Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, marzo 24, 2022

Personale di Bussotti a Royan

La undicesima edizione del "Festival in
ternational d'art contemporaine" di Royan, svoltasi quest'anno nell'ultima settimana di marzo, ha accentuato ulteriormente alcuni indirizzi affermati già l'anno scorso dalla direzione artistica di Harry Halbreich. Nella grandiosa rassegna di musica contemporanea che si svolge nella cittadina atlantica gli autori e i componimenti non si incrociano più con la rapidità e l'eterogeneità che rendevano scarsamente profittevoli i festivals degli anni scorsi. L'arco informativo e la varietà delle proposte contenute in questa rassegna continuano ad essere assai vasti, ma emergono al tempo stesso tratti fisionomici ben precisi, destinati all'imprimersi nella memoria dell'ascoltatore anche non specializzato.
I tratti più personali di quest'ultima edizione confluivano sostanzialmente in due proposte: quella di attirare l'attenzione sui compositori più giovani e quella di proporre un'immagine monografica il più esauriente possibile di qualche compositore già solidamente affermato. Dalla schiera dei compositori più giovani, tutti inferiori ai trent'anni, sono emersi i nomi degli italiani Sandro Gorli e Giuseppe Sinopoli, dell'inglese Brian Ferneyhough e del francese Jaques Lenot. Sebbene nella sua musica non vi sia traccia di elementi spettacolari, l'inglese Brian Ferneyhough, attivo attualmente in Svizzera e in Germania, ha rappresentato una delle scoperte più sensazionali di questo festival. Il suo linguaggio è severo, sostanzioso e trasparente al tempo stesso; una sua "Missa brevis" per voci a cappella ascoltata in prima mondiale a Royan ci ha dato l'impressione di una magistrale capacità di scrittura e di una percezione sicurissima del risultato artistico. Ancora in prima esecuzione assoluta il bel "Konzert Gollum" di Sandro Gorli. Si tratta di un breve componimento per piccola orchestra da camera fondato sulla valorizzazione degli effetti timbrici e di uno stile rigorosamente deduttivo in cui le forme iniziali generano spontaneamente le proprie varianti, col quale il giovane allievo di Donatoni sembra voler conquistare brillantemente la propria emancipazione. Più accentuata, a causa di qualche anno in più e la conseguente maggiore esperienza, risultava l'indipendenza stilistica di Giuseppe Sinopoli, allievo anche lui di Donatoni. La sua sonata per pianoforte, presentata nel corso di un mirabile recital dalla pianista Kate Wittlich, ha rivelato ulteriormente il potente intelletto costruttivo del suo autore. Accanto alla precoce maturità di compositori come Ferneyhough e Sinopoli è apparso invece ancora un po' acerbo il talento del francese Jacques Lenot intento a distillare partiture assai raffinate, ma scarsamente originali. Tralasciando, come non si dovrebbe, gli altri interessanti momenti del festival vorremmo portare l'attenzione sul capitolo centrale della manifestazione che ha ricevuto il suo contributo più originale, anche su piani extramusicali, dalla vasta personale di Sylvano Bussotti.
La presenza del compositore fiorentino a questo festival ha avuto un significato che trascende la consueta cronaca musicale fatta di giudizi e di impressioni; Sylvano Bussotti ha infatti dimostrato di saper creare intorno alla sua attività e alla musica in genere un movimento di interessi che coinvolge un pubblico vasto ed eterogeneo attratto da molteplici sollecitazioni che si sono rivelate in ultima analisi differenti possibilità di accesso al fatto musicale vero e proprio. Il cerchio di isolamento che spesso delimita le manifestazioni della musica contemporanea è stato brillantemente rotto in più punti dalle molteplici sollecitazioni intellettuali che il compositore ha saputo creare. Questa specie di offensiva, condotta da Bussotti contro l'isolamento della musica nuova, si è della sua illustrazione. Di Bussotti sono stati svolta su due fronti: quello dell'opera e quello infatti eseguiti a Royan undici componimenti e l'autore ha illustrato l'intera sua opera in sei conferenze svolgendo un "Catalogo ragionato" arricchito e vivacizzato da frequenti citazioni di brani registrati. L'originalità di questa prospettiva storico-critica consiste non tanto nella completezza dell'informazione, che per quanto interessante resta sempre un fatto di compilazione, quanto nella cifra personalissimo che assume il concetto di riepilogazione nell'opera bussottiana. Ripercorrere l'opera di Bussotti non è un atto classificatorio, sia pur esteso ed approfondito dai ripensamenti critici, ma un procedimento attivo e costruttivo in cui i dati singoli si lasciano carpire significati nuovi svelando essenze mutevoli e contradditorie. L'opera e la personalità di Bussotti si potrebbero definire un sistema di contraddizioni in continua espansione in cui l'elemento contraddittorio rappresenta l'aspetto formale e quello sistematico la struttura portante. L'insieme delle relazioni e dei nessi, studiosamente occultato dalle cangianti apparizioni formali, può essere colto solo nel suo complesso: volerlo cogliere in un momento singolo significa inibirsi ogni possibilità di comprensione. Con un classico metodo progressivo il comporre di Bussotti dà luogo a strutture concentriche in cui episodi successivi si sommano, si elidono, si scindono o si accumulano con grande libertà realizzando una molteplicità di prospettive che analizzate complessivamente appaiono assai simili a proiezioni successive di un medesimo progetto. Intendere nella loro globalità le divaricazioni stilistiche del linguaggio di Bussotti non significa tuttavia cercare di attribuirvi un denominatore comune; l'elemento unificatore non è infatti di ordine stilistico, esso risiede piuttosto nel progetto umano di Bussotti che di volta in volta si sostanzia in un'opera.
Abbiamo insistito sull'elemento con cui appare nell'opera e nelle dichiarazioni poetiche di Bussotti, ma anche per una specie di immanenza sistematica all'interno dell'opera assai simile ad una costante metodologica. Nella poetica di Bussotti la contraddizione assume frequentemente la forma del paradosso il cui obbiettivo, si indovina facilmente, è quello di mantenere intorno all'opera una tensione particolare. Il paradosso e le infinite variazioni della contraddizione si dispongono quindi, secondo la dichiarazione dello stesso Bussotti, in un'unica prospettiva che è quella dell'Occultamento dell'opera. Ogni elemento esoterico, ogni carattere iniziatico, il ricorso sistematico a complessi sistemi di crittografie, l'uso frequentissimo di simboli sono tante difese che Bussotti erige intorno all'opera "per difenderla dal meccanismo degradante della fruizione". Se la fruizione di qualsiasi opera implica inevitabilmente un logorio della medesima, esistono però i due atteggiamenti della pigrizia intellettuale e della superficialità che insidiano ben più profondamente i contenuti dell'opera. Difese esoteriche come l'astrusità dei simboli, l'aspetto misterioso ed allettante dei segni, le formule enigmatiche sostituiscono baluardi impenetrabili alla pigrizia e alla superficialità e al tempo stesso preamboli etici al raggiungimento del dato estetico. Si tratta palesemente dell'etica del lavoro serio, dello sforzo a cui segue l'autentica comprensione e tale invito rivolto al lettore per un attento ed impegnativo lavoro di penetrazione si rispecchia nell'opera nel minuzioso lavoro artigianale di Bussotti. Nulla quindi sarebbe più improprio di una accusa di complicazione gratuita rivolta a queste partiture realizzate con la scrupolosità e la devozione di un geniale amanuense. Questo fitto scambio di segni fra momenti etici ed estetici pone capo ad un rovesciamento sistematico dei termini linguistici e storici per cui la conservazione si muta in progresso e il soggettivismo autobiografico con le sue punte di narcisismo si rovescia in rispecchiamento oggettivo. Il rifiuto della storia e della contemporaneità, asserito più volte da Bussotti, non è fuga dalla storia mediante il ricorso all'estetismo, ma difesa dei valori che attraverso la storia si sono realizzati. A intendere come quella dell'estetismo bussottiano sia una cifra morale gioverà tenere presente che esso è innanzi tutto una difesa del soggetto contro il meccanismo pianificante della storia. All'interno della storia si ritaglia la teoria dei momenti soggettivi a cui sono affidate le realizzazioni della civiltà. La lotta contro la contemporaneità è infatti secondo Bussotti "Difesa dei contenuti morali che la storia ha realizzato attraverso l'attività estetica".
L'estetismo inteso come l'asserzione più piena ed armoniosa del soggetto induce al culto dell'autobiografismo, si traduce in una vocazione al potenziamento dell'io, in una espansione del soggetto che è ricerca di libertà e smascheramento degli aspetti degradanti del falso progresso espresso dalla fruizione, dalla comprensione facile canalizzata dagli schemi del mercantilismo verso un progresso ambiguo ed inautentico. L'affermazione dell'autobiografismo, dissimulato dalle varie tecniche dell'occultamento del1'opera, appare a questo punto il presupposto della "ratio compositiva" bussottiana, ma per intenderne le articolazioni occorre tener presente che esso si esplica con una fitta alternanza di piani prospettici. Si tratta sostanzialmente dell'alternanza e talvolta perfino dalla sovrapposizione di un piano autobiografico ed emozionale con un piano critico, riflessivo ed ironico. La lettura dei dati biografii avviene attraverso una specie di "Zum" per cui dalla apparizione momentanea di primi piani si passa rapidamente alla dissolvenza dei medesimi. L'opera nel suo procedere appare simile ad una sequenza di immagini registrate da un obbiettivo mobilissimo che avvicina, allontana, accumula, sovrappone, e dissolve. In questa sua articolazione filmica l'opera tende a farsi totale coinvolgendo tecniche ed espedienti di ogni genere, mescolando linguaggi arcaici e modernissimi immagini eterogenee, sbiadite o lampanti, miriadi di citazioni polverizzate e decontestualizzate, simili ormai a detriti.
Questo in breve e succintamente sistematizzato il senso delle fluviali ore narrative in cui si è svolta 1'autobiografia royanese di Bussotti; una parte degli incontri è stata invece dedicata alla illustrazione dei componimenti più recenti, in particolare di quel Syro Sadum Settimino che ha avuto a Royan la prima esecuzione assoluta.
Diremo anche che gli undici componimenti di Bussotti eseguiti a Royan coprivano un arco di tempo dal 1957 al 1973. La rassegna, aperta cronologicamente da "Breve" e "Due voci", componimenti per onde Martenot e voce del 1957-58, proseguiva con "Lettura di Braibanti" e "Manifesto per Kalinowski", entrambi del 1959. Era poi la volta del pianistico "Pour Clavier" del 1961, dell'organistico "Julio organum Julii" e della "Passion selon Sade" che sono rispettivamente del 1968 e del 1965. Le opere più recenti erano invece rappresentate dalla Suite tratta dal "Lorenzaccio", dalla pianistica "Novelletta" e dai recentissimi "Bergkrystall" e "Settimino". Scritti espressamente per il teatro, "Bergkrystall" e "Settimino": un balletto il primo e un'operina monodanza il secondo, sono stati eseguiti quasi unicamente in forma strumentale. "Bergkrystall", la cui prima esecuzione ebbe luogo ad Amburgo nel 1973 sotto la direzione di Bruno Maderna, è stato ripreso a Royan ancora nella forma strumentale in un concerto dell'orchestra filarmonica dell'O.R.T.F. diretta da Giampiero Taverna. Nella sua forma strumentale il componimento appare assai simile ad un poema sinfonico per grande orchestra. Il successo ottenuto dall'esecuzione royanese sottolinea la bellezza dell'opera che è tutta percorsa da una maestosa drammaticità realizzata con straordinaria pienezza del suono orchestrale compatto e assai vario al tempo stesso. La drammaticità della partitura contrasta alquanto con l'argomento tratto da una novella dello scrittore boemo Adalbert Stifter.
Il "Bergkrystall" (Cristallo di rocca) di Stifter è infatti un racconto di ispirazione fantastica conforme allo spirito della narrativa ottocentesca nordica in cui il didascalismo della favola e il meraviglioso si dispongono in una prospettiva infantile, luogo privilegiato delle epifanie surrealistiche. Bussotti ritiene che l'accostamento di questa semplice favola ad una partitura tanto impegnativa e drammatica possa dar luogo ad una modificazione dell'orizzonte della favola modificando la struttura e il contenuto del balletto medesimo. E' quanto si può constatare vedendo realizzato il balletto, per ora possiamo solo ribadire l'autonomia della bella partitura (1).
Alquanto meno autonomo ci è invece apparso il "Syro Sadum Settimino" privato della realizzazione scenica. Il titolo completo del lavoro è: Syro Sadun Settimino o "Il trionfo della grande Eugenia", operina monodanza in un atto di notte, poema di Dacia Maraini, altre parole e musica di Sylvano Bussotti. Non tanto per il gusto di sciogliere anagrammi e acrostici, quanto per quello di mostrare come le cifre autobiografiche vengano nell'atto stesso di essere pronunciate, occultate da Bussotti, diremo che la parola Syro consta della somma delle iniziali dei nomi dell'autore e di due suoi amici: Sy(lvano) - Ro(mano), e Sadun è tale e quale il nome del pittore Piero Sadun a cui è dedicato uno dei pezzi vocali dell'opera (2).
La definizione di Settimino allude poi all'organico strumentale: il medesimo della strawinskyana "Histoire du soldat", precisa Bussotti.
Il sottotitoli esplicativo "Il trionfo della grande Eugenia" introduce invece l'argomento dell'opera. La "Grande Eugene", un piccolo cabaret parigino portato a rapida notorietà dall'abile conduzione del coreografo e pittore Franz Salieri, è il centro ideale della vicenda; in questo locale notturno frequentato da travestiti si ritrova infatti il protagonista la cui storia viene rievocata partendo dalla nascita prematura: di sette mesi appunto. Una irrefrenabile vocazione per la danza contrastata dalla famiglia desiderosa di un avvenire professionale più austero, quello della magistratura, si manifesta prestissimo nel giovane settimino. Il conflitto fra vocazione e coercizione paterna trascende la sfera professionale coinvolgendo la fragile struttura psichica del giovane che, sopraffatto e disgustato dalla virile brutalità del padre asseconda la sua propensione verso la più delicata natura femminile diventando danzatore e omosessuale. Questa in sintesi la trama della pregevole escursione poetica di Dacia Maraini spaziante dai toni lievi di un erotismo pieno di delicatezze floreali ritmate dalle immagini della danza a quelli più cupi di un realismo fosco e brutale. Tralasciando l'elemento coreografico qui non ancora realizzato, osserviamo che la materia narrativa è distribuita in sette parti recitate, Dettati secondo la definizione, incise su nastro con varie sovrapposizioni per cui la comprensione del testo si fa molto lieve. Alla voce di Sylvano Bussotti che esegue i dettati sono interpolate lunghe sequenze solistiche del clarinetto che ha nell'economia generale dell'opera una parte di grande rilievo. Le parti rigorosamente musicali dell'opera si dividono in vocali e strumentali: l'organico vocale si compone di un coro di 12 voci (3 soprani, 3 contralti, 3 tenori e 3 bassi) e quello strumentale di clarinetto, fagotto, tromba, trombone, violino, contrabbasso e due percussionisti dei quali il secondo usa anche il pianoforte.
E' il dettato primo ad aprire il componimento con una ampia monodia del clarinetto sulla quale si inserisce la voce recitante; subentrando poi uno ad uno tutti gli strumenti dell'orchestra che per brevissimi tratti si radunano anche insieme, lasciando però al clarinetto il compito di concludere il dettato. Dissoltosi impercettibilmente il primo capitolo narrativo subentrano alcune pagine vocali che svolgono polifonicamente il titolo e le epigrafi dedicatorie dell'opera. L'uso polifonico che Bussotti fa del coro è molto duttile, infatti esso si contrae e si espande di volta in volta dallo spiegamento massimo in cui sono utilizzate tutte le dodici voci e i gruppi di soprani, contralti, tenori e bassi sono divisi in tre parti, fino ad episodi di assoluta concentrazione in cui la tessitura vocale è assottigliata fino a due voci immobilizzate in una sequenza da cantus firmus. Sul piano stilistico ed espressivo la polifonia vocale bussottiana è quella che abbiamo imparato a conoscere attraverso il "Rara Requiem" e il "Lorenzaccio"; occorre però precisare che la scrittura vocale del Settimino è orientata verso una definizione sempre più rigorosa dello stile a cappella che con la sua classica severità sembra allontanarsi dalle moderne esperienze vocali tutte più o meno orientate verso una dimensione informale propizia alla pura sperimentazione fonica. Parlare di analogie formali col linguaggio del mottetto e del madrigale significherebbe cedere ad un allettamento puramente esteriore, ché non basta la scrittura a 4 voci, il ricorso alle forme imitative o a brillanti effetti madrigalistici, specialmente nel consonantismo, a definire stilisticamente la citazione bussottiana. Tali citazioni si limitano semmai a delineare in maniera allusiva l'aura irripetibile, il sapore di un evento perduto, disponibile soltanto a repentine epifanie soggettive della memoria. Interiorizzato ed articolato come una "Erlebnis soggettiva", il momento vocale arcaico non è una citazione erudita o un calco formale in cui deporre i materiali di un'immaginazione avara; esso appare piuttosto un rischio, un incontro inopinato, un impatto casuale tra la storia e la coscienza.
L'epigrafe del titolo si svolge sulle parole Syro - Sadun - Settimino in una tessitura a 6 voci maschili sostenute da un accentuato disegno percussivo, ma è nel successivo episodio Syro che il coro dispiega le sue 12 voci. Dopo la sua entrata scandita ancora sulle parole Syro - Sadun - Settimino la compagine corale si contrae in 4 parti non più divise sulla parola Romano scandita lentamente da un disegno circolare assai simile a quello conclusivo del Rara Requiem. Di straordinario effetto è in questa straordinaria sequenza vocale il contrappunto ritmico realizzato dalla percussione che viene a costituire una specie di fondale scenico al disegno vocale aggiungendovi una dimensione di corporea opacità. Resta ancora da segnalare in questo bell'episodio vocale un breve tratto in contrappunto fiorito in cui si incrociano i melismi tessuti sui due nomi Sylvano e Romano. Segue il dettato secondo in cui la vicenda del settimino è colta all'età di quattro anni. Assai esteso è l'episodio successivo dedicato all'amico Piero Sadun dal quale prende il nome; la forma è nuovamente quella del coro a cappella ed il testo non è più fornito esclusivamente dalle sillabe del nome. Accanto ad una maggiore articolazione del testo incontriamo anche delle pure sequenze vocaliche e perfino un episodio statico a due voci, molto simile, nel tono di lezione, ad un cantus firmus, ricco di echi e di risonanze interne ottenute con la mutazione vocalica.
Al dettato terzo, che ci presenta il protagonista all'età di otto anni, segue l'Entrata in cui si alternano e si mescolano le parti vocali e quelle strumentali. L'intero episodio è caratterizzato da un allentamento progressivo della tensione ritmica; l'iniziale "Prestissimo, impetuoso", dopo un'alternanza di parti vocali e strumentali, rallenta progressivamente fino a raggiungere nel finale un incedere lentissimo su cui si stagia sempre più lucido il disegno strumentale. I dettati quarto e quinto radunati insieme introducono il Settimino che è un vasto episodio puramente strumentale dalla scrittura molto trasparente dominata da effetti solistici atti a far risaltare le proprietà timbriche degli strumenti. Gli effetti percussivi molto ricercati, i volumi sonori dissolti in una scrittura quasi puntillistica, improvvise rarefazioni e silenzi che calano sulla trama strumentale, sequenze lievissime, sfiorate, appena percettibili - ad un tratto l'indicazione di Bussotti sulla partitura dice: "Tutti sfiorando appena gli strumenti con il minimo di sonorità udibile! Ogni singolo esecutore suonerà così piano da udirsi appena in se stesso!!" -  sono, per quanto raffinati, gli elementi consueti del comporre bussottiano. Il Settimino ha però un finale lento "Sempre rallentando, sciogliendo, dividendo il tempo" che sarebbe tutto da citare per la sua forza espressiva. Le sonorità guizzanti della parte precedente si radunano in blocchi che scivolano lentamente gli uni sugli altri disegnando le loro scie sui fondali della percussione vibranti come echi sotto i colpi amplificatori dei gongs, del vibrafono e delle corde del pianoforte. Dopo il dettato sesto, concluso dalla stessa monodia del clarinetto che aveva aperto il componimento, abbiamo col Settimino Variato il secondo vasto episodio strumentale. La scrittura sostanzialmente libera dell'episodio precedente si è fatta qui più rigorosa a causa della forma variata, ma anche più densa. Non mancano anche qui episodi di carattere solistico, ma sono alquanto più contenuti; la tessitura piuttosto fitta consente poche eccezioni. Emancipandosi dal ruolo percussivo il pianoforte diviene quasi una struttura portante sulla quale si stagliano con efficace contrasto effetti solitari dei vari strumenti percussivi.
Le voci gravi del contrabbasso e del fagotto svolgono interessanti ruoli monodici e gli ottoni suonano spesso in sordina per ottenere una sonorità equilibrata, di tipo cameristico. Particolarmente esteso è il dettato settimo, estrema, in cui termina di essere rievocata la vicenda del settimino. L'estensione di questi dettati, in nessun modo riconducibile a quella di didascalie, la loro apparizione ritmata opportunamente, come a spaziare gli episodi vocali e strumentali col respiro narrativo, li rende piuttosto simili ad una successione di pezzi chiusi. La Chiusa ripete l'Entrata con simmetrismo barocco; nella ripresa conclusiva l'episodio è però condotto solo vocalmente, senza interventi strumentali riaffermando quindi il geometrismo labirintico su cui si svolge l'intero schema dell'opera.
Enzo Restagno
("Rassegna Musicale Curci", anno XXVII, n. 2 agosto 1974)

(1) L'innesto drammatico sul limpido orizzonte della favola, tende a mostrare che questo orizzonte non è poi tanto limpido e che la felicitas restaurativa implicita nell'operazione analoga svolta da Strawinsky operando sul mondo della favola ciaikovskiana (Le baiser de la fée) resta un commosso e acritico omaggio al favoloso mondo di Ciaikovski. Non a caso, parlando di Bergkrystall, Bussotti accenna ad un possibile omaggio a Ciaikovski e non a caso la partitura è animata da una pienezza di suono e da una drammaticità bergiane. Se l'omaggio al mondo della tavola e alle proiezioni coreografiche ciaikovskiane ha da esserci, sarà un omaggio critico, una rilettura drammatica ed inquietante in cui di quell'orizzonte saranno indagate le ombre e i riflessi cupamente simbolici.

(2) Sylvano Bussotti sarebbe certo indignato del malcostume implicito in una spiegazione così esplicita e avrebbe certamente ragione; ché ascoltando attentamente le parti vocali dell'opera, questi nomi lo spettatore potrebbe intenderli intonati chiaramente dal coro. Altrettanto si dovrebbe dire per il testo che è reso intenzionalmente poco comprensibile dalla tecnica della registrazione in vari play-back. Si tratta di un invito esplicito ad una attenta lettura,

domenica, marzo 13, 2022

La radio come colonna sonora

L'importanza del mezzo radiotelevisivo nella diffusione della musica è un fatto di tale importanza, ormai, da meritare di essere approfondito e seguito. Nell'iniziare un nuovo settore-rubrica della nostra rivista, che riteniamo stimolante e che pensiamo possa diventare utile tribuna per discussioni e giudizi e inchieste, sottoponiamo ai nostri lettori un saggio di Cesare Cavallotti, che fu il contributo italiano alla "Revue de l'UER", numero speciale, "La Radio aujourd'hui", sull'importanza della diffusione radiofonica della musica: "La radio come colonna sonora".

Scriveva profeticamente, nel diciassettesimo secolo, Comenius: verrà un'epoca nella quale l'uomo inventerà degli strumenti che consentiranno agli amici di parlarsi a distanze superiori alle mille miglia. Parlarsi, questo era importante, comunicare il pensiero e gli affetti, dialogare, perché nella parola sta il mezzo espressivo più profondo e più totale dell'uomo moderno, vorremmo dire anche il più naturale e il più popolare.
Ma, l'uomo, oggi, alla radio non vuol sentir parlare, così almeno si dice un po' ovunque, ed è vero. Forse perché questo uomo moderno è irrequieto, ansioso, insofferente di ascoltare con un minimo di attenzione, indifferente a quello che pensano gli altri? Il fenomeno è molto complesso e le ragioni e le cause di esso sono molteplici e di differente natura. Non entreremo con processo genetico ad esaminare questo strano atteggiamento dell'ascoltatore, ma una domanda ce la vogliamo porre: la radio stessa non ha facilitato questa evoluzione (o involuzione)? Prima di cercare di rispondere alla domanda desidero precisare che il fenomeno radiofonico è qui inteso nella sua generalità, nella fisionomia che dà il mosaico, senza voler esaminare le singole radio nei diversi paesi che fra loro sono diverse e anche profondamente diverse. E' un po' come quando si parla di inglesi, di italiani, di francesi, quali i singoli popoli fossero omogenei, mentre è chiaro che nello stesso popolo si trovano differenze notevoli ed anche posizioni contrastanti.
La radio, nata dopo la prima guerra mondiale, in un periodo che oggi possiamo considerare di trapasso, ma che fu sicuramente un periodo di forti contrasti sociali, ideologici e politici, si è presentata agli uomini come generatrice di innocente stupore, di candido miracolo, in cui le sue incipienti e scarse possibilità di espressione tentavano di organizzare rumori, musica e parole.
L'ascolto limitato e spesso disturbato, la rete unica, indifferenziata, in cui la qualificazione dei singoli programmi si esauriva nel genere originario del programma stesso, l'inesperienza e l'entusiasmo dei programmatori, creavano una atmosfera di febbricitante e felice esperimento, di iniziazione ad un rito che doveva ancora inserirsi in un sistema organizzato. Inutile pretendere fin d'allora le inchieste, le impostazioni cicliche, le tecniche moderne dei programmi parlati. Non furono errori, ma semplicemente esperimenti necessari.
Successivamente in Europa si instaurarono le dittature e nacquero le prime inquietanti previsioni di un nuovo conflitto. La radio che stava progredendo tecnicamente, ampliando le sue possibilità di ascolto, organizzandosi autonomamente con complessi musicali e di prosa, fu invasa dalla strumentalizzazione: la radio spesso non servì i veri interessi generali e attuali degli ascoltatori, ma diventò un mezzo di propaganda che asserviva la tecnica della programmazione ai bisogni dei governi. Si parlava, si parlava, si parlava ma non si conversava, non si instituiva quello strano dialogo radiofonico, in cui chi parla al microfono più che imporre un suo punto di vista, suscita un problema nell'ascoltatore e lo lascia vivere nella più ampia libertà.
Scoppio la Seconda Guerra Mondiale e la radio diventò, in tutto il mondo, troppo spesso una fucina di demagogia, una cascata di retorica, un diluvio di propaganda. Qui, naturalmente, oltre alla differenza tra i diversi organismi radiofonici, è da sottolineare che le statistiche generiche dei programmi parlati ci illuminerebbero relativamente. Infatti, una conversazione trasmessa alle ore 13 o alle ore 20 (quando ci sono milioni di persone in ascolto) non può essere sommata ad un'a1tra, di uguale durata, ma trasmessa alle 7 o alle 23.
La prima caratterizza una radio, l'altra vive ai margini di essa.
Terminata la guerra si incominciò a lavorare sistematicamente, a studiare profondamente e tecnicamente la programmazione delle trasmissioni parlate: e i successi non mancarono, come non mancarono neppure gli errori, fatali, d'altra parte, a chiunque operi.
A questo punto due fatti importanti accaddero: la istituzione di un Terzo Programma - cosiddetto culturale, di alta cultura - e la nascita della Televisione. Al Terzo Programma - che peraltro ha avuto grandissimi meriti - si credette nell'efficacia, se non al successo, di conversazioni monologanti di 30 e anche 45 minuti, mentre noi pensiamo - forse con il senno del poi - che sia i contenuti, sia per l'oscuro linguaggio scientifico o critico o filosofico, sia per la durata, queste conversazioni di forma saggistica accentuarono la stanchezza degli ascoltatori nei confronti del genere parlato.
La televisione, invece, forte dell'esperienza radiofonica, dell'evoluzione in atto nel campo giornalistico e letterario, con l'efficacia massiccia e rapida dell'immagine - che ha certamente sul piano divulgativo e popolare un contenuto emozionale molto forte - strinse i tempi dei programmi parlati, rifiutò il monologo, frantumò le conversazioni in interviste e dibattiti e, per un processo di flusso e riflusso riversò sulla radio le sue esperienze.
Ma senza voler sopravvalutare, né sottovalutare nessuna concausa noi ci poniamo una domanda, forse con un po' di candore: prima, durante, dopo la guerra e le dittature, nei campi dove la politica e la propaganda non influivano, la radio come si è comportata? Il giudizio non è facile: innanzi tutto la deformazione professionale, quando riesce ad impossessarsi di un uomo o di un gruppo di uomini, si riflette sull'intera loro attività. Ai nostri fini è, comunque, da rilevare che qualsiasi argomento doveva accordarsi o, comunque, non contraddire, direttamente o indirettamente, i principi ideologici dominanti. E nacque forzatamente come rifugio e protesta una specie di ermetismo radiofonico, analogo a quello letterario che possiamo, a questo punto, accomunare nelle loro cause. E' vero, od è soltanto una fallace impressione a posteriori, che alla radio si parlava a volte e spesso accademicamente e conformisticamente, si inseguivano discutibili problemi che nascevano artificiosamente da una classe cosiddetta intellettuale, ma sradicata dall'autentica vita sociale? Non si dimenticava - proprio dimenticare, per stortura mentale - la concretezza, sempre esplosiva, dei vari problemi generali, di natura religiosa, storica, scientifica, economica, a livello medio e popolare, come si addice ad un mezzo di comunicazione di massa, quale la radio? Non si è stati eccessivamente cauti nell'evitare le polemiche, le opinioni contrastanti e la insopprimibile problematicità del pensiero dell'uomo? Quante volte ci è accaduto di notare come un conversatore, parlando con noi prima della trasmissione, si dimostrasse comprensivo, gentile, affabile e appena si metteva davanti al microfono si trasformasse in Mosè che scandisce le leggi!
E la musica, che cosa è accaduto alla musica dalla nascita della radio fino ai giorni nostri? E' stato il suo trionfo continuo, progressivo, fino alla pienezza, in ogni genere, in tutte le espressioni, dalle più tradizionali a quelle delle successive avanguardie. Nel campo organizzativo-artistico, poi, si costituirono quelle formidabili e ormai famose orchestre che oggi sono l'orgoglio dei singoli paesi e, in alcuni casi, danno un non indifferente contributo alla vita musicale della nazione cui appartengono. Perché questo meraviglioso ed esaltante successo? Anche qui le ragioni sono molte - alcune di evidenza lapalissiana, come ad esempio la congenialità della musica al mezzo radiofonico - ma noi ci limitiamo a sottolineare che la musica ha delle caratteristiche semantiche particolari, che le permettono di avanzare, progredire, diffondersi, sciamare ovunque, sempre, anche durante le guerre, le rivoluzioni, le dittature ed uscirne intatta come una vestale. Nei periodi di crisi della democrazia - per gli europei, lunghi, lunghissimi periodi di crisi - la musica fece gioco a tutti, ai governanti e ai governati, ai primi come equivoco di un'attività libera, educatrice, artistica e come riempitivo innocuo alla faziosa attività politica, ai secondi come rifugio e alimento al tormentato desiderio di libertà.
Ma in così grandioso e consolatorio trionfo dell'arte musicale, troviamo, ben in vista, la medaglia sulla quale sta scritto «Gli ascoltatori non vogliono sentir parlare» e sul rovescio «Gli ascoltatori vogliono canzoni». E' la stessa medaglia, per gran parte la stessa mentalità, è un unico fenomeno che, pur differenziandosi parzialmente nelle cause più prossime, ha le stesse remote e profonde radici culturali. Chi legge Shakespeare, Dante, Goethe, Molière ascolta anche le canzoni, ma chi pasce il proprio mondo interiore e l'ansia di assoluto con i fumetti, ricerca e ascolta solo musica leggera. Ed è anche un grande equivoco sociale e radiofonico identificare la ricreazione con la canzone, mentre il concetto di ricreazione sarebbe da dilatare verso il più ampio mondo degli interessi, perché anche la ricreazione soddisfa un interesse, ma gli interessi non si esauriscono, né totalmente, né parzialmente, in una particolare ricreazione. C'è da aggiungere, pur alzando il tono del discorso, che nell'uomo l'interesse estetico non è né l'unico, né il primo: esso convive con l'interesse morale, economico, sociale e ogni altro interesse che, nel loro assieme, costituiscono la struttura dello spirito.
Ci pare di aver chiarificato per sommi capi, e per quel che ci riguarda, alcuni aspetti del processo dell'evoluzione radiofonica, dal suo nascere fino al sorgere della televisione.
E' stato un processo che ha portato violentemente, anche se naturalmente, la radio verso le espressioni musicali, sia dal punto di vista della programmazione, sia dal punto di vista dell'ascolto, in un reciproco movimento di causa ed effetto, malgrado alla radio sia congeniale tanto la musica quanto la parola. Ci resta da vedere, ora, la principale trasformazione che ha subito la radio con l'avvento del mezzo televisivo.
La metamorfosi che ci interessa porre in luce è questa, la televisione ha indotto la radio ad una profonda revisione dei "generi" parlati, spettacolari, teatrali. Inoltre, alla radio si sono verificate delle modifiche non solo nella quantità, ma anche nella qualità del suo pubblico.
Per quanto riguarda i generi - come già abbiamo accennato - alcuni sono stati contratti, altri ancora modificati nelle loro strutture espressive, con un ritmo di programmazione più veloce, più agile, più scorrevole. Da principio la radio desiderava esprimere tutta la realtà, e, con l'entusiasmo del neofita, ha creduto, per un certo tempo, ad un'arte nuova, poiché, si diceva, la radio offre il mezzo di una nuova espressione e di un nuovo spazio, lo spazio radiofonico. In questa passione del tutto e del nuovo, la radio ha fruttuosamente sperimentato se stessa nelle sue possibilità, ed è andata ai limiti delle sue possibilità, come nella realizzazione di certi testi teatrali di prosa.
Ma proprio il teatro - e qui non vogliamo aprire una discussione su tale annosa questione con la relativa citazione aristotelica d'obbligo - ha dimostrato la sua scarsa congenialità con la radio.
E' obiettiva e condivisa opinione che tra il teatro di prosa e la radio ci sia una specie di incompatibilità e tutti gli sforzi che sono stati fatti, né pochi né piccoli, non hanno fruttato quella messe di opere valide che era nelle speranze di tutti.
La televisione è intervenuta involontariamente, con la sua sola presenza, a sciogliere drasticamente difficoltà, ad annullare sforzi, costringendo la radio a ridimensionare gli spazi dedicati al teatro di prosa e in genere ai programmi così detti parlati. Si vennero a creare così negli schemi di programmazione degli spazi vuoti che furono colmati da programmi musicali, così che l'evoluzione del fenomeno radiofonico si avviò a grandi passi verso la forma della colonna sonora, colonna musicale.
E' da rilevare, inoltre che questa trasformazione si sia verificata contemporaneamente al grande sviluppo dell'industria discografica, delle radioline a transistor, alla galoppante moda dei festivals di musica leggera e di altre manifestazioni collaterali che hanno disseminato la musica, tutta, ma in particolare quella leggera, in tutti gli strati sociali, a livello delle diverse culture.
Così che mentre la radio accentuava il numero delle sue trasmissioni musicali, il pubblico esprimeva le sue preferenze proprio verso questo genere di programmi. Nulla di male. E' da considerare un'evoluzione naturale e non c'è volontà inventiva che possa correggere questo nuovo indirizzo che porta l'antica radio, con tutti i suoi generi e le sue forme, a costituirsi come colonna musicale inframezzata da notiziari.
La domanda che ci poniamo noi, è questa: è già, oggi, il momento di questa completa trasformazione, è da accelerare il moto di questa evoluzione?
Noi rispondiamo di no e per due motivi. Il primo è che la radio ha ancora milioni e milioni di ascoltatori che non posseggono l'apparecchio televisivo, quindi, i fini che presiedono all'istituto radiofonico non possono essere assorbiti da quello televisivo, ritenendo per valida la complementarietà dei due mezzi di comunicazione di massa. Ci sono ancora migliaia di persone, di cittadini per i quali la radio è ancora oggi l'unico legame con la società, il portavoce dei loro interessi e degli interessi degli altri uomini.
Nell'ambito di questo primo motivo, c'è un'altra osservazione da fare: la televisione, almeno in Europa, ha pochi canali e non trasmette lungo tutto l'arco della giornata. Questa condizione di esistenza della televisione, lascia alla radio una larga strada da percorrere con tutta la ricchezza delle sue espressioni più congeniali.
Il secondo motivo è che il pubblico dei radioascoltatori è qualitativamente cambiato. Mentre in un primo tempo la radio fu un acquisto di lusso, oggi i non abbienti posseggono il televisore e la radio rappresenta una conquista soltanto per i poveri. I nuovi abbonati li troviamo tra la gente socialmente meno provveduta.
E' chiaro che la conseguenza non è che la radio debba diventare una radio populista o popolaresca, ma essa deve tener realmente presente, nel cercare i suoi contenuti e le sue espressioni, questi cittadini culturalmente modesti, poveri di interessi. E devono essere tenuti doverosamente presenti non solo perché anch'essi sono dei probabili ascoltatori o perché ne sono la maggioranza, ma perché da un punto di vista sociale sono cittadini che hanno gli stessi diritti degli altri e che hanno in particolare il diritto di essere preparati a inserirsi in una vita a più alto livello. E' per raggiungere questo fine che la radio non può ancora trasformarsi in colonna musicale, scaricando ed esaurendo le sue funzioni attraverso l'espressione musicale, alla quale nessuno nega una forza educatrice, liberatrice e consolatoria.
Ma questa radio moderna, di oggi, come deve comportarsi? Noi riteniamo che, senza essere dei perfezionisti, la radio debba applicare un principio che, d'altra parte non è una scoperta, anzi ci si è sempre rifatti ad essa, più o meno rigorosamente, ma che noi riteniamo debba essere adottato come vero principio metodologico della programmazione radiofonica.
La radio deve storicizzarsi, scegliendo i contenuti tra gli interessi generali dell'uomo, dell'uomo così com'è oggi e a livello dell'attualità.
Storicizzarsi, nel senso che la radio come strumento di comunicazione di massa deve porsi sul piano storico e su questo piano ridimensionarsi continuamente, inserendosi nel moto dell'evoluzione sociale. Da questa posizione storica, e, quindi, anche di ricerca cauta e incessante dell'ultima realtà, cioè, da una posizione di avanguardia, noi dobbiamo porci come espressione autonoma e coordinata con le altre voci del tempo presente, con gli altri istituti della società. Perché una radio distaccata, oggettivata, che poi diventa forzatamente accademica, è un non senso, sarebbe una inutile radio qualunquista.
In questo senso la radio deve storicizzare anche i suoi fini - che anche essi nella loro continuità sono mobili, com'è mobile la storia - e per raggiungere questi fini essa deve riproporsi incessantemente la verifica nei suoi limiti, delle sue possibilità, dei suoi strumenti e del loro uso, dei suoi giudizi di valore e delle mutazioni del suo pubblico.
Una radio storicizzata trova i suggerimenti del suo comportamento nell'ascoltare le voci della civiltà. Se questi suggerimenti ascolteremo, percepiremo anche le novità che sorgono inavvertitamente da impulsi lontani, come di lontano e inavvertitamente si spengono quelle che ieri furono novità. E tutto questo non vuol dire "attualizzare" la radio, ma relativizzarla, razionalizzarla e anche "attualizzarla", ma con prospettive e intenti storici. Anche la cronaca è attuale, ma la cronaca prospettata sullo schermo della storia è un'altra cosa. Entro questa dimensione deve inserirsi la tradizione, che non sarà più un passato, ma un presente storicizzato.
D'altra parte, gli interessi generali dell'uomo nella loro concretezza, non sono altro che le componenti, le strutture, la stoffa - come usa dire oggi - la stoffa del singolo e della società. Cioè, in altre parole, questa radio si mobilita e mobilita gli ascoltatori, per interpretare ed esprimere la condizione fondamentale dell'uomo, inserendosi come termine dialogizzante dell'uomo stesso. La radio nel trattare questi interessi generali, si pone, quindi, come espressione di vita, perché trova la sua ispirazione più vera e affascinante negli autentici, concreti e profondi palpiti della vita dell'uomo moderno. E tutto questo sarà realizzato con un linguaggio che sia comprensibile non all'uomo di media cultura, ma all'uomo medio.
Oggi, o almeno ancora oggi, la radio è, con i suoi milioni di ascoltatori, un formidabile motore che mette in circolazione delle idee, che stimola e aiuta a trasformare il gusto, che può recuperare e scuotere gli indifferenti, che aiuta a vivere coloro che stanno nella solitudine materiale o spirituale, che scopre alle coscienze interessi e valori, che espone e dibatte le grandi correnti del pensiero e le grandi passioni dell'uomo.
Cesare Cavallotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXII, n. 1 marzo 1969)

domenica, marzo 06, 2022

Carpi: Festival Internazionale di Musica Vocale da Camera 1985

FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MUSICA VOCALE DA CAMERA
Carpi - settembre/ottobre 1985

LE RAGIONI DI UN FESTIVAL
Il Festival Internazionale di Musica Vocale da Camera è alla sua seconda edizione. Quanti anni devono passare dall'avvio di una iniziativa per poterne valutare e confermare appieno la riuscita?
Certamente altri ancora, intanto però è legittimo darne una valutazione positiva, per il favore con cui è stato accolto dalla critica e dal pubblico e per la conferma che ha dato ad alcune ipotesi fatte in sede di programmazione di politica culturale.
In primo luogo: è vero che Carpi, in sintonia con le linee regionali, può individuare e selezionare una propria specializzazione, assumendosi una funzione attiva che porti la città oltre gli ambiti tradizionalmente occupati, sia dal punto di vista culturale che territoriale, e la inserisca in un contesto che, col tempo, può configurarsi come internazionale.
In secondo luogo: è vero che esiste uno spazio non abbastanza esplorato, il Lied che, con la sua raffinata offerta di musica e poesia, può attrarre un pubblico sempre più vasto e vario verso nuovi e originali interessi culturali.
Non si tratta quindi di un esperimento a rischio, ma di una iniziativa che può contare su di un retroterra di sensibilità e curiosità, consolidatosi sulle numerose attività promosse dall'Ente Pubblico, dai Circoli Culturali e da gruppi organizzati.
E' un metodo di lavoro che configura una proposta articolata e organica di intervento, integrando il festival nell'immediato, con i seminari di interpretazione vocale e di musicologia e prefigurando, a medio termine, una specificità di Carpi non solo nella musica e nel canto cameristici ma anche nell'opera, senza limitarsi all'ambito della presentazione ma intervenendo nella produzione.
Accanto alla consistenza e alla crescita del numero di cittadini che vanno a teatro per sentire musica, cresce lo spessore qualitativo dell’offerta delle Pubbliche Istituzioni; o meglio: i due fenomeni si rafforzano in modo reciproco.
Anche quest'anno è da annoverare l'attiva collaborazione dell'ATER cui si è affiancata quella del Teatro Comunale di Bologna; la Regione Emilia-Romagna ha concesso il suo patrocinio.
L’impegno richiesto nell'ideazione e nella realizzazione pratica merita il dovuto riconoscimento a tutti coloro che hanno contribuito, nell'ambito delle loro competenze, al risultato finale; l'apprezzamento si estende alla sensibilità delle aziende private che hanno corrisposto con interventi di sponsorizzazione.
La direzione artistica è affidata alla indiscussa competenza del Dott. Prof. Erik Werba al quale va un grato ringraziamento per il contributo di idee e di esperienza.
L'ASSESSORE AGLI ISTITUTI CULTURALI
Dott. Giliola Pivetti


CONCERTI - Teatro Comunale

Domenica 15 settembre 1985, ore 21,15
Christa Ludwig, mezzosoprano
Erik Werba, pianoforte
Musiche di: Brahms, Liszt, Mahler, Strauss, Debussy

Mercoledì 18 settembre 1985, ore 21,15
Concerto degli Allievi del Seminario "A. Barbi"
Musiche di: Mozart, Brahms

Sabato 21 settembre 1985, ore 21,15
Daniela Uccello, soprano
Rannveig Braga, mezzosoprano
Karl Markus, tenore
Maurizio Quaremba, direttore
Orchestra da Camera del Teatro Comunale di Carpi
Musiche di: Bach, Haendel, D. Scarlatti (nel tricentenario della nascita)

Mercoledì 25 settembre 1985, ore 21,15
Teresa Berganza, mezzosoprano
Juan Antonio Alvarez Parejo, pianoforte
Musiche di: Haydn, Musorgskij, Fauré, Respighi, Braga

Sabato 28 settembre 1985, ore 21,15
Claudio Desderi, baritono
Michele Campanella, pianoforte
Musiche di: Schubert ("Die Schöne Müllerin")

Martedì 1 ottobre 1985, ore 21,15
David James, controtenore
Iain Ledingham, clavicembalo
Musiche di: Bassani, Caccini, Frescobaldi, Haendel, Rossi, D. Scarlatti, Vivaldi

Mercoledì 9 ottobre 1985, ore 21,15
Nicolai Gedda, tenore
Erik Werba, pianoforte
Musiche di: Caikovskij, Glinka, Alfvén, Sibelius, Grieg, Musorgskij

Giovedì 17 ottobre, ore 21,15
Milva, voce
Beppe Moraschi, pianoforte
Musiche su testi di Brecht di: Weill, Eisler

INCONTRI-AUDIZIONI - Ridotto del Teatro

Domenica 15 settembre 1985, ore 17,30
Un mirabile autunno per il lied romantico
Guido Salvetti

Sabato 28 settembre 1985, ore 17,30
F. Schubert: "Die Schöne Müllerin" (La bella molinara)
Angelo Foletto

Martedì 1 ottobre 1985, ore 17,30
Canzonetta sull'aria...: intorno alla cantata barocca
Piero Mioli

Mercoledì 9 ottobre 1985, ore 17,30
Nazione e Musica nazionale dell'ottocento
Luigi Pestalozza

Giovedì 17 ottobre 1985, ore 17,30
Brecht e la musica
Paolo Petazzi

SEMINARI - Istituto Musicale "A. Tonelli"

1/18 settembre 1985
Corso di perfezionamento e di interpretazione vocale "A. Barbi"
per cantanti e pianisti accompagnatori
Docente: Ada Zapperi Zucker
Assistenti: Haruko Tanaka (pianista accompagnatrice, Gabriella Borghetto (ascolti guidati)

5 settembre / 13 ottobre 1985
"I Lieder di Johannes Brahms"
seminario musicologico
Docente: Guido Salvetti
Assistenti: Luigi di Fronzo, Donatella Gulli
in collaborazione con il Conservatorio "G. Verdi" di Milano


Informazioni
Direzione Artistica: Erik Werba
Commissione Artistica: Ada Zapperi Zucker, Valerio Tura, Tiziana Cattini, Antonio Martinelli, Andrea Talmelli
Coordinamento: Tiziana Cattini
Coordinamento immagine grafica: Alberto Cova
Foto: Giancarlo Salami
Collaborazioni: Gabriella Borghetto, Stefano Pivetti
Segreteria e pubbliche relazioni: Loredana Severi, Francesca Kovacic, Gabriella Tondelli
Informazioni:
Teatro Comunale di Carpi - Piazza Martiri, tel. 059/693266
Assessorato agli Istituti Culturali - Viale Carducci, tel. 059/690374