, già oggi siamo stanchi.
Cosa vi augurate quindi?
Di finire nel miglior modo possibile questa avventura.
E dopo?
Chi può dirlo. Quando si è dato per quasi tutta la vita, qualcosa si è dato. Non è mica poco.
Angelo Foletto
("Musica Viva", n. 3, marzo 1980, Anno IV)

sabato, ottobre 03, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (13/14)

L'essere non ha mai e in nessun modo un suo uguale.
L'essere è unico rispetto a ogni ente.
Martin HEIDEGGER, Grundbegriffe, II, 8
 
MUSICA, FILOSOFIA E I DILEMMI PRESENTI
Tredicesima parte.
 
Ludwig Wittgenstein (1889-1951)
E' noto un pensiero di Ludwig Wittgenstein databile al 1941: "Per un compositore, il contrappunto potrebbe essere un problema straordinariamente difficile. E cioè questo: in quale rapporto devo pormi con il contrappunto, io, con le mie inclinazioni?
Potrebbe trovare così un rapporto convenzionale e sentire tuttavia benissimo che non è il suo, che non è chiaro quale significato il contrappunto debba avere per lui".
Domanda decisiva. Il riferimento al contrappunto è quel che in retorica si chiama sineddoche: la parte per il tutto, e il tutto è naturalmente la musica, e più in generale l'arte. Il filosofo austriaco fa leva proprio sull'aspetto del comporre musicale in cui più risalta l'inventio, l'artificio ex novo, imprevedibile e frutto di lavoro, di opus, diversamente dal momento dell'ispirazione che sembra immergersi nella realtà preesistente, catturarne il nucleo e lasciarsi trasportare dalle sue onde in sintonia. Techne, ars e scientia insieme, non enthousiasmos. I corollari alla domanda di Wittgenstein sono dunque:
(a) l'invenzione musicale è realtà?
(b) Se è realtà, fa parte del reale in senso univoco o è un'altra realtà che prima non esisteva?
(c) Se per (b) vale la seconda ipotesi, le due realtà sono di ugual natura o esiste una differenza essenziale (un tempo si sarebbe detto: "ontologica") tra esse?
Risposte, se non sufficienti, almeno molto indicative sono offerte da altre pagine delle Vermischte Bemerkungen di Wittgenstein. In particolare, da un pensiero del 1938 sulle analogie tra musica e architettura. In esso l'autore del Tractatus logico-philosophicus, dalla cui personalità prendiamo le mosse poiché egli è forse il filosofo del Novecento che più ha parlato di musica, dichiara apertamente una delle sue fonti fondamentali: Arthur Schopenhauer, il filosofo che più ha parlato di musica nell'Ottocento. L'annotazione di Wittgenstein avverte: 'Confronta l'osservazione di Schopenhauer sulla musica universale come accompagnamento a un testo particolare". Il passo schopenhaueriano è il § 52, Zur Metaphysik der Musik (come alcuni editori, se non l'autore, lo hanno intitolato) nella seconda parte dell'opera maggiore, Die Welt als Wille und Vorstellung. Ne riferiamo l'itinerario, sollecitando i lettori a un dibattito sugli argomenti trattati, sia a proposito di questo paragrafo schopenhaueriano, sia per quanto riguarda tutto ciò che diremo in questa nostra puntata.
Si tratta del discorso fondamentale di Schopenhauer sul linguaggio musicale, fra innumerevoli altri passi di questo e di altri scritti in cui egli ne parla. La grande trattazione è preceduta, in ordine, da quelle sull'architettura, sulla scultura, sulla pittura e sulla poesia (a nessuno sfugge che questa vasta sezione del libro maestro di Schopenhauer è il controcanto critico alla parallela trattazione svolta nell'Aesthetik di Hegel), e già in quelle pagine precedenti emergeva un'opinione di fondo, valevole per le arti in generale: "La materia, in quanto tale, non può essere rappresentata da un'idea" (§ 43, inizio), in quanto l'idea è svincolata dal principio di causalità cui è soggetta la materia nel suo comportarsi. La musica è esaminata da Schopenhauer dopo le altre arti poiché essa "è staccata da tutte le altre. In essa non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo [è vero, questo? sarebbe bello discuterne, N.d.R.]; eppure essa è una così grande e sublime arte, così potentemente agisce sull'intimo dell'uomo, così appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua universale più limpida dello stesso mondo intuitivo [ ... ] Dal nostro punto di vista, dunque, dobbiamo riconoscere alla musica un significato ben più grave e profondo, che si riferisce alla più interiore essenza del mondo e del nostro io, rispetto alla quale le relazioni di numeri in cui la musica si lascia scomporre stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno significante. Che la musica debba stare al mondo, in un senso qualsiasi, come la rappresentazione sta al rappresentato, come l'immagine sta all'originale, lo deduciamo per analogia dalle altre arti, alle quali tutte appartiene questo carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa natura di quella della musica, solo che quest'ultima è più forte, più necessaria, più infallibile".
Che cosa significa "la musica rappresenta il mondo"? Rilanciamo la domanda ai lettori bene intenzionati a discuterne, già prima di procedere con le risposte di Schopenhauer. "Nei suoni più gravi dell'armonia, del basso fondamentale, io riconosco i gradi infimi della volontà che si sta interamente oggettivando, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da considerare nati dalle vibrazioni concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonare di questo suonano subito anch'essi, lievemente. E' legge dell'armonia accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti che insieme con essa già effettivamente risuonano nelle vibrazioni concomitanti (i suoi sons harmoniques). E' un fatto analogo a quello per cui tutti i corpi e organismi della natura devono essere considerati come sviluppati gradatamente dalla massa del pianeta". La volontà oggettivata e rappresentata dalla musica si esprime, continua Schopenhauer, nel "peregrinar lontano dal tono fondamentale, per mille vie, non solo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante settima e ai gradi eccedenti". Il rapporto della musica con la realtà si traduce, secondo Schopenhauer, in una formula perfetta nell'enunciato: "i concetti sono gli universalia post rem, mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re".
Da questo fondamento di pensiero sono formulabili tre questioni centrali, già adombrate dal citato pensiero di Wittgenstein:
1) Il compositore di musica aggiunge realtà alla realtà?
2) Se è così, da dove egli trae questa nuova realtà?
3) Se è così, la nuova realtà aggiunta come si intreccia, si organizza e si fonde con la realtà preesistente?
In riferimento ai dilemmi che il compositore contemporaneo incontra, le tre questioni possono tradursi in questi termini:
(a) Qual è il rapporto del compositore con i mezzi compositivi tradizionali? Va inteso come perenne ripensamento o come invenzione di nuovi linguaggi?
(b) Risorge l'antico problema: dov'è l'essenza della musica, il suo nucleo ontologico? Nel mondo o fuori del mondo? E di conseguenza, il mondo è una realtà unitaria o duplice?
(c) La musica ha una fisionomia oggettiva o il suo codice di significati è relativo? Alla discussione potrebbero giovare due enunciati filosofici, che scegliamo da due versanti culturali diversi: ancora Wittgenstein, ovvero il neopositivismo logico, e il pensiero di un filosofo cattolico del Novecento, Jean Guitton. Li sottoponiamo all'attenzione dei lettori.
Ludwig Wittgenstein, ancora da Vermischte Bemerkungen, 1931: "Le composizioni musicali devono avere carattere del tutto diverso e produrre un'impressione di genere del tutto diverso a seconda che siano composte al pianoforte, suonando il pianoforte, oppure pensate con la penna, oppure ancora composte solamente con l'orecchio interno. Io credo proprio che Bruckner abbia composto con l'orecchio interno e immaginando l'orchestra che suona, Brahms con la penna".
Jean Guitton, Un siècle, une vie, 1988. A proposito di Henri Bergson e di alcune sue considerazioni su una sonata di Beethoven: "Quando egli [Bergson] conosceva a fondo una sonata, affermava che chi è in grado di possederne una nella mente, nota per nota, la può godere tutta intera da cima a fondo. Si ha allora un'intuizione d'insieme che può essere istantanea, eppure il pezzo impiega quasi un'ora d'orologio a svilupparsi. Certe frasi musicali di Beethoven sarebbero potute essere diverse. Erano affidate alla libertà. Vi propongo questa immagine per illustrare quale sia il rapporto che si ha sempre tra l'eternità e la libertà. E' un problema che non so risolvere, e che sarà risolto interamente soltanto in Dio".
Così si aggiunge, ai dilemmi già esposti, un quarto, che nella valutazione della musica in fieri, e quindi nell'apprezzamento della musica che per ciascun uomo è, di volta in volta, "contemporanea", assume forza e urgenza particolarmente tormentose. La musica che è ed è stata, doveva essere? Dato il mondo, poteva Mozart non essere? Anche noi, come Bergson (e come Guitton che lo cita), non sappiamo rispondere, e saremmo felici se qualcuno lo facesse per noi.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 2, Febbraio 1991, Anno XV)