Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, febbraio 11, 2024

Il requiem tedesco di Johannes Brahms

Johannes Brahms (Silhouette)
L'ascolto disinteressato della musica da parte di chi 
non sia legato ad essa da obblighi professionali (insegnamento, critica etc.) si può configurare nella sua forma meno frivola e distratta come una appassionante e serissima avventura. O, per meglio dire, come richiesta sempre insoddisfatta e solo parzialmente appagata di una esecuzione definitiva, se pur l'aggettivo ha un senso in questo campo. Da questa ricerca continua nascerà l'esigenza di rinnovati contatti col brano e con l'autore oggetto dell'interesse. Nel caso di testi che implichino un particolare impegno di realizzazione, alle ripetute esperienze dal vivo si sostituisce poi efficacemente il disco e ci sembra sia proprio questo uno dei suoi più decisi connotati in quanto strumento di diffusione della cultura, anziché mero trastullo edonistico.
Il disco è, infatti, da considerare anche e soprattutto come un'istantanea, una foto più o meno riuscita di una certa esecuzione che altrimenti sarebbe per l'ascoltatore  o fruitore di musica difficilmente raggiungibile. Caso esemplare e tipico quello di esecutori ormai non più attivi, la cui voce ci giunge ancora attraverso il disco.
È proprio questa provvisorietà, questa continua diversità di proposte a costituire non solo il fascino dell'ascoltare musica incisa ma a darne una giustificazione (l'unica?) validissima.
Di fronte a testi di alto valore, prendere conoscenza di diverse letture, di differenti accostamenti interpretativi diviene per l'ascoltatore una necessità ai fini di quell'avventura o ricerca di cui parlavamo che apparirà sempre più chiaramente come la ricerca di un'ideale pietra di paragone o di un paradigma ideale che di volta in volta potrà cambiare.
In questo esercizio del gusto che non esclude nella sua serietà, un aspetto di «lusus» o superiore giuoco, si procederà ogni volta ad una scelta tra le varie proposte finché il campo non sia sgombro, il più possibile in attesa dell'unica, definitiva «offerta››.
Queste considerazioni sommarie ci suggerisce il recente ascolto di tre versioni ugualmente autorevoli del Requiem tedesco. Brahms come è largamente noto, con la più vasta delle sue composizioni per coro e orchestra, volle onorare la memoria di coloro che più gli furono vicini: Schumann e sua madre. I primi tre dei sette movimenti di cui consta la partitura furono eseguiti il primo dicembre 1867 a Vienna sotto la direzione di Johann von Herbeck, ma la prima ufficiale si ebbe nel Duomo di Brema e fu un avvenimento nella vita musicale tedesca in quanto tutti i musicisti più noti e autorevoli erano presenti. Dirigeva Karl Rheinthaler. Il 18 febbraio 1869, la gloriosa orchestra del Gewandhaus di Lipsia, guidata da Carl Reinecke eseguiva il Requiem nella sua forma definitiva e cioè con l'aggiunta del quinto movimento per soprano solista e coro (Ihr habt nun Traurigkeit), più specificamente dedicato alla memoria della madre del compositore.
Se si pensa che la I Sinfonia fu eseguita nel 1876 (anche se i primi appunti risalgono al 1862) e che dei grandi lavori orchestrali solo il I Concerto per piano (1861) precede il Requiem, quest'ultimo ci appare veramente come una specie di grande spartiacque della produzione brahmsiana (è l'opera 45), una sorta di riepilogo di tutti i motivi tratti da una lettura assidua delle sacre scritture, quella che ispirò lavori giovanili come l'Ave Maria (op. 12), il Canto dei Morti (op. 13), Marienlieder (op. 22), i Mottetti (op. 29) e i Cori Religiosi (op. 37). E' un riepilogo, ma anche una prefazione ai grandi lavori sinfonici della maturità cui ci sembra fornisca una linfa segreta. Non è forse l'ultimo tempo della IV sinfonia una grande danza macabra, ancora una volta  una meditazione sulla morte? Ed è significativo che tra le ultime pagine di Brahms, tra le sue più alte ed accorate, vi siano i Quattro Canti Gravi, scritti alle soglie della morte, nel 1896, i quali riecheggiano il Requiem come tono e «Stimmung» della musica e del testo, costituendone una specie di folgorante epilogo ideale. Nei quattro canti tutte le ragioni del Requiem sono ribadite con perentorietà e nettezza di accenti.
Il Requiem si situa quindi in un punto chiave dell'itinerario brahmsiano e ci è sempre sembrato (non si vuol qui fare una questione di valore assoluto a dirimere la quale non ci sentiamo autorizzati né competenti) una grande meditazione individuale sulla morte, sette pagine del giornale intimo di Brahms, per noi più significative e moderne che non le amplificazioni a volte puramente  retoriche delle sue sinfonie. E come se alla lettura ripetuta di quei testi dell'Antico e Nuovo Testamento, trascelti personalmente da Brahms, quindi una sua antologia ideale, le parole solenni e scabre del tedesco di Lutero si siano lentamente alonate di musica e risuonando, come in una cassa armonica, nello spirito del lettore-musicista abbiano sprigionato quella musica che in esse  era latente. il fraseggiare sommesso del coro iniziale Selig sind die da Leid tragen, la virile e stoica implorazione del baritono Herr, Iehre doch mich, sono due esempi  di questo lievitare impercettibile in canto del dettato luterano. Miracolo che si rinnova sugli esempi altissimi delle Passioni di Schütz, e di Bach. E sono sempre parole gravissime che richiamano all'uomo il problema ultimo ed unico, quello della Morte, il solo che conti veramente. E tutto il tono del Requiem brahmsiano, che non ha  niente, come si sa, di chiesastico e rifiuta per sua natura ogni sovrastruttura liturgica e rituale, è un tono sommesso e mormorato, almeno nelle sue parti più alte che sono poi preponderanti: una meditazione lirica ed intima.
E' l'io ripiegato in silenzio su se stesso che liberamente sceglie i suoi testi di meditazione. Per questo soprattutto il Requiem è giustamente stato definito da Brahms tedesco, cioè protestante nel senso più autentico del termine. Non un sospetto di pompa chiesastica o concertistica, mai un'ombra di enfasi. Questo Requiem si  vorrebbe veramente ascoltarlo da soli, nel proprio studio,  tendendo al massimo l'arco dell'attenzione, senza distrazioni esterne.
Pur aborrendo i ridicoli estetismi in cui esigenze del genere di solito naufragano, vorremmo veramente sentir sempre questo Requiem in un ambiente adatto (che non sarà poi necessariamente una chiesa) e quindi anche ascoltando una edizione discografica sarà questo aspetto dell'ambiente con tutti i valori atmosferici connessi, che si imporrà come preminente.
Se scegliamo dunque tre edizioni del Requiem tra le varie disponibili sul mercato e le proponiamo ad un ascolto comparativo sarà il caso di premettere che, proprio in base al criterio sopra esposto, due di esse ci sembrano letture o proposte magari diverse come accentuazione del tono fondamentale, ma comunque centrate (Fritz Lehmann con l'Orchestra Filarmonica di Berlino e Coro di S. Edvige, Berlino, per la D.G.G. e Rudolf Kempe a capo degli stessi complessi per la Voce del Padrone); la terza, viceversa, costituisce un esempio tipico di esecuzione formalmente impeccabile ed esteriormente smagliante ma in sostanza mancata e fuori centro (Otto Klemperer, con l'Orchestra e Coro Philharmonia di Londra, per la Columbia).
Sia Lehmann che Kempe sono due direttori «modesti», vogliamo dire non «divi»; non provocano, a  quanto si sa, risse ai botteghini, né «tutti esauriti» con tre mesi di anticipo sul concerto. Sono due onesti e solidi professionisti della direzione di orchestra che hanno i loro autori preferiti o approfonditi ed ovviamente non  potrebbero dirigere «tutto».
Ebbene, sia l'uno che l'altro, e soprattutto Kempe, che purtroppo è servito da una incisione non eccelsa, ci danno una loro lettura del Requiem così pudica e schiva da ogni effetto e colore estraneo da non far rimpiangere altre clamorose esecuzioni alle quali lo scrivente ha avuto la ventura di assistere (von Karajan, Perugia, Settembre 1952 e Schippers, Spoleto, Luglio 1961). La sensibilità di Kempe aderisce più immediatamente al tono elegiaco della partitura; centra con pronta immedesimazione il suono dell'orchestra e sfuma e dosa le sonorità con mano delicatissima. Al suo comando i cori di Berlino, stupendi per la perfezione dell'intonazione e per la precisione ritmica, assumono uno smalto particolare, un colorito tipico, il magico «Brahms-Klang». L'orchestra accompagna con discrezione ma è continuamente presente e si decanta in pochi preziosi timbri ogni volta che deve incastonare la voce del solista. Riuscita suprema di questa versione del Requiem è il quinto movimento nel quale Elisabeth Grümmer canta con un fervore ed un'intensità che neppure la Schwarzkopf, nell'edizione Klemperer, riesce ad eguagliare. Kempe, volendo riassumere con un solo aggettivo le nostre impressioni, ci dà un Requiem «viennese» più che «amburghese» o nord-tedesco. Una meditazione dolorosa e disadorna sul tema delle Cose Ultime, una elegia mesta e dolcissima. Lo immaginiamo interprete felice più della Seconda sinfonia brahmsiana che non della Prima.
Lehmann è un solido «Kapellmeister» e sotto la sua bacchetta la stessa orchestra e lo stesso coro suonano disciplinatamente ma con risultati diversi.
Non si tratta tanto di una questione interpretativa (si potrà dire che il Requiem di Lehmann è un po' più mosso e drammatico, meno chiaroscurato, con colori più netti e contrasti dinamici più risentiti) quanto di una diversità impercettibile di accento; al tedesco fluente e cantabile del viennese-monacense Kempe (parliamo per metafora, s'intende, perchè Kempe è nato notoriamente a Dresda), Lehmann oppone un suo tedesco settentrionale tutto esplosive e spigoli, più duro e gotico: un Brahms amburghese. Ma la meraviglia dell'edizione D.G.G. è costituita dall'ambientazione. Non sappiamo se le riprese abbiano avuto luogo in una chiesa ed in fondo è un particolare trascurabile (l). Non esiste comunque a quanto ci risulta una edizione più perfetta dal punto di vista del suono: orchestra e coro sono calati in un ambiente adeguato che ne semplifica le sonorità ma come ovattandole in una penombra dalla quale volta a volta vediamo e sentiamo affiorare e snodarsi le membrature polifoniche e in cui si spengono lentamente le ultime eco dei gemiti elegiaci (finale del quinto e settimo movimento). Eccezionale ed intonata all'interpretazione complessiva è la prestazione di Maria Stader; un po' troppo melodrammatico è Otto Wiener, dal timbro di voce poco brahmsiano. Le due edizioni che abbiamo molto rapidamente esaminato ci sembrano, dicevamo, le più ragguardevoli sotto il profilo della autenticità e della immedesimazione interpretative e la preferenza assegnata alla prima delle due sarà solo questione di inclinazione e gusto individuali.
La più recente edizione di Otto Klemperer ci pare, invece, un caso di singolare insensibilità interpretativa e ciò sia detto con tutto il rispetto per il grande direttore tedesco, animatore della gloriosa Kroll-Oper e bersaglio insieme a tanti altri musicisti della matta bestialità nazista.
In una intervista, Klemperer dichiarò di non aver più avuto occasione dal 1931 di dirigere la Messa in si minore di Bach perchè né in America, né in nessun altro dei paesi dove è vissuto esule, aveva trovato un complesso che gli permettesse di realizzarne una versione per lui soddisfacente. Fortunatamente da alcuni anni Klemperer ha trovato questo complesso a Londra nella Orchestra e nel Coro Philharmonia di cui è direttore stabile dal '59 e con cui ha già realizzato incisioni memorabili del Fidelio e della Passione Secondo S. Matteo per iniziativa della His Master's Voice. Ma questo Requiem Tedesco, per il quale il grande direttore si avvale di due solisti valorosissimi (Schwarzkopf e Fischer-Dieskau) e degli stessi complessi, pur essendo tecnicamente perfetto e splendidamente inciso ci delude quasi completamente per quanto riguarda quella autenticità, che in un testo del genere ha una particolarissima e quasi primaria importanza.
L'orchestra e il coro sono sempre troppo brillanti e tirati al lucido, sono sempre troppo in primo piano. Mancano le mezze tinte e lo stesso Klemperer ci sembra quasi svogliato, disinteressato. Elisabeth Schwarzkopf si adegua a questo tono troppo mondano e «da sala di concerto» con una prestazione ineccepibile e gelida. In questi ultimi anni, la grande cantante dà l'impressione di essere sempre più spesso «la Schwarzkopf» qualsiasi cosa canti, e di porsi sempre meno spesso il problema dell'interpretazione. Resta difficile distinguere la sua interpretazione in questo Requiem da altre sue famose come ad esempio la Marescialla o la Contessa. La stessa preziosità nel fraseggio, la stessa perfezione puramente vocalistica senza che si giunga ad una individuazione. Significativa di questa impostazione data da Klemperer alla sua versione del Requiem e la diversa intensità con cui reagisce il grande Fischer-Dieskau che aveva già partecipato alla realizzazione di Kempe con un calore ed una intensità trattenutissimi nei suoi due interventi (terzo e sesto movimento). Con Kempe, Fischer-Dieskau riesce a mantenersi sulla linea del suo Brahms (quello dei vari dischi di Lieder da lui dedicati al Maestro) tutto chiaroscuri, sempre commosso e teso, mai retorico, tutto intimo e pudico.
Sotto la guida di Klemperer, pur al livello di una prestazione altissima, perfino un interprete della sua sensibilità suona più melodrammatico e sostanzialmente assente, tutto esteriore.
Siamo spiacenti di aver dovuto fare rilievi negativi nei confronti di un grandissimo artista che ammiriamo come il più grande interprete beethoveniano vivente e da cui attendiamo l'incisione di almeno un'opera di Mozart che sia degna della tradizione di Walter (il Flauto Magico?) ma la non riuscita di questa incisione del Requiem ci conferma nella nostra idea dell'incisione discografica come fotografia, qualcosa di aleatorio e transeunte che, a causa di fattori imponderabili, può non riuscire a cogliere la effettiva realtà musicale e non meramente sonora di un testo.
(1) La registrazione del Requiem diretta da Kempe ebbe luogo in una chiesa di Berlino, nel luglio 1955.
Giulio de Angelis
("Disclub" 3, anno I, 3 dicembre 1963)

Nessun commento: