Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 23, 2007

Incantevole è l'opera più di ogni cosa

L'opera è nata con l'ambizione di rinnovare l'antica alleanza fra la parola e la musica. Si provava un rimpianto: per acquietarlo, bisognava riconquistare quella pienezza che la Grecia antica aveva conosciuto in un'epoca privilegiata della storia.A tali ragioni, legate ad un passato quale veniva congetturato, si aggiunga che, nel caso specifico, al sogno si sostituiva lo spirito d'inventiva e l'audacia innovativa. Alla fine del Cinquecento vi è tutta una fioritura di saggi: numerose sono le opere che recano nel titolo le parole experimentum, tentamen, cimento, saggio, Versuch. La volontà di ben dire, di dire "giusto", fu una caratteristica dell'epoca che seguì all'invenzione della stampa. Il "saggio" fu per Montaigne un modo tutto nuovo di "recitare" se stesso, dal fondo di una "libreria", per i suoi amici (III,4).In tutt'altra maniera, reinventare la "recitazione cantante" degli antichi fu a Firenze, presso il conte Giovanni Maria Bardi, un tentativo di eruditi e di amatori. La sfi da che attrasse quei musicisti e quei poeti fu di ricostruire l'esatta maniera in cui era eseguito il teatro antico. Possiamo credere che essi abbiano sperato che i personaggi mitici, di cui pittura e scultura avevano già fatto gli ornamenti muti di palazzi e giardini, diventassero anche corpi viventi e voci vibranti.Il Medioevo non aveva certo dimenticato i miti pagani, e li aveva "alluminati" a suo modo. Ma il gusto delle immagini fu così imperioso nel Rinascimento da sviluppare nuove forme di spettacolo, pur ridestando reazioni iconoclastiche. Esseri favolosi furono invitati ad apparire, a rappresentarsi di nuovo, a rivivere le loro passioni, con l'aiuto del trucco e dei costumi e con l'accompagnamento degli strumenti perfezionati da fabbricanti e liutai. In musica, lo stile rappresentativo era idoneo a soddisfare questa aspirazione. Indoviniamo il motivo della predilezione delle prime opere per la raffigurazione di esseri desiderati e perduti - per fi gure della perdita e del desiderio frustrato, come Dafne (che sfugge all'inseguimento di Apollo diventando un vegetale) o Euridice (che torna nel regno dei morti). Essi rappresentavano l'impossibilità del possesso, il desiderio che deplora l'assenza del bene che lo avrebbe soddisfatto. Quegli inseguitori delusi e quegli esseri amati in fuga trovavano nel recitativo e nel canto altrettanti corrispettivi consustanziali.L'opera scoprì un piacere nuovo in questa mescolanza concertata di immaginario e di concreto, di leggenda rievocata e di vicinanza sensibile. La rappresentazione operistica fu al tempo stesso il ritorno di una fi ction pagana detentrice di prestigio letterario e la proiezione di un nuovo potere musicale sulla favola tradizionale. Rivaleggiando con le arti plastiche, sfruttando tutte le attrattive sensibili per dischiudere orizzonti immaginari, l'opera divenne un luogo in cui lo slancio della passione ebbe la possibilità di rappresentare il suo eccesso sotto la protezione della bellezza. Come se le spettasse di gettare una luce più intensa su destini già noti, la nuova arte chiese all'epopea, ai grandi scenari storici e ai romanzi "cavallereschi" di fornirle i materiali per una festa rischiarata dalla luce della novità, che riempisse le tre dimensioni di una scena.Per raggiungere il suo scopo, l'opera accumulò le risorse di tutte le forme di rappresentazione. I principeschi patroni, per la loro propria gloria, volevano che il fasto della rappresentazione, sospendendo il corso del tempo ordinario, affiancasse al mondo reale un altro mondo. All'epoca del potere assoluto, la sovranità amava dare prova di sé col dono di una festa, cioé di un evento che si sarebbe fissato nella memoria di tutti. Il pubblico privilegiato delle feste era posto di fronte ad uno spazio insieme concreto (la scena ha un suo volume) e metaforico (la scena rappresenta un palazzo, l'Olimpo o gl'Inferi). Spesso, il mondo fittizio in cui si manifestava il capriccio del principe non era privo di allusioni alle vicende politiche, alle ambizioni o alle avventure galanti del momento; e la magia bianca dello spettacolo comportava anche allusioni ad arti magiche meno innocenti, la cui pratica restava oggetto di timore. Quando l'opera nacque, e mise in scena Circe o Medea, i tribunali perseguitavano ancora streghe e stregoni.Certo, ambientando un'azione drammatica nel mondo pagano classico, i poeti la ponevano sotto il segno dell'irrealtà. Il ritorno a una fi ction condivisa lasciava liberi gli spettatori di cogliere le allusioni alla realtà del mondo circostante, e i poeti sapevano come servirsi di tale distanza. A quel tempo, sotto l'occhio vigile del potere, la poesia conosceva l'arte della rifrazione.«La caratteristica propria di questo spettacolo è di tenere animi, occhi e orecchie sotto l'effetto di uno stesso incantesimo». Queste poche parole di La Bruyère, del 1691, costituiscono una sintetica defi nizione dell'opera, che sarà spesso ricordata. Dopo quasi un secolo dalle sue prime prove, l'opera beneficiava ancora della sua relativa novità. Ma, rispetto agl'inizi, aveva già conosciuto alcuni cambiamenti.Le meraviglie della fi ction avevano richiesto l'ausilio della meccanica, poi, in Francia, Lully aveva in una certa misura ridotto l'uso della "macchina". La Bruyère non approvava le restrizioni introdotte dall'"Anfi one italiano", che pur tuttavia era ben lungi dal voler rinunciare ai fasti mitologici, coi loro voli, i loro carri e tutto l'apparato delle teofanie. Lo scrittore vi si divertiva. Egli giustifi cava l'uso della macchina dicendo che «essa aumenta e abbellisce la fi nzione, alimenta nello spettatore quella dolce illusione in cui consiste tutto il piacere del teatro, in cui essa inoltre introduce il meraviglioso».La macchina teatrale come, nei parchi, le macchine idrauliche, segnavano l'entrata in scena della meccanica nelle società moderne, prima che essa entrasse in azione nella rivoluzione industriale e contribuisse a poco a poco al disincanto del mondo. A dire il vero, Lully aveva soltanto ridotto le spese; e doveva altresì attenuare il confl itto che si creava fra i suoi violini e gli stridori delle macchine sceniche.Il termine "incantesimo", usato da La Bruyère, ha a quest'epoca ancora un senso assai forte. Esso si defi nisce in primo luogo come l'effetto di un'operazione magica. Secondo l'Accademia di Francia, in senso proprio esso designa "l'effetto di presunti sortilegi". Per il lessicografo, il termine designa un potere, ma un potere a cui si attribuiscono facoltà immaginarie. "Incantare" significa "ammaliare, stregare con suoni, parole, immagini, operazioni ritenute magiche". Per i contemporanei di La Bruyère la parola, nel suo signifi cato letterale, è obsoleta; nella sua piena accezione è infi ciata dal dubbio, appartiene al passato. Il luogo degl'incantesimi, dicono gli stessi dizionari, è il "romanzo" medioevale: «I nostri vecchi romanzi sono pieni di incantesimi». Se si prende dunque il termine in senso proprio, non si può evitare di associargli un'idea di puerilità. Alla stessa parola, tuttavia, gli stessi dizionari attribuiscono un senso figurato perfettamente accettabile. Parlando "in maniera fi gurata", si può parlare di "incantesimi dell'Amore, della Poesia", di una festa si può dire che "tutto, in essa, era sorprendente", che era "un incantesimo, o un susseguirsi d'incantesimi". Quando la parola "incantesimo" è trasferita sul terreno del sentimento amoroso o dell'arte, può essere presa per buona: essa non designa allora più una costrizione soprannaturale - ma ingannevole - esercitata sulla realtà e sugl'individui, bensì l'effetto naturale di un sentimento (l'amore) o di una realizzazione estetica (la festa). In tali casi sono in gioco soltanto le risorse dell'animo e dell'arte umana, e l'illusione resta più o meno sotto controllo.
estratto da "Le incantatrici", di Jean Starobinski (Edizioni EDT, 2007)

venerdì, giugno 15, 2007

La morte di Mozart: analisi mediche.


La vita di Mozart fu costellata da periodi di depressione e disperazione, esacerbati da una affezione renale. Si dice che Costanza lo abbia assistito con grande cura in questo periodo. Molte fonti affermano che Mozart fosse occasionalmente infedele alla moglie, ma le sue passioni duravano poco. Questa è al massimo una diceria, scritta molto tempo dopo i fatti: l'intensità dell'amore di Mozart per sua moglie era evidente a tutti.
Molte delle memorie che ci sono pervenute su Mozart lo descrivono come un uomo capriccioso e di affetti superficiali, ma non bisogna dimenticare che in gran parte furono scritte sulla base di conoscenze epidermiche o puramente professionali; Mozart aveva una famiglia e una cerchia ristretta di amici devoti ai quali a turno si dedicava completamente. I sentimenti di Costanza sono ben rivelati da quanto scrisse sull'album di Mozart nel giorno della sua morte.
"Ciò che scrivesti su questa pagina al tuo amico, lo scrivo ora a te nella mia afflizione, amatissimo consorte. Mozart - indimenticabile per me e per l'Europa intera - ora sei in pace, per sempre in pace!!... All'una del mattino del 5 dicembre di quest'anno egli lascio, nel suo trentaseiesimo anno - ahimè, troppo rapidamente! - questo mondo buono ma ingrato! Oh, Dio! - Per otto anni fummo uniti dal più tenero legame, indissolubile quaggiù! - Oh! potessi presto riunirmi a te in eterno. La tua sventuratissima moglie Costanza Mozart nata Weber"
La morte prematura del compositore, sebbene non del tutto inattesa per i più attenti dei suoi contemporanei, colpì profondamente e afflisse coloro che gli erano più vicini. Era quasi inconcepibile che un talento come quello di Mozart potesse essere tacitato dalla morte a trentasei anni. Ancora oggi si fanno congetture sulle cause della sua precoce scomparsa.

Aspetto fisico
L'aspetto fisico di Mozart pregiudicò il suo successo in età adulta; sebbene non fosse cortamente brutto, non colpiva nè era particolarmente attraente. Era alto 152 centimetri, con una grande testa e un prominente naso aquilino. Aveva grandi occhi azzurri e si ritiene che fosse un po' miope. Secondo quanto riferisce il tenore irlandese Michael Kelly, aveva «una capigliatura bionda, folta e bella»: evidentemente considerava questa la sua migliore attrattiva e per la maggior parte del tempo teneva i capelli in ordine e incipriati con eleganza. Gli piaceva portare parrucche, in armonia con la moda del momento, e amava gli abiti costosi dai colori vivaci, soprattutto rossi.
Non esistono ritratti di Mozart dipinti da artisti di prim'ordine. Il più lusinghiero, che si dice sia anche il più accurato, è quello incompiuto di Joseph Lange, eseguito probabilmente nel 1789 e ora custodito nel Mozarteum. Si dice che anche il ritratto del compositore con l'ordine dello Speron d'oro sia molto somigliante. Il profilo mostrato dai numerosi cammei è anonimo, con un naso troppo grande e un mento sfuggente. La maggior parte degli artisti ritrae un Mozart dalle fattezze sensibili e gentili, un'espressione che si dice fosse sua caratteristica.
L'udito di Mozart era straordinariamente fino e gli consentiva di individuare i minimi errori di intonazione. Aveva un'evidente deformazione dell'orecchio sinistro che ancora oggi viene chiamata «orecchio di Mozart» ed è diffusamente descritta nella letteratura medica (le «orecchie di Mozart», a quanto si sa, non sono associate a un'anomalia interna - in particolare non ci sono collegamenti con malattie renali - né, come si pensava una volta, sono collegate a un eccezionale talento musicale). La prima descrizione dell'orecchio di Wolfgang apparve in una biografia del compositore scritta nel 1828 da G. N. von Nissen, che aveva sposato Costanza, la sua vedova.
La malformazione ereditaria è poco comune: secondo Alex Paton si presenta in meno dell'uno per cento della popolazione. Nel 90 per cento dei casi si verifica in un solo orecchio, che risulta piatto, con uno scarso sviluppo della curva antielicale. Il figlio di Mozart, Franz Xavier, ereditò la fisionomia del volto paterno e la deformità all'orecchio, e ci sono prove che fu lui il modello per l'illustrazione contenuta nella biografia di Nissen.

Le malattie di Mozart e le loro conseguenze
L'origine della malattia finale di Mozart sta in una serie di infezioni infantili che avevano colpito il giovane prodigio. Nel 1762, a sei anni, fu colto da una forte febbre accompagnata da un esantema. Il suo corpo si coprì di dolorose pustole rosse che, si disse, avevano le dimensioni di un kreutzer (una moneta di circa tre centimetri di diametro). Il bambino restò malato per quattro settimane e fu curato con polvere nera, un antisudorifero. Secondo i medici, questa eruzione era un «erythema nodosum», causato dalla prima di una serie di gravi infezioni da streptococco che avrebbero tormentato Mozart.
La sua infanzia fu caratterizzata da ricorrenti attacchi di tonsillite streptococcica. Ne fu colpito due volte nel 1762 e ancora nel 1764 e nel 1765. Nel dicembre del 1762 lo colse una grave poliartrite associata alla malattia; furono colpite anche le ginocchia, tanto che a stento riusciva a stare in piedi. Si è ipotizzato che la malattia fosse una febbre reumatica, ma potrebbe essere stata una precoce manifestazione della sindrome di Henoch-Schönlein che, secondo Peter Davies, finì per costargli la vita (entrambe le malattie sono una reazione auto-immune all'infezione streptococcica della gola e sarebbero state relativamente comuni al tempo di Mozart).
Nel novembre del 1765 sia Mozart che la sorella furono colpiti da una malattia febbrile mentre si trovavano all'Aja. Nannerl cadde in delirio, la gola infiammata. Ricevette l'estrema unzione, ma contro ogni previsione si riprese. Wolfgang restò malato per un mese, emaciato e disidratato; le sue labbra persero la pelle tre volte e divennero dure e scure. È impossibile fare una diagnosi sicura di questa malattia, ma la maggior parte dei medici professionisti che si sono interessati alle malattie di Mozart sono propensi a diagnosticare una febbre endemica tifoidea.
Nel novembre 1766 Mozart ebbe una recrudescenza di febbre e poliartrite; le ginocchia furono nuovamente colpite, non riusciva a camminare né a muovere le dita dei piedi e le ginocchia.
Nel 1767 contrasse il vaiolo a Olmütz durante un'epidemia. Fu gravemente malato per tre settimane e Nannerl scrisse che la malattia aveva sfigurato il fratello. Durante la convalescenza imparò a tirare di scherma.
Nel gennaio del 1772 fu di nuovo malato a Salisburgo, con un evidente ritorno di tonsillite streptococcica cronica.
Nell'agosto del 1784 Mozart fu un'altra volta gravemente ammalato. Il 23, mentre assisteva a un'opera di Paisiello a Vienna, sudò così tanto da inzuppare gli abiti. Accusò inoltre coliche e vomito e rimase indisposto sino alla fine di settembre. Leopold Mozart descrive la malattia del figlio come una «febbre infiammatoria reumatica». La salute di Mozart si deteriorò progressivamente dopo questa malattia.
Fu seriamente malato nel 1787 e di nuovo nel 1790, quando soffrì di dolori reumatici, mal di testa e mal di denti. Ancora una volta c'e la prova (adenopatia cervicale) che era stata una forma lieve di tonsillite a scatenare la malattia.
Jean-Baptiste Suard fornisce una testimonianza di prima mano sullo stato di salute di Mozart e attribuisce senza incertezze la sua malattia cronica alle pressioni cui fu sottoposto da bambino: «Si è costantemente osservato che uno sviluppo troppo sollecito e rapido delle facoltà intellettive dei bambini si verifica solo a scapito del loro fisico. Mozart ne ha fornito una nuova prova. Il suo corpo non ebbe una crescita normale mentre si sviluppava. Per tutta la vita rimase debole e di salute cagionevole».

L'ultimo anno di Mozart
Erano stati molti a notare il pallore e la debolezza di Mozart nei primi mesi del 1791. Il compositore diventò incline alla depressione e a un comportamento paranoico. Alcuni autori hanno ipotizzato che le sue mani grassocce e il viso gonfio fossero collegati agli sviluppi dell'affezione renale. Malgrado la crescente malinconia e il peggiorare del male, Mozart era straordinariamente produttivo dal punto di vista musicale; faceva poche concessioni alla sua malattia e dormiva spesso non più di quattro ore per notte. Si sa che mangiava poco e beveva molto.
Nella seconda metà del 1791 la sua salute peggiorò sensibilmente. Divenne pallido e malaticcio, sempre più depresso, assillato da pensieri di morte. Cominciò ad avere continui svenimenti e le sue caviglie si gonfiarono. Lo stato emotivo fu ulteriormente aggravato quando uno «sconosciuto», che non volle rivelare il suo nome, chiese in agosto a Mozart di comporre una Messa da Requiem. L'episodio è una delle storie più famose nella letteratura su Mozart. Lo sconosciuto era Anton Leitgeb, servitore del conte Franz Walsegg-Stuppach, il quale voleva far passare per sua la Messa. Nella mente depressa e paranoica del compositore, il visitatore divenne un messaggero di morte. Entro ottobre Mozart aveva perso molto peso ed era già morto quando Leitgeb venne a prendere il Requiem. La sua lunga malattia e meglio spiegata come insufficienza renale cronica, forse complicata da ipertensione cerebrale. Probabilmente era anche affetto da una grave forma di anemia.

La morte di Mozart
L'ultima malattia di Mozart durò quindici giorni dal momento in cui, il 20 novembre, si mise a letto. Prima di decidersi a farlo era stato male per alcune settimane. Era stato assalito da una febbre alta, accompagnata da abbondante sudorazione, dolori addominali e vomito. I piedi e le mani erano molto gonfi ed egli lamentava dolori nel muoversi. Davies sostiene che questo era dovuto alla poliartrite e all'edema.
Ad assistere Mozart c'erano Costanza, Sophie Haibel con sua madre, Schack, Hofer e il suo vecchio allievo Süssmayr. Anche numerosi amici e conoscenti professionali vennero a fargli brevi visite. Il medico curante di Mozart era Nicholas Closset. Allarmato dal peggiorare delle condizioni del suo paziente, Closset cerco l'aiuto di Mathias von Sallaba, medico-capo dell'ospedale generale. Entrambi i medici erano molto pessimisti sulla prognosi del compositore, ma non sospettavano che dietro il peggioramento ci fosse una cospirazione. Mozart, nell'agonia finale, immaginava infatti di essere stato avvelenato con acqua toffana (piombo).
Von Sallaba notò un'esantema e diagnostico una «accesa febbre miliare». Davies conclude che l'eruzione cutanea doveva essersi verificata sulle gambe e sulle natiche, in quanto non fu notata da quanti, non medici, lo assistevano. Fu praticata una flebotomia e somministrato un sedativo, probabilmente dell'oppio. Vennero applicate compresse fredde per abbassare la febbre (il trattamento corretto della febbre e cercare di abbassare la temperatura interna).
Non ci sono elementi per ritenere che a Mozart siano stati somministrati medicinali tossici, come purganti al mercurio o sostanze per sudare a base di antimonio ma, in base ai principi medici comuni nel diciottesimo secolo, non è escluso che siano stati usati per trattare la malattia febbrile.
La malattia di Mozart in origine non fu certamente iatrogena (cioè causata dai medici). Applicando compresse e calmando il paziente, il medico pratico un trattamento sintomatico efficace e contribui ad alleviarne le sofferenze. Alcuni degli amici di Mozart erano molto critici sulle capacità professionali di Closset e la convinzione che la malattia fosse iatrogena ha resistito nella letteratura medica, anche se mancano le prove. Ai tempi di Mozart erano a disposizione dei medici e del pubblico più di venti diverse preparazioni al mercurio, utilizzate per combattere molte malattie diverse fra loro. Se Mozart ne avesse presa una avrebbe aggravato le sue condizioni, mentre sembra che l'affezione renale si verificasse sempre dopo una ricorrente infezione streptococcica. Non ci sono prove di tremore o demenza né della particolare salivazione che accompagna l'avvelenamento cronico da mercurio e che resero così penosa l'esistenza di Paganini.
Sophie Halbel sostenne, in una lettera scritta nel 1825, che Mozart restò cosciente fino a due ore prima del decesso, ma è più probabile che già da molti giorni fosse in preda al delirio. Il suo racconto contrasta con quello di Suard, il quale lascia intendere che il compositore visse in una condizione debilitata per parecchi mesi prima della morte e che scrisse il Requiem con enorme difficoltà. Il resoconto di Suard si adatta meglio ai fatti medici accertati (le testimonianze sull'ultima malattia di Mozart furono scritte molti anni dopo la sua scomparsa e i ricordi di amici e parenti angosciati sono di dubbia attendibilità). Le prime testimonianze mediche non davano alla valutazione del grado di coscienza tutta l'importanza che viene attribuita oggi.
Secondo Halbel, Mozart si sforzò di completare il suo Requiem del tutto consapevole della fine imminente. La domenica, 4 dicembre, gli amici si raccolsero al suo capezzale. Erano completate solo sette battute del «Lacrimosa» e il compositore cercava di cantare la parte del contralto, gonfiando le guance per imitare le trombe e dettandola in questo modo a Süssmayr. Disse agli amici: «Sento già il sapore della morte sulla lingua». Questa è un'allusione alle scorie azotate che si accumulano e rendono l'alito pesante. Nella notte sopraggiunse la febbre, probabilmente dovuta a broncopolmonite - coloro che muoiono di uremia sono soggetti a infezioni al torace - e Mozart fu preso da delirio e torpore. Poche ore prima della fine venne chiamato Closset, che ordinò compresse ghiacciate per trattare la febbre. Un prete somministrò l'estrema unzione e Mozart, cercando di sollevarsi per ricevere l'ostia, ricadde morto, cinquantacinque minuti dopo la mezzanotte del 4 dicembre 1791. Il registro delle morti della parrocchia di Santo Stefano, il 6 dicembre 1791, riporta come causa del decesso una «febbre miliare acuta». Non venne fatta l'autopsia e il certificato di morte è scomparso.

Possibili diagnosi
Ci sono quasi duecento anni di letteratura medica sulla morte di Mozart e il soggetto e in se stesso materia di studio. Io non rivendico una profonda familiarità con tutta questa documentazione. Sono d'accordo con la diagnosi di insufficienza renale cronica, aggravata da infezione terminale (probabilmente broncopolmonite) e in aggiunta, forse, da infezione streptococcica della gola. Encefalopatia ipertensiva e certamente encefalopatia uremica sembrano essere state presenti per mesi, così come l'anemia.
L'origine della malattia renale di Mozart risiede probabilmente nelle ricorrenti infezioni streptococciche che lo fecero soffrire nel corso della sua breve vita. L'infezione streptococcica cronica della gola e della pelle causa una reazione crociata auto-immune che produce nefrite (infiammazione del rene). Gli antigeni (proteine di superficie) dei batteri assomigliano alle proteine delle cellule epiteliali del fegato e - nel tentativo dell'organismo di liberarsi dello streptococco - si produce una reazione di anticorpi che danneggia il rene. Ipertensione, anemia e infezione cronica peggiorano l'insufficienza renale e lo stesso fanno molti medicinali. La morte causata da glomerulonefrite post-streptococcica era comune alla fine del secolo, quando l'infezione streptococcica era endemica e i trattamenti inefficaci. Mozart morì di quella che doveva essere stata una malattia molto comune. Richard Bright descrisse l'edema collegandolo alla nefrite nel 1836, molti anni dopo la morte di Mozart. Un recente saggio di Davies rafforza l'ipotesi di nefrite post-streptococcica. Davies ha illustrato molto bene gli effetti della presenza di una possibile malattia ipertensiva e dell'uremia sullo stato mentale di Mozart. Deliri paranoici e depressione sono comuni tra quanti soffrono di uremia e costituiscono una parte rilevante del complesso sintomatologico di Mozart.
Davies sostiene che Mozart soffriva di un disturbo affettivo bipolare (sindrome maniaco-depressiva); non ha molti argomenti per giustificare le sue conclusioni, ma la tesi si presta bene a ulteriori elaborazioni, soprattutto da parte di musicologi e psichiatri interessati alla storia della medicina.
La malattia terminale di Mozart potrebbe essere stata una broncopolmonite stafilococcica, responsabile della febbre e del delirio. Davies sostiene inoltre plausibilmente la tesi di una emorragia cerebrale nella fase finale della malattia. Carl Bär afferma che le ripetute flebotomie (salassi) potrebbero essere state la causa del decesso di Mozart e cita le testimonianze delle cure che Sallaba prescriveva ad altri pazienti, sui quali certamente usava il bisturi con mano pesante. Non ci sono prove definitive che Mozart abbia subito consistenti salassi, anche se Costanza fu affidabile testimone di una flebotomia.
Haibel espresse critiche all'applicazione di compresse fredde, ma in nessun caso lasciò intendere che il salasso avesse provocato un peggioramento delle condizioni del paziente. La questione e troppo poco documentata perche si possano trarre conclusioni definitive. Bär afferma che i medici potrebbero aver estratto due litri di sangue da Mozart, una stima che si spera esagerata. La flebotomia è controindicata nell'insufficienza renale e praticarla e un rischio.
Davies sostiene con logica stringente la tesi della sindrome di Henoch-Schönlein, una malattia auto-immune dell'organismo che provoca nefrite e segue l'infezione streptococcica. Egli porta, a prova della sindrome, gli esantemi, i frequenti attacchi di poliartrite e i dolori reumatici cui era soggetto Mozart. La presenza delle macchie cutanee rafforza la diagnosi di nefrite post-streptococcica. Ci sono naturalmente molte altre possibili cause per un'insufficienza renale cronica in un contemporaneo di Mozart, ma l'ipotesi di Davies fornisce un'unica spiegazione per i tanti attacchi che colpirono il compositore e ben si adatta ai fatti assodati. Poiche le malattie di Mozart sono così poco documentate (in gran parte a causa del livello primitivo della medicina interna nel diciottesimo secolo) e non c'è stata autopsia, nessuna spiegazione della sua morte puo essere considerata definitiva. Si potrebbe anche affermare i che le sue infermità fossero dovute a numerosi processi patologici concomitanti.
Alla lunga lista di malattie proposte dai suoi biografici medici se ne potrebbero aggiungere molte altre, ad esempio la tubercolosi renale o l'eritema nodoso. Le differenti manifestazioni extrapolmonari della tubercolosi potrebbero spiegare molte delle caratteristiche dell'ultima malattia di Mozart. Con tutta probabilità, il fattore scatenante della sua morte è stato un processo infettivo, in quanto l'infezione era endemica nell'ambiente urbano. Una malattia iatrogena, l'automedicazione e l'abuso di alcool possono avere aggravato il male.
Non ci sono prove che Mozart avesse la sifilide. La malattia era endemica nell'Europa del diciottesimo secolo, ma era diffusa soprattutto nel ceto socio-economico più basso. Il principale vettore era la prostituzione. Mozart conosceva bene questa malattia e scrisse di aver evitato donne la cui morale era sospetta. Non aveva la gonorrea, un male diffuso ovunque che non prediligeva una particolare classe sociale (come attestano le autopsie di molti uomini famosi). Mozart era un personaggio molto meno lussurioso di quanto non insinuino la maggior parte dei biografi.
L'ipotesi di Suard che Mozart fosse affetto da sifilide era basata soltanto su chiacchiere e pettegolezzi, ma non possiamo nè ammettere nè escludere questo male. La malattia cronica di Mozart e l'esantema possono essere stati collegati alla sifilide dai suoi contemporanei, ma ora sappiamo che la responsabilità e quasi certamente di altre malattie.

Mozart fu avvelenato?
Le teorie sull'avvelenamento di Mozart si basano soprattutto sul rapporto causa-effetto. Da un punto di vista medico sono superflue, in quanto le possibili cause naturali della morte di Mozart sono moltissime. L'avvelenamento da mercurio è il meno probabile, in quanto Mozart non presentava nessuno dei segni tipici del mercurialismo cronico. L'acqua toffana (piombo) sarebbe più difficile da escludere per i biografi, ma l'affollamento nella stanza di Mozart non avrebbe lasciato molte occasioni al presunto avvelenatore. Le scarne relazioni di Mozart con i fratelli massoni furono ingigantite da alcuni autori in modo da fornire un movente all'avvelenamento, e lo stesso avvenne per le sue imprese nei boudoir con le mogli di altri uomini!
Quando Salieri fu colpito da demenza senile nel 1823, accusò se stesso di avere avvelenato Mozart. Non ci sono però le prove che avesse le conoscenze e le relazioni necessarie a commettere l'omicidio. La sua confessione provocò un grande clamore e dicerie non del tutto zittite; fu cavallerescamente difeso in pubblico dal dottor Guldener von Lobes.
Il Mozarteum di Salisburgo custodisce un teschio che potrebbe essere quello di Mozart. La sua autenticità è tuttora dubbia, ma non è stato ancora esaminato da un moderno medico legale. Se si rivelasse essere davvero il teschio di Mozart, la presenza di mercurio potrebbe rilanciare la teoria dell'avvelenamento; ma poiché il mercurio veniva usato a scopi medici, le sue tracce non proverebbero in alcun modo che il compositore fu avvelenato. Franz Hofdemel, marito di una delle allieve di Mozart, si suicidò il giorno del funerale del compositore, e i sostenitori della "teoria dell'avvelenamento" hanno cercato, ma senza successo, di collegare la sua morte con quella di Mozart.

Il funerale di Mozart
Il 17 dicembre venne celebrato un funerale di terza classe, del costo di 8 fiorini e 56 kreutzer, una somma irrisoria. Il corpo di Mozart fu esposto nella casa dove era morto. Venne poi trasportato nella cattedrale di Santo Stefano, dove fu benedetto nella grande navata rinascimentale davanti a un pulpito segnato da una croce, familiarmente chiamato Cappella del Crocifisso. Il funerale, estremamente semplice, era il meno costoso tra quelli disponibili, ma non fu il funerale di un povero. Dopo la benedizione, i corpi ammassati furono portati in una tomba del cimitero di San Marco. Mozart fu sepolto in una fossa comune profonda 2,25 metri, insieme con i vicini del suo quartiere morti quel giorno. I cadaveri vennero sepolti in due strati, ciascuno coperto da calce; la fossa fu poi riaperta per seppellire un altro strato di cadaveri. Le tombe restarono senza nome.
Tra coloro che accompagnavano il funerale c'erano Süssmayr e Salieri. Costanza non era presente, probabilmente a causa di una malattia (soffriva di una dolorosa flebite) o della disperazione. Gli amici assistettero alla benedizione del corpo, ma non accompagnarono Mozart quando fu portato insieme agli altri defunti a San Marco attraverso il sobborgo della Landstrasse. Si disse che non lo fecero a causa del cattivo tempo, ma recenti ricerche hanno dimostrato che sebbene la giornata si presentasse nebbiosa, più tardi un leggero vento da nord spazzò via la nebbia e rivelò un cielo sereno. La storia degli accompagnatori scoraggiati dal maltempo è un tentativo di autori recenti di smentire i primi commentatori, i quali parlarono di una crudele indifferenza nei confronti del compositore. Ma non faceva parte delle convenzioni dell'epoca accompagnare il corpo a una fossa comune.
Il carattere di Mozart continua a sfuggirci. Era un uomo riservato e i suoi biografi devono procedere a fatica attraverso una mole di dicerie, testimonianze contraddittorie, insinuazioni, scandali, per tracciare un ritratto realistico. La sua musica probabilmente ne rivela il carattere meglio di quanto potrebbero mai fare gli schizzi biografici, ostacolati come sono da scarsa documentazione e informazioni insufficienti. La vita del compositore è stata usata come allegoria per illustrare molti temi della condizione umana - compreso il ruolo della mano di Dio nelle vicende terrene. Dopo duecento anni sembra che l'uomo non si sia ancora rassegnato alla grande tragedia della morte di Mozart.

Il destino controverso del teschio e della maschera mortuaria di Mozart
Secondo la tradizione storica, non si sa dove fosse la tomba di Mozart. Tuttavia il Mozarteum di Salisburgo custodisce un teschio che si suppone sia quello del compositore e che medici legali europei affermano adesso essere autentico. Si dice che il teschio sia stato recuperato dalla fossa comune dal sacrestano di San Marco, Joseph Rothmayer. Egli identificò il cadavere di Mozart avvolgendo intorno al collo un pezzo di robusto filo metallico. Conservò il teschio come una reliquia che nel 1868 fu presentata al professor Joseph Hyrtl, eminente studioso di anatomia viennese. Hyrtl ritenne che Rothmayer si fosse procurato il reperto nel 1801, quando il terreno fu dissodato per preparare nuove tombe. Nel 1875 Hyrtl pose il teschio su un cuscino di velluto in una teca di vetro e scrisse su di un'etichetta che attacco in fronte: «Wolfgang Amadeus Mozart, Gestorben 1791, Geboren 1756 Musa vitat mori horaz».
In un tentativo di analizzare l'apparato uditivo di Mozart, Hyrtl segò la base del cranio attraverso il meato acustico esterno. La base del cranio attualmente manca, così come la mandibola.
Recentemente l'antropologo salisburghese Gottfried Tichy ha iniziato una ricerca sull'autenticita del teschio, che si presenta ingiallito e ricoperto di frammenti vegetali e resti di collagene (il dottor Tichy ritiene che esso sia stato di fatto sepolto per circa due anni). Il teschio appartiene a un caucasico dell'Europa centrale della stessa età e dello stesso sesso di Mozart: il profilo rivela una buona correlazione con i ritratti esistenti del compositore. Il teschio mostra inoltre una rara anomalia di sviluppo che il dottor Tichy ritiene ben correlabile con i ritratti conosciuti del compositore. Per questo egli sostiene con forza l'autenticità del reperto. L'osso frontale si sviluppa in due metà, la sutura metopica di solito rimane aperta dopo la nascita. Solo in 0,3 casi su mille si chiude prematuramente, come nel caso del teschio del Mozarteum. La piccola anomalia craniofacciale che, secondo il dottor Tichy, è ben visibile nei ritratti di Mozart, consiste tra l'altro di una fronte verticale, un arco delle sopracciglia prominente e una protrusione dei denti superiori. Il dottor Tichy sta ora cercando di identificare il gruppo sanguigno partendo dal cranio: metterà alcune sue cellule a confronto con capelli del compositore.
Una seconda scoperta, forse più significativa, è quella relativa a una frattura longitudinale in via di guarigione, lunga dieci centimetri, sulla regione temporo-parietale sinistra. Simili fratture sono di solito dovute a una caduta. La frattura sarebbe stata localizzata sul lato sinistro del cranio, circa cinque centimetri sopra l'orecchio, disposta obliquamente verso l'alto e all'indietro per dieci centimetri. La frattura, a quanto sembra, è vecchia di alcuni mesi; la superficie interna del cranio mostra l'impronta di un coagulo di sangue formatosi a causa dell'emorragia dalle arterie mediane meningee (ematoma epidurale). Questa impronta misura 2,5 x 4 centimetri. L'emorragia sembra essersi risolta a partire dall'impronta. In articoli successivi il dottor Tichy e i suoi collaboratori hanno sostenuto che l'emorragia intracerebrale affrettò la morte di Mozart. Ci sono sicuramente molti casi descritti nella letteratura medica di persone morte a causa di lesioni alla testa all'apparenza "piccole" e dimenticate molti mesi dopo l'incidente. La frattura del cranio che il dottor Tichy sostiene di aver individuato potrebbe spiegare i mal di testa di Mozart alla fine del 1790 e la conseguente morte nel dicembre del 1791.
Il dottor Peter Davies di Melbourne, in Australia, ha condotto l'indagine finora più dettagliata sulla vita e sulla salute del compositore. Nella monografia pubblicata di recente, «Mozart in person. His caracter and health», egli ammette l'autenticità del teschio, ma ritiene che la frattura sia marginale rispetto alle cause della morte. In realtà le circostanze della morte non combaciano con i fatti storici noti (gonfiore del corpo, febbre), ma nessuno dei due autori ipotizza che la frattura sia stata originata da un tentativo deliberato di infliggere un grave danno fisico al compositore.
Il dottor Davies ha inoltre indagato sul destino della maschera mortuaria di Mozart. Questa, secondo Sophie Haibel, fu presa subito dopo la morte dal conte Joseph Deaym von Stritez. Ne furono fatte due copie: una per un museo delle cere locale - nel quale la figura di Mozart era esposta nei suoi abiti autentici - e una in gesso, che fu data a Costanza e si ruppe accidentalmente nel 1820; è verosimile che per sicurezza ne fosse stata fatta anche una copia in bronzo entro qualche anno dalla morte del compositore. Non si seppe nulla sul destino delle restanti copie della maschera mortuaria di Mozart fino al 1947, quando il musicista Jakob Jelinek acquistò una vecchia maschera mortuaria di bronzo per dieci scellini austriaci. Le sembianze dello sconosciuto presentano una straordinaria rassomiglianza con quelle di Mozart. Inoltre, il volto è gonfio e suggerisce una morte per uremia. La faccia presenta diverse cicatrici di vaiolo. È noto che Mozart contrasse questa malattia nel 1767.
Davies racconta i numerosi tentativi per stabilire l'autenticità del reperto, attualmente in possesso del dottor Gunther Duda di Dachau. Non c'è unanimità di opinioni sulla sua autenticità e il dottor Davies chiede che un comitato internazionale valuti scientificamente questo importante reperto, sfruttando i progressi che la tecnologia ha fatto da quando, nel 1950, l'Istituto viennese di Antropologia si espresse in modo negativo. Sarebbe ovviamente opportuno autenticare anche tutti i reperti che sono di straordinaria importanza storica per l'iconografia mozartiana.


di John O'Shea, "Musica e medicina. Profili medici di grandi compositori", Torino, EDT, 1991, pp.23-34.

sabato, giugno 02, 2007

Schumann: "Una musica ancora più musica"

Ci sono musiche che affermano (Haydn, Bruckner), musiche che negano (Beethoven, Mahler), e ci sono musiche che interpellano (Schumann, Berg). Enigmatico e trasparente, infimo e inesauribile, Schumann non è altro che un vasto e molteplice "perché ?".
Schumann resta comunque problematico. Per chi lo ascolta non v'è alcuna evidenza: conosciuto e misconosciuto al tempo stesso, attende ancora di esser riconosciuto. Egli è poco amato dagli artisti: i direttori preferiscono le sinfonie di Brahms; i cantanti i Lieder di Schubert; i pianisti Liszt o Chopin, più remunerativi in applausi; i cameristi i quartetti di Beethoven o quelli di Dvorak.
Glenn Gould proclamò un giorno "Perché Schumann, un musicista così secondario? Non posso sopportare la sua musica". Un compositore mediocre? Quasi tutta la sua opera smentisce questa provocatrice dichiarazione. Ma un musicista difficile da sopportare sì, talvolta; in questo senso Gould ha ragione. Troppo dolore nelle sue pagine, e spesso, manifesto o nascosto. Il dolore del folle, senza parole, come soltanto alcune musiche possono far sentire. Ed io capisco che ci sia chi, come Gould, preferisce non ascoltare.
Se esistono, tuttavia, delle composizioni che non dovrebbero incontrare una tale diffidenza da parte dei musicologi e del pubblico, di esse fa certamente parte la musica da camera di Schumann. Essa fu, in massima parte, composta nel 1842, e comprende alcuni capolavori, creazioni perfette ed equilibrate di un genio altrove spesso discontinuo. Nei suoi Trii, nei Quartetti e nel Quintetto si trova la sua ispirazione piú forte e poderosa, un mestiere sperimentato, la ricerca paziente della forma e sopratutto un sapiente equilibrio tra la sostanza ed i mezzi e procedimenti tecnici richiesti per l'espressione del pensiero del compositore.
Il territorio difficile e problematico del quartetto per archi ha interessato Schumann sin dagli anni della sua formazione, ma è relativamente tardi che egli si è veramente dedicato a questo genere, senza peraltro più occuparsene in seguito. I vent'anni circa dell'attività creatrice di Schumann possono essere suddivisi in quattro grandi periodi, ciascuno notevolmente centrato con una specie di fissazione ossessiva su uno strumento o un registro sonoro. Dai venti ai trent'anni il pianoforte; il 1840 è l'anno della voce (scriverà 138 Lieder); a partire dal 1841 egli si dedica all'orchestra ed alla sinfonia; nel 1842 (egli ha trentadue anni) si impegna pressoché totalmente in un altro universo sonoro, quello della musica da camera. I tre Quartetti per archi opus 41 (n° l in la minore, n° 2 in fa maggiore e n° 3 in la maggiore) furono composti tra il giugno e il luglio di quell'anno. L'apparizione di questa forma nell'opera di Schumann è quindi tardiva pur se in essa è evidente una straordinaria vitalità di scrittura.
Nel 1838, Schumann scrive a Clara Wieck: "Il pianoforte è diventato troppo limitato per me. In quel che scrivo intendo molte cose che ho della pena a a scrivere. Noto in particolare che le mie idee sono quasi tutte in forma di canone, ed in seguito scopro sempre le voci in imitazione, spesso rovesciate, con i ritmi modificati etc.". Confida quindi all'amata che egli sta lavorando a dei quartetti per archi, che diverranno qualcosa se essa gli è fedele; altrimenti saranno sepolti. Si noterà che, qualsivoglia sia lo strumento e la forma musicale, pianoforte, canto o archi, avanti o dopo il loro matrimonio, è sempre la voce di Clara e la paura di esserne separato che percorrono le composizioni di Schumann. Si trova peraltro nel Quartetti dell'op. 41 la "piccola frase" e l'intervallo di quinta dissonante che rappresentava la donna amata nei grandi cicli per pianoforte.
Nel 1839, dopo esser ritornato da Vienna ed aver completato il Carnevale di Vienna op. 26 che chiude il primo ciclo dell'opera per pianoforte, è al quartetto che egli pensa, ma sempre nell'ambito del rapporto con Clara: "Mi sono rimesso ieri al quartetto, ma mi manca il coraggio, come del resto la calma, per un tale impegno. Ma ci devo riuscire" (giugno 1839). Schumann racconta ad uno dei suoi amici compositori che sta studiando gli ultimi quartetti di Beethoven, e scrive «non v'è genere di composizione più degno della musica da camera".
Tre anni più tardi, a Lipsia, in primavera Schumann attraversa la prima crisi depressiva dopo il suo matrimonio. Clara è assente, in toumée in Danimarca, e Robert precipita in un profondo stato di melancolia e non compone più. Si dedica ai quartetti di Haydn e Mozart e scrive che è "visitato da pensieri di quartetto". Notiamo questa strana formulazione: "visitato da pensieri". E' questo un segreto di molte composizioni schumaniane, che sembrano sovente venute d'altrove, o, al contrario, dall'intimità, una sorta di voce interna, insieme vicinissima e remota. La forma del quartetto, classica per eccellenza, non farà tacere in Schumann il romantico.
Influenzato dai recenti Quartetti op. 44 di Mendelssohn, dei quali ritroviamo le dolci trasparenze degli archi intessute nel movimento lento (adagio) del primo Quartetto op. 41, dopo molti abbozzi, questo capolavoro è iniziato il 4 giugno 1842. Prima ancora che esso sia terminato, la settimana seguente Schumann inizia il secondo. Il terzo ed ultimo sarà scritto in luglio, tra l'8 ed il 22. Essi sono dedicati a Felix Mendelssohn. Il primo Quartetto fu accolto con successo sin dalla prima esecuzione, insieme al celebre Quintetto con pianoforte op. 44 interpretato dagli Schumann al Gewandhaus di Lipsia l'8 gennaio 1843.
Dopo l'esecuzione dei tre quartetti in casa del violinista, direttore e compositore Ferdinand David Moritz Hauptmann, teorico e compositore egli stesso, scriverà: "Il primo quartetto mi ha sorpreso per il talento del compositore, che non avevo sino ad ora considerato straordinario basandomi sulle sue precedenti opere per pianoforte. Esso non manca d'originalità nè per il contenuto né per la forma; è concepito e costruito intelligentemente ed in gran parte molto bello".
Fiero di sé, Schumann li offrirà a Clara per il suo compleanno, il 13 settembre. "Fu quello un giorno pieno di gioia, scrisse ... Tutto quel che posso dire dei Quartetti è che essi mi affascinano sin nei più piccoli dettagli. Tutto vi è nuovo, ma chiaro, ammirevolmente, trattato, e con delicatezza, ma sempre nel vero stile del quartetto". La reazione di Mendelssohn, in occasione di una prima esecuzione avvenuta da lui, fu anch'essa molto favorevole: "Mi sono stati suonati tre quartetti di Schumann, ed il primo mi è straordinariamente piaciuto".
Il Quartetto in la minore, op. 41, n° l, inizia con una lunga introduzione lenta (andante espressivo), un tema meditativo, introspettivo, in la minore e in 2/4, trattato con molta libertà e perizia contrappuntistica, con i quattro strumenti in costante imitazione. Dopo una conclusione in la minore, Schumann non esita a cambiare radicalmente di tonalità, di modo, di tempo e di umore (qui quello, letterario, delle leggende tedesche, le Märchen) per costruire la seconda parte di questo movimento. L'allegro adotta la tonalità di fa maggiore, con una bella melodia dal fascino cattivante come primo tema, e le tracce caratteristiche dell'accento schumaniano. Manca il secondo tema, sostituito da uno sviluppo ben costruito, che riutilizza gli elementi già enunciati con una leggerezza nelle modulazioni che fa pensare a Schubert. Lo scherzo (presto) è in fa minore, in 6/8. Tipicamente schumaniano, con le sue linee ondulanti di rapide crome. La seconda sezione conduce la tonalità verso il do maggiore. Un breve intermezzo dilata il tempo alla breve. L'adagio in fa maggiore è di un umore fervido e romantico. Tre battute di introduzione, poi il canto è enunciato dal primo violino e ripreso, accompagnato dagli arpeggi della viola. L'ultimo movimento (presto, alla breve) ritorna alla tonalità di la minore, su di un ritmo ricco ed energico, con due sezioni alquanto contrastate.
Il Quartetto in fa maggiore, op. 41, n° 2, mostra una grande economia del materiale tematico. Schumann non ama utilizzare i frammenti di un tema principale per costruire i suoi sviluppi. Il movimento comincia direttamente, senza introduzione, con un tema amoroso, una melodia che annuncia chiaramente che siamo «dalla parte di Chiarina» piuttosto che dei maestri del quartetto. La melodia, dall'apparenza seducente, trattiene come una sorta di voce interna la chiara fiamma di un'eloquenza appassionata. A questo primo movimento (allegro vivace in 3/4) succede un ammirabile andante quasi variazioni (la bemolle maggiore in 12/8 che reca la traccia dell'influenza degli ultimi quartetti di Beethoven (in particolar modo l'adagio dell'op. 127). Il terzo movimento, scherzo presto, (do minore, in 6/8) si basa sugli arpeggi dagli accenti sincopati del primo violino, di volta in volta ascendenti e discendenti, di una scrittura chiaramente pianistica. Il finale, allegro molto vivace (fa maggiore in 2/4), è pieno di umorismo, con uno strano solo del violoncello, ripreso nella coda di un virtuosismo un po' superficiale.
Composizione dalle dimensioni più vaste e dai propositi più ambiziosi delle due precedenti, il Quartetto in la maggiore n° 3, op. 41, inizia in maniera inabituale, con un andante espressivo in 4/4. Meditazione poetica, il cui tono evoca ancora una volta il pianoforte, questo movimento è seguito da un allegro molto moderato in 3/4 e molto contrappuntistico. L'assai agitato (fa diesis minore, in 3/8) è un intermezzo seguito da quattro variazioni. L'adagio molto (in re maggiore, in 4/4 ) è uno dei più sublimi canti schumaniani che adotta un cromatismo teso e dissonanze rare nella sua scrittura. Qui il poeta non racconta, ma, come nell'ultima, delle Scene d'infanzia, sogna. Egli s'inabissa nelle sue voci interne. Il finale, allegro molto vivace (la maggiore, in 2/2) ritrova l'atmosfera gioiosa e sconnessa dei grandi carnevali pianistici. Una danza, vagamente spettrale e piena d'humour, con il doppio senso di umore ed umorismo, come Schumann ama sino a smarrirsi.
La scrittura dell'opus 41 nel suo insieme smentisce le critiche di mancanza di unità e di rigore fatte talvolta a queste composizioni. C'è una articolare risonanza interna tra i quartetti (specialmente tra il primo e l'ultimo) e tra i differenti movimenti di ciascuno sì che si potrebbe parlare d'un unico e vasto «quartetto in dodici movimenti» o di «un'unica opera in tre atti e dodici scene» secondo il felice paragone di Brigitte Francois-Sappey.
L'insieme dell'opus 41 è in effetti di una grande unità. Unità tonale: le tonalità impiegate (la minore / fa maggiore per il primo; la bemolle maggiore / do minore / fa maggiore per il secondo; la maggiore / fa diesis minore / re maggiore e la maggiore per l'ultimo) si raccolgono attorno al la minore. Unità d'umore: le tre composizioni si inscrivono chiaramente sul versante di Eusebio, sognatore malinconico e tenero, nella polarità che anima le composizioni di Schumann. Nell'autunno seguente, con il Quintetto op. 44 ed il Quartetto con pianoforte op. 47, Florestano, con la sua «personalità dinamica, vivace e gioiosa», riprenderà la parola con una seconda ondata di musica da camera attorno alla tonalità eroica di mi bemolle maggiore.
Unità formale: essenziale, lo stile è confidenziale, al limite dello sfogo, ma trattenuto. L'unità dei tre Quartetti è anche nei temi che vengono ripresi dall'uno all'altro: le battute di modulazione servono da transizione tra l'introduzione lenta e l'allegro iniziale del primo Quartetto (battute da 30 a 34) e si ritrovano come introduzione al secondo. L'unità è altresì melodica: il Lied Es leuchtet meine Liebe (Il mio amore risplende) del 1840 serve da tema ai due movimenti centrali del primo Quartetto, l'andante quasi variazioni e scherzo-presto del secondo quartetto riutilizzerà una composizione per pianoforte che diventerà il Larghetto n°13 degli Albumblätter op. 124.
Esiste, infine, un'unità tra tutte le opere del 1842. Nei tre Quartetti il pianoforte non è assente, non in quanto strumento e timbro, ma come modo di scrittura: certi passaggi sembrano piuttosto pensati per le mani di un pianista che per quelle di un violinista. I violinisti, d'altronde, hanno sempre trovato questi passaggi difficili quando li interpretarono le prime volte, e bisogna riconoscere che Schumann non aveva una chiara visione della scrittura per gli strumenti ad arco, non avendoli mai praticati. Nelle composizioni da camera che seguirono, nel Quartetto e nel Quintetto, il pianoforte riaffermerà nuovamente la sua presenza.
Ancor oggi poco conosciuti, e raramente suonati in concerto, questi meravigliosi Quartetti non hanno il posto che meritano nel repertorio di questa forma musicale. Perché questa disaffezione sia da parte del pubblico che degli interpreti? Perché, eccezion fatta per il Quintetto per pianoforte e archi, è soprattutto la musica da camera di Schumann a non essere riconosciuta al suo giusto valore, pur essendo di alta ispirazione e di grande qualità di scrittura? La ragione è senza dubbio nel fatto che la forma è sempre subordinata alla voce, e la struttura all'espressione degli umori e degli affetti. Schumann non raggiunge mai una forma del tutto controllata; in un certo senso ha troppo da dire per poterlo dire bene. Il suo linguaggio è quello dell'anima, non quello della forma pura. Nel giugno 1839 egli scrive al suo amico Hermann Hirschbach: "Vivo qualcuno degli ultimi quartetti di Beethoven, anche per l'amore e l'odio che essi contengono". Tutto è detto: per Schumann la musica è e resterà una questione di amore, di morte, di paura, di respiro, di vita. Sensazioni e sentimenti più che forme e costruzioni.
Quando ringraziava Félix Mendelssohn per gli aiuti e le attenzioni di cui il suo mentore lo gratificava, egli rispondeva, invariabilmente: "Ma, caro Schumann, e i Quartetti!". Ma mai Schumann fu convinto che la sua musica, per la sua singolare bellezza, potesse sostenere il paragone con quella del suo ammirato maestro, ed ancor meno con quella di Beethoven che costituiva per lui un vertice.
«Una musica ancora più musica», questa è la ricerca iniziata nel 1841 da Schumann, e che illustra la bellezza segreta de sui tre Quartetti del 1842. La concezione del contrappunto ed il rigore degli sviluppi dei maestri del quartetto lo hanno aiutato a dare una forma alla sua depressione. Al di là della sofferenza alla quale egli da qui ancora una volta il nome di «Clara», egli affronta il dolore senza nome che si infonde dalla separazione da se stesso e dall'impossibile riconciliazione tra il suo mondo interiore e la realtà. La cosa più emozionante nel destino di Schumann non è la sua follia, ma il suo accanimento a combatterla trasferendola nelle sue opere.
di Michael Schneider, autore di "Schumann" (Les Voix Intérieures, Gallimard, 2005). Traduzione di Ferruccio Nuzzo