Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 28, 2020

Il Garibaldi dei direttori d'orchestra

Pomeriggio festivo ad Arona. Un battello 
è in partenza per Verbania. Perché non concedersi una breve gita sul lago? Non molta gente a bordo, per lo più persone anziane in vacanza sul posto. Un bel vegliardo sugli ottanta, ma ancora gagliardo e diritto, ricorda G. B. Shaw nell'aspetto, ma G. B. Shaw è ormai morto da lustri e poi, questo signore, non è forestiero, è di queste parti, in vena di chiacchiere e d'una loquacità alla fine simpatica. E', come si dice, un attaccabottoni. Mi prende il braccio e leva l'altra mano a indicarmi una villetta affondata nel verde nel tratto di Meina e: "Vede quella villa? Sì, quella con la gradinata e quella specie di torretta a fianco...! Oh, niente di straordinario come costruzione, bisogna riconoscerlo   Dirle esattamente a chi appartenga, oggi non saprei. Sa, qui da noi, è continuo acquistare, vendere, comprare, affittare, tanto han da fare i notai   Ma lasciamo! Un tempo, cinquanta, forse sessant'anni fa, allora ero giovane anch'io, lì abitava un grande musicista, un vero musicista ed altrettanto valente direttore d'orchestra, con tutto il rispetto dovuto a Toscanini".
Dicendo questo, il vecchietto mi prende il braccio come per sorprendermi: "Ha mai sentito parlare di Luigi Mancinelli?" Di Luigi Mancinelli conosco molte cose, non tutti gli aneddoti che il mio compagno di viaggio di un’ora si mette a raccontarmi e che ascolto con compiacimento.
Altri tempi, altri modi di far musica o, forse, altra fede nella musica, E allora perché non ricordare questo sincero musicista, questo direttore d'orchestra che ebbe il suo glorioso quarto d’ora di celebrità, tanto più che quest'anno ricorre il cinquantenario della morte?
Luigi Mancinelli vide la luce il 5 febbraio 1848, in pieno Risorgimento, alla vigilia delle fatidiche Cinque Giornate milanesi, nella silenziosa Orvieto. Silenziosa e tranquilla la sua città natale, ma non il ragazzino Mancinelli che, irrequieto, scompariva di casa per avventurose esplorazioni nei dintorni, a scapito dello studio; aveva però assai precocemente manifestato la sua vocazione per quell'arte a cui, un tempo si sarebbe detto, la musa Polimnia presiede. La musica, insomma. Ma la famiglia tenne nascosto quel fanciullo prodigio, si sognava di fare di lui tutt'altro che un musicista dal futuro incerto. Altre idee correvano allora per quanto si riferiva all'avvenire dei figli. Il più fiero oppositore, il piccolo Luigi lo trovò nel padre che, sembra, avrebbe voluto fare del figlio un onorato commerciante. Ma com'era possibile che il giovinetto frenasse in sé quella furia artistica impetuosa che gli si agitava dentro? Guidato o, suo malgrado, protetto dai lampeggiamenti di un sicuro talento, Luigi Mancinelli, quattordicenne appena, abbandonò la casa paterna. Quasi il prologo di un romanzo.
Comunque, per i favori che il "destino", a volte, elargisce a taluni, egli ebbe presto modo di inserirsi nel mondo musicale italiano dell'ultimo quarto di secolo. Ed in questo mondo rappresentativo che nessuno può cancellare, rimane figura poliedrica che gode perlomeno di tre sfaccettature interessanti, e nessuna di esse cede di fronte all'altra.
In seguito ai suoi inizi burrascosi e non senza vicissitudini, il Mancinelli era riuscito ad ottenere un posto di violoncellista al teatro "La Pergola" di Firenze e, subito dopo, a soli ventun anni viene scritturato in qualità di primo violoncellista al "Morlacchi" di Perugia e, vedi la fortuna! sostituto dell’allora popolarissimo direttore d’orchestra e compositore Emilio Usiglio, il celebre autore di "Le Educande di Sorrento", opera replicatissima nei teatri d'opera italiani sul finire del secolo. E vedi altra fortuna! Il Mancinelli venne invitato al podio a sostituire il titolare, impedito, in una occasione, da una crisi "bacchica" (crisi alla quale andava sovente soggetto), a dirigere l'"Aida" che mandava in delirio le platee. Quella sera, al "Morlacchi", si trovava l'editore Giulio Ricordi, che fu preso e coinvolto dall'entusiasmo degli spettatori verso quel giovane direttore d'orchestra chiamato all'ultimo momento. Giulio Ricordi, si diceva, per certe cose aveva il fiuto di un cane di razza. Intuisce le doti di Mancinelli e lo impone a Jacovacci, allora direttore del teatro "Apollo" di Roma. Si tratta senza indugio di scritturare il neo direttore d’orchestra di Perugia, per affidargli la direzione della prima romana della stessa "Aida". Questo avviene puntualmente ed il Mancinelli verrà ben presto conteso dai maggiori teatri lirici del mondo.
Costretto a vivere in mezzo agli spartiti, il Mancinelli, curioso di ogni nuovo avvenimento musicale, s'innamora, come dire? del sinfonismo wagneriano. Colpito dal misticismo infuocato dell’autore di "Lohengrin" e della "Tetralogia", egli diventerà il massimo cultore wagneriano in Italia. Fu infatti il Mancinelli che, con la fondazione della Società del Quartetto a Bologna, ebbe modo di far conoscere in anteprima alcuni brani del "Parsifal". Audace impresa la sua mettere in contatto la dura anima carducciana con l'"aquila" di Lipsia. E si deve al Mancinelli se il Carducci scrisse quell'ode in onore di Wagner dai roboanti versi: "Quando Wagner possente / mille anime intona / ai cantanti metalli..." E’ rimasta poi, famosa, negli annali del teatro lirico, la sera del 3 aprile 1880, sempre al romano teatro "Apollo", la direzione da lui condotta con giovanile ed impetuoso ardore del "Lohengrin". Wagner, che si trovava nel suo dorato raccoglimento di Posillipo, vorrà conoscere il Mancinelli personalmente e con il suo paterno abbraccio gli manifesterà così la sua profonda stima.
Ma il Mancinelli ebbe il merito di non insistere e fermarsi a Wagner. La sua incessante attività di direttore d'orchestra, oltre che a metterlo in contatto con i maggiori compositori arrivati, lo obbligava anche a considerate i giovani d’ingegno che premevano alle porte del tempio lirico. E non erano pochi in quegli anni in cui il verismo musicale cominciava a farsi strada, e, parecchi, bravi ed anche bravissimi. Ebbene il Mancinelli non solo fece delle ottime scelte, ma protesse e guidò questi giovani che si chiamavano Puccini, Leoncavallo, Mascagni, Giordano ed altri nomi magari a questi non inferiori.
Ascoltata la pucciniana "Le Villi", intuita la colorita e suggestiva vena del maestro toscano, il Mancinelli non esita a farla eseguire al Comunale di Bologna e non solo, ma con un eccellente "cast" di cantanti. E, sempre fidando nell'autentico genio pucciniano, malgrado l'infausto esito della prima alla Scala dell’"Edgar" (21 aprile 1889; dirigeva Franco Faccio un altro dei massimi direttori del tempo), il Mancinelli volle portare l'opera sulle scene del "Teatro Reale" di Madrid ed anche in questa occasione il
"cast" comprendeva quanto di migliori cantanti possedeva allora l’Italia. Citiamo: Tamagno, Tetrazzini, la Pasqua; e l'"Edgar" ottenne, se non uno strepitoso (non era possibile dato il valore diseguale dell’opera), un sincero successo. Così come, più tardi, con il concorso della Melba e di De Lucia, impose al "Covent Garden" di Londra la "Cavalleria Rusticana".
Il Mancinelli era ormai uno dei grandi maestri e proprio per questo non poteva sfuggire alle rivalità e magari alla calunnia. Si parlò di lui come d’un dittatore, d'infedeltà delle sue amicizie e di altro. Ne sorsero delle polemiche sui giornali! Chi lo difendeva e chi lo accusava. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Vale la pena di ricordare, a sua giustificazione, il seguente episodio romano. In occasione della venuta a Roma del presidente degli Stati Uniti Wilson, nel 1910, si era pensato ad una rappresentazione di "I Puritani" di Bellini e se ne era affidata la concertazione e direzione appunto a Mancinelli. Il maestro, trovando l'opera piuttosto invecchiata, rispose che accettava a patto di apportarvi alcuni rimaneggiamenti. I belliniani di Roma gridarono allo scandalo. Per un mero caso l’opera non si poté eseguire a Roma, tuttavia Pietro Mascagni, che l’opinione pubblica sosteneva essersi guastato con il Mancinelli, aveva approvato i ritocchi. Era indirettamente una smentita ai calunniatori. "I Puritani" vennero poi rappresentati al "San Carlo" di Napoli proprio con quei rimaneggiamenti, ed applauditi da un pubblico che belliniano lo era al cento per cento.
Quanto ai rapporti di Mancinelli con Verdi furono sempre dei più cordiali. Egli aveva diretto decine di volte opere verdiane sui palcoscenici inglesi ed americani: in modo particolare "Otello" e "Falstaff". E’ bene anche dire che il Mancinelli aveva sposato una intima di casa Verdi, Luisa Cora, genovese, la quale, guarda caso, abitò per parecchi anni proprio in quello stesso Palazzo Doria, a Principe, dove per quasi quarant'anni Verdi soggiornava quando veniva nella città marinara durante l'inverno.
Ma passiamo al compositore. Un direttore d’orchestra e musicista nell'anima come il Mancinelli non poteva subire il contagio della... composizione. A spigolare nel ricettario (si passi il termine) mancinelliano si trovano dei titoli piuttosto curiosi per un entusiasta wagneriano (lasciamo ad altri per competenza la consultazione degli spartiti) quali: "Paolo e Francesca", "Isora di Provenza" e un "Tizianello" (indubbiamente di ispirazione demussettiana). Musica di scena aveva anche scritto per i grandi drammi storici del Cossa, uno dei drammaturghi idoli di fine ottocento, così per "Messalina" e per "Cleopatra". La sua fama è poi consegnata anche ad un poema sinfonico che venne eseguito nel 1918, proprio durante la tremenda settimana del Piave. L’argomento era la vita di San Francesco d’Assisi, il titolo "Frate Sole", l'avevano sceneggiato Mario Corsi e Ugo Falena e il successo anche sotto l'aspetto patriottico, perché il pubblico accorreva alle esecuzioni per trarne speranza in un momento tanto difficile per l’Italia, fu grandioso. Il detto "poema sinfonico", come l’altro di poco successivo (1920) "Giuliano l’Apostata", in verità fu concepito anche come musica da film.
"Ero e Leandro", eseguita la prima volta nel 1897 e scritta quasi di getto un paio di anni prima fu però la sua opera più fortunata, degna forse ancor oggi di essere ripresa. Ma un’altra, forse più autentica opera, o, almeno, assai cara alla fantasia del suo autore, vagheggiata per lunghi anni, è il "Sogno di una notte di mezza estate" di ispirazione scespiriana, della quale era trapelato qualcosa fin da quando era in gestazione nell'idillico villino di Meina, attraverso le indiscrezioni degli amici, che l'avevano definita "ricca di melodia e di colori insoliti". Ma il compositore si dimostrava incontentabile. Nel 1917 l'aveva annunciata come pronta ma ancora nel 1919 dichiarava che non era soddisfatto, che vi faticava, avendo dovuto "scompaginare" (era il termine da lui usato) tutto il terzo atto. E Arrigo Boito, suo grande amico, che diceva come la penna del Mancinelli fosse "facile" poiché si metteva sereno e senza indolenza a "strumentare" i suoi lavori!
Così alla sua morte, a 73 anni, avvenuta a Roma (ma le sue spoglie vennero portate al cimitero genovese di Staglieno in una severa tomba dove l'epigrafe dice "Luigi Mancinelli - d'imperiture musiche - assertore, interprete, creatore"), l'opera che doveva essere il suo più ambito premio non era ancora stata rappresentata. Questo "Sogno" (tra le sue pagine più suggestive il duetto d’amore fra Lisandro ed Erminia cui fa da sfondo un amoroso canto in lontananza) apparve musica "fresca ed elegante, ricca di melodia", proprio com'era trapelato dalle primissime indiscrezioni. D'altronde, il Mancinelli stesso era solito dire che "per scrivere un’opera è indispensabile di poter disporre di abbondanza di melodia", ed egli in questo parve difettare. Lui, che aveva rimaneggiato Bellini, sosteneva questo! E fu il suo peccato veniale, di tenere troppo alla melodia proprio quando il gusto delle platee volgeva verso compositori più robusti, più veristi. Ebbene sì, furono proprio le nuove leve da lui aiutate e comprese, a contendergli il passo.
D'altronde, anche come direttore d’orchestra il fremito nervoso della bacchetta di Toscanini faceva disconoscere il fedele e grande servitore che tanto aveva fatto per l'opera lirica da meritare da Wagner l’appellativo, oggi un po' burlesco e pur sincero di "Garibaldi dei direttori d'orchestra".
Domenico Rigotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXV n.2, agosto 1972)

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