Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 27, 2007

Il cembalaro David Ley

Un'intervista con uno dei più interessanti costruttori di cembalo... David Ley ha cominciato a conoscere il clavicembalo da giovane tramite le regitrazioni di Wanda Landowska e il suo interesse nella costruzione dello strumento è nato quando ha letto il libri di Frank Hubbart, "Three Centuries of Harpsichord Making".

David Ley è uno dei più interessanti clavicembalari che oggi si possano incontrare in giro per il vecchio continente. L'ho conosciuto lo scorso agosto all'Accademia Chigiana di Siena, dove si trovava al seguito di Christophe Rousset, clavicembalista francese successore di Kenneth Gilbert alla cattedra della celebre istituzione musicale toscana. Lo slang piuttosto sbrigativo di chi fa musica definisce clavicembalaro colui che costruisce i clavicembali. A ben vedere, però, questa figura racchiude in sé una serie di segreti, è il depositario di un'arte che si è tramandata per secoli di bottega in bottega, da maestro ad apprendista: ad oggi, non c'è altro modo per imparare. Fin qui, si potrebbe pensare ad una normalissima vicenda umana ed artistica, visto che lo stesso si potrebbe dire per un qualsiasi liutaio. Oppure, si potrebbe cadere nell'ormai vieta trappola del 'come nasce un clavicembalo'. Invece, ascoltando David Ley si capisce come un clavicembalaro non sia soltanto un costruttore. Nel caso specifico di David, poi, questo mestiere consiste nell'essere un vero e proprio sciamano capace di ascoltare e capire in anticipo come potrà suonare un pezzo di legno piuttosto che un altro, uno stregone capace di trasformare l'albero di una foresta in qualcosa di utile per eseguire una partita di Bach. Dunque, il clavicembalaro al di fuori del comune, per prima cosa sa 'capire' un materiale, lo sa interpretare nel modo migliore affinché dia il massimo risultato. In secondo luogo, è in grado di far corrispondere un modello tonale ideale ad una concreta successione di scale in perfetto equilibrio tra loro, laddove i bassi siano profondi e ben definiti, gli acuti penetranti ma morbidi. Last but not least, non dimentica altri fattori come la cura della storia e della cultura dell'epoca barocca attraverso le sue innumerevoli fonti, la conoscenza diretta ed approfondita dei modelli originali, così come l'attenzione per il minimio dettaglio. Infine, entrano in gioco anche altri fattori, forse più personali, come il rapporto psicologico che si crea tra 'creatore' e 'creatura', la relazione che si instaura tra la voce di chi costruisce e di chi suona. David risponde con distesa cordialità alle mie domande. Mentre mi parla in un americano molto east-coast con improvvisi inserti in francese, mi rendo conto che sta descrivendo alcuni dettagli semplici ma amio avviso geniali, utili a capire - senza la solita retorica - il lavoro che sta dietro alla costruzione (o alla ri-costruzione) di uno strumento antico. Alla fine, risulta che la storia, la cultura e la filologia che la storia, la cultura e la filologia contano certo, ma non bastano da sole a costruire una buona copia di un clavicembalo d'epoca. Che cosa conta veramente? Per capirlo, bisogna avere la pazienza di saper leggere tra le righe...
Il tuo non è un mestiere tra i più comuni: come hai cominciato a costruire clavicembali?
E' una storia vecchia e lunga. Ho iniziato per amore della musica: il mio primo strumento è stato il violoncello, poi ho suonato il pianoforte. Solo in un secondo momento ho incontrato il clavicembalo, che all'epoca in cui vivevo negli Stati Uniti non era molto semplice da vedere. Si può dire infatti che questo strumento l'ho conosciuto tramite le incisioni di Wanda Landowska che comprava mio padre: passavo delle ore ad ascoltare Il clavicembalo ben temperato di Bach nell'esecuzione della clavicembalista polacca, che è stata una delle passioni degli anni dell'infanzia. Attualmente, oltre al clavicembalo amo l'arte, mi interesso di pittura ... La mia intenzione originaria era di studiare medicina, ma ho presto abbandonato questa carriera dopo i primi anni di università. Tutto è capitato leggendo Three Centuries of Harpsichord Making (edito da Harvard University Press, n. d. r.) il frutto delle ricerche decennali di Frank Hubbard, il primo negli USA ad interessarsi della ricostruzione di clavicembali storici: ho comperato questo libro, l'ho letto, e qualche giorno più tardi ero a bordo di un aereo verso Boston, dove gli ho chiesto di poter studiare con lui.

Un vero colpo di fulmine...
Sì, ma all'epoca di Boston avevo già lavorato come costruttore nell'ambito della liuteria e dell'organaria. Prima di conoscere Hubbard avevo già passato un'intera estate in una cattedrale del Massachussets lavorando per una compagnia di restauro di organi. Giusto il tempo per detestare l'ambiente ecclesiastico, la politica dei progetti di restauro e costruzione degli organi nelle chiese, l'enorme quantità di tempo che prende la progettazione e la costruzione di questi strumenti. Così, il clavicembalo sembrava il logico e per me inevitabile passo indietro dall'organaria che pure amavo ... ma non ne potevo più di avere a che fare con l'amministrazione delle chiese, la necessità di reperire enormi budget per poter lavorare bene ... insomma: se costruisci strumenti più piccoli sei molto più libero, hai meno vincoli, sei più indipendente. Dopo l'esperienza a Boston con Hubbard, sono andato a Parigi dove ho lavorato con Hubert Bedard, che all'epoca era direttore di un workshop al Conservatorio della capitale francese e, cosa per me più importante, aveva bisogno d'aiuto. Io avevo bisogno di lavorare, così ho avuto l'opportunità di mettere le mani su numerosi clavicembali originali che ho studiato a fondo. Quelli che avevo imparato a costruire a Boston erano antichi nel layout e nel design, ma i materiali che si utilizzavano erano del tutto moderni...

A proposito di materiali: sei per l'innovazione o per la conservazione?
Quando si parla di costruire strumenti, io in genere sono molto conservatore. Infatti, non credo ci sia la necessità di aiutare il clavicembalo ad evolversi, dato che si è evoluto fino alla fine del XVIII secolo, quando non sono più stati costruiti clavicembali! L'unico motivo per cui sono andato da Boston a Parigi (parliamo di più di 35 anni fa. n. d. r.) è perché non condividevo quello che all'epoca si faceva e da cui era difficile separarsi. Insomma, sia Dowd che Hubbard costruivano strumenti in tutto e per tutto moderni. La mia esigenza di fedeltà all'originale ha trovato consistenza in più di quindici anni trascorsi soltanto a restaurare modelli di clavicembali originali. Conoscendoli così bene, gli originali non ti abbandonano più, non puoi più pensare allo strumento in modo moderno, è come una specie di imprinting mentale su come le cose possano e debbano essere ricostruite. Se proprio non si può fare a meno di usare materiali moderni, per esempio, almeno bisognerebbe evitare di scegliere penne in delrin (cioè di plastica, n. d. r.). Io comunque preferisco materiali quanto più possibile originali e naturali, come la penna d'oca. Certo, è un materiale più suscettibile alle variazioni di umidità, è più fragile e necessita maggiore attenzione nella lavorazione, però il risultato è migliore. La superficie ruvida della penna naturale, infatti, può vibrare (ovvero produrre il suono) come il crine dell'arco sulle corde del violino. Il meccanismo è lo stesso: una successione rapidissima di pizzichi che risulta sfiorare e al tempo 'grattare' la corda per mezzo di una doppia azione meccanica che non si ottiene usando le più comuni penne di plastica, materiale troppo liscio e scorrevole anche se forse più stabile della penna naturale.

Dove nasce il suono dei tuoi strumenti?
E' una specie di rappresentazione che trae origine da un modello originale. Come costruttore, io ho in testa dei modelli tonali che sono un'idea. Quando costruisci devi pensare che stai facendo qualcosa che si avvicina al suono dello strumento originale, qualcosa cioè che reagisce bene musicalmente, visto che questo è il vero scopo di chi costruisce copie: devi ottenere uno strumento con 61 note perfette, uno strumento che serva la musica sostanzialmente da un punto di vista polifonico. Anche se esistono strumenti diversi, alcuni più adatti ai recital, altri più piccoli pensati per l'accompagnamento ed il basso continuo... Dipende... quello che ho notato negli anni è che, qualunque destinazione abbia lo strumento, perché sia davvero un buon prodotto deve avere voci distinte, bassi rotondi e solidi, treble flautati in modo da permettere una ricca base per le composizioni a più parti, dato che si ha a che fare con diverse voci che parlano insieme attraverso lo strumento. Quando ero a Boston l'idea era quella di ottenere uno strumento in primo luogo potente ma tutto sommato standard, uniforme, ancorché senza difetti. Il contatto con il restauro mi ha portato a creare strumenti più scientificamente ragionati, con un suono più coerente con i materiali usati. Paradossalmente, gli strumenti originali hanno più carattere di quelli moderni. L'unico modo per capirli, per mettere insieme i mille diversi parametri necessari a costruirli è lavorare in una bottega. Solo lì hai la possibilità di mischiare insieme tutti gli elementi possibili per ottenere il massimo risultato musicale. E' un lavoro ancora oggi rigorosamente empirico...

Che dipende in buona parte dal gusto personale maturato in anni di esperienza...
Tutto dipende dalla scelta dei materiali. Non basta la storia, le fonti d'epoca. Non basta fare una mappa degli strumenti originali e copiare un'accordatura storica piuttosto che un'altra, per poi approssimare un suono d'epoca che magari si basa su materiali scelti male. Quello così prodotto non è un suono d'epoca, ma prima ancora non è un bel suono. Tutto dipende dal pezzo di legno che hai in mano: determinate cose riguardano il pezzo di legno che Ruckers aveva usato per costruire quel determinato strumento. Se lo vuoi imitare oggi, devi sapere che non avrai molto aiuto perché nel tuo legno non trovi gli stessi valori, le stesse potenzialità che c'erano in quello usato da Ruckers. Oggi ti puoi basare solo su quello che senti, sull'esperienza che hai maturato nella scelta del materiale, lo ripeto, che è l'unica cosa determinante...

Sei un medium tra la natura e la musica...
In un certo senso, credo che la musica sia naturale. Tu stai creando qualcosa che verrà usato per l'espressione musicale da chi non usa la sua voce. In questo senso mi sento di fornire un mezzo tra le persone, tra le foreste di alberi e la musica di Bach. La soddisfazione più grande nel ruolo del costruttore è quella di servire l'interesse della musica e del musicista che la esegue.
Quando il musicista riceve gli applausi alla fine di un recital, di solito il costruttore non è vicino a lui. Cosa provi in quel momento?
Non mi identifico necessariamente con lo strumento, anche se devo dire che quando sento suonare un mio clavicembalo, ogni volta è come se fosse la mia voce che parla.
Ma allora sei tu il tuo strumento...
In questo caso, si. Se non altro perché il medium di cui si parlava prima mi accorgo sempre di più che rappresenta anni di lavoro. Quando me ne accorgo? Spesso, a questo punto della mia carriera! Cioè quando sento i bassi perfetti nel timbro, e realizzo che quella perfezione è il frutto di una vita intera passata a cercare e a conseguire il meglio...
... e un clavicembalista, fino a che punto è disposto a condividere il successo con te? Che rapporto si instaura tra voi? Chi è il primo tra il clavicembalista ed li suo clavicembalaro?
Il clavicembalo è la mia voce, ma ad un certo punto è la voce di chi lo sta suonando. Una volta che io ho finito il lavoro, il musicista si appropria di quella voce. La mia identità, una volta finito il lavoro, è come se si rimuovesse completamente. Alla fine arrivo a separare me stesso dalla mia creazione.
Come ad un certo punto fa il padre con figlio?
Certo! Come con un bambino. Gli dici: questa è la vita, la tua vita di strumento, ora devi andare avanti da solo e lavorare duro anche senza di me, e buona fortuna! Questo si può dire anche fuori di metafora, dato che un clavicembalo necessita di numerosissime cure amorevoli ogni dannato giorno. Tu come costruttore, puoi solo sperare che ci saranno delle persone che lo troveranno interessante, lo ammireranno e se ne prenderanno cura. Nulla di diverso che dipingere un quadro o scrivere un romanzo. E in tutto e per tutto un processo creativo. Il primo momento, il più intenso, è quando la creazione sta accadendo. Quando viene portata a compimento cominci subito a pensare a che cosa dovrai fare dopo. Anche questo guardare avanti è parte fondamentale del processo creativo. Devi creare qualcosa di sostanzialmente diverso, non si possono fare le stesse cose due volte.
Ogni volta un unicum...
Precisamente. Ogni pezzo (ogni strumento costruito, n.d.r.) deve dare l'idea di una precisa epoca a chi lo suona, deve parlare una lingua diversa da quella della contemporaneità, della serie industriale. L'unico modo è vedere di capire nel modo più fedele possibile. Al punto di studiare ore ed ore al Louvre i dettagli di un modello, come è capitato tempo fa ad un mio allievo... In altre parole, bisogna avere un profondo rispetto della gente che costruiva a quel tempo (XVII e XVIII secolo): per loro quel livello tecnico era il massimo raggiungibile all'epoca, corrispondeva al nostro high-tech. Un modello di clavicembalo francese del 1680 (del tipo di Thibaut de Toulouse), usava delle zampe ritorte, a spirale. Dettaglio apparentemente accessorio, ma fondamentale per distinguere una vera copia da una non-copia! Se si sbagliasse quel tipo di ornamentazione, è come si sbagliasse un abbellimento nell'esecuzione di un movimento di Suite! C'è una certa differenza tra quelle specifiche gambe e le gambe diritte e lisce di un pianoforte! Sembra ridicolo, ma è parte di un discorso più generale, dove anche il dettaglio è fondamentale.
Hai avuto allievi in Italia?
Questo è un vero problema, perchè oggi pochi giovani amano la fatica, e quindi questo lavoro, che è pura fatica fisica. Tuttavia, ci sono colleghi con cui si parla molto, anche se aspetto sempre un giovane apprendista... A Milano c'è Restelli, uno davvero molto bravo.

di Giorgio Carraro (da "Orfeo", ottobre 2005, n.94)

sabato, gennaio 20, 2007

J.S.Bach: Partite, Sonate, Ouvertures

Perché le Partite, le Sonate per Violino Solo e le Suite per Violoncello di Bach sono assurte allo stato di icone quali massime sfide musicali per i musicisti? Lo spiega Simon Heighes.



«Per lunghi anni, gli assoli di violino sono stati considerati dai più grandi violinisti il miglior mezzo per fare di un ambizioso studente un perfetto maestro del suo strumento» (J.N.Forkel, 1802).

Le sei Sonate e Partite per Violino, BWV 1001-6, e le sei Suite non Accompagnate per Violoncello, BWV 1007-12, di Bach sono state a lungo considerate il test supremo dell'abilità di un suonatore d'archi. Difficilmente esse sarebbero potute essere scritte da altri che un,musicista estremamente competente, e spesso dimentichiamo che Bach non solo era un organista virtuoso, ma anche un completo suonatore d'archi. Il suo primo incarico professionale fu come violinista alla Hofkapelle di Weimar nel 1703, ma tutto ciò che sappiamo del suo modo di suonare deriva da un commento casuale lasciato 70 anni dopo da suo figlio Emanuel al biografò di suo padre, J.N.Forkel: «[mio padre] preferiva suonare la viola, con intensità e morbidezza appropriate. Nella sua gioventù, e fino all'approssimarsi della vecchiaia, egli suonò il violino in modo pulito e penetrante, e quindi teneva l'orchestra in miglior ordine di quanto avrebbe potuto fare con il clavicembalo. Egli comprendeva alla perfezione le possibilità di tutti gli strumenti ad arco. Lo si capisce dai suoi assoli per violino e per violoncello senza basso [di accompagnamento]».


Questi assoli appartengono ad una ristretta rosa di opere virtuosistiche, spesso più improvvisate che formalmente composte e che erano raramente, spesso mai, pubblicate. Siamo fortunati, dunque, che la partitura autografa delle Sonate e Partite per Violino Solo di Bach sia sopravvissuta, perché contiene quel genere di fraseggio dettagliato e di indicazioni sull'articolazione sulla dinamica e sugli ornamenti che raramente si ritrovano senza alterazioni nelle edizioni stampate del periodo. Il manoscritto, datato 1720, è definito 'Libro Primo', mentre lo spartito autografo di Bach delle Suite per Violoncello risulta essere etichettato come 'Libro Secondo'. Entrambi i gruppi di opere, come molti altri prodotti da Bach in quel periodo, sembrano essere stati pianificati per esplorare sistematicamente tutte le possibilità formali e stilistiche latenti nelle loro varie forme: la sonata italiana e la suite francese. Ancora non sappiamo per chi furono scritte ma, come i sei Concerti Brandeburghesi, furono probabilmente composte nell'arco di parecchi anni con una varietà di scopi in mente. Alcune potrebbero benissimo aver visto la luce nell'attività domestica di composizione a casa di Bach, e alcune suonano come se siano state quasi certamente utilizzate a scopo didattico. Per esempio, la Terza Suite per Violoncello inizia con un preludio che esplora l'intera scala della tecnica violoncellistica: vi sono scale, arpeggi, accordi e strutture di frasi che spingono l'archetto al limite della tecnica. D'altra parte, vi sono movimenti come la grande Ciaccona dalla Seconda Partita per Violino - con le sue 64 variazioni che deliziano le dita - che suggeriscono che Bach possa aver concepito alcuni lavori pensando a interpreti virtuosi come il suo amico Johann Georg Pisendel. Ma che questi lavori siano stati originariamente scritti per amatori o per professionisti non è più un problema. La grandezza della musica risiede nella sua trascendenza di tali confini. Non troviamo mai che Bach abbia sacrificato la sostanza musicale per esibizioni tecniche da due soldi, né egli ha mai limitato la sua esplorazione idiomatica dello strumento a favore di musicisti meno capaci. Proprio perché la sua musica non è mai stata concepita per la pubblicazione, Bach ebbe mano libera. Egli ne approfittò per sottoporre gli esecutori ad una miriade di sfide che sono alla base del continuo fascino che questa musica esercita ancora oggi. Anche un movimento apparentemente così semplice come la Sarabanda della Quinta Suite per Violoncello nasconde un suo proprio ostacolo tecnico. Senza l'ausilio della doppia interruzione, il musicista deve utilizzare le gestualità espansive della stessa melodia sia per suggerire una linea del basso armonica, sia per accennare un accompagnamento. L'astuta implicazione di parti multiple è anche alla base dei movimenti più chiaramente virtuosistici di Bach: le espansive fughe che fanno parte delle tre Sonate per Violino. Con l'uso della doppia, tripla e talvolta quadrupla interruzione, Bach crea l'impressione di dense tessiture polifoniche che l'esecutore e gli ascoltatori possono intuitivamente completare nelle loro menti. L'idea di una fuga suonata da uno strumento melodico era una sfida tecnica che si dimostrò irresistibile per un compositore come Bach. E nella fuga della Seconda Sonata egli ha spinto il processo quanto più in là possibile, con una tecnica fugale implicita tanto intelligente quanto quella apprezzata nelle sue opere per tastiera, udibilmente culminante nella fusione del soggetto con la sua inversione. Con nessuna altra composizione i musicisti d'archi hanno l'opportunità di tessere da soli una fuga talmente ingegnosa. L'aspetto solistico di questi pezzi è ciò che ha chiaramente stimolato l'aspirazione di Bach a nuovi picchi compositivi. Sonate, partite e suite erano tutte generi cameristici ed orchestrali diffusi nel diciottesimo secolo, e adattarle ad un singolo strumento ha determinato alcune eleganti soluzioni ed ha dato alle opere la loro voce caratteristica. Nella Quarta Suite per Violoncello Bach giustappone due approcci molto differenti alla bourrée. Nel primo, una melodia elaboratamente decorata è sufficiente per suggerire il mondo della danza cortese, stilizzata. Ma il secondo, appaiato fino al dettaglio, evoca le vere origini della bourrée, proprio come sarebbe stata suonata su uno strumento rustico. Non che tutti questi movimenti siano facili da suonare. Proprio come gli attori riveriscono i ruoli del grande Shakespeare, è sempre stato motivo di grande orgoglio per i musicisti il fatto che questi lavori richiedano una tecnica matura ed un'eccezionale resistenza. Il grande violoncellista catalano Pablo Casals non si vergognava di ammettere che «per dodici anni li ho studiati e ci ho
lavorato sopra ogni giorno, e solo all'età di venticinque anni ho avuto il coraggio di suonarne uno in pubblico». Dovettero passare altri trentacinque anni prima che egli si sentisse pronto a registrarli. Queste registrazioni profondamente personali, effettuate tra il 1936 ed il 1939, avrebbero influenzate generazioni di violoncellisti. Essa ha anche rappresentato un importante precedente. Era ora possibile scoprire la propria anima in Bach. E, cosa più importante, andava bene fare ciò in uno studio di registrazione. Ma con l'avvento del movimento filologico, vi furono musicisti via via sempre più giovani disposti a registrare queste opere, ed in modo intrigante le loro reazioni alla musica divennero sempre più personali. Pareva anche esservi una convenzione non scritta per cui i musicisti dovevano esprimere le loro sensazioni nei confronti della musica nelle note accompagnatorie del libretto. Ma non aspettatevi grandi rivelazioni. Solo due musicisti hanno qualcosa di sostanziale da dire su questa musica. Yo-Yo Ma va parecchio più avanti di chiunque altro. Ogni segmento del suo film in sei puntate Inspired by Bach riesce a scoprire l'essenza musicale di ciascuna suite. Collaborando con artisti così diversi tra loro come i pattinatori Torvill e Dean ed il regista Francois Girard, il team esplorano nuovi modi di esprimere ciò con un altro mezzo artistico. Anche Anner Blysma crede che la musica sia una sorgente di ispirazione perennemente rinnovabile, ma per lui il motivo è che lo spartito è una 'tabula rasa' espressiva. Dato che i dettagli del fraseggio e dell'articolazione sono andati perduti con lo spartito autografo di Bach, gli interpreti delle suite saranno perennemente sfidati a trovare nuovi modi di eseguirle. Ma essi non hanno mai bisogno di sentirsi completamente soli. Perché il sommo paradosso di questi assoli è che, al loro cuore, essi sono davvero un duetto con un partner silenzioso. Come dice Blysma: «chiunque accetta la sfida di suonare un'opera di Bach, gioca a scacchi con un maestro un maestro la cui abilità è dieci volte superiore di quella del musicista».
di Simon Heighes (Gramophone), tratto da "Orfeo", dic.2005/gen.2006 n.96

domenica, gennaio 14, 2007

Parigi: la Salle Pleyel

In attesa della costruzione di un nuovo grande auditorium è stata ristrutturata e riaperta la sala da concerti parigina, luogo storico e centrale della capitale francese.
La questione dell'auditorium è ricorrente nella vita musicale parigina e viene posta con insistenza da più di vent'anni: da quando François Mitterrand decise di costruire l'Opéra-Bastille, ma in realtà fin dal diciannovesimo secolo. Con la costruzione della Cité de la Musique alla Villette ha ricevuto una risposta solo parziale; da qualche mese, però, si è finalmente trovato un accordo tra i diversi partner pubblici e un auditorium di duemila posti sarà costruito alla Cité de la Musique entro il 2012.
Nell'attesa, è bastato che la Salle Pleyel fosse chiusa per diversi anni perché il problema apparisse in tutta la sua gravità: l'Orchestre de Paris non aveva più una sede per i suoi concerti e ha dovuto per quattro anni emigrare in un teatro parigino, il Mogador, concepito per l'operetta tradizionale e del tutto inadatto alle esigenze di una grande orchestra.
E' come dire che la Salle Pleyel è oggi un luogo essenziale, insostituibile, per la vita musicale parigina, come d'altronde fin dalla sua costruzione nel 1927. In effetti quella di rue du Faubourg Saint-Honoré è la sola sala da concerti abbastanza ampia della capitale; gli altri spazi; lo Chátelet o il Théátre des Champs-Elysées, sono teatri che accolgono di tanto in tanto dei concerti, e l'auditorium della Villette o la sala Olivier Messiaen di Radio France hanno una capacità troppo ridotta di spettatori (mille posti).
Dunque, ciò che fa della Salle Pleyel un luogo mitico ed eccezionale è prima di tutto il suo carattere unico. Si rimane sorpresi nel constatare che dopo il 1927 non è stato costruito un auditorium a Parigi: ormai, è la sola capitale europea sprovvista di un luogo moderno e accogliente per l'ascolto della musica. Tuttavia, il pubblico è presente dappertutto, dove a Parigi si fa musica, e i primi dati sull'affluenza del pubblico alla Salle Pleyel rinnovata sono del tutto favorevoli. La recente riapertura di questa sala è dunque un avvenimento importante nella vita musicale parigina. E' il caso di ricordare le circostanze della sua costruzione e le tribolazioni che hanno segnato la sua esistenza fino a questi ultimi anni.
La famiglia Pleyel, residente a Parigi dal 1795, apre nel 1807 una fabbrica di pianoforti che diventerà celebre in tutto il mondo. Camille Pleyel, il figlio del fondatore ungherese (Ignaz Pleyel), fa allora costruire una sala da 150 posti, poi un'altra da 550 che accoglierà i più grandi musicisti (Chopin, Saint-Saéns, Debussy). Questa sala si rivela insufficiente per le grandi orchestre sinfoniche e all'inizio degli anni '20 del Novecento Gustave Lyon, direttore della società Pleyel, lancia l'idea di costruire una sala da concerti da tremila posti che usufruisca delle ultime innovazioni in campo acustico. Il progetto prende forma: risponde, insieme, alle esigenze della società Pleyel di promuovere le proprie attività musicali e a quelle della città di Parigi dove non esistono sale che non siano teatri che accolgono concerti (praticamente come oggi).
La sala viene inaugurata il 18 ottobre 1927 con un concerto della Société des concerts du Conservatoire (l'antico nome dell'Orchestre de Paris), nel corso del quale Igor Stravinskij e Maurice Ravel dirigono e al quale assistono, tra gli altri, Manuel de Falla, Paul Dukas, André Messager. Tutti riconoscono la grande riuscita di un'acustica eccezionale, ma dopo un anno un incendio la distrugge. Ciò nonostante, viene rapidamente rimessa in sesto, ma con una capacità ridotta a duemilacinquecento posti. L'organo viene installato nel 1929 e inaugurato il 5 marzo 1930 da Marcel Dupré.
Da allora, la Salle Pleyel è il centro nevralgico della vita musicale parigina, con le due sale complementari Chopin e Debussy. Vi prendono sede le orchestre delle associazioni musicali parigine (Orchestre Symphonique de Paris, Société Philharmonique), poi poco a poco delle altre come l'Orchestre Colonne, l'Orchestre Pasdeloup, l'Orchestre Lamoureux; ma vi si ascoltano anche cantanti di varietà e di jazz. L'incendio, tuttavia, ha gravemente minato l'equilibrio finanziario della maison Pleyel che, in tale momento di grave crisi economica, fallisce; è la sua banca, il Crédit Lyonnais, a diventare proprietaria della Sala.
La gestione morbida della banca permette alla Salle Pleyel di restare il centro della creazione e dell'interpretazione musicale parigina: Stravinskij, per esempio, vi presenta Agon in prima esecuzione; grandi direttori e tutti i grandi solisti del ventesimo secolo la segnano con la loro presenza. Otto Klemperer, per citarne uno, vi eseguirà la Nona sinfonia di Mahler. Infine, la Salle Pleyel diventerà la sede dell'Orchestre de Paris, il cui direttore era all'epoca Daniel Barenboim.
Nel 1998, la Salle Pleyel è messa in vendita dal Crédit Lyonnais in seguito allo scandalo economico che stava per inghiottire questo storico gioiello della finanza francese. Il nuovo proprietario ne affida la direzione a sua moglie, direttore d'orchestra, fatto che provoca grossi trambusti nella vita musicale (tra le altre cose, il ciclo Beethoven previsto nel febbraio 2001, con i Berliner Philharmoniker e Claudio Abbado, sarà annullato e si terrà invece a Roma, all'Auditorium di via della Conciliazione). La Salle Pleyel vive allora i momenti più difficili: si parlerà perfino, per qualche momento, di abbatterla per costruire al suo posto degli uffici.
D'altro canto, per rispondere alle critiche sempre più pungenti, era stato programmato più di un rifacimento: il primo, nel 1958, aveva trasformato tutte le parti comuni dividendole con tramezzi ed era intervenuto anche nella sala vera e propria, diminuendone peraltro le qualità acustiche; il secondo, nel 1981, aveva cercato di ristabilire la forma originale, senza migliorare veramente l'acustica. Sarà l'ultimo grande intervento prima dei lavori del 2002, conclusisi con l'inaugurazione del settembre 2006.
Lo stato francese, conscio della difficile situazione parigina e della necessità della città di avere un auditorium al minor costo possibile, decide d'accordo con il proprietario di intervenire per salvare la Salle Pleyel e di ridarle il suo lustro d'antan. I lavori cominciano nel 2002.
I lavori cercano di ristabilire prima di tutto la struttura originale e di eliminare gli interventi del 1958. La realizzazione più impressionante è il ripristino della monumentale entrata, la rotonda originale Art déco distrutta nel 1958; poi un ampliamento delle parti pubbliche e un totale rifacimento dell'auditorium con il comparire di gallerie laterali e di gradini dietro l'orchestra, in un'estetica vicina a quella originale, così come la totale rifondazione delle condizioni acustiche. Il numero di posti è limitato a 1.913, decisione che migliora le condizioni di comfort.
Anche le parti destinate agli artisti sono state ripensate, per permettere l'accoglienza simultanea di differenti orchestre, residenti o invitate, e rispondere così alle attuali esigenze delle grandi formazioni musicali.
Questo recupero, largamente finanziato dalla stato, si inscrive in una esigenza di trasparenza della gestione artistica e viene chiesto alla Cité de la Musique, istituzione pubblica creata nel 1995 e posta sotto la tutela statale, di prendere in gestione la Salle Pleyel permettendole così di allargare il suo progetto artistico. Per fare questo, il ministero della cultura e della comunicazione ha autorizzato la Cité de la Musique a prendere in affitto la Salle dal suo proprietario per cinquant'anni e a gestirla con l'intermediazione di una filiale cui è associata la città di Parigi.
La Cité de la Musique ha trovato nella Salle Pleyel un polo di riferimento in campo sinfonico che le mancava (in effetti, l'auditorium da mille posti era insufficiente) e resta nel contempo il crocevia del vicinissimo Conservatorio e della musica contemporanea (con l'Ensemble Intercontemporain), possiede anche una mediateca e un Museo e organizza delle mostre. Aspettando la costruzione dell'auditorium prevista, come si è detto, nel 2012, la Cité de la Musique può così accogliere le grandi fondazioni sinfoniche e animare un luogo di esecuzione del repertorio classico di ieri e di oggi, mentre le altre sedi sono consacrate piuttosto alla musica da camera, alla musica barocca e a quella contemporanea.
Così l'Orchestre de Paris, con il suo attuale direttore Christoph Eschenbach, ha ritrovato la sua sede tradizionale che condividerà con l'Orchestre Philharmonique de Radio France diretto da Myung-Whun Chung e con le diverse orchestre e i solisti invitati nella stagione. La riapertura della Salle Pleyel risponde a un bisogno reale della città di Parigi. Diventava molto difficile organizzare una vita musicale sempre più ricca senza avere a disposizione una sala da concerti di ampie dimensioni. Rimane in ogni caso da augurarsi che questa riapertura sia anche il preludio alla costruzione di un'altra sala moderna che porrà finalmente Parigi al livello delle altre grandi capitali europee, che hanno almeno due sale da concerto importanti. E' programmata di sicuro, ma la storia musicale di Parigi ci ha insegnato a diffidare delle promesse.
di Guy Cherqui (tratto da "Amadeus", Anno XIX, gennaio 2007, n.206)

domenica, gennaio 07, 2007

Baldassarre Galuppi: Il Filosofo di Campagna

Considerato da Charles Burney come il più ispirato tra i compositori veneziani del suo tempo, celebrato da Carlo Goldoni per lo stile musicale, Baldassarre Galuppi pone grande impegno nella caratterizzazione musicale ed emotiva di ciascun personaggio di quest'opera. La registrazione del «Filosofo di Campagna» diretta da Franco Piva presenta una buona qualità del suono, un riverbero discreto ed un eccellente bilanciamento tra cantanti ed orchestra.

Fino a tempi recenti, la mia conoscenza della musica di Baldassarre Galuppi (1706-85) era totalmente limitata a parecchie sonate in miniatura per clavicembalo che comparivano periodicamente sui CD di recital di musica barocca italiana. Esse non mi hanno preparato alla portata e alla qualità de Il Filosofo di Campagna, che è solo l'ultimo episodio di una recente invasione operistica dei compositori italiani del diciottesimo secolo.
Né nobile ne apprezzato dai nobili, né tantomeno proveniente da una famiglia di artisti rinomati (benché suo padre, di mestiere barbiere, suonasse il violino in una piccola orchestra), Galuppi rappresenta un esempio concreto di musicista che si è creato un percorso nell'epoca del barocco: il compositore di classe media, gran lavoratore che cerca impiego presso qualunque padrone, avvenimento o teatro privato a cui egli può accedere. Per perseguire questo fine Galuppi si applicò con grande serietà, e con notevole successo. Inizialmente continuista nelle case d'opera, terminò la sua esistenza come maestro di coro sia presso la prestigioga cattedrale di San Marco a Venezia, sia all'Ospedale degli Incurabili, dirigendo messe (compresa la sua) in occasione delle visite del Papa. La sua fama ed il cerchio di conoscenze si ampliarono. Era amico di C.P.E.Bach e di Johann Adolf Hasse, ed ebbe l'onore di ricevere una visita da parte del futuro zar di Russia Paolo. Galuppi faceva anche parte di quella ristretta rosa di compositori italiani che Caterina la Grande periodicamente invitava nella sua terra, dove le sue composizioni sacre ed operistiche erano estremamente popolari e finanziariamente remunerative. L'infaticabile scrittore su tutto ciò che riguardava la musica barocca, Charles Burney, considerava Galuppi il più ispirato tra i compositori veneziani del suo tempo, mentre Carlo Goldoni, il grande commediografo e librettista comico, celebrò l'apoteosi dell'opera di Galuppi: «Che musica! Che stile! Che capolavori!».
Goldoni può essere considerato una fonte non obiettiva: dopotutto, egli era il collaboratore più assiduo di Galuppi. Era un rapporto proficuo per entrambi: Goldoni gudagnò un pubblico internazionale per le sue opere che sarebbero altrimenti state limitate dalla barriera linguistica, mentre Galuppi si affermò come il più popolare compositore d'opera del momento in Europa. Ma il fatto che due artisti di tale reputazione lavorassero insieme così spesso (a cominciare da Arcadia in Brenta del 1749) dà un'idea dell'aspetto sinergistico della loro collaborazione. Il loro non è semplicemente il caso di cloni di un libretto di Metastasio genericamente adattati a una musica gradevole. Un libretto di Goldoni è, per intenti e obiettivi, una commedia completa di un autore le cui opere sono ancora oggi considerate rappresentabili, mentre Galuppi utilizza tutte le risorse musicali dell'opera comica italiana contemporanea con immaginazione ed attenzione ai dettagli di carattere.
La tecnica di messa in scena di Goldoni differisce sensibilmente da quella di Da Ponte. Mentre quest'ultimo si concentrava nella rapida evoluzione del soggetto mentre introduceva complicazioni umoristiche, Goldoni indugia (e come conseguenza, c'è un'elevata densità di recitativi nella musica de Il Filosofo. Coloro che non sono interessati ad essa sono avvertiti).
L'umorismo è nei personaggi, e risiede nelle conversazioni piuttosto che interamente nell'azione che li circonda. Niente a che vedere con l'inespressività delle sei marionette di Così Fan Tutte, ed i personaggi dei libretti di Goldoni, come quelli delle sue commedie, erano ispirati alla vita reale. Don Tritemio è un guardiano litigioso, ma mostra anche un buffo umorismo, una libido attiva ed un ingegnoso senso della tattica. Lesbina, la cinica governante sul modello di Despina, ironicamente cade a sua volta nella trappola dell'innamoramento.
Il filosofo a cui si riferisce il titolo, Nardo, è un ricco fattore di campagna dignitoso e dal parlare forbito, ma è anche sentimentale e un pochino bigotto. Sua nipote Lena, in contrasto, non sogna altro che un ricco celibe di città da quello che ella considera un noioso squallore. Le origini della coppia di amanti, Rinaldo ed Eugenia, risiedono forse nella tradizionale Commedia dell'Arte, ma l'inventiva che caratterizza l'opera e l'occasionale intromissione dei cliché tragici richiama Molière: «Mi concedereste dunque la mano (di vostra figlia)?». Chiede Rinaldo. «Nossignore,» replica Tritemio. «Ahimé: muoio!» Esclama il giovane. «Per favore non morite in casa mia.» risponde Tritemio fingendosi serio.
La maggior parte della musica di Galluppi è emotivamente riflessiva e viene utilizzata nei momenti di stasi drammatica - siamo, dopotutto nella metà del diciottesimo secolo, prima dell'apparizione di Haydn, Cimarosa e Mozart. Galuppi, comunque, pone grande impegno nel caratterizzare musicalmente ciascun personaggio e le sue emozioni, per cui non si prova quel dejà-vu tipicamente barocco che talvolta colpisce lo spettatore: «Non ho sentito qualcosa di simile appena venti minuti fa, poi quindici minuti prima di allora, e ieri, quattro volte, mentre ascoltavo un'opera di Vivaldi?» Per esempio: l'aria di Lesbina dal secondo atto, Una ragazza, è in realtà un duetto con il primo violino: un'apertura e una sezione di chiusura civettuole, con una sezione mediana placidamente contrastante in cui lei riflette sul suo nuovo amore. La serenata di Nardo, Amore, se vuoi così, è permeata di charme bucolico, mentre Se non è nata nobile, il suo catalogo di virtù femminili, delinea brevemente ma accuratamente ciascuna di esse. Chi l'ha avuta l'ha avuta di Tritemio è una meravigliosa descrizione del furore che tenta, fallendo, di fingere l'indifferenza. La sola aria di Capocchio (è un notaio, convocato per il matrimonio, di cui Nardo esclama: «Mi piace questo tipo di persona.
Sono così ragionevoli nel loro amore per il danaro e odio per il lavoro») pone la barcollante linea vocale in due quarti su un tempo di giga. Anche se i due amanti sono individualmente meno interessanti come persone, compensano ciò con una serie di arie che richiamano la magica opera nel loro peso musicale; Misera, a tante pene di Eugenia ne è un commovente esempio, mentre le domande sull'amore, poste nella sua aria Che più bramar poss'io? ottengono risposta, in una melodia quasi vocale, dall'orchestra. Il finale del primo atto è una rapida, ingegnosa successione di melodie, con accenti incrociati per creare ulteriore interesse. Quello del secondo atto aggiunge maggiore varietà drammatica, tramutandosi abilmente in un prototipo per uno stupefacente finale alla Rossini (benché ad un tempo più lento).
La storia può essere così brevemente riassunta: il vedovo Tritemio vuole far sposare sua figlia, Eugenia, ad un ricco paesano, Nardo, ma lei è innamorata di un cadetto della nobiltà minore, Rinaldo. Dopo alcune complicazioni e con l'assistenza della governante Lesbina, Eugenia finisce per sposare Rinaldo, mentre la stessa Lesbina sposa Nardo. La materialistica nipote di quest'ultimo, Lena, cerca di far colpo su Tritemio.
Il Filosofo di Campagna non è stato registrato davanti ad un pubblico, cosa atipica per Bongiovanni. La qualità del suono è buona, con un discreto riverbero ed un eccellente bilanciamento tra i cantanti e l'orchestra. Patrizia Cigna, nella parte di Lesbina, mastica finemente le sue consonanti, ma i suoi istinti drammatici sono buoni. La voce è qualitativamente grezza ma dal suono sano, perlomeno finché non cala nel torace in cui svanisce. Paola Antonacci (Eugenia) ha una voce monocromatica ma che pare perdersi nelle sue guance. Non pare esservi significato nelle parole che rpronuncia. Di positivo, possiede un trillo efficace, ed esegue occasionali diminuendo di grande effetto. Mentre il Rinaldo di Patrizio Sbudelli possiede un timbro gradevole, egli lo sfrutta con timore. Anche semplici coppie di otto note, come quelle nell'aria moderatamente ritmata Guerrier che valoroso sono nient'altro che accennate. Il Tritemio di Giorgio Gatti è su un livello più elevato. Egli evince una eccellente, dettagliata caratterizzazione del personaggio e una ferma padronanza dello stile, ma la voce mostra cenni di oscillazioni e un po' di affanno nel registro superiore. Alessandro Calamai (Nardo) possiede un basso indefinito ma fermo ed un vero dono per la caratterizzazione. Sonia Prina nella parte di Lena è un contralto luminoso ed attraente, benché mostri problemi di intonazione nei salti di registro che potrebbero diventare fastidiosi in futuro. Infine, il Capocchino di Cristiano Olivieri è terribile per i problemi di intonazione, la secchezza e la mancanza di fiato.
Tutti gli interpreti danno il meglio nei recitativi, il Gatti è forse il migliore tra tutti - in essi, se non nella musica, mi ricorda l'ottimo lavoro fatto da Sesto Buscantini in così tante registrazioni RAI degli anni '60.
L'Intermusica Ensemble diretto da Franco Piva offre un accompagnamento dettagliato e professionalmente barocco, benché talvolta ostacolato dalle necessità di adattarsi a tempi più lenti di quelli che sono alla portata della maggior parte dei solisti. Gli abbellimenti, a parte qualche occasionale trillo, non sono proprio usati il ché, dato il cast, è forse la scelta migliore. Bongiovanni deve essere lodato per aver incluso nel libretto un lungo trattato in italiano ed inglese (con esempi musicali) di Franco Piva sul compositore, l'opera e le difficoltà nello stabilire un'edizione esecutiva accurata (inutile dire che il Maestro Piva merita tutta la nostra gratitudine). Sia il libretto che il trattato mostrano abilità traduttive molto al di sopra della norma di questa etichetta. Alla fin fine, un cast di media levatura in un'opera deliziosa di un compositore che si merita ben più di un revival in studio. Fortemente raccomandato.
di Barry Brenesal (Orfeo,numero 91, maggio 2005)

lunedì, gennaio 01, 2007

La gestualità barocca in Mendelssohn

Felix Mendelssohn, un romantico atipico, ebbe una relazione stretta con la musica del passato. La vicinanza al barocco del suo ammiratissimo Bach non si limita alla tecnica compositiva ma riguarda la personale gestualità del Kantor di Lipsia. André Gide disse che «tutto è già stato detto ma poiché nessuno ascolta bisogna allora ricominciare da capo». Per Mendelssohn questa affermazione assume un carattere molto personale. «Ricominciare da capo» non significa intento di rivivere con precisione musicologica un'opera dimenticata ma che la ricostruzione degli antichi maestri è fortemente intrisa di una propria e personale visione. Per un lato Mendelssohn adattò composizioni come La Passione Secondo San Matteo di Bach affinchè fossero di facile ascolto per i suoi contemporanei e d'altro canto dette vita a una produzione originale che non dimenticò i suoi illustri predecessori.
Il termine 'barocco', in qualsivoglia ambito dell'arte, oltrepassa i limiti di un periodo storico-artistico preciso per estendere i confini piuttosto irregolari influenzando anche altri stili. La grande quantità di movimenti estetici prese elementi dal barocco senza per questo snaturare le proprie caratteristiche distintive, acquistando una forma di espressione del linguaggio piuttosto che dei contenuti e delle strutture. In fin de conti sono le forme e il linguaggio che definiscono uno stile molto più del contesto e delle date storiche. Nel caso concreto di Mendelssohn, le parole del corrispondente del Zeutschrift für Musik, Robert Schumann, fanno luce sull'influenza barocca e i modelli che definiscono la creazione romantica.
Il 22 Luglio 1836, dopo la prima dell'oratorio Paulus a Dusseldorf, Schumann scrisse: «II Paulus è arte e non maniera. Qui tutto si percepisce: forma e figura, Bach e Händel e, tuttavia, non si avverte nella musica imitazione o citazione dei suoi ispiratori». Il Paulus, un oratorio romantico con gestualità barocca.
L'ideale protestante e la grande frattura
Ciò che più dell'abisso unisce Bach a Mendelssohn è la continuazione di un ideale musicale protestante e una tecnica compositiva che il romantico prese o ereditò dal suo predecessore, modellandola secondo i valori propri e personali criteri estetici. Dopo la morte di Bach la cultura musicale protestante subì un arresto improvviso. Il posto di Kantor della Chiesa San Tomaso di Lipsia non rimase mai vacante e la religiosità seguì le sue strade più meno tracciate. Però nessun compositore importante del mondo protestante riuscì a riempire il profondo vuoto creativo lasciato da Bach. La recente scoperta del legato musicale del figlio di Bach, Carl Philip Emanuel in Ucraina possibilmente darà una risposta a un dilemma grande. E' Mendelssohn, il figlio di un ebreo convertito, che finalmente emerge come successore del genio di Eisenach, e offre un repertorio che restituisce qualità e splendore alla vita musicale protestante. Nel XVII secolo i musicisti professionali mantenevano uno stretto legame con la chiesa, spazio all'interno del quale esercitavano il loro mestiere. La composizione in questo ambito aveva degli scopi pratici: la musica usata durante i servizi religiosi non era considerata opera d'arte, piuttosto era un mezzo, una forma di preghiera e di adorazione del signore. Risultava assolutamente impensabile che la musica del carattere liturgico uscisse dalla chiesa. Un secolo più tardi dal suo debutto quasi secreto, La Passione secondo San Matteo di Bach fu di nuovo eseguita nella sala della Singakademie a Berlino. Evidentemente, il ruolo della musica e dei suoi interpreti era cambiato radicalmente. «A metà del XIX secolo», affermò un amico d'infanzia di Mendelssohn, «non esisteva nessun paesino senza il suo proprio gruppo corale e nessuna città di medie dimensioni che non avesse due o tre di questi gruppi». A Berlino se ne contavano dieci o venti. All'interno di questi gruppi sociali i più numerosi e ricchi organizzavano regolarmente cicli di concerti favorendo la partecipazione di cantanti e musicisti. Erano feste durante le quali la borghesia partecipava e dimostrava prestigio e posizione sociale.
Primo passo, l'adattamento
Mendelssohn riscoprì la Passione Secondo San Matteo nel 1829 nella sala della Singakademie di Berlino, evitando qualsiasi contatto con il carattere liturgico o con l'uso pratico del brano composto da Bach. Nella versione XIX secolo, l'opera si ricicla e si adatta ad un linguaggio, un'estetica ed un orecchio romantico. Il compositore aveva una precisa idea di ciò che desiderava ascoltare, per questo adattò solo ciò che considerava necessario. In questo modo produsse un' opera con un chiaro criterio semantico del XIX secolo. Modificò la strumentazione, l'orchestra ora di enormi dimensioni romantiche -, i tempi - con precise indicazioni del metronomo - ed eliminò alcune note acute aggregandovene altre. In questo modo Mendelssohn ottenne una sensazione di largo orizzonte con pochi punti culminanti però ben differenziati, aiutando con il registro delle voci la sintassi drammatica dell'opera. In relazione al fatto d'interpretare l'opera in una sala da concerto, lo stesso Mendelssohn scrisse che «le condizioni nel secolo trascorso dal momento della prima della Passione di Bach sono cambiate. I concerti hanno ricoperto un carattere di servizio religioso, continuando l'avanzato parallelismo tra arte e religione ( ... ) La musica stessa contiene oggi la sonorità spirituale di un servizio religioso». Il critico berlinese Rellstab, dopo il concerto, assicurò che «i particolari della composizione bachiana non possono essere percepiti in una chiesa con la stessa chiarezza che permette la sala da concerto. Le Passioni di Bach - aggiunge Rellstab -, devono essere interpretate nelle sale per chiarirne la struttura e in tal modo acquisire un carattere religioso». Questa identificazione reciproca tra l'ambito ecclesiastico e la funzione della musica rese possibile la progressiva differenziazione tra la chiesa e la sala da concerto, tra la congregazione e i semplici uditori di un evento artistico, tra religione e arte religiosa. La trasformazione nel contesto della funzionalità della musica nella cornice della Chiesa accompagnò la lenta separazione tra i valori culturali della Chiesa e le sue rappresentazioni concrete.
Secondo passo: la creazione
Mendelssohn compose molte delle sue opere prendendo a modello Bach: Paulus (1836), Lobgesan (1840) così come mottetti, cantate e composizioni corali. Senza dubbio il suo oratorio più conosciuto, l'Elia (1846), non è tanto ispirato da Bach e dalla sua tecnica di scrittura - importanti arie, momenti corali meno gerarchici che nelle opere bachiane né dal suo divenire drammatico. L'Elia racconta una storia senza troppi commenti nè parabole bibliche, costruendo in ciascun atto una forma chiusa. Diverso è il risultato nell'altra creazione sacra: il Paulus. Questo oratorio è la prima parte di una incompiuta trilogia unito al citato Elias e al Jesus, che rimase solo in forma di bozza come progetto mai concretizzato. L'oratorio fin dai primi anni del XIX secolo fu una forma musicale molto apprezzata. Delle centinaia di opere che ai tempi di Mendelssohn erano ascoltate con grande successo poche sono rimaste a noi. Nel caso specifico del Paulus si tratta di un paradosso essendo oggi un'opera poco interpretata mentre fu uno degli oratori più famosi ed eseguiti del XIX secolo. Solo nei quattro anni successivi alla sua prima vene eseguito più di 50 volte in tutta Europa. Una grande quantità dei numeri dell'oratorio sono orientati verso uno stile fortemente influenzato da Bach: il coro di apertura e i suoi richiami -«Herr!-» così vicino all'inizio della Passione secondo San Giovanni, i recitativi con funzione narrativa, i cori di Turba «Steiniget lhn!»-, la splendida manipolazione della tecnica della fuga - «Ich danke dir, Herr, meine Gott» - e certamente i corali protestanti in ciascuna chiusura formale significativa. Tuttavia, il punto centrale drammatico - «Mache dich auf, werde licht!»e chiusura formale della prima parte, lo espone in una tecnica di scrittura aperta e trasparente, con reminiscenze händeliane, confermando altre fonti barocce alle quali Mendelssohn attinge. Il compositore non solo preparò e diresse numerosi oratori di Händel di fronte all'Singakademie Berlin, ma ebbe l'opportunità di studiare durante un suo viaggio in Inghilterra gli autografi di Händel nella British Library di Londra. Il Paulus fu dato per la prima volta con enorme successo il 22 maggio del 1836, contando con 379 voci nel coro e 172
strumentali nella orchestra, nella sala Beckerschen di Dusseldorf sotto la direzione dello stesso compositore. Guardando a Bach con occhi del XIX secolo o creando un'opera originale che tesse un ponte tra barocco e romanticismo, MendeIssolin fu il primo musicista che poté riconciltare le contraddizioni della sua epoca.
Lo spirito tedesco
La nozione di appartenenza nazionale si viene consolidando a partire del XVIII secolo parallelamente agli eventi politici. Bach, creatore emergente della tragedia che fu la ,guerra dei trent'anni, ebbe un'intima e naturale necessità di sentirsi e mostrarsi tedesco. Molto di più, per esempio, Buxtehude, predecessore e modello per Bach. Già nel romanticismo, da Brahms a Wagner e da Beethoven a Schumann, tutti questi musicisti tedeschi condivisero un sentimento comune: un profondo e vitale germanesimo. A metà del XIX secolo l'idea tedesca era una realtà spirituale prima ancora che politica. Allo stesso modo in Mendelssohn, un romantico classico e cosmopolita, la sua opera riflette una capacità di sintetizzare opposte e apprezzabili differenze e tuttavia e profondamente tedesca.
L'amore per l'antico
In un'epoca nella quale la negazione del passato era la norma, Mendelssohn mostrò un notevole interesse per la tradizione cercando in questa gli elementi costitutivi del suo linguaggio. Fu il primo che reinstaurò la musica di Bach come qualcosa di concreto, una novità per il suo tempo. La già citata riscoperta della Passione Secondo San Matteo ebbe una notevole trascendenza storica guardandola al giorno d'oggi. Tuttavia fu distinto l'animo che portò il giovane Mendelssohn a trascrivere nella versione da concerto questa opera maestra. Nessun affanno musicologico guidò il compositore, motivo che non gli impedì di stabilire un precedente che segnò il futuro della interpretazione barocca. Per Mendelssohn e per coloro che gli sono successi fino alla fine del XIX secolo, la visione dell' opera bachiana era pienamente romantica. Come influì l'arte di Bach nella produzione di Mendelssohn è una questione di cui si deve tener conto per la comprensione esatta del suo linguaggio.
di Eduardo Notrica ("Orfeo", numero 95, novembre 2005)