Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, gennaio 27, 2013

Susanna Pasticci: l'esperienza del sacro in Stravinskij

Igor Stravinskij secondo Pablo Picasso
Il XX secolo ci ha lasciato in eredità un grande patrimonio di repertori musicali e linguaggi espressivi: una moltitudine di oggetti sonori che ci affascina e ci frastorna. Talvolta, dal nostro osservatorio di ascoltatori del XXI secolo, tante di quelle musiche ci sembrano lontane, distanti, o forse semplicemente troppo legate a certe contingenze specifiche del loro tempo. Se tante opere di Igor Stravinskij mantengono intatta la loro capacità di stupirci, ogni volta che le riascoltiamo, ciò si deve probabilmente alla profonda vocazione enciclopedica della sua musica. Una musica che si confronta con ogni stimolo del presente e del passato, che cerca di venire a patti con la memoria e le diversità e che, proprio per questo, si presta a diventare oggetto di un’attività interpretativa insistente e profonda, come se si trattasse di un testo biblico. Il paragone può sembrare azzardato; eppure ci sono opere di Stravinskij, come Le sacre du printemps o la Sinfonia di Salmi, che non possiamo fare a meno di annoverare tra i ‘testi sacri’ della cultura occidentale. Non tanto perché esprimono contenuti religiosi, spirituali, ma soprattutto perché si configurano esse stesse come testi sacri, come opere-mondo, come monumenti che possiamo scrutare a lungo e che ci sfidano ad attivare un processo di interrogazione, di ricerca di senso.
Accogliere il richiamo di questa sfida, mettendo la Sinfonia di Salmi al centro di un percorso di riflessione ramificato e intenzionalmente centrifugo, è il principale obiettivo di questo volume; che, nel focalizzare l’attenzione sulla prima grande opera di Stravinskij basata su testi religiosi, intende anche raccogliere una serie di indizi utili a contestualizzare la presenza dell’universo del sacro nella poetica e nell’esperienza creativa del compositore.
L’idea che Le sacre du printemps sia uno dei principali monumenti musicali del XX secolo è fortemente radicata nella coscienza degli studiosi e degli ascoltatori, e trova conferma nel gran numero di pubblicazioni dedicate a questo pezzo. Anche la Sinfonia di Salmi è un’opera molto nota e amata dal grande pubblico, che trova regolare accoglienza nelle principali stagioni concertistiche; eppure, questa diffusa consapevolezza della sua importanza non ha mai trovato riscontro, a livello internazionale, nella produzione di studi monografici o approfondimenti di ampio respiro. Questa disparità di trattamento si colloca nel quadro di una più generale tendenza a marginalizzare il ruolo della dimensione del sacro nella musica di Stravinskij; o meglio, a valorizzare la presenza di una sacralità arcaica e primitiva, che troverebbe la sua massima espres-sione in opere come Le sacre du printemps o Les noces, a scapito di una concezione del sacro più convenzionale e legata all’esperienza di fede cristiana, come accade nella Sinfonia di Salmi.
D’altra parte, il filone della musica sacra occupa un posto abbastanza marginale nel catalogo di Stravinskij. Nella prima fase della sua attività creativa, segnata dai grandi successi delle opere realizzate per la compagnia dei Ballets russes di Djagilev, il compositore non rivolge mai la sua attenzione a testi e soggetti religiosi. Solo a partire dalla Sinfonia di Salmi realizzata nel 1930, nel pieno della sua fase neoclassica, Stravinskij comincerà a manifestare uno sporadico interesse nei confronti della musica sacra e liturgica; per poi intensificare la sua produzione su testi sacri — o comunque animati da una forte carica spirituale e religiosa — nel corso degli anni cinquanta, in corrispondenza della sua ultima stagione creativa. In ogni caso, l’attrazione di un compositore nei confronti della dimensione del sacro non si traduce solo e necessariamente nella produzione di musica religiosa: essa può riflettersi in vari modi sulla sua esperienza creativa, contribuendo a orientare i suoi atteggiamenti estetici e le sue concrete modalità operative.
Questa ipotesi è suggerita dalla presenza di alcuni riferimenti teologici disseminati negli scritti di Stravinskij, che nel corso del volume verranno analizzati e discussi in dettaglio. Tutto ciò che un compositore ci spiega a parole, tuttavia, rappresenta un indizio di poetica ‘esplicita’ che acquista rilevanza tangibile solo nel momento in cui viene messo in relazione con la sua poetica effettiva, che si manifesta nell’esercizio della pratica compositiva e nella realtà sonora delle sue opere. Nel caso di Stravinskij, più che sul piano dell’espressione di 'contenuti’ religiosi il rapporto con la dimensione del sacro si stabilisce soprattutto a livello formale, attivando una simbologia profondamente radicata nella sostanza poetica della creazione. La possibilità di rileggere la sua esperienza musicale alla luce dell’eredità della tradizione spirituale ortodossa permette di raccogliere una serie di indizi utili a contestualizzare diversi aspetti della sua poetica e della sua pratica artistica: la sua concezione del tempo musicale e la tendenza a pianificare la forma in base a un attento dosaggio di equilibri, simmetrie e proporzioni; ma anche la sua idea della musica come attività artigianale, la poetica dell’oggettività e il suo controverso rapporto con la questione dell’‘espressione’ in musica.
Il nostro percorso di esplorazione della Sinfonia di Salmi si articola in tre principali direzioni di indagine: una ricostruzione del contesto storico, culturale ed estetico in cui si è sviluppata la genesi dell’opera; un’interpretazione della sua realtà sonora, che cerca di mettere in relazione i dati che emergono dall’esperienza d’ascolto con le tecniche costruttive utilizzate dal compositore; e infine, una riflessione sulle potenzialità performative del testo e le sue diverse interpretazioni. Queste linee di ricerca vengono approfondite attraverso una trama narrativa che si sviluppa intorno a due nuclei tematici: la dimensione del sacro e la questione del tempo in musica. Temi suggeriti, con tutta evidenza, dalle qualità specifiche del testo in esame. Un pezzo di musica sacra, in cui per la prima volta Stravinskij si confronta con un orizzonte di pensiero teologico apparentemente estraneo ai suoi interessi, ma che a uno sguardo più attento si rivela invece profondamente radicato nel suo universo poetico; ma anche un oggetto sonoro che, proiettandosi nella dimensione dell’ascolto, ci sfida a sperimentare un rapporto più diretto e consapevole con la nostra esperienza della temporalità. In tal modo, il percorso di riflessione avviato nel primo capitolo, La nostalgia del presente perduto, giunge a compimento nell’ultimo, Il presente possibile, in cui la concezione del tempo musicale di Stravinskij viene interpretata alla luce degli indizi raccolti nel corso della narrazione.

Questo volume non avrebbe potuto realizzarsi senza la collaborazione del dott. Ulrich Mosch, responsabile della ‘Collezione Igor Strawinsky’ della Paul Sacher Stiftung di Basilea, che ringrazio per aver autorizzato la consultazione ela riproduzione degli autografi del compositore e di altri documenti conservati nell’archivio. Decisivi sono stati anche i consigli e i suggerimenti bibliografici ditanti colleghi che mi hanno sostenuto e incoraggiato nel corso di questa ricerca, tra cui Marcello Del Verme, Antonio Grande, Massimiliano Locanto, Antonio Rostagno e Nicola Tangari. Ringrazio anche due cari amici, Claudia Giottoli e Michele Napolitano, che hanno letto questo testo prima della pubblicazione e lo hanno arricchito con preziose critiche, consigli e spunti di riflessione.

Un ringraziamento particolare va infine a Franco Piperno, che ha seguito tutte le fasi del lavoro con autentica partecipazione, spirito di ricerca e disponibilità dialettica, contribuendo in modo decisivo al suo completamento.
Susanna Pasticci
(introduzione del libro "Sinfonia di Salmi: l'esperienza del sacro in Stravinskij", LIM, 2012)

sabato, gennaio 19, 2013

Rostropovich: scommetto sui nuovi Mozart

Mstislav Rostropovich (1927-2007)
Intervista con il grande maestro che torna sul podio.
Principe e assassino, polifonista sublime e geloso vendicatore. Amico del Tasso, paragonabile per grandezza a Monteverdi, discendente di una blasonata e ricca famiglia, nipote di San Carlo Borromeo, Carlo Gesualdo da Venosa, nobile napoletano, straziò a colpi di roncola, il 16 ottobre del 1590, la moglie bellissima, Maria d'Avalos, di cui era innamorato sin dall'età di quindici anni, e l'amante di lei Fabrizio Carafa. Un delitto dal quale venne subito assolto, ma che espierà nella vecchiaia fra misticismo e pene corporali. Oggi la sua musica viaggia per il mondo (e anche Stravinskij gli rese omaggio nella composizione Monumentum pro Gesualdo di Venosa) mentre la sua figura ha eccitato la memoria di molti scrittori.
Ora il principe napoletano torna a vivere nella musica del più conosciuto e prolifico compositore vivente russo, ma di chiara origine tedesca, Alfred Schnittke. La sua nuova opera, Gesualdo, va in scena venerdì 26 maggio alla Staatsoper di Vienna, con la regia dell'italiano Cesare Lievi. Sul podio il grande direttore e violoncellista russo Mstislav Rostropovich.
Non è raro che un compositore racconti in musica di un altro compositore. Viene subito da citare il Palestrina di Hans Pfitzner. «Ma a Schnittke interessava soprattutto raccontare in opera la vita drammatica di Gesualdo», precisa Rostropovich, che per questo suo grande ritorno ha accettato di rilasciarci un'intervista.
La musica di Schnittke, piena di rimandi, citazioni, abitualmente definita polistilistica, avrà un po' il sapore dello stile di Gesualdo?
«Sì, certo, nell'opera per esempio ci sono due madrigali scritti alla maniera di Gesualdo».
Di Schnittke lei ha già diretto molte volte un'altra opera, Vita con un idiota, su libretto dello scrittore Viktor Erofeev. E' per via dell'amore della musica contemporana o perché Schnittke è russo come lei?
«Amo la sua musica. Lo dirigerei anche se arrivasse dalla Papuasia. Sono convinto che è un grandissimo talento, uno dei massimi compositori contemporanei. Quello che fa è sempre molto inatteso. Non si può mai prevedere, quando compone, quale sarà il risultato. E poi, oltre ad essere un grande musicista, è anche mio amico».
Vi siete conosciuti in Russia, prima che lei fosse espulso?
«Quando vivevamo tutt'e due in Russia ci conoscevamo, ma non eravamo amici. Ci siamo avvicinati quando lui è venuto via dall'Unione Sovietica e io già mi trovavo in Occidente. La nostra amicizia mi ha portato molta felicità. Soltanto negli ultimi tempi ha scritto per me una massa enorme di composizioni: il Secondo Concerto per violoncello, la Seconda Sonata per violoncello, l'Improvvisazione per violoncello, il brano Nostalgia per violoncello e pianoforte, il Prologo per violoncello, pianoforte e strumenti elettronici, del balletto Peer Gynt, il Triplo Concerto, per violino, viola e violoncello. Poi mi ha dedicato la sua Sesta Sinfonia che ho diretto per la prima volta a Washington, e adesso sono felice di dirigere, qui a Vienna, la sua ultima opera».
Oltre a Schnittke, lei ha anche diretto altre nuove opere, fra gli ultimi esempi la Lolita di Shedrin a Stoccolma. Cos'è il suo: un impegno nella musica contemporanea?
«Sono tutti amici miei, anche Shedrin. Sono stato io a suggerirgli l'idea di scrivere un'opera su Lolita. Ha fatto una cosa straordinaria, che spero ascolteremo ancora».
Ha un futuro l'opera contemporanea?
«Senza dubbio. Certo alcune cose non sono ancora sufficientemente popolari. Ma pensiamo alla Lady Macbeth del distretto di Mzensk di Shostakovic, è musica sublime ed è eseguita con una certa frequenza. Ma c'è un'altra opera contemporanea di cui vorrei parlare. E' di una giovane compositrice americana, si chiama Augusta Reed-Thomas, un bel talento. Ha scritto un'opera contemporanea, su mio invito, intitolata Legia, ispirata a Edgar Allan Poe, vincitrice di un premio per opera da camera in Italia. L'ho diretta per la prima volta al mio festival di Evian in Francia».
Cinque anni fa, ai tempi di Gorbaciov, dopo un lungo esilio, lei ha fatto un ritorno trionfale in Russia. Oggi, nelle mutate condizioni politiche, lo farebbe ancora?
«Sono stato espulso dall'Unione Sovietica nel 1974, ma continuo a sentirmi russo. Lo sarò per tutta la vita. Per questo non ho preso nessun'altra nazionalità: sul passaporto risulto apolide. Anche adesso però non ho preso la nazionalità russa, perché voglio vedere cosa accadrà. Comunque sono molto ottimista. Sono convinto che le cose si metteranno per il verso giusto in Russia. Il mio intuito mi dice che tutto andrà bene».
Russi all'estero. Lei ha vissuto a lungo in America vedendo Brodskij, Aksionov, BarYshnikov e altri. Qualche cosa che ricorda la vita dei suoi compatrioti dell'Ottocento che scrivevano della Russia e vivevano a Roma, come Gogol, o a Parigi, come Turgenev?
 «Assolutamente sì. Noi russi siamo il sale della terra e questo manifestarsi di buoni russi - ma attenzione solo di "buoni russi" -, in Occidente, arricchisce sia l'Ovest sia la Russia. Io sto all'estero ormai da 21 anni. Ho potuto fare molto di più per la cultura e il pensiero russo del mio Paese qui in Occidente di quanto avrei potuto fare in patria. Qui sono stato libero di fare tutto quello che volevo, per esempio eseguire tutta la musica russa che preferivo».
Lei ha più volte affermato di non essere uno snob della musica e di dirigere con altrettanto piacere i contemporanei quanto Verdi e Puccini.
«Certo quando dirigo Puccini mi vengono le lacrime agli occhi».
C'è una bella differenza fra Puccini e Schnittke.
«Il compositore deve avere un gusto molto preciso. Prokofiev, per esempio, amava molto Ciajkovskij, ma non apprezzava Mahler. Shostakovic, invece, amava Mahler, ma non Ciajkovskij. Benjamin Britten mi ha detto una volta di preferire Schubert a Beethoven. Il direttore d'orchestra, invece, deve amare tutta la musica che esegue».
La sua vita difficile e complessa meriterebbe di essere raccontata in un libro di memorie.
«Le scriverò certamente. Mia moglie, la cantante Galina Vishnevskaja, insiste perché lo scriva».
Sua moglie infatti ha scritto un libro di memorie, Galina, che ha fatto molto rumore.
«Però adesso non ho tempo. Ma soprattutto non voglio dire, ora, cose magari poco piacevoli di persone ancora in vita. Non voglio mettermi in lite con nessuno. Ma so che devo assolutamente scrivere, per esempio, quello che mi ha raccontato Prokofiev, o Shostakovic. E mi hanno detto veramente molte cose scottanti».
Per esempio?
«Ho promesso di tacere sino a quando non scriverò».
intervista di Sergio Trombetta ("La Stampa", 22 maggio 1995)

sabato, gennaio 12, 2013

Fabio Bonizzoni: la "spontaneità guidata"

Fabio Bonizzoni
«Quando scelgo una voce voglio soprattutto esserbe commosso: ciò che conta è la capacità di modulare le passioni e le minime sfumature del testo variando l'accento anche su una singola nota».

Nato nel 1965, Fabio Bonizzoni imbocca un percorso formativo non convenzionale presso la benemerita Civica Scuola di Musica della sua Milano; passa poi al Conservatorio di Trieste dove consegue il diploma in organo, indi a quello di Castelfranco Veneto, diplomandosi con lode in clavicembalo sotto la guida di Patrizia Marisaldi. A quel tempo il perfezionamento dei giovani barocchisti italiani batteva obbligatoriamente la strada del nord: Svizzera, Olanda o Gran Bretagna. Bonizzoni scelse il Koninklijk Conservatorium dell'Aja, e là si assicurò il singolare primato di unico allievo di Ton Koopman tanto nell'organo barocco quanto nel clavicembalo solista. Dal 2006 vi è ritornato, ma questa volta come professore; altre cattedre ricopre presso il Conservatorio di Trapani e quello della Svizzera Italiana a Lugano.
In qualche modo è la storia di tutta una generazione musicale decolonizzata, senza più traccia di quei complessi d'inferiorità che si traducevano in umoristiche forme di snobismo quando un ensemble nostrano dedito a eseguire musiche di Gabrieli o di Monteverdi faticava a trovare scritture in patria senza prima nobilitarsi con qualche appellativo di fantasia tipo «Capella Magna Krautheim». Nel 1995 accadeva invece che, per eseguire a Martmengo (Bergamo) una messa a quattro voci di Johann Kaspar Kerll, nascesse La Risonanza; con Bonizzoni erano i soci fondatori Vanni Moretto e Fabio Foresti.
Ottobre 2011: sono passati solo tre lustri e durante una serata di gala al Dorchester Hotel di Londra il gruppo si vede consegnare un Gramophone Award per il settimo e ultimo volume de «Le Cantate Italiane di Händel», un progetto dell'etichetta madrilena Glossa che conta già qualche tentativo d'imitazione, e che nel frattempo aveva ricevuto svariati primi premi e nominatíons dalla giuria dello Stanley Sadie Handel Recording Prize.
Maestro Bonizzoni, il mutare delle mode interpretative nel giro degli ultimi tre-quattro decenni non suggerisce forse un'eterna tensione fra l'elemento soggettivo e quello oggettivo? Anche nella musica antica, naturalmente. La soggettività non è certo un'invenzione romantica perché già ne parlava Baldesar Castiglione a proposito dei grandi cantori del suo tempo: il primo Cinquecento.
Ognuno di noi suona e canta secondo la propria natura, e questo è l'elemento soggettivo ineliminabile dall'atto interpretativo, oggi come nel Cinquecento e anche prima. Per me l'oggettività consiste nell'accentuare l'espressione degli affetti secondo l'intenzione decifrabile del compositore, e ciò rm risulta tanto più facile quanto più grande è la musica, il che vuol dire tanto più è capace di esplicitare da sé, o quasi, una chiave di lettura coerente e interessante.
Quali requisiti cerca nelle voci che devono partecipare alle Sue produzioni?
Anzitutto la bellezza del timbro e del colore, poi l'appropriatezza stilistica rispetto al programma, al «personaggio» di volta in volta tragico o buffo; un fattore che non vale solo per l'opera o per l'oratorio, ma anche per molta musica vocale da camera. Prediligo ovviamente i cantanti versatili, che però devono possedere una personalità vocale molto ben caratterizzata.
Qualche esempio?
Fra i soprani Roberta Invernizzi e Yetzabel Arias Fernández, fra i contralti Martin Oro e Romina Basso. Per loro non occorrono aggettivi, credo. Fra i tenori, ruolo critico nel repertorio barocco per estensione e agilità mirabolanti: Cyril Auvity e Krystian Adam. E fra i bassi: Sergio Foresti e Furio Zanasi, naturalmente; poi Thomas Bauer (una forza della natura anche nella vita) e Lisandro Abadie, che il primo luglio scorso ha cantato a Saint-Michel-en-Thiérache, dove La Risonanza è ensemble en rèsidence, il ruolo händeliano di Polifemo, notoriamente inaccessibile ai comuni mortali.
Mi è accaduto di ascoltare certi giovani sopranini ultramontani dalla precisa intonazione e benforniti di agilità, ma asettici nel colore; quel tipo di voce che qualcuno chiama Kirchensopran. Abbastanza impropriamente del resto come se in tanta musica liturgica e devozionale, sia cattolica sia protestante, mancasse l'elemento emotivo quando non addirittura drammatico. Peggio ancora quando si pretende di utilizzarli in repertorii come le Cantate da camera di Händel o di Scarlatti. Dopo due o tre arie ad encefalogramma emotivo piatto, o magari pervase da capo afondo di un pathos generico sempre uguale, non Le scatta irresistibile lo sbadiglio?
Quando scelgo una voce voglio soprattutto esserne commosso. Se parliamo di musica vocale in stile italiano ciò che conta è la capacità di modulare le passioni e le minime sfumature del testo variando l'accento anche su una singola nota. Per questo i madrelingua italiani, o almeno neolatini, godono di un vantaggio pressoché incolmabile. Le poche eccezioni, ottenute grazie a lunghi anni di totale immersione, non fanno che confermare la regola. E per gli strumenti l'ideale rinascimentale e barocco, espresso in formulazioni teoriche innumerevoli, resta il maggior avvicinamento possibile alla voce umana.
E tutti i tormentoni di prassi esecutiva agitati dai musicologí, tipo presenza selettiva o totale assenza di vibrato, realizzazione di cadenze e bassi continui, organico ristretto alle parti reali oppure allargato?
Sono certo importanti, ma sempre subordinati alla finalità di esprimere gli affetti. Le tecniche si possono raffinare con l'esercizio ma è sbagliato farne un dogma. Cerco di coltivare nei miei interpreti la capacità di operare una scelta grazie a un processo di «spontaneità guidata». Per quanto io ritenga importante partire da buone edizioni critiche e confrontarmi con le indicazioni contenute nei documenti storici, anche le ricostruzioni più dettagliate presentano sempre un certo margine d'indeterminazione che va colmato attraverso la pratica. Per esempio: due anni fa a un certo punto ho preso una strada diversa da quella indicatami da uno dei musicologi che avevo consultato; alla fine questo stesso musicologo era al concerto e mi ha detto che le mie scelte, che lui aveva ritenuto improbabili, all'atto pratico funzionavano benissimo e forse avevo ragione io. Quindi, ecco, questo è il mio scambio con gli studiosi: più che uno scontro frontale, cercare sempre di scambiare le vedute e le esperienze.
Dopo la recente antologia di arie vivaldiane con la Invernizzi, recensita con cinque stelle sulle pagine di Musica, cosa possiamo ancora attenderci entro l'anno in corso?
Aci, Galatea e Polifemo di Händel, appunto, poi La Senna festeggiante di Vivaldi (con Yetzabel, Oro e Foresti). Chiuderanno una miniserie dedicata alla serenata barocca che si era aperta nel 2011 con le due serenate A Filli di Alessandro Scarlatti.
L'etichetta sarà sempre Glossa?
Sì, con loro ho trovato un'ottima intesa che si è tradotta in un esclusiva di fatto.
Con la chiusura dei sette premiatissimi volumi di Cantate, e ora con questo Aci napoletano del 1708, è giunto al termine il suo viaggio nella giovanile produzione italiana di Händel? O possiamo attenderci qualche ritorno difiamma? Nel catalogo dei titoli imperdibíli Le manca ad esempio, se non erro, l'oratorio La Risurrezione.
Per ora non sono in grado di anticipare titoli, ma è certo che Händel non lo abbandonerò. Intanto Roberta e io abbiamo in preparazione un'antologia di sue arie operistiche, poi si vedrà.
E come solista cosa presenta nella Sua «collezione autunno-inverno»?
Un ritorno all'antico; più precisamente: al Cristoforo Colombo della tastiera.
Lei vuol certo alludere all'amato Frescobaldi. Ci dica tutto.
Sto registrando in questi giorni la quasi integrale del Primo e Secondo Líbro delle Toccate, dividendomi fra l'organo della basilica mantovana di Santa Barbara e un bel cembalo rinascimentale, copia da Stefanini.
Però di recente Lei ha azzardato anche qualche sconfinamento in direzione del moderno. L'ascolteremo presto in repertori piii frequentati dall'ascoltatore mainstream?
Mai dire mai, mi ripeto quando ascolto Mozart e Beethoven. Nel 2011 mi ha molto stimolato l'esperienza di dirigere alla Scala il balletto L'altro Casanova, un brillante pastiche con musiche di Vivaldi e Albinoni, ma anche di Malipiero e Schnittke. Preferisco pensare in termini di nuove rotte da esplorare e non di sconfinamenti, perché la grande musica, come l'Oceano, non conosce confini.

intervista di Carlo Vitali ("Musica", n.240, ottobre 201)

domenica, gennaio 06, 2013

Wagner: Siegfried

Siegfried
(Arthur Rackham 1867-1939)
Giornata di sole: giornata di Siegfried. Generoso germoglio dei Wälsídi Siegmund e Sieglinde, incestuosamente concepito sotto il candore lunare d'una trepida primavera nordica, salvato dal furore di Wotan per la pietà disobbediente di Brünnhilde fra stridi e baleníi di Walkirie prima ancora di nascere, Siegfried cresce nella spelonca, che è insieme abitazione e fucina di Mime. Cresce, lui eroica giovinezza ignara di paura, tutta protesa senza saperlo verso l'amore, proprio per le cure di un nano mostriciattolo, che pieno d'invidia e di malizia, trema ad ogni stormire di fronda, Gli è che il nano medita nel piccolo cuore rugoso di poter bene valersi un giorno di lui per uccidere Fafner, torpido gigante custode dell'oro; salvo poi, s'intende, conquistato appena quell'oro, a sbarazzarsi anche di lui, con qualcuna di quelle tante droghe ch'egli sa così bene manipolare.
Elemento tra gli elementi, fiore tra i fiori, cucciolo tra gli animali, Siegfried va intanto vagando per la foresta: a tutti amico, amici a lui tutti. Il ruscello gli specchia la florida figura, gli alberi lo proteggono della loro ombra, gli orsi lo seguono mansuefatti. Se non che, non è egli appena riuscito a strappare al nano il segreto della propria nascita, che subito il sangue dei Wälsídi ribollentegli nelle vene lo spinge a gesta di battaglia e di vittoria. Ritemprata a ferro e a fuoco la spada del padre spezzata un giorno da Wotan, per inesorabile destino, crudele sempre contro la propria schiatta, Fafner cade sotto quell'infallibile taglio, dopo aspro combattimento. Lo segue poco dopo nella stessa sorte Mime, colpito d'un sol colpo, con nausea e con spregio. Ora il gaio richiamo d'un uccel di bosco guida il giovane eroe verso 1a Walkiria addormentata nel cerchio delle fiamme. Ma la via gli viene sbarrata dallo stesso Wotan. Un urto breve e acerbo: il dio è vinto spezzata per sempre la sua lancia di frassino. Siegfried può ormai traversare le fiamme con gioiosa immunità. Fra tante prove, non l'esitazione di un istante, non un brivido, non un tremore. La paura ingenuamente voluta e mai potuta apprendere, egli la proverà, per la prima e per l'ultima volta, davanti alla vergine dormiente, effusi i biondi capelli fuori del casco d'argento. In quel momento stesso, una sola immagine egli disperatamente puerilmente invoca: quella della madre. Ma infine quale trionfo! In gioia canto e amore, esulta il «giovanile eterno » sotto il sole. Suona, suona il tuo corno, mio, buon Siegfried, padrone del mondo! Ne hai tutte le ragioni. Ore come la tua, possono ben valere anche una vita intera!
«Stupido» (dumm) Siegfried è stato chiamato da molti a cominciare da Mime suo pessimo educatore, per finire con lui stesso, pessimo educato. Se non che la sua Dummheit, risulta ad un attento esame alquanto più ricca e significativa, che non possa far credere una facile ironia ed una ancora più facile caricatura critica. «Inconscio» eterno, in cui già affondano le proprie radici il Tao, il Budda, e le speculazioni ed esperienze mistiche di Grecia; colore audace se non proprio sostanza nutritiva di parecchie mistiche cristiane antiche medie e del rinascimento, esso fermenta tanto piú vivo e balza al primo piano, avversario tanto più temibile, quanto più la razionalità eccede nel celebrare le proprie conquiste e qualche volta le proprie orgie. Per scendere ai tempi nuovi: fondo oscuro, volontà cieca, mera sensibilità, fondamentale Unbewusstes insomma, di Hamann, del tardo Schelling, di Feuerbach e di Schopenhauer, rimesso in valore da pragmatisti, vitalisti, psicoanalisti, razzisti moderni e modernissimi, doveva trovare, con dinamismo nuovo pregno di vita, la sua imperitura incarnazione nel Faust goethiano. Natura, intesa come primordiale innocenza perennemente conculcata dal tortuoso orgoglio della razionalità - e con questo è già detto Rousseau e in tono insieme rnaggiore e minore Herder e Hölderlin - si costruiva invece presso gli epigoni di quel medesinio Faust in visione di paradiso amaramente perduto, faticosamente da ritrovare. Tre persone, circa o poco dopo la metà dell'Ottocento, se ne misero tenacemente in cerca. Siegfried, Peer Gynt, l'«Idiota». Immerso il primo nella selva e preso in sogni di nativa cavalleria; tutto proteso il secondo verso un «se stesso» che non ritrova alfine se non nell'innocenza altrui; vagolante il terzo in tormenti morbidi per raffinati salotti pietroburghesi. Tendenze e temperamenti diversissirni: comune l'itinerario e la mèta. E' più che lecito sentirsene spiritualmente lontani e avversi: impugnarne il valore d'arte e di vita non è possibile.
Rivoluzionario anarchico fu battezzato Siegried da parecchi, a cominciare da Nietzsche e a terminare con Shaw, per il suo dispregio d'ogni etica tradizionale e per il sito impetuoso calpestare di ogni legge. E' la verità: ma non tutta la verità. Per quanto spirito di Bakunin gli si voglia trovare - in realtà pochi tratti esterni impressigli da un passeggero spirito di fronda -; per quante parentele gli si possano riconoscere con lo Stürmer suo antenato, o col «superuomo» suo contemporaneo di poco più giovane, Siegfried rimane una sintesi a caratteri inconfondibili. Tale lo rendono il sicuro sentore del giusto che è nel fondo della sua inconsapevolezza - onde, lungi dall'essere quell'amorale che comunemente si predica egli si erige sempre e soltanto contro le forze del male, e, per fare il male egli stesso, deve prima essere stordito con un filtro - l'alone della poesia e della giovinezza eterna che circonda la sua figura e le sue gesta; e infine una tenerezza singolare davvero nel suo costume selvaggio, che trova la sua più alta espressione, non nel prorompente amore dei sensi, ma nella simpatia per le creature, e piú ancora nella «compassione» per la madre. Se un fratello dunque, gli si vuole, assolutamente cercare, non può essere trovato in altri che in Parsifal. Fratello crociato cristiano, di lui eddico e pagano; fratello cercatore tenace d'un tempio piuttosto che vagabondo senza mèta per selve primordiali; ma tanto lui «puro folle», quanto Siegfried «stupido», fanciullo. E l'uno e l'altro, nel loro fondo ultimo, sempre e soltanto inconscio e natura. Veramente, se una volta soltanto Nietzsche avesse a questo posto attenzione, quanto minor tormento per lui, e quanta minor collera rovesciata su Wagner!
Nè puro anarchico, dunque, nè puro stupido, Siegfried. Il solo vero stupido della Tetralogia, è, se mai, il gigante Fafner. Ma di fronte al suo «io giaccio e dormo», l'eroe fanciullo potrebbe trionfalmente rispondere: «io agisco e son sveglio». Tanto sveglio, da poter destare altrui alla vita e all'amore. Nè meraviglia che a lui, natura inconscia perchè innocente e innocente perchè inconscia, Wotan, non mai sazio di sapere, ceda in volontario dissipamento; e che alla sua volta il dio, pur sempre un poco illuminato da quell'occhio dell'amore, ch'egli ha sì incautamente scambiato per la saggezza di Fricka, ma con aperto orgoglio ancora rivede nei proprii nipoti, affondi per sempre Erda, madre e posseditrice di ogni sapienza. In dominio naturistico, nemico massimo, eterno, rimane sempre il sapere. Ecco, ad ogni modo, dopo,un prologo e una vigilia tutti intesi alla vicenda e alla tragedia del dio, ritornato legittimamente al primo piano quell'eroe, dalla cui morte, come gagliardo tronco dal seme, è germogliata e cresciuta l'intera Tetralogia. La stessa Brünnhilde, conquistata in quel che ha di più sacro e geloso, la sua virginea divinità, si propone ormai, diventata donna e umana, di «sapere» tutto ed esclusivamente per Siegfried, con la sua saggezza consustanziata di solo amore. Che cosa manca ancora, dunque, all'eroe, perchè non si senta dio egli stesso, e più grande e più felice dì Wotan? Ma le Norne, ministre del destino, continuano a tessere, sull'altura aspra e solitaria, la loro implacabile tela!
Dramma il Siegfried di salda architettura e di alta poesia: anche se lo appesantiscono le solite ripetizioni e lungaggini - tenzone e contrasti tra il Viandante e Mime, tra Mime e Alberico, tra il Viandante e Siegfried ecc. - e se un che di baroccamente prezioso, prenda qua e là sopravvento, e più che altrove, nel colloquio finale d'amore tra.Siegfried e Brünnhilde. Armonicamente piantato sulle solide arcate dei suoi tre atti, diviso ciascuno in tre scene secondo la normale ritmica della Tetralogia, se non può certamente gareggiare con la sobria austerità delle tragedie eschilee, rivela tuttavia, ancora una volta, con quale sicuro magistero Wagner sappia costruire e ricostruire dagli ammassi informi o dai frammenti dispersi del mito. D'altra parte, alcuni suoi spunti ed episodi - la caricatura e la paura dì Mime, la tempra di Notung, Siegfried sotto il tiglio tra il vivo murmure della foresta e il pensiero della madre sconosciuta, il suo smarrimento alla vista di Brünnhilde, il risveglio e il saluto della risvegliata Walkiria - riescono senza dubbio ad imprimere nell'animo di chi legge, indipendentemente dal rilievo che loro dona la musica, l'ammirazione delle perfette rappresentazioni d'arte, congiunta alla vibrazione dei sentimenti umani che non muoiono.
Eppure l'«incantesimo» del Siegfried non viene tutto di qui. Viene anche . da quella sua mirabile lingua, tutta irta di anacoluti, tutta sonora e vibrante di onomatopee, tutta iridescente di arcaismi e viva di dialettismi, che, trasferita alla vista, pare cascata di perle, di diamanti e di gemme incastonate in metalli delle più diverse specie: dal ferro al bronzo, all'argento, all'oro purissimo. Viene da quella non meno mirabile allitterazione, che con fulmineo intuito scopre tra le parole di significato più lontano strettissime parentele d'essenza, e, senza nulla perdere della sua asprezza boreale, riesce perfino ad aprirsi all'alito primaverile di qualche rima romanza. Viene, infine, da un sapientissimo gioco di arsi e di tesi, che sotto apparenze modeste e quasi neglette di Knittelvers e di lingua parlata, nasconde tesori di armonie, per fiorire, quando occorra, in effusioni di Lied simili a getti di fontana viva.
Ma, naturalmente, viene sopratutto dalla musíca: Wort-ton-drama giunto alla sua, più alta espressione e al suo più perfetto equilibrio. Era nell'Oro del Reno un deciso prevalere della parola e del ritmo poetico; sarà nel Crepuscolo un prevalere altrettanto deciso del puro elemento sinfonico: toccava al Siegfried l'arte di conciliare e fondere i due elementi nella propria solare meridianità. Innumerevoli le rielaborazioni, le contaminazioni, gli sviluppi dei temi delle giornate precedenti, alcuni in tale figura da raggiungere personalità nuova: paura di Mime, traversata delle fiamme ecc. Relativamente scarsi, invece, i motivi nuovi in senso assoluto. Eppure, di quale profondo valore per la tessitura musicale del dramma! Basterebbero lo Schmiedelied, il Waldweben, il Saluto di Brünnhilde, quasi tre poderosi pilieri musicali sui quali poggiano e si innalzano le tre arcate poetiche del dramma, per rendere chiaro allo spirito più profano, di quali prodigi sia stata operatrice, anche nel Siegfried, l'infinita «melodia» wagneriana. Ma di loro e degli altri motivi che costituiscono la nuova vita musicale del dramma, è detto ampiamente nel commento.

Guido Manacorda, dicembre 1933 (testo riveduto da Giulio Cogni)