Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 29, 2011

Busoni secondo Stefan Zweig

A lungo il suo volto vero rimase adombrato dietro la fosca nube della barba. Tragico appariva e malinconico, quando lo si vedeva avvicinarsi al pianoforte dal fondo della sala, un Cristo dolente sul legno nero che racchiude in sé tutte le gioie e i dolori terreni, e attraverso di esso continuamente li redime. Ma adesso che la cupa bordura della barba si è dissolta, che la cascata di capelli neri e fluttuanti non copre più le sue sembianze ma, mutata in un grigio argenteo, lascia libera, chiara, una fronte chiara, pura e ben formata, scopriamo nei suoi lineamenti così rasserenati (straordinariamente spirituali, straordinariamente sensuali) una bocca mobilissima, aspra soltanto nelle ore della musica, ma che si arrotonda volentieri nel sorriso della conversazione, e talvolta trabocca addirittura in una risata che erompe; questa risata così unica di Busoni, italiana, aretina, che ha sulla gente lo stesso effetto trascinante della sua arte magistrale. E adesso si scorgono, lieta sorpresa, nel volto rischiarato gli occhi luminosi, puri e acquerellini, ma non dei toni smorti delle acque chiuse e poco profonde, bensì pieni dell'inquietudine scintillante del perpetuo scorrere, rinnovato e alimentato da un'inesauribile fonte interiore. Occhi cui piace guardare il mondo, e poi di nuovo posarsi sui libri, occhi che amano i colori, le donne, che bevono e cercano, ma che improvvisamente si ricompongono in una calma sacrale - nell'attimo solenne in cui sotto le sue dita risuona la prima nota. Nessuno dei nostri maestri io amo più immensamente, al pianoforte, di Busoni. Altri appaiono eccitati nel creare, pare che scavino, ed estraggano imprecando le note dalla cava candida dei tasti, tutto il corpo proteso in uno sforzo vibrante. Altri ancora, nell'interpretazione, sorridono del sorriso ingannevole degli atleti che sollevano con simulata agilità una pila di pesi, mostrando alla folla stupefatta come per loro sia soltanto un gioco, indicibile leggerezza. Altri ancora si inalberano di orgoglio, tremano di eccitazione. Ma lui, Busoni, ascolta. Ascolta se stesso suonare. Una infinita lontananza sembra allora estendersi tra le mani, che si aggirano come fantasmi laggiù, frugando tra le note, e il volto fiero pervaso da un'estasi beata, pietrificato in un dolce terrore di fronte all'indicibile bellezza medusea della musica. Sotto è musica, sopra silenzio, sotto il creare, sopra il gustare. Sembra quasi scordarsi, in questi preziosi minuti, che questa cosa, che lo avvolge con un brivido dolcissimo defluisce da lui stesso; respira, beve ed ascolta rapito, estraniandosi in questo gesto inesprimibile (non comunicabile) di incantata dedizione. Il suo viso si trasfigura nella tensione dell'ascolto e i suoi occhi rispecchiano, guardando in alto, un qualche cielo invisibile e dentro ad esso l'eterno Dio. Come lo amo in questi momenti! Come lo invidio in questi attimi per la sua altissima, straordinaria passione di perdere il contatto con se stesso nello stupore della creazione, di liberarsi da tutte le limitatezze del lavoro per ammirare l'opera in tutta la sua purezza, per questa somma maestria, che non più lotta né chiede, ma solo si appaga e si acquieta. Ma come invidiare qualcuno che non ha mai invidiato nessuno, che è prodigo di aiuto e di amicizia, che continuamente si rinnova? In anni in cui altri si sono inaciditi, in lui si risveglia soltanto la gioia; in anni in cui ad altri si è inaridita la fonte creativa, la musica inizia a sgorgare impetuosa in lui. Se il virtuoso è giunto al termine del cammino perché ha raggiunto la perfezione, il Busoni compositore, creatore, ha appena adesso l'occasione di allungare il passo. Io credo, senza conoscerla, alla sua musica. In essa vi sarà certamente qualcosa di chiaro, la spensieratezza della tarda maturità, e forse vi risuonerà la sua risata, quella risata così unica, dal cuore, infantile. L'arte dei giovani è egoista, e per questo selvaggia e confusa. Ma la grandezza dei buoni porta sempre nei capelli la corona argentea della serenità.
Stefan Zweig
(Passigli Editori, 1994)

domenica, gennaio 23, 2011

Deryck Cooke: la Terza sinfonia di Mahler

Sinfonia n. 3 in Re minore, per contralto, coro infantile e femminile e orchestra; composta fra il 1895 ed il 1896; prima esecuzione a Krefeld, nel 1902, diretta dall'autore.

Quest'opera è addirittura più rivoluzionaria della Seconda Sinfonia; sebbene l'orchestra sia leggermente ridotta, (otto corni e quattro trombe), la durata risulta maggiore (100 minuti) e sei i movimenti (il primo della lunghezza di quasi 40 minuti). In due movimenti Mahler fece nuovamente ricorso alle voci (il quarto e il quinto), ma volle un Finale puramente strumentale.
Bruno Walter ci ha lasciato un indimenticabile profilo di Mahler al tempo in cui egli aveva appena ultimato la Seconda Sinfonia e s'accingeva a iniziare la Terza. Era il 1894; Walter, diciottenne, s'era recato ad Amburgo nella speranza d'ottenere il posto di maestro collaboratore all'Opera, dove Mahler era direttore principale. Aveva letto le feroci recensioni della recente esecuzione a Weimar della sua Prima Sinfonia, che veniva tacciata di, «sterilità», «trivialità» e soprattutto «smoderatezza». Aveva voluto incontrare quest'uomo «smodato», e ora si trovava faccia a faccia con lui:
«Era là [...] magro, pallido, piccolo di statura; la spaziosa fronte incorniciata da capelli neri come l'ebano; gli occhi pieni di espressione dietro gli occhiali; rughe d'amarezza ed umorismo solcanti una fisionomia che rivelava una sorprendente gamma d'espressioni, come se parlasse a qualcuno: simile a un'affascinante, demoniaca ed intimidente incarnazione del Kapellmeister Kreisler di Hoffmann, così come si sarebbe presentato a un giovane lettore di quell'autore... »
Il Kapellmeister Mahler certamente lavorò come un, demonio, durante i suoi sei anni ad Amburgo, per elevare il livello della vita musicale; e vi introdusse anche molte nuove opere, fra le quali il Falstaff di Verdi e la Manon Lescaut di Puccini (entrambe ultimate attorno al 1892). Questa febbrile attività occupava a tal punto i mesi invernali che egli poteva dedicarsi alla composizione solo durante le vacanze estive. Ogni anno, al concludersi della stagione d'opera, si ritirava nella campagna austriaca - in quel periodo nel villaggio di Steinbach am Attersee, nelle Alpi salisburghesi - a portare avanti il suo lavoro di compositore; e fu là, durante il 1895 ed il 1896, che compose la Terza Sinfonia.
A Steinbach Mahler aveva una piccola baita in mezzo alla campagna, arredata solo con un pianoforte, un tavolo, una poltrona e un sofà. Ogni mattina era là alle sei; faceva colazione alle sette e lavorava fino a mezzogiorno, o più spesso fino alle tre del pomeriggio. Poi, dopo il pranzo, avrebbe vagabondato pei campi, o sarebbe andato a far lunghe passeggiate su per le colline, rielaborando in testa le sue idee musicali. Talvolta cercava distensione intrattenendosi con rari visitatori privilegiati.
Non si ritirava in campagna per un mero bisogno d'isolamento. Egli fu un appassionato amante della natura; o, meglio, si sentiva assorbito dalla natura: non soltanto dal bello e dall'affascinante, ma anche dal comico e dal grottesco, perfino dal ripugnante e, soprattutto, da ciò che poteva ispirare il sublime. La moglie Alma, scrivendo d'un'altro ritiro estivo, circa dodici anni più tardi, racconta un angoscioso episodio:
«Un giorno d'estate scese correndo dalla sua baita, sudato, quasi incapace di respirare. Infine se ne venne fuori così: furono la calura, la quiete, il timor panico. Fu sopraffatto dalla paurosa sensazione del vivido occhio del dio Pan sopra di lui, nella sua solitudine, e dovette cercar rifugio in casa fra la gente e continuare là il suo lavoro.»
Poco credibile, ma Mahler fu un essere umano completamente incredibile. Questa intensa compenetrazione nella natura fu l'ispiratrice della Terza Sinfonia.
Quando l'ebbe quasi ultimata, egli scrisse al grande soprano drammatico Anna von Mildenburg:
«Immagini un lavoro di grandezza tale che rispecchi addirittura il mondo intero; siamo per così dire, soltanto uno strumento, suonato dall'universo [...]. La mia Sinfonia, sarà qualcosa che il mondo non ha ancora udito! [...]. In essa l'intera natura trova voce [...]. Taluni suoi passaggi mi sembrano talmente soprannaturali che posso a stento riconoscerli come opera mia... »
Effettivamente l'ispirazione di Mahler era così travolgente che egli ebbe quasi la sensazione d'essere Dio, creatore dell'universo. Quando Bruno Walter ritornò a Steinbach, e restò in stupefatta ammirazione del magnifico scenario inontano; Mahler disse: «Non è necessario che Lei stia in contemplazione di ciò: l'ho già composto tutto!». E alle prove per la prima esecuzione del lavoro, a Krefeld, sei anni più tardi, accostandosi alla moglie, disse, dopo aver scorso rapidamente il primo movimento e citando ridendo la Genesi, I, 25: « Ed egli vide che era buono»!
Se un siffatto atteggiamento può sembrare in modo allarmante simile alla megalomania, dovremmo ricordare la costante consapevolezza di Mahler d'esser guidato da una forza impersonale. Si sentiva, in effetti, come uno strumento suonato da qualche entità sconosciuta; come disse in un altro contesto: «Noi non componiamo; noi siamo composti». E se l'ebbrezza per il suo stesso lavoro può apparire ridicola a chi considera questa Sinfonia come un grande trambusto attorno al nulla, dobbiamo ricordare l'effetto che essa ebbe sul giovane Schönberg. Dopo l'ascolto della prima esecuyione viennese nel 1904, egli scrisse a Mahler:
«Credo di aver vissuto a fondo la Sua Sinfonia. Ho sentito la lotta per le illusioni; ho sentito il dolore di un disilluso; ho visto le forze contrastanti del male e del bene; ho visto un uomo nel tormento dell'emozione, sforzarsi di raggiungere la più intima armonia. Ho capito un essere umano, un dramma, la verità, la più spietata verità!»
E' fatto sorprendente, tuttavia, che la visione di Schönberg dell'intimo significato dell'opera fosse tanto diversa da quella dello stesso Mahler. Come nel caso della Seconda Sinfonia, dobbiamo porci la domanda se il programma di Mahler spieghi solo "approssirnativamente" ciò che quest'opera è, o se abbia una reale rilevanza per l'ascoltatore.
Che cosa, esattamente, divorava Mahler durante quelle due estati austriache del 1895 e 1896? In lettere ad amici, scritte nell'agosto del 1895, dopo che aveva completamente abbozzato tutti i movimenti, a eccezione del primo, profilò un esauriente programma della Sinfonia, come segue:

LA GAIA SCIENZA
Sogno d'un mattino d'estate
1. L'Estate avanza
2. Ciò che mi dicono i fiori del prato
3. Ciò che mi dicono le creature della foresta
4. Ciò che la notte mi dice (l'umanità)
5. Ciò che mi dicono le campane del mattino (gli angeli)
6. Ciò che mi dice l'amore
7. La vita celestiale (ciò che un bambino mi dice)

Il titolo principale, La gaia scienza (Die fröhliche Wissenschaft), deriva dal libro di Nietzsche; e sebbene l'intero programma sia poco nietzscheano nel vero senso - ha, come vedremo, conclusivi connotati cristiani - il titolo fu preso a prestito da Mahler per esprimere un ritrovato ottimismo, o piuttosto una sorta di mistica rivelazione della validità e dello scopo dell'esistenza.
Il sottotitolo Sogno d'un mattino d'estate si mutò più tardi dopo che egli ebbe completato il lavoro, componendo il fantastico primo movimento - in Sogno d'un mezzogiorno d'estate. L'idea del mezzogiorno ci riconduce alla «calura, la quiete, il timor panico» del racconto di Alma Mahler; e in effetti Mahler ora lasciava cadere il titolo La gaia scienza e descriveva l'introduzione all'opera come Il risveglio di Pan. (Da questo tempo, altresì, il settimo movimento, già composto, veniva escluso dalla Sinfonia; sarebbe poi diventato il Finale - ed il germe - della Quarta Sinfonia.)
La più eloquente spiegazione di Mahler dell'idea insita nel singolare soggetto è da ricercarsi in una lettera al dottor Richard Batka, scritta nel febbraio del 1896. Già prima del completamento della Sinfonia, il secondo movimento (Ciò che mi dicono i fiori del prato) era stato eseguito parecchie volte e Mahler si doleva del malinteso che ne sarebbe derivato.
«Anche se questo piccolo pezzo (più che altro un intermezzo dell'insieme) crea equivoci quando viene distaccato dalla sua connessione col lavoro completo - la mia più significativa e vasta creazione - non posso oppormi a che venga eseguito da solo. Non ho scelta; se voglio essere ascoltato, non posso essere troppo esigente; e così, questo modesto piccolo pezzo senza dubbio [...] mi presenterà al pubblico come "il voluttuoso", profumato "cantore della natura". Che questa natura celi in sé qualcosa di spaventoso, grande, ed anche attraente (che è esattamente ciò che volli esprimere nell'intero lavoro, in una sorta di sviluppo evolutivo), certo nessuno lo capirà mai. Mi colpisce sempre in modo strano che la maggior parte delle persone, quando parla della "natura", pensi solo ai fiori, agli uccellini e agli olezzi del bosco. Nessuno conosce il dio Dioniso, il grande Pan. Ecco! Avete una sorta di programma, che è un saggio di come io faccia musica. Ovunque e sempre, è soltanto la voce della natura! [...]. Adesso è il mondo, la Natura nella sua totalità che, risvegliata, per così dire, dall'impenetrabile silenzio, può risuonare a distesa.»
L'idea racchiusa nel lavoro fu dunque una concezione dell'esistenza nella sua totalità. Il vasto primo movimento sta a rappresentare l'evocazione della Natura dal non-essere da parte del dio Pan simboleggiata dall'apparizione dell'estate dal morto mondo dell'inverno; e dopo questo, i cinque movimenti più brevi rappresentano le "fasi dell'essere" (come Mahler precisa in altra lettera), dalla vita vegetale a quella animale, attraverso l'umanità, e gli angeli, fino all'amore di Dio. Giacché la parola «amore» nel titolo del sesto movimento è usata in senso cristiano, come Mahler spiega ad Anna von Mildenburg:
«Si tratta d'un genere di amore diverso da quello che ci si immagina. Il motto a questo movimento cita:

Vater, sieh an die Wunden mein!
Kein Wesen lass verloren sein!'

« [...] Potrei quasi chiamare il movimento "Ciò che Dio mi dice". E proprio nel senso che Dio può essere capito solo come amore. Il mio lavoro è un poema musicale che abbraccia tutte le fasi di sviluppo in scala ascendente. Comincia con la natura addormentata fino ad ascendere all'amore di Dio.»
Come avvenne per la Prima e la Seconda Sinfonia, Mahler alla fine eliminò il suo programma, lasciando che la musica, parlasse da sola; e questo è certamente possibile, che si accetti, o no il programma. Senza dubbio chi è dotato di un forte, panteistico senso quale possedeva Mahler quando la concepì, troverà il programma pieno di significato, ma, vi sarà anche chi lo giudicherà ridicolo, pur potendo ammirate il lavoro in sé. E taluni potranno addirittura ritenere che Mahler esprima, in realtà, qualcosa di diverso da quanto egli stesso non immagini: come già s'è detto, Schönberg sentì quest'opera come espressione d'un tormentato conflitto personale. E Bruno Walter descrive il primo movimento come costituito di una chiara e decisa opposizione fra due opposti inconciliabili; quelli che egli chiama «inerzia primordiale» e « elvaggia creatività forzatamente lussuriosa».
Sebbene non possiamo negare la panteistica ispirazione della Sinfonia, così chiara dalle lettere di Mahler, si deve ammettere che il lavoro non ha stretta connessione col programma. A coloro che non hanno alcun senso panteistico, o nessuna intuizione, non è tolto, comunque, il piacere di reagire ai contenuti dell'opera. Il significato fondamentale alla radice del programma di Mahler, «l'esistenza nella sua totalità», è che la Sinfonia riguarda l'origine della vita, qualunque possa essere: con la sua lotta per superare ostacoli e barriere; con il suo diletto per la bellezza e perfino per ciò che è grottesco e ripugnante; con le sue "dichiarazioni di immortalità" e la sua aspirazione a sostituire discordia ed odio con concordia ed amore. Parole, vaghe parole, naturalmente; e le più vaghe son forse le migliori, se dobbiamo tentare di far capire l'inesplicabile "significato" di questa musica, che scava tanto profondamente nella sorgente della vita e del sentimento.
Il primo movimento è la più originale e strabiliante cosa che Mahler abbia mai concepito. Per esprimere la forza primordiale della natura germogliante, dall'inverno, nell'estate, egli costruì una gigantesca, proliferante struttura di Sonata su una pletora di materiale "primitivo": un ruvido motivo di marcia in Fa maggiore - Re minore per corni all'unisono, come un grande invito al risveglio; profondi, ovattati accordi degli ottoni, eloquenti di nascosta potenza; cupo Re minore ringhiato dai tromboni, come inerzia primordiale; latrati di corni, insorgenze di bassi, strida di legni, profondi rombi di percussione; e rozzi, volgari temi di trombone, simili a mostruose voci preistoriche. In opposizione appare una mormorante musica pastorale in Re maggiore (accordi di legni, trilli sommessi degli archi, assolo di violino), con acuti canti d'uccelli ("fanfara" dell'ottavino, fuori tempo). L'elemento finale basilare, più straordinario di tutto, è lo stile "popolare" di marcia di Mahler elevato a un livello cosmico; l'estate, approssimandosi da lontano, "avanza" vistosamente con una strimpellante musica da banda militare, rivestita d'una completa, strombazzante polifonia di fanfare e melodie in controcanto. Un tremendo climax "panico" conclude questa esposizione. L'enorme lunghezza del movimento deriva dal fatto che, dopo l'esteso sviluppo (che culmina nel selvaggio episodio intitolato La folla), Mahler si concede di ripetere in pratica l'intera esposizione. Ma alla fine la musica di marcia trionfa nella sua tonalità di Fa, con vociferante fanfara e frastornante percussione.
I successivi quattro movimenti sono molto più brevi. Il minuetto "del fiore" in La maggiore, col suo trio rumorosamente ciarliero, usa lo stile popolare e la scrittura cameristica dei più delicati Lieder del Wunderhorn. Ciò continua nel movimento degli "uccelli e bestie", un vivace Scherzo in Do minore. Il pittoresco materiale conduttore, coi suoi richiami d'uccelli adescanti l'ascoltatore, è tratto dal Lied del Wunderhorn sul cuculo morto (Ablösung im Sommer); il primo Trio è un rozzo salterello, simile a un giuoco di giovani animali; il secondo una distesa melodia deliberatamente sentimentale per cornetta, con archi scintillanti all'acuto, che evocano tutta l'ardente e romantica atmosfera dell'estate austriaca. Verso la fine, una violenta esplosione su un accordo di Mi bemolle minore sembra strappar via un velo, a rivelare lo stesso grande dio Pan. Il quarto movimento enuncia gli interrogativi dell'umanità, in un Adagio in Re maggiore adattato al Canto di mezzanotte di Nietzsche, per contralto: «Die Welt ist tief! / Und tiefer, als der Tag gedacht! / Tief ist ihr Weh! / Lust, tiefer noch als Herzeleid! / Weh spricht: Vergeh! / Doch alle Lust will Ewigkeit!». E' usata la musica della "potenza latente" del primo movimento, e una delle sue selvagge grida di tromba è trasformata in umano anelito; il movimento è una delle pagine più serene di tutta la musica, col lamento d'un uccello notturno (glissando d'oboe) e le note tenute del contralto poggiate sulle terze dei tromboni echeggiate dagli ottavini. Nel movimento "degli angeli", voci bianche e voci femminili cantano una sorta di carola in Fa maggiore, adattata alla poesia del Wunderhorn, Es sungen drei Engel einen süssen Gesang, con un brillante accompagnamento di legni, corni, arpa e glockenspiel; la tormentata sezione di mezzo, che aggiunge gli archi gravi, si volge a pensieri di colpa, pentimento e perdono.
L'esteso Adagio orchestrale del Finale, in Re maggiore, inneggiante all'amore di Dio, alterna due gruppi: un disteso tema per archi, che tocca - ma con trascinante passione - la vena religiosa del XIX secolo; e un contrappunto di motivi incalzanti, con un intenso, penoso anelito. La musica raggiunge alla fine lo stesso tremendo climax del primo movimento; poi il primo gruppo, dapprima tranquillamente, si leva conclusivamente dagli ottoni a una fortissima apoteosi: «la natura nella sua tonalità risuona a distesa».
 
Deryck Cooke ("La musica di Mahler", Mondadori, 1983)

martedì, gennaio 18, 2011

Reggio Emilia: Concerto del 150° Unità d'Italia


Teatro Municipale Valli
7 gennaio 2011 ore 12.00

Giuseppe Verdi
I vespri siciliani, Sinfonia
Largo - Allegro agitato - Prestissimo
Luciano Berio
Quatre dédicaces, per orchestra
Fanfara, Entrata, Festurn, Encore
Ludwig van Beethoven
Egmont, Ouverture in fa minore op. 84
Sostenuto, ma non troppo - Allegro - Allegro con brio

Gioachino RossiniGuglielmo Tell, Sinfonia
Andante - Allegro - Andante - Allegro vivace
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Michele Mariotti, direttore

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La prima rappresentazione dei Vespri siciliani, dramma in cinque atti di Giuseppe Verdi su libretto di Eugéne Scribe, viene data all'Opéra di Parigi il 13 giungo 1855. Si tratta del primo lavoro composto dal musicista di Busseto per il grande teatro parigino. In precedenza, nel 1847, aveva sì rappresentato il dramma Jérusalem, ma si trattava di un rifacimento dei Lombardi alla prima crociata, del 1843. Il libretto viene approntato come detto da Scribe, riprendendo e trasformando, con il contributo di Charles Duveyrier, un suo precedente testo del 1838, Il duca d'Alba, scritto in un primo tempo per Halévy (il quale lo rifiuta), e passato poi a Donizetti, il quale ne completerà in partitura solo i primi due atti. L'ambientazione viene dunque spostata dalle Fiandre alla Sicilia e in qualche modo ricondotto a una tematica storica a sua volta riferibile alla contemporaneità verdiana dei moti risorgimentali. Il dato storico cui si riferisce la vicenda, innervato tuttavia di elementi mitici e leggendari, è la rivolta popolare scoppiata nel 1282 in Sicilia e sfociata nella guerra che porterà alla cacciata dei francesi e all'instaurazione del dominio spagnolo. Proprio il mito dei Vespri siciliani e la leggenda del medico Giovanni da Procida, presunto organizzatore della rivolta, alimenteranno l'immaginario risorgimentale sia sul piano dell'azione patriottica più concreta, sia su quello dell'individuazione di modelli e precursori da collegare con protagonisti dell'attualità risorgimentale come Giuseppe Mazzini. La Sinfonia dei Vespri siciliani, condensando orchestralmente molti di questi tracciati extra-musicali, è certamente uno dei capolavori sinfonici di Verdi. Divisa in due movimenti, Largo e Allegro, propone temi che derivano, anticipandoli all'ascoltatore, direttamente dal corpo dell'opera e presenta notevoli caratteri costruttivi oltre che ricchissime idee musicali. Il Largo iniziale si articola in due distinti piani di comunicazione e raffigurazione scenica: da un lato un piano ritmico luttuoso, lugubre, segnato da archi e percussioni, che incede lungo il tracciato ad anticipare il tema dei Siciliani oppressi e umiliati che si ritroverà nel secondo atto; dall'altro, in sovrapposizione sapientemente contestualizzante, in un primo momento la cellula melodica anticipatrice della salmodia dei frati nel quarto atto ("De Profundis") successivamente una intensa melodia derivata dall'aria d'esordio di Elena. Un rullo improvviso di tamburi (molto crescendo) apre repentinamente all'Allegro con l'esplosione violentissima, quasi selvaggia, del tema del massacro (V atto) suonato dall'intera orchestra, cui segue l'intenso, lirico tema, derivato dal duetto Arrigo-Monforte (III atto) condotto dai violoncelli in legato. Ancora, segue una delle melodie più emozionanti dell'opera, il dolce espressivo dell'addio di Elena all'amata Sicilia (IV atto). La ripresa, in questa struttura che liberamente richiama la formasonata, dopo un riepilogo abbreviato dei temi, conduce al prestissimo, grandioso e trascinante che conclude la Sinfonia.

Quatre dédicaces è il titolo dato da Pierre Boulez a un gruppo di quattro miniature orchestrali di Luciano Berio nate separatamente e indipendentemente l'una dall'altra tra il 1978 e il 1989, ma riunite, su sollecitazione del suo assistente Paul Roberts, in una sorta di "album" disponibile per l'esecuzione in diverse circostanze concertistiche. Il progetto rimane incompiuto anche per la sopravvenuta scomparsa del grande compositore italiano e solo nel gennaio del 2oo8, per iniziativa di Pierre Boulez, viene eseguita per la prima volta a Chicago in una performance della Chicago Symphony Orchestra diretta dallo stesso compositore francese. Le quattro miniature, ognuna delle quali nasce per una diversa, specifica occasione, vengono composte rispettivamente nel 1982 (Fanfara), 198o (Entrata), 1989 (Festum), 1978-81 (Encore). Precisato che l'ordine di sequenza dei brani all'interno di Quatre dédicaces è aperto, va aggiunto che tre dei quattro lavori qui riuniti sono legati a due diverse opere teatrali alle quali Berio lavora in quell'arco di tempo: Fanfara entrerà infatti a far parte di Un re in ascolto, azione musicale in due parti su testi di Calvino, Auden, Gotter, Berio, scritta tra il 1979 e il 1983, mentre Entrata ed Encore verranno integrate in La vera storia, opera, azione musicale in due parti sempre su testo di Calvino, scritta tra il 1977 e il 1981. Il gioco di rimandi, di autocitazioni, di riflessi riverberanti, di elaborazioni sviluppanti da cellule musicali preesistenti, è un carattere importante all'interno dell'intero percorso creativo di Berio. Così, questa riunificazione di brani, in origine separati (ma anche già rifluiti in altri lavori, peraltro di così densa e articolata complessità), in un unico percorso sinfonico, aderisce a una tendenza poetica a facilitare la germinazione di senso, la moltiplicazione semantica in altri connotati poetici ed espressivi. Basti pensare al ciclo dei Chemins generati da alcune delle Sequenze, e poi a questi due nuclei di azione teatrale per ricavare l'effetto implicito in questa specialissima operazione linguistica. D'altra parte, la stessa libertà lasciata alla costruzione della successione dei quattro brani, predispone il materiale a reagire differentemente, sia nel reciproco accostamento, sia, infine, nella reattività d'ascolto. Se dunque già prese separatamente le quattro miniature risultano affascinanti e sorprendenti per le ricchissime configurazioni dinamiche, ritmiche, timbriche, drammaturgiche, aggregate risultano perfino travolgenti: i fortissimi tripudi di fanfara, l'incalzante energia percussiva, l'atmosfera resa talvolta inquieta da incroci timbrici e atmosferici, portano infine a concludersi nell'ironico e perfino esilarante Encore, "un breve jeu d'esprit - come ha scritto lo stesso Berio - un pezzo di virtuosismo orchestrale in miniatura particolarmente adatto - come indica il titolo - a chiudere un concerto".

Egmont, dramma giovanile in cinque atti di Johann Wolfgang Goethe, porta al centro dell'azione il tema dell'oppressione politica, del sacrificio della vita in nome della libertà, dell'amore per la patria, della lotta del bene contro i soprusi e le sopraffazioni del male. La nobile figura del protagonista deriva dal personaggio storico del conte Egmont, condottiero olandese che, al seguito di Carlo V, combatte per riportare tolleranza e indipendenza nelle Fiandre. Giustiziato nel 1568 dagli oppressori spagnoli guidati dal Duca d'Alba, inviato da Filippo Il, Egmont diviene nei Paesi Bassi simbolo della lotta per l'indipendenza nazionale, oltre che modello etico e poetico per future lotte europee contro le tirannie e ulteriori rivisitazioni musicali o letterarie. La versione elaborata da Goethe tra il 1775 e il 1786 declina in chiave prettamente Sturm und Drang la vicenda reale, imprimendole un carattere eroico e una fondamentale trasfigurazione finale del sacrificio estremo in simbolo di vittoria, di fratellanza e amore per l'intera umanità, con l'innesto esteso della componente sentimentale espresso dalla figura di Klärchen, innamorata dell'eroe, che muore avvelenandosi per non essere riuscita nell'intento di liberare l'amato. Temi e sostanza poetica ideali, dunque, per la sensibilità etica e per il temperamento di Beethoven, per di più espressi da un poeta e intellettuale come Goethe, da sempre amato e ammirato dal musicista tedesco (lo legge fin dall'adolescenza, nelle riunioni letterarie in casa Breuning), ma con il quale non si era ancora cimentato in prove musicali importanti, se si tralasciano alcuni lavori occasionali e dagli esiti poco significativi. L'occasione di affrontare un'opera impegnativa viene nel 18o9. Mentre le truppe francesi si apprestano ad abbandonare Vienna, il direttore dell'Hoftheater, Joseph HartI von Luchsenstein, affida a Beethoven l'incarico di comporre le musiche di scena per il dramma goethiano, mai finora rappresentato nella capitale asburgica. La realizzazione delle musiche (oltre all'Ouverture, anche le due canzoni di Klärchen, innamorata di Egmont, quattro interludi, una marcia funebre, il melologo di Egmont e la conclusiva "Sinfonia della vittoria") impegna Beethoven dalla fine del 1809 a giugno dell'anno seguente. L'opera verrà eseguita come musica di scena del dramma goethiano per la prima volta il 15 giungo 1810, solo alla quarta replica della rappresentazione viennese, presso il Teatro di Corte. L'Ouverture dell'Egmont, appartenente come Coriolan e Leonore al gruppo di ouverture destinate al teatro, ricapitola e perfeziona molti dei caratteri ricorrenti nel trattamento beethoveniano di questo genere. In forma-sonata con introduzione lenta e adattamenti strutturali per una maggiore aderenza allo spirito e all'atmosfera del dramma, l'Egmont riesce a sintetizzare i passaggi chiave della vicenda, disponendo l'ambientazione a una luminosità cupa, con rari momenti di schiarimento, e quella straordinaria appendice conclusiva in cui la tonalità di tonica in modo maggiore anticipa e ricalca la musica di scena conclusiva, quella della "Sinfonia della vittoria". L'Egmont propizierà anche il primo avvicinamento, tramite l'intercessione di Bettina Brentano, tra il grande poeta tedesco e il massimo compositore allora attivo a Vienna e uno di maggiori di tutta Europa. In una lettera del 12 aprile 1811, Beethoven scrive a Goethe: "Riceverà quanto prima tramite Breitkopf und Härtel le musiche per Egmont, quello stupendo Egmont su cui attraverso di Lei ho ancora riflettuto e che ho sentito e messo in musica con lo stesso ardore provato nel leggerlo. Ho un gran desiderio di conoscere il Suo giudizio sulla mia composizione. Anche il Suo biasimo potrà solo giovare a me e alla mia arte e verrà accolto con altrettanto piacere, come la lode più grande". Goethe, di cui è nota la misura nei giudizi estetici, non lesinerà per parte sua parole di pieno apprezzamento per il lavoro del musicista: "Beethoven ha aderito al mio pensiero con miracolosa genialità [ ... ]. Mettere in musica testi poetici genera spesso solo equivoci e di rado il poeta si sente interamente capito; di solito, quel che impariamo è soltanto qualcosa sull'arte e sul temperamento del compositore. [...] Qui, invece, Beethoven ha fatto miracoli".

"0 m'inganno, o tra' presentimenti della musica futura che sono a trovarsi in Rossini, s'hanno a porre alcune ispirazioni storiche disseminate nelle sue opere, e specialmente nella Semiramide e nel Guglielmo Tell. [ ... ] Nel Tell, lasciando le varie reminiscenze locali e alcuni cori, e il celebre Walzer, basti citare la sinfonia, ispirazione sublime di verità".- Con queste parole, tratte dallo scritto elaborato durante l'esilio svizzero verso il finire del 1835, poi pubblicato come Filosofia della Musica, Giuseppe Mazzini colloca il linguaggio di Gioachino Rossini, e in particolare l'Ouverture del Guglielmo Tell, nella prospettiva politica e risorgimentale di un organico e capillare progetto di rifondazione della cultura italiana. Bastino questi accenni, dunque, a valorizzare il senso di moderna prospettiva etica, oltre che estetica, inaugurata da questo tracciato sinfonico che ha tutti gli elementi dell'invenzione di un nuovo mondo, di un nuovo spazio ideale, compositivo, ma anche, per riverberazione, concretamente umano e sociale. La trama dell'opera, ripresa dal dramma Wilhelm Tell scritto da Friedrich Schiller nel 1803, compendia i valori già maturi in Italia, come in altre parti d'Europa, del fervore patriottico contro l'invasore, della lotta per la libertà e l'autodeterminazione dei popoli. Il Guglielmo Tell, composto da Rossini nel corso del 1828 su libretto di Etienne De Jouy e Ippolite Bis, viene rappresentato per la prima volta all'Opéra di Parigi il 3 agosto 1829. Resterà l'unica delle cinque opere previste per questo teatro, e soprattutto l'ultimo melodramma in assoluto del grande musicista pesarese, ritiratosi volontariamente dalle scene teatrali all'età di soli trentasette anni. "Presentimenti della musica futura", come intuisce Mazzini, annunci di un nuovo mondo, di una nuova prospettiva compositiva e contenutistica si manifestano dunque nel Guglielmo Tell. Ma occorre aggiungere che buona parte di questa rilevanza inventiva si offre già, o forse soprattutto, nell'Ouverture, pagina mirabile, e appunto innovativa non solo rispetto alle precedenti pagine introduttive di Rossini, ma anche in confronto alle generali caratteristiche dei brani d'inizio del melodramma di primo Ottocento. Rossini qui si affianca al gusto romanticamente fantastico di Weber, ma annuncia già la drammaticità espressiva e strumentale di Verdi. Straordinaria è innanzitutto l'armonizzazione ambientativa (benché non tematica) dell'Ouverture con la trama drammatica dell'opera e con i diversi sentimenti che la attraversano, contrariamente alle collaudate abitudini rossiniane che ponevano all'esordio della rappresentazione un vero e proprio meccanismo di efficacissima carica ritmica, cinetica, emotivizzante, destinato a trascinare, o meglio a sospingere lo spettatore nella giusta direzione cardiaca e psicologica dello spettacolo in sé, dell'azione teatrale e dello spazio scenico distinti dal mondo reale, prescindendo però da vere e proprie connessioni con la trama drammatica (si sa peraltro dell'abitudine di Rossini di riutilizzare una stessa Ouverture per più opere, talvolta anche di genere opposto). Questa Ouverture, al contrario, anticipa la storia, la delinea sinteticamente nelle zone drammatiche principali, suggerisce colori, ambienti esteriori e, per riflesso o analogia, dimensioni psicologiche interiori. In altre parole, il Guglielmo Tell viene inaugurato da una sorta di sinfonia in miniatura che, collegandosi in modo evidente con il genere del poema sinfonico, ha la capacità di farsi spazio, di farsi mondo, con tutti i relativi piani di realtà visibile, naturale, paesaggistica, atmosferica, umana, sentimentale. Ma, capovolgendo, è l'architettura stessa, complessa e articolata, di questo mondo che, attraverso quattro sezioni distinte e prescindendo da qualsiasi apparato materialmente visibile, si fa suono, si fa sinfonia: spazio e mondo autosufficienti, invisibili come le città di Italo Calvino, capaci però di mostrarsi all'orecchio per mezzo di una materia musicale intensamente drammatica e già pienamente aggiornata ai caratteri del linguaggio romantico. Rivoluzionaria è la pagina iniziale con la voce solistica dei violoncelli che delineano la profonda intensità atmosferica; sconvolgente, per modernità timbrica ed efficacia fonica, è, nel secondo episodio (Allegro), l'evocazione del temporale tra le abissali gole delle montagne svizzere; così l'Andante, il ranz des vaches del corno inglese, recuperando la tipica cantilena popolare intonata dai pastori svizzeri, impone già le riflessioni future sulla dialogica relazione tra colto e popolare; così infine, la celebre cavalcata, pur rilanciando i tipici stilemi rossiniani del crescendo e della "carica" emotivizzante, manifesta tutta la propria novità con un tessuto timbrico realizzato sullo sfondo di contrasti ritmici e strumentali che non sono più puramente edonistici ma intensamente drammatici e pienamente espressivi.
 
saggio di Roberto Favaro

mercoledì, gennaio 12, 2011

Renzo Piano: Io, Abbado, la città ed un sogno che finisce

Il comune: progetto troppo oneroso, gli architetti trovino gli sponsor. Milano rinuncia agli alberi di Piano.
 
Le città sono immobili. Talvolta bellissime, ma immutevoli come le pietre di cui sono fatte: sono i suoni, gli odori, la gente e gli alberi ad animarle. Tutto ciò che è effimero e cambia le rende sempre nuove e inattese, le tiene vive. Mi chiedo cosa sarebbe a Parigi Place des Voges senza i tigli.
Ci passo sotto tutte le mattine andando in studio, scandiscono il passare del tempo e il susseguirsi delle stagioni: è una delle tante cose che gli alberi fanno in una città. Mi domando se continuerei lo stesso a passarci ogni mattina, oppure se cambierei strada per incontrare altri alberi. Un delicato gioco d’equilibrio, un’alchimia tra durevole e passeggero; forse è questo il segreto di una città felice? Sono architetto, e naturalmente sono innanzitutto sedotto dalla città costruita: la sua è una bellezza edificata dal tempo. È il tempo che rende le città così complesse e così ricche, specchio come sono di infinite vite vissute tra le loro mura. Le città belle sono una delle più straordinarie e complesse invenzioni dell’uomo, veri monumenti allo stratificarsi del tempo. Ma sono gli alberi a scandire il tempo che ha reso belle queste città. Sono loro la finestra aperta sul ciclo della natura, che poi è anche il ciclo non eterno della nostra vita. E ci ricordano che anche noi facciamo parte della natura, con tutte le conseguenze del caso. Per questo guardare un albero in un dialogo silenzioso è una piccola ma profonda seduta di autoanalisi. Un momento di silenzio e di meditazione, una breve pausa dedicata allo spirito. Con gli alberi si stringe un patto di complicità contro il tempo che passa. Si scambiano promesse alla fine di ogni stagione, e ci si dà appuntamento al ritorno di quella successiva. Piantare gli alberi in città è un gesto d’amore, ma è anche un gesto generoso che altri godranno dopo di te. Nel farlo sai che solo tra cinquant’anni quell’albero sarà adulto e svolgerà la sua straordinaria missione. Se ne era già accorto Cicerone quando scriveva «Serit arbores, quae alteri saeclo prosint» (i vecchi piantano alberi che gioveranno in un altro tempo).
Niente di nuovo, ma non bisogna dimenticarlo. Sembra un gesto umile e semplice ma è un gesto carico di significato e di fiducia nel futuro. Ci sono alberi antichissimi, come il pino di Matusalemme in California o l’abete rosso Old Tjikko al confine tra Svezia e Norvegia, che sono cresciuti quando l’uomo non aveva ancora inventato la ruota. Neppure il deserto del Sahara esisteva, e l’Europa del Nord era mezza coperta dai ghiacciai. Italo Calvino, cresciuto col padre botanico sulle alture di Sanremo, fa vivere la sua intera vita al giovane Barone Rampante sugli alberi di Valle Ombrosa, in Liguria, per ribellione e per scelta poetica. Ed il giovane Barone vive, si innamora, milita e viaggia sino in Spagna senza mai scendere dagli alberi. Straordinaria metafora della magia degli alberi, che anche in città rappresentano una parentesi di trascendenza... Ma la città ha bisogno di alberi anche per una ragione molto più pratica e concreta. C’è un effetto termico detto effetto città per cui la pietra, i mattoni e l’asfalto si infuocano d’estate elevando la temperatura media di 4/5 gradi. Questo effetto è enormemente mitigato da un importante presenza di alberi e dal loro fogliame. L’ombra sotto gli alberi non crea solo uno straordinario spazio urbano e sociale, ma abbassa anche la temperatura in modo considerevole. Gli alberi contribuiscono anche a modificare l’umidità relativa verso un maggior conforto fisico. Infine collaborano, come è noto, all’assorbimento del CO2 emesso dal traffico. Per fare un esempio, 100mila alberi compensano lo smog prodotto da 5.000 automobili. Se vogliamo quindi che le città diventino luoghi più vivibili, e che non facciano pagare un eccessivo prezzo al loro essere luoghi di vita associativa e di scambio, allora hanno anche bisogno degli alberi che così assumono un ruolo tutt’altro che decorativo.
Ho lavorato su questo tema, come architetto e urbanista, in molte città in giro per il mondo, fianco a fianco con straordinari botanici e uomini di scienze. Mi sono sentito dire che gli alberi in un contesto urbano hanno bisogno di terra per le radici, e gliela abbiamo data. Mi sono sentito dire che gli alberi in città soffrono, e abbiamo trovato il modo di farli stare bene. D’altronde, se soffrono gli alberi figuriamoci la gente e i bambini. Mi hanno fatto notare che alcuni alberi provocano allergie, e abbiamo selezionato piante che non emettono pollini. E poi che perdono le foglie, e bisogna raccoglierle: giusto. E poi che coprono le insegne dei negozi: vedete voi. E infine, che rubano spazio ai parcheggi per le automobili. E su questo hanno ragione: gli alberi prendono inevitabilmente il posto dei parcheggi e del traffico automobilistico. Ma è proprio quello che ci vuole: questo è l’aspetto più importante, nella visione umanisticamente corretta delle nostre città nel futuro. Occorre assolutamente salvarle dal traffico e dall’enorme quantità di parcheggi che le stanno soffocando. Più parcheggi si fanno e più traffico si attira, come la fisica insegna. Alcune città più dotate di trasporti pubblici l’hanno capito: a Londra è vietato costruire parcheggi in centro, a Stoccolma per disincentivare l’uso dell’auto una fermata del tram non è mai più lontana di trecento passi, e se il mezzo non arriva entro venti minuti il passeggero mancato ha diritto al taxi gratis. Occorre mettere tutte le risorse per costruire trasporti pubblici e dotare le nostre città di parcheggi di cintura. È chiaro che gli alberi in città hanno un ruolo importante in questa visione. C’è chi, cinicamente, dice che questo non avverrà mai. Scommettiamo che sì? È ormai inevitabile: spendiamo meno in parcheggi e sottopassi, e investiamo nel traffico pubblico.
E poi costruiamo una cintura verde come baluardo alla crescita scriteriata ai bordi delle città, rinforziamo i parchi urbani, cogliamo ogni possibile occasione di riconversione industriale o ferroviaria per aumentare gli spazi verdi e sfruttiamo ogni occasione ragionevole per dotare di alberi le strade, le piazze, i viali dei centri urbani. Così salveremo le città. Insomma, bisogna piantare alberi nelle città, e bisogna farlo con le Soprintendenze, perché si deve valutare ogni volta il rapporto sottile tra la città costruita, storia e monumento, e l’effimero degli alberi che cadenzano le stagioni. Gli alberi così fragili e vulnerabili diventano testimoni di una rivoluzione che è ormai irrinunciabile. Cito ancora Calvino, che nelle Città Invisibilici esortava a riconoscere in ogni città, anche la più brutta, un angolo felice. E in un angolo felice c’è sempre un albero.
Così quando Claudio Abbado, con la sua ormai famosa richiesta di remunerare «in natura» il suo ritorno alla Scala, mi chiese di aiutarlo a piantare alberi a Milano risposi con entusiasmo. Non solo perché c’e un nesso tra gli alberi e la musica (ambedue nel segno della leggerezza, del momentaneo e del passeggero) ma anche perché sono metafora di una visione diversa del futuro nostro e delle nostre città bellissime. Certi progetti hanno bisogno di un grande disegno e non sempre le amministrazioni ne sono capaci. Ho pensato che con gli alberi a Milano si potesse ricreare quell’equilibrio che è il segreto di una città felice. Anche perché si sta preparando all’Expo 2015, proprio sul tema della natura e della sostenibilità. Purtroppo devo prendere atto che la città di Milano non intende proseguire su questa strada. Peccato.

Renzo Piano (22 aprile 2010)

giovedì, gennaio 06, 2011

Bruckner: Sinfonia n.6 in la maggiore

"Precisare il testo della Sesta Sinfonia era un lavoro urgentemente necessario, poiché proprio questa opera monumentale aveva sofferto al momento della sua pubblicazione postuma [Vienna 1899] danni così rilevanti che si dovette portare nuovamente alla luce e riscoprire nel suo significato e nella sua forma sonora originaria."

Così inizia la prefazione di Robert Haas alla sua edizione tascabile della Sinfonia n. 6 di Anton Bruckner, Vienna 1937. La Sesta Sinfonia di Bruckner subì quindi lo stesso destino delle altre sue sinfonie. Esse erano troppo esigenti sia per le facoltà intellettive del pubblico che per le capacità tecniche degli esecutori, e troppo spesso l'insicuro, arrendevole e umile Bruckner cedeva di fronte a quei direttori d'orchestra, amici e allievi che pieni di buona volontà e certamente con le migliori intenzioni gli proponevano i più disparati rimaneggiamenti. Accanto, quindi, alle differenti stesure dello stesso Bruckner (soltanto nel caso della Quinta, della Sesta, della Settima e della Nona ci fu una sola versione) si aggiunsero numerosi adattamenti e rielaborazioni "autorizzate" e non. Soltanto negli anni Trenta Robert Haas e Alfred Orel portarono una luce esegetica in queste tenebre con la loro edizione critica completa delle opere di Anton Bruckner.
La Sesta e (secondo la caratterizzazione, non soltanto scherzosa, dello stesso Bruckner) la "più sfrontata" delle sue sinfonie fu stesa - come si legge nell'autografo della partitura nel periodo fra il 24 settembre 1879 (Vienna) e il 3 settembre 1881 (St. Florian). Le tonalità sono: la maggiore per il primo tempo, fa maggiore per l'Adagio, la minore per lo Scherzo con un Trio in do maggiore, e la minore anche per il Finale che ritorna alla fine, con il radioso tema principale del primo tempo, al la maggiore. Ci è possibile in questa sede esporre per sommi capi soltanto alcuni tratti del suo poderoso e ricco universo di idee, forme, combinazioni sonore e tecniche. Ognuno dei tre gruppi tematici dei primo tempo e lo sviluppo sono basati su un determinato disegno ritmico che si presenta ogni volta caratteristico e unitario: aree ritmico-metriche dalle quali scaturiscono le idee e sulle quali esse vengono sviluppate. Nel primo gruppo temafico il ritmo è




nel secondo ininterrotte terzine di quarti creano insieme al tema "lang gezogen" (esteso) con i suoi enfatici gruppetti quel peculiare ritmo polimorfo che - al tempo stesso riluttante e fastoso - è tipico per molti passaggi bruckneriani; nel terzo infine la base si sviluppa dai motivi

del tema: ininterrotte terzine di ottavi che con le loro ghirlande dolcemente cullanti determinano anche il disegno ritmico dello sviluppo. Tematicamente quest'ultimo viene determinato dal rivolto del tema principale. Quanto grande possa essere l'importanza di tali disegni ritmici anche per il contenuto emozionale della musica è dimostrato dalle tranquille scale di quarti nell'Adagio: esse accompagnano il "markig langgezogene" (esteso con vigore) primo tema nel breve sviluppo, nella ripresa (qui esse si intensificano divenendo terzine di ottavi ripetute) e nella seconda parte della coda che si smorza su pedali. Un pedale è anche alla base del complesso secondo tema concentrato negli archi al completo, al quale segue, come terzo tema, una specie di marcia funebre, uno scuro, terrificante contrasto al fervore delle precedenti cantilene in mi maggiore. "Occasionalmente lo stesso Bruckner ha accennato al fatto che è la vicinanza fra vita e morte, la 'media vita', ciò che egli in parte ha voluto esprimere" (Friedrich Blume). Ritmi fondamentali danno forma e carattere anche ai due tempi seguenti: i quarti battenti in ostinato dello Scherzo con i suoi tratti fantastico-bizarri. E nel Finale le marcate note puntate che dominano i temi I b e III, l'epilogo dell'esposizione e lo sviluppo.

Thomas Kohlhase (Traduzione: Mirella Noack-Rofena, note al CD DGG 419 194-2)