Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, febbraio 20, 2024

La IX di Mahler diretta da Solti

Di quello che per giudizio comune e con frase un po' scontata viene definito il "testamento spirituale" di Gustav Mahler, della
Nona sinfonia, cioè, son già reperibili sulla piazza discografica almeno due registrazioni che, in quanto a livello esecutivo, non temono confronto alcuno: ci riferiamo ai dischi di Bruno Walter e di Jascha Horenstein, da anni in commercio. Se vogliano, per onestà, escludere da ogni giudizio preventivo la recente incisione di Kubelik (che non conosciamo), poco ci resta che possa essere contrapposto a quelle due fondamentali letture. Poco, ma in questo "poco" occorre far rientrare la performance di George Solti, di cui qui ci occupiamo e che va giudicata, nonostante i suoi limiti, come uno dei più interessanti fatti dell'interpretazione discografica mahleriana di questi ultimi anni.
Segnalatosi frequentemente tra i più autorevoli direttori wagneriani e straussiani del nostro tempo, Solti non aveva, fin qui, dimostrato particolare propensione alla poetica mahleriana, che, del resto, nelle sue mani doveva per forza di cose stravolgersi in un ambito troppo personale per apparire veritiero. Per un concertatore avvezzo alla definizione di tematiche come quelle sopracitate, il passaggio a Mahler può rappresentare un vero e proprio salto nel buio; s'intende che non si vuol parlare di fenomeni qualitativi, potendo il direttore intelligente superare tale scoglio con facilità; quanto di possibilità di adesione concettuale a un etos, ad una cultura. In tal senso, le esecuzioni discografiche che Solti aveva fornito sinora di musiche mahleriane peccavano di un limite ben preciso: quello di considerare l'esperienza del musicista come strettamente aggregata proprio a quel mondo wagneriano che le è invece estraneo per disposizione naturale; e di fornirci, pertanto, splendide riproduzioni di un fenomeno non riproducibile e del tutto irrelato alla poetica originaria dell'interprete.
Particolarmente esemplificativa di questo stato d'animo e di questa sorta di tensione adialogica ci era parsa, a suo tempo, la realizzazione della Seconda sinfonia: esteriormente perfetta, lucidissima, prepotente, ma assolutamente estranea alle ragioni dell'Autore; quasi una propaggine di quella tematica wagneriana tanto cara a Solti, che fa pagare a caro prezzo a Mahler il dono di quella splendida magniloquenza, condannandolo al triste destino dell'epigonismo (è ovvio che, in tale prospettiva, fosse proprio il famoso Finale della sinfonia ad ergersi potente come un baluardo sonoro,  come capacità-limite di un dato mondo poetico, fino a cadere nell'inutile).
Nella prospettiva di una tale resa sonora, l'unico ancoraggio certo era, dunque, l'epigonismo, sia pure  ad uno smagliante livello. Merito di Solti appare, quindi, l'aver inteso, in questa Nona, i pericoli di  una visione del genere e di aver, conseguentemente,  dimostrato la capacità di afferrare il prosieguo logico di quell'esperienza nel totale superamento del Wagnerismo antecedente. «Totale» è forse un termine azzardato, d'accordo; e vedremo anche perché. Ma l'importanza di questa incisione mi pare nella capacità dimostrata dal concertatore di mutare l'angolazione prospettica nei riguardi del proprio oggetto di discorso: di rendersi conto, cioè, della necessità di rinnegare il criterio del livellamento dell'autore alla propria personalità. Operazione sempre deleteria e particolarmente indicativa di quel modus operativo che sembra oggi tipico degli interpreti espressi dall'attuale indirizzo tecnologico.
In tal senso, mi pare che questa concertazione  della Nona, comunque la si voglia giudicare sul piano della complessiva riuscita artistica, è ancora un fatto di cultura e non di consumo; un'operazione, dunque, da accogliere con la massima soddisfazione e con la speranza che la dialettica, in quanto entità di ricerca, non sia ancora da ammassare nel solaio delle esperienze dimenticate.
La definizione del cosmo sonoro tentata da Solti  nel I Movimento, Andante commodo, sembrerebbe invero convalidare l'ipotesi di una concertazione "epigonica", tanto arduo riesce al direttore strapparsi di dosso le voluttuose spirali di uno straussismo gonfio, abnorme, sincreticamente fossilizzato nell'acquisizione di una Veltannschauung proliferatrice di cellule malate. E sì che poche pagine come questo Andante commodo denunciano lo stato di  malattia cerebrale dell'Europa pre-bellica, di cui Mahler doveva fornire forse il ritratto più sconvolgente. Ma il punto è che in ogni momento di tale denuncia clinica, la morbosità del punto di partenza viene contestata e messa in discussione dal punto d'arrivo d'un razionalismo linguistico di allucinante esattezza. Lontano le mille miglia così dalla necrosi adialettica dello straussismo come dalle appendici tumorali dell'esperienza stilistica di Tristano.
Esperienza quasi irripetibile, questa; tale da farci guardare con una sorta di sospetto persino alle insospettate e indiscusse capacità «anticipatrici» della tematica mahleriana (quelle, è chiaro, che guardano direttamente all'Espressionismo e che Solti, in questo primo Movimento, sembrerebbe non aver afferrato nella sua interezza). Ciò ci porta, forse, a ridimensionare, per amor d'esattezza, l'ambito della nostra accettazione, come si diceva; e, tuttavia, per fortuna, i residui (patetici e pericolosi) dello straussismo soltiano si fermano qui. Quasi a suggerire  un'ipotesi che, per quanto azzardata sia, contiene in sé qualcosa di affascinante: che, nel lungo e doloroso commiato mahleriano dall'epopea tardo-romantica, il direttore ungherese abbia voluto insinuare il suo personale commiato da un modus di interpretazione,
Si diceva dell'elevatissima razionalità del procedimento linguistico di Mahler: essa trova, credo, proprio nell'Andante commodo della Nona la sua specificazione più netta; tanto più netta quanto più profetica, in maniera allarmante, di una liquidazione che coinvolge sia l'etos espressivo che la struttura stessa di tale formidabile pagina. È straordinario, infatti, come la saturazione dell'esperienza pre-espressionistica, che Mahler aveva già affermato dalla Quinta sinfonia e che aveva trovato la più perfetta emancipazione nella Settima e ne Il canto della terra, si stravolga qui nella fissità di prassi armoniche e ritmiche chiaramente anticipatrici, più che dell'atonalismo di Berg, addirittura dei nodi strutturali weberniani. E tutto ciò senza perdere la sua sconvolgente ambiguità; anzi, facendola, per ricchissimo contrasto dialogico, riemergere al livello di una prospettiva contestatoria e poliforme.
E' ovvio che tutto questo non ci riguardi per affermare le qualità profetiche del linguaggio mahleriano: lasciamo che vi si sbizzarriscano tutti coloro per i quali l'importanza di un compositore è determinabile in base alle influenze esercitate su altri. Qui è invece da stabilire proprio quel contrasto dialettico tra contenuti in liquidazione e strutture al cui livello essi vengono espressi, che mi pare il segno più profondo della grande inventiva dell'ultimo Mahler.
Di questo, che Luigi Rognoni ha chiamato un «arsenale di esperienze sonore» (tutto vi si mescola: politonalismo, scala pentatonica, ritmica frammentata, opposizione tra suoni gravi e acuti), Solti, si è detto, esplicita, in un certo senso le potenze ambigue. Ciò facendo garantisce alla pagina musicale un senso che ci pare estraneo alle più lineari e ortodossamente mahleriane concertazioni di un Walter e di un Horenstein: quello della compenetrazione degli opposti; una sorta di equivocità malsana, in cui, però, è possibile intravvedere la potenziale e, man mano, sempre più definita capacità di abbandonare l'enfatico straussiano iniziale in favore di una lettura più responsabile e svincolata dalla personalità.
Dalle battute iniziali cariche di turgore e scaturenti nel lancinante attacco I a piena orchestra al Finale del movimento, quella stupefacente «coda», in cui sembrano cadere ad uno ad uno tutti i puntelli del pericolante edificio armonico innalzato da Mahler, con estremo sacrificio, alla Secessione austriaca, per lasciare il posto a un filiforme ed irreale gioco contrappuntistico tra i legni, il corno e i contrabassi (batt. 376-390, «plötzlich bedeuten langsamer und leise»), Solti trova una misura conturbante di quello che sarà il suo futuro Mahler e lascia, dunque, un documento impreciso per equivocità ed eterodossia concettuale, ma, tuttavia, attraente nella sua discontinuità.
Questi i limiti più notevoli dell'esecuzione (limiti, come si è visto, riscattabili in virtù del potenziale istinto di rinnovamento, ma sempre limiti); poiché dal II Movimento in poi, reso con eccellente evidenza ritmica e giusta adesione intellettuale, il direttore mi pare imbrocchi la strada giusta, quella preparata attraverso i conati dell'Andante commodo; sino alla splendida conclusione dell'Adagio, che viene presentato in prospettiva fonica attanagliante: di una cupezza quasi livida, macerante, più drammatica che patetica, forse, in una visuale lontana dalle letture storiche mahleriane, ma non per questo meno indicativa del suo travaglio psichico ed intellettuale.
In conclusione, un Mahler di tutto rilievo, anche se discutibile; ma forse proprio per questo. Attendiamo ora da Solti quella lettura della Settima che ancora manca al nostro bagaglio di esperienze mahleriane (la vecchia incisione di Rosbaud è troppo difettosa tecnicamente per poter servire da pietra di paragone con l'ideale interpretazione che ci siamo formati nella mente). Ci sembra che il suo nuovo modus mahleriano  possa autorizzare l'attesa.
La Decca ha servito il suo direttore con una registrazione impeccabile, al più alto livello di resa sonora, tale da inserirla tra le sue più riuscite produzioni commerciali. Un plauso anche per l'elegante presentazione dell'astuccio e per le note alla Sinfonia, una volta tanto realizzate con serietà d'intenti e non nella consueta maniera approssimativa e pasticciona cara ai collezionisti di dischi (del resto, la firma è di Deryck Cooke e ciò mi pare basti).
Aldo Nicastro
("Disclub" 26, anno VII, marzo-aprile 1968)

domenica, febbraio 11, 2024

Il requiem tedesco di Johannes Brahms

Johannes Brahms (Silhouette)
L'ascolto disinteressato della musica da parte di chi 
non sia legato ad essa da obblighi professionali (insegnamento, critica etc.) si può configurare nella sua forma meno frivola e distratta come una appassionante e serissima avventura. O, per meglio dire, come richiesta sempre insoddisfatta e solo parzialmente appagata di una esecuzione definitiva, se pur l'aggettivo ha un senso in questo campo. Da questa ricerca continua nascerà l'esigenza di rinnovati contatti col brano e con l'autore oggetto dell'interesse. Nel caso di testi che implichino un particolare impegno di realizzazione, alle ripetute esperienze dal vivo si sostituisce poi efficacemente il disco e ci sembra sia proprio questo uno dei suoi più decisi connotati in quanto strumento di diffusione della cultura, anziché mero trastullo edonistico.
Il disco è, infatti, da considerare anche e soprattutto come un'istantanea, una foto più o meno riuscita di una certa esecuzione che altrimenti sarebbe per l'ascoltatore  o fruitore di musica difficilmente raggiungibile. Caso esemplare e tipico quello di esecutori ormai non più attivi, la cui voce ci giunge ancora attraverso il disco.
È proprio questa provvisorietà, questa continua diversità di proposte a costituire non solo il fascino dell'ascoltare musica incisa ma a darne una giustificazione (l'unica?) validissima.
Di fronte a testi di alto valore, prendere conoscenza di diverse letture, di differenti accostamenti interpretativi diviene per l'ascoltatore una necessità ai fini di quell'avventura o ricerca di cui parlavamo che apparirà sempre più chiaramente come la ricerca di un'ideale pietra di paragone o di un paradigma ideale che di volta in volta potrà cambiare.
In questo esercizio del gusto che non esclude nella sua serietà, un aspetto di «lusus» o superiore giuoco, si procederà ogni volta ad una scelta tra le varie proposte finché il campo non sia sgombro, il più possibile in attesa dell'unica, definitiva «offerta››.
Queste considerazioni sommarie ci suggerisce il recente ascolto di tre versioni ugualmente autorevoli del Requiem tedesco. Brahms come è largamente noto, con la più vasta delle sue composizioni per coro e orchestra, volle onorare la memoria di coloro che più gli furono vicini: Schumann e sua madre. I primi tre dei sette movimenti di cui consta la partitura furono eseguiti il primo dicembre 1867 a Vienna sotto la direzione di Johann von Herbeck, ma la prima ufficiale si ebbe nel Duomo di Brema e fu un avvenimento nella vita musicale tedesca in quanto tutti i musicisti più noti e autorevoli erano presenti. Dirigeva Karl Rheinthaler. Il 18 febbraio 1869, la gloriosa orchestra del Gewandhaus di Lipsia, guidata da Carl Reinecke eseguiva il Requiem nella sua forma definitiva e cioè con l'aggiunta del quinto movimento per soprano solista e coro (Ihr habt nun Traurigkeit), più specificamente dedicato alla memoria della madre del compositore.
Se si pensa che la I Sinfonia fu eseguita nel 1876 (anche se i primi appunti risalgono al 1862) e che dei grandi lavori orchestrali solo il I Concerto per piano (1861) precede il Requiem, quest'ultimo ci appare veramente come una specie di grande spartiacque della produzione brahmsiana (è l'opera 45), una sorta di riepilogo di tutti i motivi tratti da una lettura assidua delle sacre scritture, quella che ispirò lavori giovanili come l'Ave Maria (op. 12), il Canto dei Morti (op. 13), Marienlieder (op. 22), i Mottetti (op. 29) e i Cori Religiosi (op. 37). E' un riepilogo, ma anche una prefazione ai grandi lavori sinfonici della maturità cui ci sembra fornisca una linfa segreta. Non è forse l'ultimo tempo della IV sinfonia una grande danza macabra, ancora una volta  una meditazione sulla morte? Ed è significativo che tra le ultime pagine di Brahms, tra le sue più alte ed accorate, vi siano i Quattro Canti Gravi, scritti alle soglie della morte, nel 1896, i quali riecheggiano il Requiem come tono e «Stimmung» della musica e del testo, costituendone una specie di folgorante epilogo ideale. Nei quattro canti tutte le ragioni del Requiem sono ribadite con perentorietà e nettezza di accenti.
Il Requiem si situa quindi in un punto chiave dell'itinerario brahmsiano e ci è sempre sembrato (non si vuol qui fare una questione di valore assoluto a dirimere la quale non ci sentiamo autorizzati né competenti) una grande meditazione individuale sulla morte, sette pagine del giornale intimo di Brahms, per noi più significative e moderne che non le amplificazioni a volte puramente  retoriche delle sue sinfonie. E come se alla lettura ripetuta di quei testi dell'Antico e Nuovo Testamento, trascelti personalmente da Brahms, quindi una sua antologia ideale, le parole solenni e scabre del tedesco di Lutero si siano lentamente alonate di musica e risuonando, come in una cassa armonica, nello spirito del lettore-musicista abbiano sprigionato quella musica che in esse  era latente. il fraseggiare sommesso del coro iniziale Selig sind die da Leid tragen, la virile e stoica implorazione del baritono Herr, Iehre doch mich, sono due esempi  di questo lievitare impercettibile in canto del dettato luterano. Miracolo che si rinnova sugli esempi altissimi delle Passioni di Schütz, e di Bach. E sono sempre parole gravissime che richiamano all'uomo il problema ultimo ed unico, quello della Morte, il solo che conti veramente. E tutto il tono del Requiem brahmsiano, che non ha  niente, come si sa, di chiesastico e rifiuta per sua natura ogni sovrastruttura liturgica e rituale, è un tono sommesso e mormorato, almeno nelle sue parti più alte che sono poi preponderanti: una meditazione lirica ed intima.
E' l'io ripiegato in silenzio su se stesso che liberamente sceglie i suoi testi di meditazione. Per questo soprattutto il Requiem è giustamente stato definito da Brahms tedesco, cioè protestante nel senso più autentico del termine. Non un sospetto di pompa chiesastica o concertistica, mai un'ombra di enfasi. Questo Requiem si  vorrebbe veramente ascoltarlo da soli, nel proprio studio,  tendendo al massimo l'arco dell'attenzione, senza distrazioni esterne.
Pur aborrendo i ridicoli estetismi in cui esigenze del genere di solito naufragano, vorremmo veramente sentir sempre questo Requiem in un ambiente adatto (che non sarà poi necessariamente una chiesa) e quindi anche ascoltando una edizione discografica sarà questo aspetto dell'ambiente con tutti i valori atmosferici connessi, che si imporrà come preminente.
Se scegliamo dunque tre edizioni del Requiem tra le varie disponibili sul mercato e le proponiamo ad un ascolto comparativo sarà il caso di premettere che, proprio in base al criterio sopra esposto, due di esse ci sembrano letture o proposte magari diverse come accentuazione del tono fondamentale, ma comunque centrate (Fritz Lehmann con l'Orchestra Filarmonica di Berlino e Coro di S. Edvige, Berlino, per la D.G.G. e Rudolf Kempe a capo degli stessi complessi per la Voce del Padrone); la terza, viceversa, costituisce un esempio tipico di esecuzione formalmente impeccabile ed esteriormente smagliante ma in sostanza mancata e fuori centro (Otto Klemperer, con l'Orchestra e Coro Philharmonia di Londra, per la Columbia).
Sia Lehmann che Kempe sono due direttori «modesti», vogliamo dire non «divi»; non provocano, a  quanto si sa, risse ai botteghini, né «tutti esauriti» con tre mesi di anticipo sul concerto. Sono due onesti e solidi professionisti della direzione di orchestra che hanno i loro autori preferiti o approfonditi ed ovviamente non  potrebbero dirigere «tutto».
Ebbene, sia l'uno che l'altro, e soprattutto Kempe, che purtroppo è servito da una incisione non eccelsa, ci danno una loro lettura del Requiem così pudica e schiva da ogni effetto e colore estraneo da non far rimpiangere altre clamorose esecuzioni alle quali lo scrivente ha avuto la ventura di assistere (von Karajan, Perugia, Settembre 1952 e Schippers, Spoleto, Luglio 1961). La sensibilità di Kempe aderisce più immediatamente al tono elegiaco della partitura; centra con pronta immedesimazione il suono dell'orchestra e sfuma e dosa le sonorità con mano delicatissima. Al suo comando i cori di Berlino, stupendi per la perfezione dell'intonazione e per la precisione ritmica, assumono uno smalto particolare, un colorito tipico, il magico «Brahms-Klang». L'orchestra accompagna con discrezione ma è continuamente presente e si decanta in pochi preziosi timbri ogni volta che deve incastonare la voce del solista. Riuscita suprema di questa versione del Requiem è il quinto movimento nel quale Elisabeth Grümmer canta con un fervore ed un'intensità che neppure la Schwarzkopf, nell'edizione Klemperer, riesce ad eguagliare. Kempe, volendo riassumere con un solo aggettivo le nostre impressioni, ci dà un Requiem «viennese» più che «amburghese» o nord-tedesco. Una meditazione dolorosa e disadorna sul tema delle Cose Ultime, una elegia mesta e dolcissima. Lo immaginiamo interprete felice più della Seconda sinfonia brahmsiana che non della Prima.
Lehmann è un solido «Kapellmeister» e sotto la sua bacchetta la stessa orchestra e lo stesso coro suonano disciplinatamente ma con risultati diversi.
Non si tratta tanto di una questione interpretativa (si potrà dire che il Requiem di Lehmann è un po' più mosso e drammatico, meno chiaroscurato, con colori più netti e contrasti dinamici più risentiti) quanto di una diversità impercettibile di accento; al tedesco fluente e cantabile del viennese-monacense Kempe (parliamo per metafora, s'intende, perchè Kempe è nato notoriamente a Dresda), Lehmann oppone un suo tedesco settentrionale tutto esplosive e spigoli, più duro e gotico: un Brahms amburghese. Ma la meraviglia dell'edizione D.G.G. è costituita dall'ambientazione. Non sappiamo se le riprese abbiano avuto luogo in una chiesa ed in fondo è un particolare trascurabile (l). Non esiste comunque a quanto ci risulta una edizione più perfetta dal punto di vista del suono: orchestra e coro sono calati in un ambiente adeguato che ne semplifica le sonorità ma come ovattandole in una penombra dalla quale volta a volta vediamo e sentiamo affiorare e snodarsi le membrature polifoniche e in cui si spengono lentamente le ultime eco dei gemiti elegiaci (finale del quinto e settimo movimento). Eccezionale ed intonata all'interpretazione complessiva è la prestazione di Maria Stader; un po' troppo melodrammatico è Otto Wiener, dal timbro di voce poco brahmsiano. Le due edizioni che abbiamo molto rapidamente esaminato ci sembrano, dicevamo, le più ragguardevoli sotto il profilo della autenticità e della immedesimazione interpretative e la preferenza assegnata alla prima delle due sarà solo questione di inclinazione e gusto individuali.
La più recente edizione di Otto Klemperer ci pare, invece, un caso di singolare insensibilità interpretativa e ciò sia detto con tutto il rispetto per il grande direttore tedesco, animatore della gloriosa Kroll-Oper e bersaglio insieme a tanti altri musicisti della matta bestialità nazista.
In una intervista, Klemperer dichiarò di non aver più avuto occasione dal 1931 di dirigere la Messa in si minore di Bach perchè né in America, né in nessun altro dei paesi dove è vissuto esule, aveva trovato un complesso che gli permettesse di realizzarne una versione per lui soddisfacente. Fortunatamente da alcuni anni Klemperer ha trovato questo complesso a Londra nella Orchestra e nel Coro Philharmonia di cui è direttore stabile dal '59 e con cui ha già realizzato incisioni memorabili del Fidelio e della Passione Secondo S. Matteo per iniziativa della His Master's Voice. Ma questo Requiem Tedesco, per il quale il grande direttore si avvale di due solisti valorosissimi (Schwarzkopf e Fischer-Dieskau) e degli stessi complessi, pur essendo tecnicamente perfetto e splendidamente inciso ci delude quasi completamente per quanto riguarda quella autenticità, che in un testo del genere ha una particolarissima e quasi primaria importanza.
L'orchestra e il coro sono sempre troppo brillanti e tirati al lucido, sono sempre troppo in primo piano. Mancano le mezze tinte e lo stesso Klemperer ci sembra quasi svogliato, disinteressato. Elisabeth Schwarzkopf si adegua a questo tono troppo mondano e «da sala di concerto» con una prestazione ineccepibile e gelida. In questi ultimi anni, la grande cantante dà l'impressione di essere sempre più spesso «la Schwarzkopf» qualsiasi cosa canti, e di porsi sempre meno spesso il problema dell'interpretazione. Resta difficile distinguere la sua interpretazione in questo Requiem da altre sue famose come ad esempio la Marescialla o la Contessa. La stessa preziosità nel fraseggio, la stessa perfezione puramente vocalistica senza che si giunga ad una individuazione. Significativa di questa impostazione data da Klemperer alla sua versione del Requiem e la diversa intensità con cui reagisce il grande Fischer-Dieskau che aveva già partecipato alla realizzazione di Kempe con un calore ed una intensità trattenutissimi nei suoi due interventi (terzo e sesto movimento). Con Kempe, Fischer-Dieskau riesce a mantenersi sulla linea del suo Brahms (quello dei vari dischi di Lieder da lui dedicati al Maestro) tutto chiaroscuri, sempre commosso e teso, mai retorico, tutto intimo e pudico.
Sotto la guida di Klemperer, pur al livello di una prestazione altissima, perfino un interprete della sua sensibilità suona più melodrammatico e sostanzialmente assente, tutto esteriore.
Siamo spiacenti di aver dovuto fare rilievi negativi nei confronti di un grandissimo artista che ammiriamo come il più grande interprete beethoveniano vivente e da cui attendiamo l'incisione di almeno un'opera di Mozart che sia degna della tradizione di Walter (il Flauto Magico?) ma la non riuscita di questa incisione del Requiem ci conferma nella nostra idea dell'incisione discografica come fotografia, qualcosa di aleatorio e transeunte che, a causa di fattori imponderabili, può non riuscire a cogliere la effettiva realtà musicale e non meramente sonora di un testo.
(1) La registrazione del Requiem diretta da Kempe ebbe luogo in una chiesa di Berlino, nel luglio 1955.
Giulio de Angelis
("Disclub" 3, anno I, 3 dicembre 1963)

giovedì, febbraio 01, 2024

Henry Purcell: Fantasie per Viole da gamba

Amadeo AVRS 6306
Bellissimo disco: prima di tutto per la 
musica. Per tutto il Cinquecento e per una buona metà del Seicento il complesso strumentale preferito dagli inglesi fu il «Consort of violes». Fra le grandi realizzazioni del regno di Elisabetta - consolidamento dello stato, signoria dei mari, incremento di commerci ed industrie, fioritura delle arti ecc. ecc. - una delle più importanti fu il conio della parola «gentleman» intraducibile nelle altre lingue e tipicamente inglese, forse più del Consort di viole. Ebbene, Peacham nel suo Compleat Gentleman del i622 (una specie del nostro Cortegiano) afferma che chi aspira ad essere un gentleman deve «saper cantare la sua parte sicuramente e a prima vista e poi suonarla alla viola». Occorre aggiungere, a conforto dei gentlemen di oggi, che le partì non erano eccessivamente difficili...
Fu quello il periodo aureo della musica da camera inglese. La grande famiglia delle viole comprendeva allora due grandi suddivisioni, le viole da braccio e le viole da gamba, ma le preferenze degli inglesi andavano specialmente a queste ultime, che comprendevano, come del resto le viole da braccio, numerose voci. Il Concentus Musicus, consort di viole che esegue nel nostro disco le Fantasie di Purcell, si serve, ad esempio, per le parti alte di due viole da braccio (un dessus de viole o quintom, a 5 corde - la più piccola e acuta delle viole - e una viola tenore a 6 corde) e di cinque viole da gamba (due gambe discanto o soprano, una gamba tenore e due basso viole) per le altre parti.
La debole sonorità delle viole da gamba e la grande affinità di suono tra i membri della stessa famiglia non permettevano che una voce potesse prevalere ed emergere tra le altre: l'ideale polifonico della completa eguaglianza fra le parti trovava nel complesso di viole la sua più perfetta corrispondenza forse più che nel madrigale, suo equivalente vocale, dove la presenza delle voci femminili conferiva alle parti acute possibilità di emersione e predominio molto maggiori. Questo ideale polifonico era stato proscritto dalla musica religiosa ad opera della Riforma prima, del Puritanesimo dopo, che non tolleravano complicazioni contrappuntistiche alla intelligibilità dei testi. Ed era stato anche abbandonato, dopo la grande fioritura madrigalistica avvenuta nei 30-40 anni intorno al 1600, dalla musica vocale, ormai del tutto monodica: cosicché aveva trovato non solo il mezzo strumentale più adeguato, ma anche il suo estremo rifugio nel Consort di viole e nelle forme musicali da esso praticate, ossia principalmente nella Fantasia e in quel particolare tipo di Fantasia che era l'In Nomine.
Per notizie un po' più particolareggiate rimando alla mia recensione «Musica strumentale alla Corte della Regina Elisabetta e di di Re Giacomo I» pag. 32 nel n. 4 di Disclub. Qui ricorderò solo una pittoresca definizione di Morley, grande musicista e teorico elisabettiano, nel suo libro A plaine and easie introduction to pratical music del 1597: «Il principale tipo di musica scritta senza parole è la fantasia, ossia quella dove un musicista prende un pezzo di suo gradimento, lo torce e lo rigira come più gli piace, sfruttandolo molto o pochissimo secondo che ciò convenga alla sua inclinazione».
È una forma ideale per la musica da camera del tempo e si adatta mirabilmente all'ambiente della «Home» inglese, dignitoso, tranquillo e ospitale, anche se fuori imperversano la persecuzione religiosa o la guerra civile: là il far musica insieme, il condurre su viole discrete quei «sublimi discorsi» tra eguali, il confidare a una timida e breve frase melodica i propri gelosi segreti, ottenendo fraterne e. comprensive risposte, è sommo conforto e piacere per gli imperturbabili gentlemen usi alle poche parole e alle scarse espansioni.
Quando già sul continente il violino cominciava a prendere piede (risale al 1607 la pubblicazione delle prime sonate a tre di Salomone Rossi e al 1610 la pubblicazione delle prime sonate a due di Gian Paolo Cima milanese) in Inghilterra le viole continuavano a regnare indisturbate, e il violino vi era ritenuto strumento di ripiego, da usarsi soltanto «per ogni occasione straordinariamente gioiosa o gioviale» (Thomas Mace.)
Con tutto ciò stavano maturando anche le sorti del Consort di viole e della fantasia, ultimi elementi di un mondo musicale che soltanto l'insularità dell'Inghilterra e una certa sua tendenza al protezionismo verso il «Made in England» avevano preservato fino ad allora dal destino comune a tutti i generi musicali. Nel 1656 un violinista-compositore di Lubecca, Thomas Baltzar, rivelava al pubblico londinese, sbalordito e ammirato, le possibilità del violino; e qualche anno più tardi era la volta dell'italiano Nicola Matteis, che poi nel 1672 si stabilì definitivamente a Londra.
Con la prepotenza del nuovo arrivato, il violino occupava in breve tutti i posti chiave della musica. L'ideale polifonico dell'eguaglianza delle parti veniva sconvolto dall'avvento del basso continuo e dalla concezione dualistica della sonata.
Nel 1660 Carlo II ritornava sul trono dopo 11 anni di esilio. Forse si è esagerato a proposito dell'influsso esercitato da questo sovrano sulla musica del suo paese: ma certo è che con lui la Corte tornava ad essere - come prima della rivoluzione di Cromwell - il centro della vita mondana ed artistica inglese; ed era assai difficile soddisfare i gusti edonistici di quella Corte con le fantasie. Lo stesso re non poteva sopportarle: gli ci voleva della musica facile vivente e «cantante» di cui potesse battere il tempo col piede...
Pessima abitudine: ma chi poteva impedirglielo? Cominciò col volere un'orchestra di corte di 24 musicisti, sul tipo dei 24 Violons du Roi del suo amico Louis XIV e mandò Humfrey a Parigi a impratichirsi con i nuovi stili. A Parigi c'era Lulli, in pieno splendore: il gioco era fatto. Nel 1667 Christopher Simpson, violinista e teorico inglese, scriveva malinconicamente che la fantasia polifonica era oramai trascurata dai più per mancanza di ascoltatori in grado di comprenderla.
Quando Henry Purcell compose le sue 15 fantasie per viole da gamba, ossia nell'anno 1680, questa forma musicale era dunque da tempo morta, sepolta e dimenticata. Poco più che ventenne (nato alla fine del 1659) volle con questa sua prima opera strumentale rendere omaggio all'arte dei padri? Dimostrare a se stesso ed agli altri che questo tipo di musica messo in disparte era ancora pieno di possibilità e di sviluppi? Fare esercizio in quell'inesauribile fucina per le prove future? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che la serie doveva continuare con altre fantasie a 8 parti, dopo queste quindici che sono a 3, 4, 5, e 7 parti: ma l'idea venne abbandonata e anche Purcell di lì a poco si mise a scrivere musiche per il violino.
Ma le 15 fantasie per viole rimangono il suo capolavoro, almeno nel campo strumentale. Impossibile profanare con un esame queste 15 fantasie: ci parrebbe di voler vedere il costato di Cristo e toccar con mano la ferita: crediamo ciecamente nella musica, quando è così. Ci basti ascoltarla per essere felici e ritenerci fortunati se essa ci passa sul cuore come una benedizione divina. Compiangiamo veramente chi non comprende questa musica e invidiamo quasi chi non la conosce: quale meravigliosa scoperta l'attende!
Naturalmente, quindici fantasie sono molte e non è consigliabile ascoltarle sempre tutte insieme: si può morire anche di troppo felicità. Considerate nel loro complesso, esse si presentano come un blocco imponente di musica, un mondo di musica in continuo movimento di assestamento e rinnovamento, quasi come cellule al microscopio, per intenderci. Ma questo blocco unitario, questo mondo rotante è un insieme di quindici mondi, ognuno dei quali ha vita propria, una propria fisionomia, una sua anima indistruttibile, dei problemi da risolvere, delle cose da dirvi e soprattutto una sua voce.
Sciogliete. se vi riesce, dall'intreccio generale, tre o quattro di queste fantasie: la fantasia n. 13, per esempio «sopra una nota», o le due ultime, che sono poi due «In Nomine» a 7 parti. Pochi minuti di musica: ma quale musical E quel sidereo paesaggio delle viole, quel leggero volare di suoni irreali e incantati che provengono dagli abissi del tempo, dai paesi del sogno... Questa è veramente la Musica.
ll Concentus Musicus ne sia ringraziato. È un complesso di prim'ordine che ha sette strumenti barocchi di gran pregio e voce meravigliosa, equilibrio, intelligenza, vitalità, nobiltà di espressione e soprattutto, ripeto, un suono indimenticabile: un vero Consort insomma.
La registrazione è  molto buona, con ottime trasparenze ed impasti. Generalmente, le incisioni dell'Amadeo tendono un po' all'acuto: ma anche il suono della viola, come strumento, ha questa tendenza e perciò qui tutto è in regola. Anche lo stampaggio è molto buono. Le note sono brevi e sufficienti; interessante l'instrumentarium. Un piccolo appunto al libero traduttore francese delle note (originalmente in tedesco) scritte dal violinista Nikolaus Harnoncourt. Il testo tedesco dice: «...l'Italia altro centro importante della musica del tempo..» E la traduzione francese, ad uso anche nostro, suona invece così: «...l'Italie deuxième centre important...» Ciò  sa un po' di classifica: e modestamente, a quei tempi, eravamo i primi.
Domenico Borra
("Disclub" 6, anno II, aprile 1964)