Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, dicembre 24, 2020

Natale in musica, dalle pastorali al jazz...

A Natale Cosa ascoltiamo? Il solito Oratorio di Natale di Bach, il Concerto "per la Notte di Natale" di Corelli, oppure anche questa volta cercheremo di inoltrarci in territori meno esplorati?
Se state leggendo queste righe è ovvio che la risposta è la seconda. Scordiamoci quindi Bach, Corelli, Torelli, Manfredini, Berlioz, Saint-Säens e tutti quegli autori che, bene o male, fanno parte del nostro bagaglio musicale natalizio.
Le pastorali natalizie sono una tradizione musicale tipicamente italiana, sviluppatasi a livello popolare nell’Italia del sud, particolarmente in Calabria, nel Corso del Medio Evo, per poi diffondersi progressivarnente in tutta Europa. Canzoni pastorali che celebravano la nascita del Redentore usate nel corso di messe in scena della natività o come intermezzi nel corso delle funzioni natalizie.
Credo che il miglior esempio di questa commistione tra sacro e profano, popolare e colto sia incarnato dalle Cantate dedicate al tempo dell’Avvento dal veneziano Cristofaro Caresana, attivo a Napoli tra il l660 circa e la rnorte avvenuta nel 1709. Le cantate L'Adoratione de' Maggi e La Veglia rappresentano perfettamente la teatralità e le simbologie del presepe popolare partenopeo, nel quale personaggi favolistici e in parte pagani corne Belfagor (generalmente incarnato dall’oste) la Re Magia si inseriscono nella tradizione cristiana dei Vangeli Apocrifi.
La musica di Caresana, approdato a Napoli probabilmente al seguito del gruppo "I Febi Arminici", che portavano in giro per l’Italia dell'epoca il teatro musicale veneziano, fonde insieme con estrema sapienza compositiva tutte le conoscenze del compositore: dalla scuola veneziana conserva, ad esempio, la tecnica dei due cori, dalla musica popolare mutua ritmi e linee melodiche, infine da quella napoletana l'impostazione drammatica.
Passando le Alpi ci spostiamo in Germania dove, come ben sappiamo, la tradizione degli oratori natalizi è ben radicata nella liturgia avventizia protestante. Bach, Telemann, Graupner, Graun, il periodo barocco e classico sono ricchissimi di musica commissionata dalle istituzioni religiose ed espressamente concepita per essere eseguita anche con la partecipazione dell’assemblea dei fedeli nel corso di "interminabili" funzioni religiose.
Heinrich von Herzogenberg nasce a Graz in seno a una famiglia aristocratica di origine francese nel 1843. Dapprima wagneriano convinto, con il progressivo approfondimento degli studi bachiani si converte e diventa uno strenuo sostenitore della tradizione musicale classica e in particolare di Johannes Brahms. Quando nel 1872 si trasferisce a Lipsia entra in contatto con il musicologo e biografo bachiano Philipp Spitta, con il quale fonda il Bach Verein di Lipsia nel 1874. Il legame tra le due famiglie è talmente stretto che, dopo la morte di Philipp, Herzogenberg comincia a dedicarsi alla musica sacra sotto l’influsso del fratello teologo Friederich Spitta. Tra queste opere sacre realizzate per la Thomaskirche di Strasburgo spicca Die Geburt Christi op. 96, un piccolo oratorio di natale che si contraddistingue per la snellezza della partitura (l'organico è composto da quintetto d’archi, un oboe e un organo, coro a 4 voci miste e 6 solisti di canto). Eseguita la sera della terza domenica d'avvento del 1894 sotto la direzione dello stesso autore, Die Gebust Christi intreccia sapientemente echi bachiani e armonie tardo-ottocentesche creando una narrazione musicale piacevole ma non superficiale, devota ma non penitenziale.
Se ci spostiamo a Est raggiungendo la Boemia incontriamo una tradizione musicale molto simile a quella italiana, ma più diffusa e meglio strutturata. La Boemia è terra di agricoltori e pastori, ma sin dal 1700 la musica è parte integrante della preparazione scolastica nelle città rurali, favorendo la possibilità di elevazione sociale dei giovani "campagnoli". Jakub Jan Ryba nasce nel 1765 ed è figlio di un insegnate, organista e compositore. Nel 1780, nonostante il talento dimostrato, è solo grazie allo zio Jan Vanicek che Ryba si trasferisce a Praga, ma pochi anni dopo il richiamo dell’insegnamento lo riporta a Nepomuk, dove ha passato parte dell’infanzia con la famiglia. Nel 1788, ormai in carica nella cittadina di Rozmital, Ryba Compone una Missa Pastoralis che, mescolando i testi latino e ceco con la vitalità melodica della musica popolare boema, si avvicina quanto mai fatto prima al pubblico dei credenti. Il passo successivo, nel 1796, è la Messa di Natale Ceca. Qui Ryba abbandona completamente il latino per ricostruire, pur seguendo la classica successione della messa tradizionale, una natività di grande gioia ed esuberanza. Nel Kyrie i pastori si interrogano sugli strani fenomeni celesti a cui stanno assistendo, nel Credo si muovono verso Betlemme seguendo la stella cometa, nel Gloria finalmente le voci angeliche annunciano la nascita del Redentore cui i pastori rendono omaggio gioioso nell'Offertorium.
Attraversiamo la Manica per approdare in Gran Bretagna, dove la tradizione delle Carole di Natale è profondamente radicata e diffusa. La prima apparizione di canti espressamente natalizi risale al 1426 a opera di un pastore dello Shropshire, che raccoglie 25 canti popolari che con ogni probabilità venivano eseguiti porta a porta da gruppi di wassails. Il wassailing è una tipica tradizione delle terre anglosassoni in cui, in cambio di doni, gruppi di persone visitano i vicini per augurare salute e fortuna cantando e offrendo da bere da una coppa comune denominata wassail bowl.
Ralph Vaughan Williams è, come la maggior parte dei musicisti inglesi, cresciuto cantando in famiglia carole natalizie. La sua passione però è tale che spenderà molto del suo tempo a scoprire e collezionare canti popolari che, nel 1928, troveranno la loro destinazione "scientifica" nell’Oxford Book of Carols. Le due composizioni più ampie e complesse sul tema del Natale sono: On Christmas Night, eseguito per la prima volta nel dicembre 1926 a Chicago dal Bolm Ballet e The First Nowell, andata in scena postuma il 19 dicembre 1958 al Drury Lane Theatre di Londra.
On Chrismas Night è un balletto tratto dal Racconto di Natale di Dickens la cui ispirazione musicale è quasi completamente basata su due delle più celebri carole della tradizione: God rest you merry e The first Nowell, cui si aggiunge verso la conclusione The Cherry Tree Carol, la preferita in assoluto di Vaughan Williams! The First Nowell è un progetto forse ancora più ambizioso, comprendente due parti vocali (un baritono e un soprano), una parte corale, una piccola orchestra e otto parti recitate. Purtroppo la morte coglie Vaughan Williams prima della fine del lavoro, il 26 agosto del 1956, ma fortunatamente al momento della scomparsa ha già orchestrato oltre 2/3 della composizione, lasciandosi alle spalle la scelta delle musiche da usarsi per i numeri restanti e una orchestrazione di massima che verrà portata a termine dall’amico Roy Douglas, il quale si premurerà di sottolineare in partitura quali parti non sono originali di Vaughan Williams, in modo da evitare che il più celebre compositore e amico potesse essere biasimato per le manchevolezze delle parti non originali.
Un breve salto al di là dello stagno, come dicono i britannici, e ci ritroviamo negli Stati Uniti.
Dave Brubeck, uno dei più importanti pianisti jazz del secolo scorso, nasce a Concord nell’area della baia di S. Francisco, figlio di un allevatore di bestiame. Entrato all’università per studiare scienze veterinarie, viene alla fine convinto dall’insegnante di zoologia a trasferirsi presso la facoltà di musica, dove le sue doti di compositore fanno quasi scalpore, se contrapposte alla sua totale incapacità di leggere la musica a prima vista. Nel 1951, a causa di un incidente di nuoto che gli danneggia la sezione cervicale della colonna vertebrale, deve modificare il suo modo di suonare rinunciando alla velocità e al virtuosismo per sviluppare uno stile distintivo basato su complessi movimenti accordali. Nel 1996 entra in studio di registrazione per incidere su etichetta Telarc una serie di arrangiamenti di brani natalizi per pianoforte solo, secondo le note di copertina, esattamente come in una normale giornata natalizia Brubeck è solito fare per i suoi ospiti. Il risultato è un disco di grande intimità, volutamente imperfetto, che offre alcuni dei brani più celebri della tradizione natalizia (Silent Night, Away in a Manger, O Tannenbaum, Winter Wonderland) in arrangiamenti dallo swing delicato e dall’armonizzazione immaginativa, capaci di ricreare col solo suono l’effetto del vortice di neve agitato in una piccola palla natalizia.
Riccardo Cassani
("Musica", n. 312, Dicembre 2019 / Gennaio 2020)

venerdì, dicembre 11, 2020

Robert Fripp & Brian Eno: No Pussyfooting...

Dopo il primo album dei Roxy Music, Brian Eno decise di prendersi una salutare pausa dalle frenetiche attività con il gruppo per provare qualcosa di nuovo.
I primi concerti estivi in Inghilterra, le interviste, i fan acclamanti erano parte del gioco, un piccolo assaggio di celebrità, qualcosa di affascinate e persino rinvigorente per un giovane creativo, certo, ma tutto ciò rischiava di trasformarsi anche in una pericolosa routine. Era tempo di cambiare direzione “senza esitazioni”...
Sin dai tempi della scuola d’arte prima a Ipswich e poi a Winchester, Eno era sempre rimasto profondamente incuriosito dalle potenzialità dei registratori, dispositivi che non richiedevano una capacità specifica per essere utilizzati o “suonati”, diversamente da uno strumento musicale per esempio, ma permettevano di ottenere risultati efficaci senza particolari tecniche.
L’essere dichiaratamente Non musicista fu per lui un vantaggio a favore della creatività.
Al tempo personalità come John Cage, Terry Riley e soprattutto Steve Reich avevano inoltre dimostrato che era possibile creare musica in modo diverso, immaginando la composizione come un processo nel quale il suono ha il potenziale per essere concepito come musica.
Proprio Reich nel 1968 aveva pubblicato Music as a Gradual Process, un saggio che contribuì a diffondere tali idee.
Seguendo questa filosofia operativa tipica della Phase Music di Reich e più in generale del Minimalismo, Eno aveva sperimentato una tecnica simile a quella che nel 1963 Terry Riley denominò Time Lag Accumulator (accumulatore di ritardo) e nel settembre del 1972 invitò l’amico Robert Fripp nel suo studio casalingo a Londra nel quartiere di Maida Vale per testarne le potenzialità.
Un po’ come per l’organo elettrico di Riley in A Rainbow In Curved Air (1969), il suono della chitarra di Fripp, inciso e inviato a un registratore a bobina Revox, passava direttamente a un altro registratore riproducendolo immediatamente e rimandando il segnale al primo, generando di conseguenza un effetto di continua sovrapposizione e stratificazione sonora.
Da queste prove spontanee nacque una lunga composizione che Fripp battezzò provvisoriamente The Trascendental Music Corporation, poi cambiata in The Heavenly Music Corporation, “per non sembrare troppo seriosi”, pensò Eno.
Questo primo esperimento nella sua estrema semplicità, rappresentò un ottimo esempio di artigianato musicale realizzato da una “Piccola unità mobile e indipendente”, come direbbe Mr.Fripp. Due tracce, una Gibson e due semplici Revox, nient’altro per ventuno minuti di musica lenta, brulicante e riflessiva, il primo seme di quella che sarebbe presto diventata la musica Ambient e la vera e propria genesi dei Frippertronics.
Dopo aver completato il brano, nel dicembre del 1972 Brian partì per gli Stati Uniti con i Roxy Music per una lunga serie di date.
Il 1973 fu un anno di grandi cambiamenti, dopo un ulteriore album (e conseguente travagliato tour di supporto), il 21 luglio del 1973, Eno lasciò il gruppo e ritornò al vecchio progetto con Fripp.
Finalmente, quasi un anno dopo, i due si ritrovarono, questa volta ai Command Studio in Piccadilly Street per lavorare a nuovo materiale per il secondo lato del possibile long playing, ora, il “Non musicista” aveva portato con se anche l’inseparabile sintetizzatore VCS3 per manipolare le trame sonore del Re Cremisi.
Le idee non tardarono ad arrivare e neanche i metodi cambiarono più di tanto… 
Una volta registrata un’ulteriore traccia estesa, i due si spostarono agli Air Studios di George Martin per il mixaggio finale.
Proprio qui, sul pavimento della sala di registrazione, Eno trovò per puro caso la fotografia di una ragazza intenta a fare il saluto nazista proveniente con tutta probabilità da una rivista pornografica, decise di raccoglierla e di incollarla al mixer. Da questo curioso aneddoto nacque Swastika Girl, il titolo per il secondo brano del disco.
No Pussyfooting fu pubblicato per la Island Records nel novembre del 1973.
Come prevedibile, la risposta della critica più “mainstream” si dimostrò piuttosto tiepida e intermittente.
Sicuramente, i fan più incalliti dei Roxy Music si aspettavano qualcosa che suonasse più o meno come i Roxy Music ovviamente, mentre, l’etichetta non lo considerava esattamente come “l’esordio ideale per un artista appena uscito da un gruppo pop. “Mai fare previsioni quando l’artista è Brian Eno”, questo fu solo l’inizio di un lungo mantra...
Tra curiosità e diffidenza però, Eno e Fripp avevano dalla loro parte una buona fetta di ascoltatori curiosi, disposti ad accogliere qualcosa di diverso, lontano dalle consuetudini.
Tra di loro c’era sicuramente l’indimenticabile e mitica voce di Top Gear John Peel. Brian raccontò che poco dopo l’uscita del disco, aveva inviato alla Bbc una copia di No Pussyfooting su nastro, invece che la consueta copia in vinile.
Mentre era all’ascolto della radio, si rese conto che inavvertitamente stavano trasmettendo proprio un brano del suo disco completamente al contrario, così cercò di avvertirli per telefono ma fu davvero molto difficile convincerli dell’errore, così, mezz’ora dopo, anche l’altro lato fu suonato al contrario…
Questo simpatico “incidente” è testimoniato anche nella versione rimasterizzata di No Pussyfooting pubblicata nel 2008, che contiene oltre ai brani originali, proprio quelle leggendarie versioni al contrario trasmesse da Peel, del resto sappiamo molto bene che in realtà l’errore è un’intuizione nascosta, come insegnano le Strategie Oblique quindi forse la svista di John è stata solo un colpo di genio!
La collaborazione tra Fripp ed Eno, continuata poi con Evening Star nel 1975 (un’ulteriore evoluzione delle idee di No Pussyfooting) e infine con The Equatorial Stars nel 2005, ha insomma rappresentato un primissimo passo verso la musica generativa e soprattutto l’Ambient music di Discreet Music e Music For Airports dimostrando che in fondo si può percepire e ascoltare la musica in modo diverso: “come fosse parte dell’atmosfera, dell’ambiente, così come il colore della luce e il suono della pioggia”(Brian Eno)
Marco Calloni (per Minima Musicalia)
(Per approfondire: "Before and after Eno. Una biografia di Brian Eno", Meridiano Zero, 2015)

sabato, dicembre 05, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia in 14 puntate

QUIRINO PRINCIPE
Musica e filosofia
(Riepilogo delle 14 puntate)


Musica e filosofia - Prima parte (1/14)
La filosofia è giudice di un'epoca; brutto segno quando essa ne è invece l'espressione. (Hugo von Hofmannsthal)
"Musica Viva", n.1, Gennaio 1990, Anno XIV

La musica e le immagini del mondo - Seconda parte (2/14)
Une conscience musicale est toujours en situation: elle appartient à un certain milieu, à une certaine époque, et se trouve informée par une certaine culture. (Ernest Ansermet)
"Musica Viva", n.2, Febbraio 1990, Anno XIV

Gli dèi, temendo la morte, si rifugiarono nei metri della poesia. Ma anche là li rintracciò la morte. Allora gli dèi si rifugiarono nel suono, e il suono primordiale è la sillaba OM, l'immortale e senza paura. (Chandogya Upanishad, I, 4, 1-3)
"Musica Viva", n.3, Marzo 1990, Anno XIV

Musica e astrazione - Quarta parte (4/14)
Due tradizioni musicali tra loro opposte: l'islamica e quella cinese.
"Musica Viva", n.4, Aprile 1990, Anno XIV

"Musica Viva", n.5, Maggio 1990, Anno XIV

Dov'è la musica? - Sesta parte (6/14)
Un'atmosfera leggera e gradevole a respirarsi avvolgeva quel paese. Aure deliziose, spirando miti, agitavano la selva, sì che dai rami scossi veniva una musica incantevole e ininterrotta, simile a quella dei flauti obliqui sonanti nella solitudine. (Luciano di Samosata, Storia vera, II, 5)
Secondo il filosofema o mito greco, nell'identità dell'Unico si scatena una guerra, uno scisma, una divisione, e si polarizzano una tesi e un'antitesi. In conseguenza di questo scisma, nel to theion la tesi diventa nomoso legge, e l'antitesi diventa idea. (Samuel Taylor Coleridge, On the Prometheus of Aeschylus)
"Musica Viva", n.6, Giugno 1990, Anno XIV

Musica e spazio - Settima parte (7/14)
Perché tutti godono del ritmo, del canto, e in generale della musica? Non è forse perché noi godiamo per natura dei moti conformi a natura? Lo dimostra il fatto che ne godono i bambini appena nati. (Aristotele, Problemi di musica, 921 a.)
"Musica Viva", n.7, Luglio 1990, Anno XIV

Die Sonne tönt, nach alter Weise, in Brudersphären Wettgesang... (Il sole suona, all'antica maniera, nel canto a gara di sfere sorelle...) (Johann Wolfgang Goethe, Faust)
"Musica Viva", n.8/9, Agosto/Settembre 1990, Anno XIV

La musica al vertice del mondo - Nona parte (9/14)
Non è la non-musica che forma il musicista, bensì la Musica; la musica che rientra nell'ambito sensibile è sempre prodotta dalla Musica che la precede. (Plotino, Enneadi, V, 8, 1)
"Musica Viva", n.10, Ottobre 1990, Anno XIV

Il primo consiglio di Circe è di non lasciarsi irretire dalle Sirene, dalla loro voce che imprigiona con gli incantesimi... Io solo posso udirla. (Odissea, XII, 158-160)
"Musica Viva", n.11, Novembre 1990, Anno XIV

Nel canto e nell'accordo lirico di tutta la gamma dei sentimenti si riversano la volontà e la pura intuizione, mirabilmente l'una all'altra miste. Di tutta questa disposizione d'animo, così mista e divisa, l'espressione è il canto puro. (Arthur Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vortellung, I, 3, 28)
"Musica Viva", n.12, Dicembre 1990, Anno XIV

Musica e modelli interiori - Dodicesima parte (12/14)
Man weicht der Welt nicht sicherer aus als durch die Kunst, und man verknüpft sich nicht sicherer mit ihr als durch die Kunst. (Non c'è via più sicura per evadere dal mondo, che l'arte, non c'è legame con il mondo più sicuro dell'arte. (Johann Wolfgang von Goethe)
"Musica Viva", n.1, Gennaio 1991, Anno XV

Musica, filosofia e i dilemmi presenti - Tredicesima parte (13/14)
L'essere non ha mai e in nessun modo un suo uguale. L'essere è unico rispetto a ogni ente. (Martin Heidegger, Grundbegriffe, II, 8)
"Musica Viva", n.2, Febbraio 1991, Anno XV

Musica senza filosofia - Quattordicesima (ed ultima) parte (14/14)
I Quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina.
Tutte le opere hanno questo carattere di "cosa"... Ma che cosa sarebbero senza di esso?
Martin Heidegger, Holzwege, I, 1
"Musica Viva", n.3, Marzo 1991, Anno XV


sabato, novembre 28, 2020

Il Garibaldi dei direttori d'orchestra

Pomeriggio festivo ad Arona. Un battello 
è in partenza per Verbania. Perché non concedersi una breve gita sul lago? Non molta gente a bordo, per lo più persone anziane in vacanza sul posto. Un bel vegliardo sugli ottanta, ma ancora gagliardo e diritto, ricorda G. B. Shaw nell'aspetto, ma G. B. Shaw è ormai morto da lustri e poi, questo signore, non è forestiero, è di queste parti, in vena di chiacchiere e d'una loquacità alla fine simpatica. E', come si dice, un attaccabottoni. Mi prende il braccio e leva l'altra mano a indicarmi una villetta affondata nel verde nel tratto di Meina e: "Vede quella villa? Sì, quella con la gradinata e quella specie di torretta a fianco...! Oh, niente di straordinario come costruzione, bisogna riconoscerlo   Dirle esattamente a chi appartenga, oggi non saprei. Sa, qui da noi, è continuo acquistare, vendere, comprare, affittare, tanto han da fare i notai   Ma lasciamo! Un tempo, cinquanta, forse sessant'anni fa, allora ero giovane anch'io, lì abitava un grande musicista, un vero musicista ed altrettanto valente direttore d'orchestra, con tutto il rispetto dovuto a Toscanini".
Dicendo questo, il vecchietto mi prende il braccio come per sorprendermi: "Ha mai sentito parlare di Luigi Mancinelli?" Di Luigi Mancinelli conosco molte cose, non tutti gli aneddoti che il mio compagno di viaggio di un’ora si mette a raccontarmi e che ascolto con compiacimento.
Altri tempi, altri modi di far musica o, forse, altra fede nella musica, E allora perché non ricordare questo sincero musicista, questo direttore d'orchestra che ebbe il suo glorioso quarto d’ora di celebrità, tanto più che quest'anno ricorre il cinquantenario della morte?
Luigi Mancinelli vide la luce il 5 febbraio 1848, in pieno Risorgimento, alla vigilia delle fatidiche Cinque Giornate milanesi, nella silenziosa Orvieto. Silenziosa e tranquilla la sua città natale, ma non il ragazzino Mancinelli che, irrequieto, scompariva di casa per avventurose esplorazioni nei dintorni, a scapito dello studio; aveva però assai precocemente manifestato la sua vocazione per quell'arte a cui, un tempo si sarebbe detto, la musa Polimnia presiede. La musica, insomma. Ma la famiglia tenne nascosto quel fanciullo prodigio, si sognava di fare di lui tutt'altro che un musicista dal futuro incerto. Altre idee correvano allora per quanto si riferiva all'avvenire dei figli. Il più fiero oppositore, il piccolo Luigi lo trovò nel padre che, sembra, avrebbe voluto fare del figlio un onorato commerciante. Ma com'era possibile che il giovinetto frenasse in sé quella furia artistica impetuosa che gli si agitava dentro? Guidato o, suo malgrado, protetto dai lampeggiamenti di un sicuro talento, Luigi Mancinelli, quattordicenne appena, abbandonò la casa paterna. Quasi il prologo di un romanzo.
Comunque, per i favori che il "destino", a volte, elargisce a taluni, egli ebbe presto modo di inserirsi nel mondo musicale italiano dell'ultimo quarto di secolo. Ed in questo mondo rappresentativo che nessuno può cancellare, rimane figura poliedrica che gode perlomeno di tre sfaccettature interessanti, e nessuna di esse cede di fronte all'altra.
In seguito ai suoi inizi burrascosi e non senza vicissitudini, il Mancinelli era riuscito ad ottenere un posto di violoncellista al teatro "La Pergola" di Firenze e, subito dopo, a soli ventun anni viene scritturato in qualità di primo violoncellista al "Morlacchi" di Perugia e, vedi la fortuna! sostituto dell’allora popolarissimo direttore d’orchestra e compositore Emilio Usiglio, il celebre autore di "Le Educande di Sorrento", opera replicatissima nei teatri d'opera italiani sul finire del secolo. E vedi altra fortuna! Il Mancinelli venne invitato al podio a sostituire il titolare, impedito, in una occasione, da una crisi "bacchica" (crisi alla quale andava sovente soggetto), a dirigere l'"Aida" che mandava in delirio le platee. Quella sera, al "Morlacchi", si trovava l'editore Giulio Ricordi, che fu preso e coinvolto dall'entusiasmo degli spettatori verso quel giovane direttore d'orchestra chiamato all'ultimo momento. Giulio Ricordi, si diceva, per certe cose aveva il fiuto di un cane di razza. Intuisce le doti di Mancinelli e lo impone a Jacovacci, allora direttore del teatro "Apollo" di Roma. Si tratta senza indugio di scritturare il neo direttore d’orchestra di Perugia, per affidargli la direzione della prima romana della stessa "Aida". Questo avviene puntualmente ed il Mancinelli verrà ben presto conteso dai maggiori teatri lirici del mondo.
Costretto a vivere in mezzo agli spartiti, il Mancinelli, curioso di ogni nuovo avvenimento musicale, s'innamora, come dire? del sinfonismo wagneriano. Colpito dal misticismo infuocato dell’autore di "Lohengrin" e della "Tetralogia", egli diventerà il massimo cultore wagneriano in Italia. Fu infatti il Mancinelli che, con la fondazione della Società del Quartetto a Bologna, ebbe modo di far conoscere in anteprima alcuni brani del "Parsifal". Audace impresa la sua mettere in contatto la dura anima carducciana con l'"aquila" di Lipsia. E si deve al Mancinelli se il Carducci scrisse quell'ode in onore di Wagner dai roboanti versi: "Quando Wagner possente / mille anime intona / ai cantanti metalli..." E’ rimasta poi, famosa, negli annali del teatro lirico, la sera del 3 aprile 1880, sempre al romano teatro "Apollo", la direzione da lui condotta con giovanile ed impetuoso ardore del "Lohengrin". Wagner, che si trovava nel suo dorato raccoglimento di Posillipo, vorrà conoscere il Mancinelli personalmente e con il suo paterno abbraccio gli manifesterà così la sua profonda stima.
Ma il Mancinelli ebbe il merito di non insistere e fermarsi a Wagner. La sua incessante attività di direttore d'orchestra, oltre che a metterlo in contatto con i maggiori compositori arrivati, lo obbligava anche a considerate i giovani d’ingegno che premevano alle porte del tempio lirico. E non erano pochi in quegli anni in cui il verismo musicale cominciava a farsi strada, e, parecchi, bravi ed anche bravissimi. Ebbene il Mancinelli non solo fece delle ottime scelte, ma protesse e guidò questi giovani che si chiamavano Puccini, Leoncavallo, Mascagni, Giordano ed altri nomi magari a questi non inferiori.
Ascoltata la pucciniana "Le Villi", intuita la colorita e suggestiva vena del maestro toscano, il Mancinelli non esita a farla eseguire al Comunale di Bologna e non solo, ma con un eccellente "cast" di cantanti. E, sempre fidando nell'autentico genio pucciniano, malgrado l'infausto esito della prima alla Scala dell’"Edgar" (21 aprile 1889; dirigeva Franco Faccio un altro dei massimi direttori del tempo), il Mancinelli volle portare l'opera sulle scene del "Teatro Reale" di Madrid ed anche in questa occasione il
"cast" comprendeva quanto di migliori cantanti possedeva allora l’Italia. Citiamo: Tamagno, Tetrazzini, la Pasqua; e l'"Edgar" ottenne, se non uno strepitoso (non era possibile dato il valore diseguale dell’opera), un sincero successo. Così come, più tardi, con il concorso della Melba e di De Lucia, impose al "Covent Garden" di Londra la "Cavalleria Rusticana".
Il Mancinelli era ormai uno dei grandi maestri e proprio per questo non poteva sfuggire alle rivalità e magari alla calunnia. Si parlò di lui come d’un dittatore, d'infedeltà delle sue amicizie e di altro. Ne sorsero delle polemiche sui giornali! Chi lo difendeva e chi lo accusava. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Vale la pena di ricordare, a sua giustificazione, il seguente episodio romano. In occasione della venuta a Roma del presidente degli Stati Uniti Wilson, nel 1910, si era pensato ad una rappresentazione di "I Puritani" di Bellini e se ne era affidata la concertazione e direzione appunto a Mancinelli. Il maestro, trovando l'opera piuttosto invecchiata, rispose che accettava a patto di apportarvi alcuni rimaneggiamenti. I belliniani di Roma gridarono allo scandalo. Per un mero caso l’opera non si poté eseguire a Roma, tuttavia Pietro Mascagni, che l’opinione pubblica sosteneva essersi guastato con il Mancinelli, aveva approvato i ritocchi. Era indirettamente una smentita ai calunniatori. "I Puritani" vennero poi rappresentati al "San Carlo" di Napoli proprio con quei rimaneggiamenti, ed applauditi da un pubblico che belliniano lo era al cento per cento.
Quanto ai rapporti di Mancinelli con Verdi furono sempre dei più cordiali. Egli aveva diretto decine di volte opere verdiane sui palcoscenici inglesi ed americani: in modo particolare "Otello" e "Falstaff". E’ bene anche dire che il Mancinelli aveva sposato una intima di casa Verdi, Luisa Cora, genovese, la quale, guarda caso, abitò per parecchi anni proprio in quello stesso Palazzo Doria, a Principe, dove per quasi quarant'anni Verdi soggiornava quando veniva nella città marinara durante l'inverno.
Ma passiamo al compositore. Un direttore d’orchestra e musicista nell'anima come il Mancinelli non poteva subire il contagio della... composizione. A spigolare nel ricettario (si passi il termine) mancinelliano si trovano dei titoli piuttosto curiosi per un entusiasta wagneriano (lasciamo ad altri per competenza la consultazione degli spartiti) quali: "Paolo e Francesca", "Isora di Provenza" e un "Tizianello" (indubbiamente di ispirazione demussettiana). Musica di scena aveva anche scritto per i grandi drammi storici del Cossa, uno dei drammaturghi idoli di fine ottocento, così per "Messalina" e per "Cleopatra". La sua fama è poi consegnata anche ad un poema sinfonico che venne eseguito nel 1918, proprio durante la tremenda settimana del Piave. L’argomento era la vita di San Francesco d’Assisi, il titolo "Frate Sole", l'avevano sceneggiato Mario Corsi e Ugo Falena e il successo anche sotto l'aspetto patriottico, perché il pubblico accorreva alle esecuzioni per trarne speranza in un momento tanto difficile per l’Italia, fu grandioso. Il detto "poema sinfonico", come l’altro di poco successivo (1920) "Giuliano l’Apostata", in verità fu concepito anche come musica da film.
"Ero e Leandro", eseguita la prima volta nel 1897 e scritta quasi di getto un paio di anni prima fu però la sua opera più fortunata, degna forse ancor oggi di essere ripresa. Ma un’altra, forse più autentica opera, o, almeno, assai cara alla fantasia del suo autore, vagheggiata per lunghi anni, è il "Sogno di una notte di mezza estate" di ispirazione scespiriana, della quale era trapelato qualcosa fin da quando era in gestazione nell'idillico villino di Meina, attraverso le indiscrezioni degli amici, che l'avevano definita "ricca di melodia e di colori insoliti". Ma il compositore si dimostrava incontentabile. Nel 1917 l'aveva annunciata come pronta ma ancora nel 1919 dichiarava che non era soddisfatto, che vi faticava, avendo dovuto "scompaginare" (era il termine da lui usato) tutto il terzo atto. E Arrigo Boito, suo grande amico, che diceva come la penna del Mancinelli fosse "facile" poiché si metteva sereno e senza indolenza a "strumentare" i suoi lavori!
Così alla sua morte, a 73 anni, avvenuta a Roma (ma le sue spoglie vennero portate al cimitero genovese di Staglieno in una severa tomba dove l'epigrafe dice "Luigi Mancinelli - d'imperiture musiche - assertore, interprete, creatore"), l'opera che doveva essere il suo più ambito premio non era ancora stata rappresentata. Questo "Sogno" (tra le sue pagine più suggestive il duetto d’amore fra Lisandro ed Erminia cui fa da sfondo un amoroso canto in lontananza) apparve musica "fresca ed elegante, ricca di melodia", proprio com'era trapelato dalle primissime indiscrezioni. D'altronde, il Mancinelli stesso era solito dire che "per scrivere un’opera è indispensabile di poter disporre di abbondanza di melodia", ed egli in questo parve difettare. Lui, che aveva rimaneggiato Bellini, sosteneva questo! E fu il suo peccato veniale, di tenere troppo alla melodia proprio quando il gusto delle platee volgeva verso compositori più robusti, più veristi. Ebbene sì, furono proprio le nuove leve da lui aiutate e comprese, a contendergli il passo.
D'altronde, anche come direttore d’orchestra il fremito nervoso della bacchetta di Toscanini faceva disconoscere il fedele e grande servitore che tanto aveva fatto per l'opera lirica da meritare da Wagner l’appellativo, oggi un po' burlesco e pur sincero di "Garibaldi dei direttori d'orchestra".
Domenico Rigotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXV n.2, agosto 1972)

domenica, novembre 15, 2020

Cesare Musatti (1897-1989): le nevrosi dei musicisti...

D.
Cosa rappresentava per lei la musica da ragazzo, che rapporto aveva con la musica?
R. Avevo un rapporto con la musica principalmente legato alla personalità di mio padre, che aveva studiato violino al Conservatorio B. Marcello di Venezia, ed amava moltissimo la musica. Si gloriava spesso di quando, Wagner, poco prima di morire andò in quel conservatorio a dirigere l’orchestra degli studenti, fra cui c’era anche lui. Chi veramente aveva molta passione per la musica era mio padre. Non fece il professionista perché era avvocato, aveva già una carriera politica avviata e così suonava d’estate. Quando andavamo in villeggiatura in montagna suonava con una nostra amica pianista e mi piaceva ascoltarlo (e si mette a canticchiare un motivetto come a rivivere quei momenti).
D. Lei ha studiato musica?
R. Ho avuto la disgrazia di avere studiato un po’ di pianoforte con un’insegnante che era diventata un’istituzione in famiglia ed era obbligatoria. Insegnava a tutti i miei cugini e nessuno poi ha continuato, perché era un’insegnante fasulla, non sapeva proprio insegnare e così, purtroppo, non ho mai imparato bene la musica.
D. Ma le interessava seguire i concerti?
R. Sebbene a Venezia in quel periodo non vi fossero molte possibilità, perché l’unico teatro era "La Fenice", vi andavo spesso. Pur non godendo di una seria preparazione musicale ne avevo quel tanto che mi bastava per leggere una partitura. Ascoltavo soprattutto Wagner, perché in casa mia c’era questa grande passione per la musica di Wagner. Io andavo alla Fenice in loggione, e mi piazzavo all'estrema sinistra rispetto alla scena.
D. Perché?
R. Le opere che eseguivano le conoscevo abbastanza bene ed allora mi piaceva veder di fianco il direttore e mi appassionavo moltissimo osservare tutti i settori dell’orchestra nel loro avvicendarsi. Mi sembrava che la musica ne venisse arricchita.
D. Col tempo si sarà formato progressivamente una cultura musicale.
R. No, non molta, sempre per questa maledetta faccenda di non avere mai tempo per nulla. Ma ho un ricordo indelebile di un grande avvenimento che si tenne a Padova, nel 1922. Appena laureato sono stato assistente di psicologia in quella università. Per festeggiare il settimo centenario della fondazione dell’Ateneo vennero programmati una serie di concerti nel grande salone, che all'epoca in cui Padova era un comune serviva alle adunate popolari e come consiglio comunale. La sala quindi, non adatta acusticamente, venne fornita di tutta quella serie di accorgimenti acustici di cui necessitava. Un’emozione fortissima mi venne data dal sentire la quinta e la settima sinfonia di Beethoven dirette da Arturo Toscanini.
D. Cosa rappresenta per lei la musica ora, e quali autori ascolta più ricorrentemente?
R. I classici, in particolare Beethoven. Io ho sempre canticchiato, mentre camminavo e correvo, a seconda di ciò che stessi facendo. Anche ora, che non cammino più molto bene, mi piace canticchiare marcette o motivi che improvvisamente ricordo. Anche mentre mi allaccio le scarpe compongo nella mia testa e canticchio questi motivi che poi sono tutte reminiscenze che rielaboro un po’. Potrei dire che la mia vita si è sempre svolta con un sottofondo musicale che variava a seconda delle occasioni.
D. Non avendo molto tempo per la professione che conduce, ascolterà invece molti dischi; vedo sulla sua scrivania "Die Frau Ohne Schatten" ("La donna senz'ombra") di R. Strauss su testo di Hugo von Hofmansthal.
R. No, non ascolto molti dischi, mi diverto piuttosto a suonare la pianola elettrica inventando vari motivetti ed eseguendoli solo con la mano destra, perché non sono capace di fare l'accompagnamento. Questo disco di Strauss, che lei ha visto, mi serve per studiare il tema di una conferenza che dovrei tenere per gli Amici della Scala. Il problema dell’ombra è un problema psicologico molto interessante, il problema del doppio, del gemello, dell’identico, del ritratto, questo motivo dell’immagine di sé stessi riflessa che è uno sdoppiamento ed anche una perdita d’identità. La perdita dell’ombra è la perdita della propria identità; è per studiare questo problema che mi sono procurato il libretto ed il disco della "Donna senz'ombra". Un mio allievo, ora, sta tenendo su questo problema un corso all'Università di Milano. Questo problema è presente non solo in opere di fantasia ed è psicologicamente molto interessante.
D. "Il ritratto di Dorian Gray" di Wilde è esemplificativo di questo problema: lo sdoppiamento d'identità. Ritiene sia molto frequente fra gli artisti?
R. Si, moltissimo. Un artista può andare soggetto a complicazioni nevrotiche come ogni uomo, ma forse in misura maggiore per la forte risonanza della vita emotiva, per i fattori esibizionistici della propria persona o per i problemi di successo ed insuccesso. Lo sdoppiamento d’identità è quasi implicito in un artista: il vedere se stesso sdoppiato, il problema di obiettivare in qualche modo la propria identità.
Chi è il musicista? Il musicista quindi interprete, ricalca il compositore, ricalca l`opera d'arte scritta da un altro, s’identifica nell'opera del compositore; quindi la doppia identità è un problema che abbastanza comprensibilmente tende a coinvolgere in prima persona il musicista in particolare, come del resto anche l’attore. L’attore deve cambiare sempre personalità; quando deve recitare deve essere il personaggio che interpreta.
D. Ed il direttore d'orchestra?
R. Ha lo stesso problema ed in più il problema dell’orchestra. Perché il direttore s’arrabbia? Perché un musicista non suona bene, perché non lo segue, perché è lui che sta suonando tutti gli strumenti, suona con i gesti servendosi dei musicisti, diventa lui stesso l’orchestra intera.
D. Cosa sono i "crampi professionali" che spesso colpiscono i musicisti?
R. Ogni musicista ha un rapporto particolare col proprio strumento; il proprio strumento diventa una sorta di prolungamento del proprio corpo. Anche il direttore suona con tutto il corpo. Questa partecipazione corporea fa si che i musicisti siano particolarmente sensibili e soggetti a manifestazioni di carattere psicosomatico.
Si sviluppa una sensibilità corporea particolare che i tedeschi chiamano il "linguaggio degli organi". Gli organi partecipano interamente all'espressione del pensiero, ed a questo motivo sono riconducibili i crampi professionali, cartina tornasole di conflitti psichici interiori. Questi "crampi" sono delle piccole isterie localizzate, non sono le grandi isterie di una volta caratterizzate da convulsioni ed attacchi epilettici, che avevano tutte, comunque, un preciso significato, erano una rappresentazione, un dramma esplicito gestualmente. Ora questo tipo d’isteria classica è completamente scomparso, esiste solo in alcune zone dell’Abruzzo e nei paesi del Terzo mondo. Non si sa come mai sia scomparso, ma, quando sono stato in Cina nel '55, alcuni medici cinesi mi parlavano di vedere ancora in alcuni pazienti le stesse manifestazioni che a Parigi risalivano alla fine dell’800. Forse sono scomparse in seguito alla capacità d’interpretarle, di darvi un significato. L’attacco isterico, infatti, ha sempre un significato, è un dramma recitato in modo sommario, ma è un dramma.
Adesso non avviene il tipico attacco isterico ma l’isteria è localizzata in uno o più organi particolari, ha quindi un carattere solo parziale. Bruno Walter ne fu colpito ad un braccio, non poteva più dirigere. Ora si tratta sempre di paralisi o contrattura, ciò implica la messa fuori combattimento di un organo fondamentale al proseguimento delle proprie mansioni e quindi scaturisce generalmente da un conflitto psichico profondo.
D. Cosa e successo a Bruno Walter?
R. Bruno Walter venne colpito da una paralisi isterica al braccio destro verso il 1904 che gli impedì di dirigere per un certo periodo di tempo. Walter rimase probabilmente suggestionato da due fattori in particolare: Mahler, che per lui rappresentava un padre, gli consigliò, dopo il fiasco nella direzione del Tannhäuser di Wagner a Vienna, di accettare l’incarico offertogli a Colonia; inoltre aveva a che fare con molti critici e calunniatori antisemiti, in entrambi i casi si trattava di allontanarlo. La paralisi derivò da questi due fattori principalmente e Walter ricorse a Freud che lo aiutò nella soluzione di questo problema. Walter stesso diceva: "Cercai di familiarizzarmi con le idee di Freud, e di imparare da lui. Mi sforzavo di adattare, pur senza danneggiarla, la mia tecnica di direzione alla debolezza del mio braccio; ed a forza di apprendere e dimenticare, di sforzarmi ed avere fiducia, mi riuscì di ritrovarmi padrone della mia attività.
D. Ha avuto in analisi molti compositori?
R. Solo uno, quando era piuttosto giovane, un compositore veneziano scomparso purtroppo molto giovane, Bruno Maderna.
D. Chi è soggetto a maggiori nevrosi fra un esecutore, un direttore, od un compositore?
R. Certamente moltissimo l’esecutore; infatti il problema della musica nel tempo è di enorme portata. Nelle arti plastiche, come in quelle letterarie, o per lo stesso compositore, il prodotto che viene creato rimane ed è modificabile nel tempo. Per l’esecutore (come per l'attore) ciò che egli crea o (ricrea) si svolge ed esaurisce nel tempo. Rimane solo il ricordo ed è quindi un continuo ricreare in ogni momento, sottoponendosi a notevoli stress. Quando poi con le tecniche moderne si parla di registrazioni e quindi di fermare nel tempo un’esecuzione, gli esecutori stessi sono messi in crisi. Si apre tutto un campo nuovo in cui hanno la possibilità di scatenarsi particolari processi nevrotici, come fobie delle registrazioni, dubbi ossessivi sulla loro validità, con propositi di ritirarle o distruggerle.
D. Qual è la causa principale?
R. Questi pazienti sono di grande interesse per uno psicanalista. E' il problema della procreazione, fondamentalmente, in quanto si mandano proprie creature, divenute autonome registrazioni), in tutto il mondo; ed insieme il problema che queste registrazioni non possano essere degne di chi le ha eseguite.
D. Le sarebbe piaciuto fare il concertista, il direttore od il compositore?
R. lo sono già un compositore; quando suono sulla pianola o canticchio, compongo. Comunque credo che questi tre ruoli non possano essere così nettamente divisi, non credo che un compositore non diriga anche i suoi pezzi. Qual è quel compositore che non fa anche il direttore?
D. Oggi più di ieri, mi sembra che la maggior parte dei compositori non diriga le proprie composizioni. Perché le sembra cosi strano?
R. Non so, ma mi sembra che comporre senza dirigere il proprio pezzo diventi un’operazione in certo qual modo artefatta, che una composizione si riduca ad un puro fatto cerebrale, non pienamente vissuta. Perché una composizione sia vissuta deve essere eseguita o diretta dal creatore stesso.
D. Insomma se lei facesse il compositore vorrebbe anche dirigere la "propria creatura"?
R. Sì, se fossi compositore vorrei certamente dirigere tutti i miei pezzi.
D. Del problema del contemporaneo in arte, cosa ne pensa?
R. Il contemporaneo fa sempre un brutto effetto. Nel campo artistico l'innovatore è sempre qualcuno che tenta una via nuova e quindi difficilmente è riconosciuta dal pubblico o dai canali della critica ufficiale. E' sempre necessario molto tempo, prima che questo riconoscimento avvenga; alle volte ci sono persone di particolare intuito che "fiutano" il successo dell'innovatore. La maggior parte delle volte, invece, si parla di successo ritardato per l’innovatore, perché rompe certi schemi a cui il pubblico è abituato, e in cui vorrebbe sempre ritrovare anche i nuovi artisti. C’è sempre, nell'artista contemporaneo, il problema dell’incomprensione. Il nuovo artista ha sempre l'esigenza di creare qualcosa d’innovativo, di ricercare nuovi modi d’espressione ed è quindi naturalmente in contrasto col proprio pubblico, finché la spunta.
Fulvia Riccardi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXIX n. 1, gennaio 1986)

sabato, novembre 07, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (14/14)

I Quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini
della casa editrice come le patate in cantina.
Tutte le opere hanno questo carattere di "cosa"...
Ma che cosa sarebbero senza di esso?
Martin HEIDEGGER, Holzwege, I, 1
 
MUSICA SENZA FILOSOFIA
Quattordicesima (ed ultima) parte.
 
Filosofi come Martin Heidegger e Theodor Wiesengrund Adorno sono stati e sono lontanissimi tra loro, non soltanto per le vicende umane e le scelte che li fissano nella nostra memoria a un'immagine e talvolta a un demerito, fonte di rovinose conseguenze, ma soprattutto per l'angolo visuale dal quale ciascuno di essi si è riconosciuto in una propria origine. Senza dubbio, se i filosofi si dedicassero ad osservare gli esiti del loro pensiero, anziché scavare continuamente nel proprio terreno, il panorama apparirebbe più ordinato e omogeneo. Si dice spesso che è l'eterogenità del moderno che rende caotico l'orientamento intellettuale, ma la vera fonte di tale eterogeneità è piuttosto il passato.
Eppure, un'acutissima frustrazione vissuta con disincanto che è spesso sconsolato senso di sconfitta accomuna Heidegger e Adorno, e con loro un'intera generazione di maestri. La frustrazione è lo stato soggettivo lasciato nelle coscienze filosofiche da un volitante paradosso, uccello di malaugurio della nostra epoca. Anzi, da una catena di paradossi. Il pensiero moderno, irrobustito dalla scienza, si è teso nello sforzo immane di oggettivare il mondo. Nella sua fase culminante, al colmo del suo progetto di rafforzare al massimo grado lo strumento di tale oggettivazione, cioè l'Io pensante, la ragione, la Vernunft kantiana, ha dovuto ammettere che l'irrobustimento del pensiero pensante era divenuto ipertrofia del soggetto-pensiero, troppo vigoroso e corazzato per non schiacciare inevitabilmente il mondo, ridotto a un fantasma. Il mondo era divenuto pensiero, l'oggetto era stato interamente assorbito dall'Io penso, il noumeno sfuggiva dietro il fenomeno poiché il vero noumeno era il soggetto teso a distinguere tra fenomeno e noumeno. Tutto il mondo era divenuto fenomenico, quindi soggettivo. Ma poiché lo sforzo oggettivante era inarrestabile, l'oggettivazione, al di là degli intenti, si era attuata, ed è ingigantita negli ultimi due secoli; solo che le verità non si erano oggettivate in realtà, bensì in "cose", ingombranti testimoni di un divorzio tra io e mondo.
Verità suprema, l'arte; tanto più dolorosa la sua reificazione. Ancora più dolorosa la reificazione della musica, fra le arti la più libera, per qualità e definizione, dal rischio d'identificarsi con una merce o con un relitto dei tempi. Le opere dei pittori e degli architetti "appartengono" in quanto tali a qualcuno, o a una collettività (spesso, ahimé, allo Stato). La Primavera di Botticelli è quel quadro, non è un universale, ed è agli Uffizi e non altrove. Non è un universale, anche se significati universali vi si nascondono. La cattedrale di Chartres è quella e non altra, e il tempo la logora materialmente; una volta distrutta, sarebbe distrutta per sempre. La poesia non dipende dalla sopravvivenza di un oggetto materiale, ma la possibile scomparsa del suo veicolo linguistico e del suo codice semantico ne vanificherebbe l'esistenza. Sarebbe anch'essa una distruzione. La musica, per natura, sembra indipendente da ogni materia collocata hic et nunc nello spazio e nel tempo, è un'idea capace d'incarnarsi in eterno in un'esecuzione, o anche in una rievocazione puramente mentale. Tuttavia, anch'essa è divenuta "cosa". E' soggetta allo scambio di favori, al mercato, all'industria che la riproduce e la contrassegna con una graduatoria di pregio, persino con un cartellino di prezzo. E' usata come lenocinio attraente per vendere meglio una merce. Nell'era della riproducibilità tecnica, secondo la geniale analisi-denuncia di Walter Benjamin, anche la musica subisce logorìo e degrado.
Qui s'inserisce un altro paradosso. La reificazione della musica (dell'arte) è l'umiliazione del musicista compositore (dell'artista), soprattutto del musicista di oggi rispetto a quello di ieri. Ma la reificazione è divenuta un processo inevitabìle nel momento in cui l'artista si è fatto avanti con prepotenza irrompendo nell'opera d'arte. Ogni opera d'arte, ogni musica ha materialmente e storicamente un autore, ma la realtà integrale di una musica (di un'opera d'arte) è il suo essere nel mondo, non il mero evento della sua nascita. Sono esistite fasi in cui l'opera è più importante del suo autore, invisibile nell'alone che essa irradia, e in cui l'arte in quanto universale possibilità e nodo di possibili realizzati o non realizzati è più importante dell'opera "già fatta". L'artista si nasconde dietro la propria creatura, si avvolge nel proprio sistema universale di norme e di potenzialità: o plasas efanisen è l'immortale frase di Aristotele: "è proprio dell'artista scomparire" per dar luogo all'arte che lo trascende. Nell'arco di tempo che vede l'artista, non più "mastro" ma "Maestro", assumere individualità traboccante, l'opera d'arte si individualizza, assume concretezza ma tende a farsi "cosa". Il momento in cui essa ridiventa più importante del suo autore (i Girasoli di Vari Gogh valgono oggi agli occhi dei nostri contemporanei incomparabilmente più di quanto i contemporanei del pittore non valutassero lui, pover'uomo impresentabile in società) è la sua vendetta; ma un'amara vendetta, che fissa l'opera e la rende schiava. Decisivo, infatti, non è di quanto l'opera sia valutata più del suo autore, ma che ad essa sia inflitta una valutazione quantitativa.
Sulla reificazione della musica convengono dunque filosofi diversissimi come Heidegger, Benjamin, Merleau-Ponty e Adorno. E' Adorno colui che più ha battuto su questo chiodo, e tentando di capire il suo stato d'animo vogliamo concludere questa nostra serie di note sul rapporto tra musica e filosofia. L'atto filosofico e quello artistico sono inassimilabili e spesso ostili, tanto da escludersi dinanzi a verità estreme; un tratto essi hanno in comune, ed è la libertà dalla dialettica storica cui soggiace l'atto economico, politico e giuridico, ma anche l'atto etico, la cui relatività è fuori discussione. La filosofia di Adorno è pensiero debole, tanto critico e analitico da porre in discussione le stesse categorie della scepsi, e segue l'esistente, descrivendolo a posteriori, per catturarlo meglio e per frantumarlo. Così il pensiero debole ha una sua amara unità, e poco o nulla è in esso determinante la cosiddetta evoluzione delle idee. Ascoltando le parole di Adorno possiamo seguire un percorso a ritroso, indifferente al prima e al poi, e partire dai suoi testi più tardi per approdare a quelli del periodo di mezzo. La Negative Dialektik, scritta tra il 1959 e il 1966, nega in primo luogo la condizione attuale del mondo e apre la visione su ciò che non è, sull'utopia. La condizione denunciata è anche la condizione attuale dell'arte e in particolare della musica, fra le arti la prediletta da Adorno, musicista e compositore in proprio. Il libro negherebbe così anche la musica a noi contemporanea e la legittimità di chi la produce, così come negherebbe la filosofia di oggi e dichiarerebbe impossibile essere filosofi oggi. La negazione ha un palese sapore marxiano. Eppure, Adorno rivendica la filosofia contro la condanna di Marx poiché "è stato mancato il momento della sua realizzazione", la rivoluzione non c'è stata o è abortita, e quindi il pensiero filosofico deve continuare ad opporre alla malsana totalità dell'esistente il suo gesto dimesso e insieme deciso, impotente e insieme suggestivo. In questa prospettiva, il musicista (l'artista) deve rifiutare qualsiasi integrazione nel sistema economico, pubblicitario, professionale, poiché una sua omogeneizzazione avrebbe in sé la stessa logica di Auschwitz: la negazione di ogni significato individuale, fino all'eliminazione fisica dell'individuo. Nella Aesthetische Theorie uscita postuma nel 1970, un anno dopo la morte dell'autore, Adorno sviluppa i temi precedenti in una generale visione delle arti in cui la musica ha, come sempre in lui, la funzione più rappresentativa e riassuntiva, trattandosi di un caso estremo. Non esiste storia delle arti come evoluzione, ma un insieme di nodi e di fratture. I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità della musica moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente la compattezza del sempre uguale. L'esplosione è una delle invarianti della musica moderna. La musica di oggi è un mito rivolto contro se stesso; "nell'atemporalità del mito, l'attimo che spezza la continuità temporale trova la sua catastrofe". La nostra postilla a questa frase di Adorno è: ciò che rende terribile il rapporto odierno tra musica e pubblico è la necessità della musica di oggi, l'unica sua possibile autenticità.
La musica, continua Adorno, è il modello strutturale del nostro tempo. "Il rapporto della musica con il tempo musicale inteso in senso formale si determina unicamente nella relazione che con esso ha il concreto accadere musicale". Ma oggi la musica si ribella contro l'ordinamento temporale voluto dalla tradizione. Ne deriva che oggi la musica, se vuol essere nuova, dev'essere senza eccezioni un atto violento. Di tale atto violento, Adorno ha vissuto in pieno l'esperienza come compositore in prima persona. La sua scelta di vita e di pensiero contro il "sistema musicale" costruito dalla tradizione e identificato con l'esistente come categoria filosofica lo attrasse per consonanza naturale verso il radicalismo della Wiener Schule, ma il riconoscimento del nominalismo astratto connaturato nella tecnica di composizione con dodici suoni (Zwölftontechnik) lo ha reso a sua volta un "eretico rispetto a ciò che la Wiener Schule aveva eretto ad ortodossia", come ha scritto Clytus Gottwald, che di Adorno fu stretto amico, a proposito dei Frauenchöre di lui. Nel mondo d'oggi, la reificazione della musica fa sì che sia "cosa" qualsiasi aggregato di suoni, qualsiasi sistema, quindi anche una serie costruita secondo la Zwölftontechnik. La forma, quale che essa sia, è già un apparato consolatorio; essa va fatta esplodere. Altrimenti (ed è questa l'idea fondamentale circolante nella Philosophie der neuen Musik, del 1949) ogni possibile autenticità rischia di essere sacrificata al suo altare. Il dilemma adorniano è tra la distruzione dell'autenticità nella musica (quindi, la sua fatale traduzione in "cosa") e la distruzione dell'esistente (quindi, la cancellazione di ogni possibilità "storica" per la musica d'oggi). Mai come nella seconda metà del nostro secolo, in fondo più "tradizionale" nei prodotti musicali che non la prima metà, la filosofia si è allontanata da qualsiasi funzione giustificativa nei confronti della musica, e la musica, di conseguenza, non ha oggi una filosofia cui riferirsi. In questa fin-de-siècle la musica non ha alcuna intenzione di realizzare la profezia di Adorno il possibile e addirittura prossimo avvento di una lunga era senza musica - ed appare anzi inventiva e fertile, così come la filosofia mostra una grande forza amalgamatrice nei confronti della cultura e della società. Il vuoto filosofico della musica d'oggi deriva, piuttosto, dal fatto che la filosofia ha "sospeso il giudizio" sulla musica, e questa epoché trattiene o rallenta i nostri passi. Il territorio della musica è vasto, ma dove sono i segnali indicatori? 0 se ve ne sono, somigliano fin troppo a quelli delle autostrade intersecate da raccordi anulari, dove l'eccesso di zelo semiotico indica, ad un tempo, troppo e nulla.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 3, Marzo 1991, Anno XV)

lunedì, ottobre 26, 2020

Glenn Gould: L'ala del turbine intelligente

Con un titolo inutilmente ampolloso (quanto più severo e giusto quello originale: The Glenn Gould Reader), Adelphi ha pubblicato - corredata da una pirotecnica Presentazione di Mario Bortolotto e da una dimessa Introduzione del curatore, Tim Page - un’ampia raccolta di scritti sulla musica del pianista canadese Glenn Gould: articoli di riviste, presentazioni di (suoi) dischi, recensioni, testi di conferenze, saggetti musicologici. L’ala del turbine intelligente (citazione colta al volo da Baudelaire; ma lo si capisce solo a pagina 63: eil riferimento è stranamente omesso nell’Indice dei nomi) è un supporto essenziale per la comprensione di uno dei casi (ma sì, leggenda: come da risvolto di copertina) più curiosi (emblematici?) dei nostri tempi, che dei nostri tempi ha appunto tutti i caratteri distintivi: l’eccentricità, l’eclettismo, lo snobismo, il fanatismo, il mistero, il paradosso, la disperazione, l’umorismo, la presunzione, la schizofrenia. Curioso è anzitutto il fatto che Glenn Gould, di professione pianista, sia diventato un riconosciuto e venerato protagonista della musica solo dopo la morte (nel 1982, a cinquant’anni giusti); giacché se episodi del genere si danno (o si davano) talvolta per i compositori, è piu raro che ciò avvenga per un’arte legata all’immediatezza del presente e della presenza, qual è quella dell’interpretazione. Ma Gould aveva posto per tempo i presupposti di una celebrazione a futura memoria: nel 1964, dopo nove anni di trionfi d’élite, aveva smesso di suonare in pubblico (con motivazioni accattivanti: "Durante i concerti mi sento umiliato, mi sembra di essere un artista del varietà") e si era rinchiuso in un eremo superprotetto e supertecnologizzato, per dedicarsi esclusivamente alle incisioni discografiche. Facendo, più che di se stesso, la fortuna della sua casa discografica, la CBS, depositaria di una “Legacy” milionaria.
E' stato Glenn Gould un grande pianista? Piero Rattalino, che se n’intende, lo giudica "trai maggiori del nostro tempo". A me la risposta suggerisce ampi margini di dubbio. Lo è stato certamente per la musica del Novecento, di cui ha lasciato testimonianze ragguardevoli; rivelando che nell’ansia di un’espressione repressa, nevrotica e lancinante, sensibile ad aperture di fulminea rivelazione e protesa verso la perfezione della tecnica, egli era un artista illuminato del nostro secolo: un angelo di fuoco di lucida e implacabile intelligenza, ma impermeabile alla tenerezza e al calore umano. E anche nelle numerose pagine dei suoi scritti dedicati ad autori e a musiche del Novecento (Schönberg in prima linea; Sibelius, Hindemith, Skrjabin, Ives, Krenek, Berg; i canadesi contemporanei, e poi Boulez e l’oggi) Gould ha impresso il marchio di una sensibilità acuminata, di un’acutezza che avvince e incide con squarci netti, fin nel terreno minato della profondità analitica. Par quasi che qui Gould pensi e scriva nel linguaggio di quella musica, e ne contempli per così dire il rispecchiamento.
Ma per quanto Gould fosse un caso limite dell’angosciosa sete di verità che in alcuni eletti ha animato il nostro secolo proprio per la sua inappagabilità, i suoi punti di riferimento - e dunque la sua visione dell’evoluzione della musica, nemica del progresso, nemica della storia in nome delle “finalità più vaste della creatività”, pagina 181 - trascendevano quei limiti e si confrontavano con altri ideali. Non solo gli antenati della musica moderna (Byrd, Gibbons, Scarlatti: gli albori del pianoforte e del linguaggio orientato verso la tonalità e la forma libera), ma soprattutto il sole Bach, astro maggiore e centrale di quel sistema planetario. E proprio a Bach Gould riservò attenzione speciale, riflettendola puntualmente negli scritti; dove, però, l'approccio - e ciò vale, a quanto pare, anche per le esecuzioni, fatte di tanti bei momenti continuamente contraddetti nella visione d’insieme - si dimostra sovente, più che impari al compito, stranamente convenzionale ed estrinseco, per non dire naif.
Alla fine dello scritto sulle Variazioni Goldberg, che fu per anni il suo cavallo di battaglia e un vero oggetto di culto dei maniaci del disco più raffinati, Gould conclude un’analisi alquanto scolastica con queste parole: "Non ritengo arbitrario soffermarmi su considerazioni che vanno oltre il fatto musicale, anche se ci troviamo davanti a quella che è forse la più splendida elaborazione mai realizzata su un tema di basso: penso infatti che la fondamentale ambizione di quest’opera per ciò che riguarda la variazione non vada cercata in una costruzione organica ma in una comunità di sentimento. In essa il tema non è terminale ma radiale, le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza, un’orbita di cui la passacaglia ricorrente costituisce il punto focale. (...) Essa ha quindi un’unità che le viene dalla percezione intuitiva, un’unita che nasce dal mestiere e dalla rigorosità, che è ammorbidita dalla sicurezza di una maestria consumata e che qui si rivela a noi, come avviene tanto raramente in arte, nella visione di un disegno inconscio che esulta su una vetta di potenza creatrice". Il sospetto di un che di intrinsecamente e forse inevitabilmente dilettantesco, sotto la formulazione colta e "impegnata", sorge legittimo di fronte a simili concetti, tanto contraddittori quanto oscuri: ma oscura è qui anzitutto la traduzione. Forse ciò si può spiegare con l’intenzione di fornire anche concettualmente un sostegno a una visione interpretativa di Bach che non ha mai, neppure nei momenti più ispirati e inventivi, il respiro calmo e solenne, la nobile grandezza e profondità di un arco compiuto, di un problema interamente risolto.
L’affermazione più provocatoria del volume si trova in fondo a pagina 77, nello scritto Mozart e dintorni (una conversazione con il documentarista francese Bruno Monsaingeon): "Come sai, io ho una zona buia che copre un secolo, all’incirca dall’Arte della fuga al Tristano: tutto quello che c'è fra questi due estremi riesco al massimo ad ammirarlo, non ad amarlo". Dichiarando di preferire il Paulus di Mendelssohn alla Missa solemnis (e di amare ancor più le opere giovanili di Glinka, subito dopo), Gould espone chiaramente una presa di posizione estetica e ideologica: l’avversione per la musica classica (per “le convenzioni esteriori della sonata classica e del suo schema strutturale in gran arte stereotipato”) e per quella romantica (i cui atteggiamenti "implicano in ultima analisi l’amp1iamento delle risorse mediante l’ambiguità e l’idea che ogni fenomeno osservabile abbia una sua occulta ombra psicologica"). Tale avversione ha per conseguenza la critica di Mozart (le cui opere sarebbero “testimonianze di un’esistenza edonistica”) e il rifiuto di Beethoven, categoricamente espresso nel divertente e un po’ goliardico Glenn Gould parla di Beethoven con Glenn Gould; accade così di leggere nel dialogo immaginario passi come questi: “... quelle che la disturbano di più sono proprio le opere centrali della cronologia beethoveniana. Sono le opere in cui un’espressione complessa, affrontabile solo da un professionista, si riferisce a un materiale che è accessibile a chiunque. E questo la disturba, signor Gould, perché costituisce anzitutto una riflessione su quello che è il ruolo ufficiale del musicista, sul professionismo così come si è stratificato nella tradizione musicale dell'Occidente e che lei mette in discussione non senza motivo. (...)”. Al che l’alter ego risponde: “Ma quando quella posizione non è stata ancora raggiunta o è già stata abbandonata, come dice lei, si incontra un’arte di tipo molto più professionistico - il professionismo di Wagner o quello di Bach, secondo la direzione che si sceglie - e per trovare una tradizione puramente dilettantistica occorre andare molto più indietro oppure molto più avanti”. Magari fino a Gould? Se così fosse, avremmo svelato il mistero.
Parole di ammirazione incondizionata sono invece rivolte alla figura e all'opera di Richard Strauss: per di più in anni nei quali non andava ancora di moda e poteva apparire controcorrente. In un articolo del 1962, Perorazione per Richard Strauss, dopo aver definito Strauss “il più grande musicista contemporaneo” (quasi d’accordo) Gould appassionatamente afferma: "Ciò che è soprattutto esemplare nella musica di Strauss è il fatto che essa rappresenti concretamente la trascendenza di ogni dogmatismo artistico, di ogni problema di gusto, di stile e di linguaggio, di ogni frivolo e sterile cavillo cronologico. E' l'opera di un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene, e che parla per ogni generazione perché non s’identifica con nessuna. E' una suprema dichiarazione d'individualità: la dimostrazione che l’uomo può creare una propria sintesi del tempo senza essere vincolato dai modelli che il tempo gli impone". Ma a questo punto saremmo già un po’ meno d'accordo. Giacché Strauss, come del resto ogni artista, non solo appartiene alla sua epoca, ma s’identifica con essa rivivendone l’intera parabola della civiltà artistica e culturale della giovinezza (quella Vita d'eroe che nella sua “esuberante estroversione” tanto turbava il giovane Gould) fino alle soglie del crepuscolo, e oltre; e muore in dolce agonia - cullato dalle melodie infinite, struggenti, dei suoi Finali d’opera - dopo averne prolungato sino al limite estremo la longevità. Ma evidentemente a Gould, di Strauss, interessava l’aspetto della sfida, nella quale potersi di lontano identificare.
Se ci siamo soffermati soprattutto su alcune delle sintesi più irrisolte fra quelle tentate da Gould anziché sulle molte, illuminanti analisi parziali, non è per sminuirne il valore; ma anzi per cercare di indicare in che cosa esso consiste. Gould era un outsider, un dilettante nel senso antico e un genio in quello moderno. In fondo, gran parte del suo fascino risiede nel fatto che egli, rifiutando il culto romantico del virtuoso e scegliendo un’esistenza claustrale, ha incarnato da artista ciò che ognuno di noi vorrebbe essere almeno in certi momenti e stati d'animo della vita. Chi non ha mai sognato di rinchiudersi in un eremo a coltivare le proprie passioni e a rettificare le proprie tendenze schizofreniche? Chi non ha avuto almeno una volta la tentazione di riscoprire un Gibbons, di sprofondarsi in Bach, di negare Beethoven? (Ma Mozart proprio no, quello rimane nostro fratello, sempre). Gould tutte queste cose le ha fatte per davvero e ce ne ha parlato a un livello superiore, dall’alto della sua individualità; è stato capace di essere assoluto e intransigente, senza scendere a compromessi, neppure con le sue nevrosi. Per questo lo ascoltiamo e lo leggiamo con rispetto, anche quando nella sua concitazione o ingenuità o ironia ci lascia interdetti. E lo sentiamo a noi vicino, anche se la compagnia è imprevedibilmente scomoda e sfuggente: vicino, con sincerità, ai nostri dubbi e alle nostre inquietudini, pronto a farci emozionare e sorridere.
Sergio Sablich
("Musica Viva", n. 4, Anno XIII, aprile 1989)