Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, settembre 27, 2020

Bruno Maderna: direttore, a vent’anni dalla morte...

Bruno Maderna (1920-1973)
Fa quasi male. Mette a disagio. La voce arrochita, sprofondata nel grave dalle sigarette e dalla prudenza vocabolistica - dovendo maneggiare l'inglese, lingua non fisiologicamente posseduta - il respiro pesante che fa da “pedale” all’intera conversazione. Presagi d’una morte che purtroppo non avrebbe tardato. L’ascolto di questa intervista, realizzata a Chicago il 23 gennaio 1970, non è facile. La voce di Bruno Maderna spicca come appendice emozionante al disco che testimonia il suo ultimo concerto (Londra, 5 novembre 1973) e ci ricaccia dolorosamente indietro nel tempo. Vent’anni fa, il l3 novembre, Maderna moriva improvvisamente a Darmstadt. Sulla scrivania, la partitura di Pelléas et Mélisande, futuro e inesplicato impegno teatrale. A 53 anni scompariva la natura musicale più sorprendente espressa nell’Italia del Novecento. Bambino prodigio, compositore e maestro, direttore d’orchestra e intraprendente animatore culturale. Una figura mitica, che alla fine degli anni Sessanta gli studenti del Conservatorio di Milano, come il sottoscritto, conoscevano bene. Stabile all’Orchestra Rai di Milano, assiduo alla Scala - ove aveva avviato in alternanza e complicità con Claudio Abbado, e non senza suscitare perplessità, la prima integrale italiana delle Sinfonie di Mahler (nell’ottobre 1969 aveva diretto la Sinfonia n. 9) - partecipò ufficialmente e informalmente a tutte le iniziative musicali a favore dei mitici (e mitizzati) giovani, lavoratori e studenti.
Prestò anche la propria opera come insegnante di direzione d’orchestra in alcune sedute semi improvvisatorie e avventurose (vi partecipò come “docente” anche Abbado), ma soprattutto aprì le porte di Sala Verdi per le prove con l’Orchestra Sinfonica Rai. Maderna direttore era una sorta di stregone ampio e placido. Capace di canticchiare una filastrocca per tranquillizzare e inquadrare l’Orchestra nella perigliosa Danza sacrale del Sacre du Printemps, o di sospendere la prova pratica per creare il clima esecutivo giusto - soprattutto con musiche nuove - attraverso una fascinatoria descrizione della partitura. Mai accigliato o scostante, al massimo disposto a sfuriate tempestose e fulminee: di quelle che non lasciano malintesi né malumori ma cementano i rapporti. Scoccate soltanto dalla voglia di avere tutti con sé nel lavoro di costruzione collettiva d’un’esecuzione.
Con lui sul podio, la partitura pareva non presentare mai un problema tecnico. Subito, e sempre, musica. Merito della carica personale e galvanizzante di Maderna. Della sua magistrale conoscenza della materia, della filosofia materico-direttoriale accostabile a quella di Sergiu Celibidache, per cui l’articolazione è strettamente correlata prima alla densità della pagina musicale quindi alle altre componenti. Nell’intervista sopracitata, viene richiesta una spiegazione su una scelta di tempo (più lento) nella quarta delle Variazioni op. 31 di Schönberg. “Le variazioni di tipo cameristico in generale, e quelle di Schönberg in particolare, sono così complicate (specialmente per l`intreccio contrappuntistico) che occorre avere un po’ più di tempo per apprezzarne le qualità, la tenerezza”, risponde Maderna. “Se lei ha un`ideina tipo ‘pa-pa-pa’, allora va bene eseguirla più velocemente possibile; ma se ci sono tante linee melodiche intrecciate finemente, allora 88 di metronomo mi sembra troppo. Dipende anche dall’acustica della Sala: voi qui avete una bella acustica rotonda, mentre in studio il suono è più secco e automaticamente si pretende un tempo più veloce. Un’altra variabile è data dagli strumentisti: se sono bravi si diventa golosi, si prende piacere al suono e ci si lascia andare al ricordo della Serenata viennese, che a momenti sembra quasi un’operetta”. Si diventa golosi. La battuta suona epigrafica. Com’era goloso Bruno Maderna. Di musica, di emozioni, di vita. Di amici, di discussioni. di piaceri. E quella stessa voce, sofferente e roca, ci rimanda il profilo d’un musicista anzi d’un uomo che farebbe tanto bene alla vita musicale d'oggi. Un uomo fuori dai giochi, generoso nell’arte come nella vita. Perfino irritante nell’altruismo totale - che nei confronti degli amici o dei giovani da aiutare si trasformava in dedizione assoluta - nella dilapidazione continua e allegra della propria salute, nelle regalie continue del proprio talento. Un artista disincantato e sdrammatizzante. Senza preconcetti. Un musicista senza casacche né dogmi. Compositore e direttore d’orchestra, strumentatore e inventore di nuovi suoni tecnologici, esploratore dell’avanguardia e custode del repertorio Classico. Pensate, un interprete nato nella musica contemporanea che sosteneva: “bisogna essere molto severi, quasi crudeli, non tutta la musica d’oggi è bella”. E che nel 1970 si lagnava per la scarsa considerazione dei colleghi e del pubblico nei confronti di esecuzioni basate sugli apparati critici (la Bärenreiter aveva avviato l’opera omnia di Mozart), che mostrava preoccupazione per la difficoltà a sottrarre Beethoven e Wagner ai routinier tedeschi, Debussy ai francesi e Verdi a quelli di casa nostra. Un compositore-direttore biologicamente radicato nell’avanguardia ma che non aveva remore corporative: “una cattiva esecuzione di musica contemporanea lascia tracce più profonde che quattro belle esecuzioni” e che a proposito dell’introversione talvolta dimostrativa degli autori viventi confessava serenamente, con metafora netta: “la musica non deve essere troppo a buon mercato ma nemmeno troppo cara, deve rimanere un fatto sociale”. Nell’intervista registrata spicca poi un’immagine romantica e un po’ ingenua: “quando non ci sono più parole per esprimere ciò che si sente, li comincia la musica”. Accostiamola a quella tratta da un’altra conversazione (7 maggio 1973): “non sono un metafisico. Per l’amor di Dio, un principio così altamente spirituale! Per la verità io sono un innamorato della musica”.
Di tutta la musica. Anche come interprete, ch’è il versante qui direttamente trattato. Il repertorio di Maderna, per quanto costantemente tenuto nell’orbita dell’avanguardia (storica o contemporanea), non rivela discrepanze rispetto alla sua voracità di uomo e alla versatilità di autore. E il doppio ruolo non viene sentito come facilmente conciliabile. Anzi. “Per me queste due attività vanno benissimo d’accordo”, disse; “a volte e molto faticoso perché richiedono due atteggiamenti diversi: la composizione propria deve essere conservata dentro, mentre quelle che si dirigono hanno bisogno di molta energia volta all’esterno. Tuttavia questo contatto diretto e continuo con la musica, non solo come pensiero astratto, come formulazione teorica, ma come pratica esecutiva, come materiale sonoro vivo, è molto importante”.
Ravvivare il ricordo, e accenderlo in chi non ha avuto la fortuna di ascoltare Maderna, è un compito gratificante della discografia. Purtroppo l'anticonformismo dei suoi impaginati concertistici non ha favorito un rapporto significativo né regolare con l’industria fonografica, allora all’inseguimento semiesclusivo del pubblico commerciale. La conoscenza sul patrimonio esecutivo di Maderna s’è allargata soltanto in questi ultimi anni, per l'intraprendenza di alcune piccole case editrici che hanno messo mano sulle registrazioni dal vivo conservate negli archivi radiofonici, soprattutto inglesi e tedeschi.
Ruolo decisivo, quello svolto in tal senso da Stradivarius (distribuzione esclusiva Milano Dischi - via Costa 7 - 20131 Milano) che ha restaurato il suono di alcuni nastri di notevole interesse interpretativo. Il catalogo di registrazioni maderniane, fino a qualche mese fa limitato a una dozzina di titoli (musiche dello stesso Maderna, e di Berg, Boulez, Schönberg, Webern, Nono, Stravinsky e Malipiero), s’è arricchito in concomitanza col ventennio della sua morte di tre uscite di straordinario valore documentario e musicale. Cinque inediti per la discografia ufficiale, oltre alla incisione della lunga intervista di cui s’è detto, frutto della conversazione realizzata alla Radio Wefm di Chicago tra Maderna, George Stone e il compositore Alan Stout. Il nastro, toccante per chi Maderna conobbe, è una testimonianza seducente comunque; impossibile non cogliere anche al primo ascolto la carica umana ineffabile di quella voce vetrosa e cantilenante.
Quanto alla modernissima arte interpretativa, all’invadente ed estroversa fantasia compositiva del musicista veneziano, abbiamo un saggio estrosamente eloquente. Si può scegliere quale cammino percorrere per primo. Noi abbiamo preferito iniziare con Ages, l’iridescente e inquieta “invenzione radiofonica per voci, coro e orchestra di Bruno Maderna e Giorgio Pressburger da As You Like It di Shakespeare”. Il lavoro, che vinse nel 1972 il Premio Italia, fu realizzato allo studio di Fonologia di Milano della Rai (altra creatura cui Maderna fece da provvidenziale levatrice, e che qualcuno dopo di lui lasciò in abbandono), è fondato su una serie di prismatici mutamenti di prospettiva sonora (naturale e sintetica: mescolate) che “descrivono” allusivamente il percorso biologico delle età dell'uomo, secondando il clima di vago e elettronico espressionismo richiesto da un radiodramma che si rispetti. La naturalezza, la sensibilità emotiva, la cordialità teatrale, con cui Maderna ordisce il suo ipertesto sonoro, creando una serie di preziosi panneggi narrativi per le recitazioni reiterate e innestate l’una sull'altra, danno subito una sensazione di vertigine acustica e di formidabile motivazione espressiva. Oltre a far capire con quale familiarità l’autore sapesse combinare tecnologia e artigianato compositivo, suoni di sintesi e antifone orchestrali suadenti.
La figura bifronte di Maderna, e del suo estroso mondo creativo, si completa gustosamente col paradossale Satyricon da Petronio. Un collage, una sorta di scatenato e orgiastico cabaret polistilistico per il quale l’autore coniò il profetico termine di “neo-musical”, spiegando poco oltre come la partitura avesse “cercato di rendere in musica quello che oggi si pensa della pop-art”. Quella registrata a Hilversum nel marzo 1973 è la più agile versione da concerto (una decina di minuti più breve di quella teatrale), che rende maggiormente esplosivo il cocktail citazionistico e la sovreccitazione parodistica del lavoro, pensato in tale veste kitsch e falsificata proprio per corrispondere all’originale altrettanto eccessivo e provocatorio di Petronio. Qui, certo, è impossibile non captare l’umore acre e sornione del direttore-compositore: le tessere d’altro autore vengono incasellate con vivacità in un percorso musicale coloratissimo e spumeggiante, e col testo davanti i sottili (e/o grassi) sberleffi sonori acquistano un’affilatura da rasoio, senza rinunciare alla propria natura di oggetti straniati e caricaturali. Una partitura autenticamente fumettistica, allo stesso tempo di perentoria funzionalità “drammatica”, che cancella con anticipo di un ventennio tutti i rifacimenti citazionisti e (nelle intenzioni, soltanto) ironici - con più flebili motivazioni espressive, ideologiche e stilistiche - prodotti e autopromossi da alcuni giovani autori viventi. L’esecuzione è incalzante e umoristica, la scelta dei cantanti è felicissima, la registrazione fedele.
Più che soddisfacente, nonostante si tratti di nastro ultratrentenne, risulta anche l’ascolto dell’Heure espagnole, che ci porta in un mondo sonoro molto amato da Maderna. Del resto, non occorre molto per rendersene conto: poche battute di musica e siamo avvolti nel clima indolente e pruriginoso spalmato tramite una concertazione in cui ogni disegno, ogni suono, ogni allusività temantica paiono decantare con magica delicatezza e intridente rapidità. Maderna prende terribilmente sul serio la scrittura di Ravel ma si cautela da un eccesso di rigidezza intingendo il tutto (anche la docilissima orchestra) in una respirazione narrativa, a mezzo tra fiaba e pochade, che pare sempre ammiccare altrove e volare con levità incantata. Sul versante opposto, com'è immaginabile, l’effetto dei due novecenteschi concerti per pianoforte, nucleo dell’ultimo concerto diretto da Maderna (il programma completo comprendeva anche due Sonate di Scarlatti officiate da Brendel in avvio di serata). Non vorremmo però che sorgessero equivoci: in questa emozionante registrazione, il valore artistico e interpretativo sopravanza quello squisitamente documentaristico ed emozionale: comunque penetrante. In Schönberg, il segno musicale forte impresso da Brendel e Maderna possiede un’intelligenza musicale da brivido. L'esecuzione chiarisce il luminoso impianto interpretativo, condiviso a fondo dai due musicisti, nelle improvvise schiarite cantabili, nelle sospensioni liriche, nella ricostruzione d’una logica timbrica vivida ma esplorata in funzione della corrispondente indagine sulle suadenti trame contrappuntistiche. Il suono traslucido di Brendel è una sorta di antenna parabolica in grado di captare e anticipare (o sintetizzare) i doviziosi segnali musicali isolati dall’articolazione orchestrale. L'eleganza mai raggelante ricreata da Maderna ricostruisce un tracciato sonoro tutt’altro che monocromo, che riconverte il solista a un ruolo concertante sofisticato: i colori degli episodi orchestrali sono di per sé la miglior dimostrazione dell’inventiva direttoriale e dalla fantasia espressiva di Maderna. Sempre caldi, insinuanti e facili da decifrare nelle loro componenti strumentali: bruschi quando occorre, ma non violenti. Animati da un vibrante soffio sinfonico-concertante, radicato nel superbo (postimpressionista?) eloquio espressivo da cui il Concerto nasce, che informa il seducente impianto musicale. Uniti nell'amore per la partitura, galvanizzati reciprocamente dall'occasione concertistica, Maderna e Brendel - già sensazionali nel precedente Primo Concerto bartokiano - con Schönberg vanno oltre. Ci insegnano a conoscere e amare un profilo d’autore sovente (soprattutto in quegli anni) sottovalutato. Per micragnosità o dogmatismo dei concertatori. Per impotenza strumentale e pigrizia mentale dei pianisti. E' il disco che può illuminare chi ha qualche dubbio residuo sull’assoluta musicalità e sulla poesia bellissima di questo Concerto, per questi interpreti lavoro - anzi capolavoro - autenticamente riassuntivo dell’originalità e del modernismo radicale ma pur sempre postromantico dell’autore.
Mette un po’ l'angoscia, piombare nella registrazione dell’intervista. Fa proprio male. Per fortuna l'innamorato della musica, attraverso queste diverse testimonianze discografiche, lo ritroviamo per intero. E qualche ascoltatore disincantato e meno sentimentale troverà soltanto le tracce indelebili dell’unico compositore-direttore del secolo in grado - prima di Boulez - di tenere unite in un sol gesto di alta fusione musicale chiarezza e innovazione critica, personalità e originalità interpretativa.
Angelo Foletto
("Musica Viva", n.12, dicembre 1993)

giovedì, settembre 17, 2020

Bach: equilibrio speculativo e concezione della morte

Platone scrisse 36 dialoghi, vertenti ciascuno su di un deterrninato argomento filosofico. Naturalmente vi è una sistematica organicità con la quale sono congiunti fra loro i singoli dialoghi ed il suo pensiero costituisce ancor oggi la base (ed in non pochi punti il culmine assoluto) della filosofia occidentale. Vi è un particolare tema filosofico, quello della morte, che anche Bach pare trattare in chiave filosofica ed in modo decisamente sisternatico, dato che le cantate più celebri dedicate a questo argomento (BWV 8-82-106-161) sono tutte frutto, anche a distanza di anni, di un pensiero coerente ed organico. Non a caso è stata trattata questa analogia fra Bach e Platone, poiché risulta chiaro che Bach sta alla musica occidentale come Platone alla filosofia, con la diiferenza che, mentre la filosofia di Platone lascia parecchie vie aperte per nuovi sviluppi, la musica di Bach è gia perfetta in se stessa e costituisce il mondo sonoro più completo e totalizzante che sia mai esistito. E’ poi interessante vedere come alla sintesi platonica fra pensiero eracliteo (divenire del mondo) e pensiero parrnenideo (stasi dell’essere), corrisponda quella bachiana fra armonia e contrappunto. Inoltre - sempre procedendo all’interno di questo paragone - l’armonia rappresenta il divenire sia in senso tecnico (divenire della tonalità) sia in senso espressivo (divenire dello stato d’animo soggettivo). Non per nulla l’armonia predominava nell'Europa meridionale dove si dava più risalto all’espressione dei contenuti soggettivi). D’altro canto il contrappunto rappresenta un pensiero estetico molto più statico ed oggettivo, architettonico, dove contenuti soggettivi possono sussistere solo se filtrati dalla ragione, spogliata dalla loro limitatezza soggettiva, ovvero concettualizzati. Vediamo dunque che le due costanti di pensiero "divenire" e "stasi" - che potremmo anche parafrasare rispettivamente in "emotività" e "ragione" o "prassi" e "pensiero" - si presentarono sia a Platone che a Bach in campo filosofico e musicale. Entrambi ne fecero una sintesi, necessaria per la comprensione del mondo, ma entrambi accentuarono sempre alla fine l'elemento metafisico, razionale ed oggettivo che in musica è il contrappunto.
Ora pensiamo che sia bene chiarire alcune interpretazioni di Bach che si fanno comunemente oggi. La stragrande rnaggioranza di coloro che esprimono pareri su Giovanni Sebastiano si divide in due categorie opposte. Vi sono i fautori di una visione romantica - sentimentale e soggettiva - dell’opera di Bach e vi sono coloro che non vogliono sentire parlare di sentimento nell’opera del Kantor, e neppure di pensiero religioso-e filosofico o estetico, ma soltanto di tecnica compositiva e formale. Questi ultimi - che noi denomineremo "tecnocrati della musica" - quando compiono un commento di un brano bachiano si limitano ad osservare l’aspetto esteriore, l'orchestrazione, la data di composizione e qualche aspetto formale senza compiere il fatidico passo che "dal sensibile ci porta al soprasensibile" (Platone-Fedro) e cioè a ricercare i significati ulteriori che nel linguaggio musicale sono racchiusi. Non affermano neppure che la "forma" in Bach è tutto, poiché tale affermazione sarebbe di carattere filosofico ed estetico e questo è ciò che vogliono evitare. Anzi, se messi alle strette su un argomento più profondo di quello tecnico, si rifugiano nella solita, vecchia, stantia storiella del "sentimento" del musicista, spiegazione molto semplice e che non risolve nulla e accontenta tutti, perché vacua. Basterebbe ricordare a questi signori che a Bach stesso avrebbe fatto più piacere sentire interpretare ed ascoltare la sua musica come trasposizione di pensiero filosofico e religioso o come propedeutica alla meditazione, Lui che aveva dedicato tutta la sua vita a tale scopo. Non intendiamo certo negare la necessità inderogabile di una attenta disamina della partitura, dell’orchestrazione, della forma compositiva, specie nei confronti della musica bachiana, impareggiabile congegno sonoro. Anzi una teoria estetica che non presupponga una certa conoscenza tecnica potrebbe definirsi un idealismo soggettivo di stampo romantico. Ma ciò non toglie che la forma non sia tutto in Bach, o meglio, che lo sia nella misura in cui l’ordine formale rispecchia quello del pensiero filosofico: Bach, infatti, non è mai descrittivo, concettualizza sempre.
Passiamo ora a confrontare i cosiddetti "romantici", i quali si pongono in antitesi ai fautori della "tecnica super omnia", che a loro volta si fanno vessillo del noto saggio di Adorno contro "certi ammiratori di Bach" (La visione musicale di Adorho è discutibile quanto lo è la sua filosofia, ennesima rielaborazione di marxismo). I "romantici" tendono a mettere in risalto i sentimenti soggettivi del musicista, proprio ciò che Bach cercò sempre di occultare, e, bisogna dire, vi riuscì con grande successo. Nel suo iter spirituale verso Dio, nel suo progressive allontanamento e distacco dall'indirizzo storico musicale del tempo, distacco proteso a raggiungere le fonti pure dell’Essere trasposte in suoni (ovvero l’Arte della Fuga), Bach capì benissimo che la esposizione descrittiva dei propri stati d’animo soggettivi era fuori tema rispetto all'assunto della sua opera. Tuttavia noi sentiamo spesso una suasiva e convincente umanità nella sua musica. Ciò risulta dal fatto che il Kantor, da vero luterano, aveva bene in mente l'idea del limite umano di fronte a Dio, mero particolare di fronte alla necessità universale e pertanto non pensava ad esprimere con coscienza musicale qualcosa di estremamente parziale come i semplici sentimenti, bensì qualcosa di universale come concetti ed idee, unico vocabolario possibile per rivolgersi a Dio con grande equilibrio speculativo. Il sentimento bachiano veniva così razionalizzato, perdeva emotività, ma manteneva quella serena pacatezza, quell’umanitas classica, quel distaccato lirismo che fanno della musica di Bach un miracolo contemperante logica metafisica, rigore oggettivo e formale, ma anche senso poetico del Tutto. O, per dirla ancor piu concisamente, poesia dell’Infinito e dell’Eterno spiegati filosoficamente. Questo, e non altro, è il modo in cui Bach intesse il suo colloquio musicale con Dio, non col sentimento che per sua natura è intriso di "passione" e di "emotività"» cioè è offuscato e non chiaro e distinto. E la serenità bachiana si esprime solo attraverso la esatta calibrazione del contenuto da esprimere e della forma da usare. Non per nulla Bach, anche se vive nella prima meta del ’700, è un uomo del ’600. In lui il luteranesimo giunge ormai mediato dalle grandi correnti razionalistiche del ’600, massime lo Spinozismo, e la concezione di Dio assume sempre di Necessità Universale. Ma la sua figura diviene veramente emblematica in campo europeo, se la consideriamo come l’ultima del mondo classico prima dello stravolgimento antropocentrico operato dall’Illuminismo e dal Romanticismo. Infatti è ormai universalmente riconosciuto l'assoluto equilibrio compositivo di Bach, tra verticalismo armonico e orizzontalismo contrappuntistico, equilibrio mai riscontrato in altro compositore. Ci sembra evidente come la figura del Kantor, posta in Europa in quello splendido periodo culturale che procede lo scetticismo a volte arido dell’Illuminismo e che raccoglie la piena maturità delle idee spinoziane e razionalistico-metafisiche del '600, riassuma tale patrimonio di idee "chiare e distinte" e che le sue due coordinate musicali non siano altro che la trasposizione musicale dell’equilibrio ragionativo del '600 espresso da Cartesio (ascissa e ordinata). Ovvero l’equilibrio fra contemplazione metafisica razionale verso l’alto e solida e serena concezione naturalistica della vita contingente. Dopo Bach, ultimo testimone, tale patrimonio si è smarrito per sempre nel disequilibrio romantico.
D’altro canto ci pare che un’altra e valida prova circa l’esistenza di un sistematico pensiero bachiano consista proprio nell’elemento formale basilare di quasi tutta la sua musica: il tema di Fuga. La Fuga è forse la composizione musicale per eccellenza, l’aspetto col quale maggiormente la musica si manifesta come mondo in se stesso compiuto e non come linguaggio artistico descrittivo di realtà ad esso esterne. Orbene il tema di fuga è l'entità espressiva più sintetica e passibile di enormi sviluppi logico-estetici che esista. Non se ne ha il pari nelle arti figurative o letterarie. Il fatto poi che esso sia il manifesto del pensiero bachiano è sintomo di una chiara impostazione filosofica nel procedimento creativo del Kantor. Il concetto di sintesi è infatti il cardine metodologico di ogni filosofia.
Dopo aver controbattuto quelle equivoche interpretazioni così convenzionali dell’opera bachiana ed avere dimostrato i fondamenti dell’equilibrio speculativo di Johann Sebastian, tocchiamo ora il secondo argomento che ci eravamo prefissati, la concezione della morte, il quale completa un profilo spirituale del Compositore Che sia inserito nel clima intellettuale del suo tempo e non risponda piuttosto alle esigenze emotivamente soggettive o aridamente tecniche dei contemporanei.
Già nella Cantata 106 "Gottes Zeit ist die Allerbeste Zeit" (detta Actus Tragicus), una delle prime di Bach, la tematica vita-morte è considerata con grande equilibrio. Al sublime coro centrale terminante coi soprani in assolo che invocano il trapasso sereno nella pace della morte, fa riscontro l’aria per basso che sollecita a disporre le cose terrene, così da lasciare tutto con giustizia ed, equità. Sottolineiamo ancora come si presenti l'istanza metafisica congiunta ad una pacata visione del mondo contingente. Questa maturità, questo senso della caducità delle cose terrene, che però vengono accettate, di fronte all’Eterno, che è il tempo di Dio (ed è il tempo migliore di tutti, come dice il titolo della Cantata) Bach lo esprime a soli 24 anni.
Nella Cantata 161 "Komm du süsse Todesstunde" (Vieni dolce ora della Morte), veramente memorabile è il coro che precede il corale finale. In esso la morte è considerata come la mediatrice tra uomo e Dio, come l’elemento che ci permette di superare la barriera della soggettività. Nel coro citato entrano per prime le voci femminili, seguite quasi subito da quelle maschili in canone, che sono l’asseverazione della preghiera già iniziata. Il tutto, accompagnato dagli archi, e costellato dal suono del flauto che conferisce pace e tranquillità.
Nella Cantata 82 "Ich habe genug" (Ne ho abbastanza) fa testo l’aria "Chiudetevi stanchi occhi", dove l'Autore, uomo ormai maturo, ha un attimo di stanchezza per la vita ed anela a superare le categorie della nostra esistenza per giungere al precategoriale, cioè al denominatore comune del Tutto. La melodia è malinconica, ma è opportuno ricordare che Bach trova razionalmente un motivo di contemplazione metafisica in una circostanza nella quale la maggior parte degli uomini, e di molti artisti, soggiacerebbe allo sconforto. Bach, cioè, sublima nell'ordine oggettivo del Cosmo, cui anela, uno stato d'animo soggettivo.
Inline, nella Cantata 8 "Liebster Gott wann werd ich sterben" (Amato Dio quando dovrò morire), particolarmente nel coro iniziale abbiamo forse il vero manifesto del pensiero bachiano nei confronti della morte. Infatti viene posta la domanda a Dio circa il nostro momento estremo, quando il nostro corpo ritornerà nella terra da cui è venuto. C'è anche un interessante ed esplicito riferimento al peccato d’Adamo, frutto della soggettività passionale dell'uomo, che tutti ci ha condizionato, essendo noi esclusi dall’Eden, cioè dall’essere serenamente conglomerati nell'armonia dell’universo. Musicalmente il coro è unico, in quanto all'andamento delicato e misuratissimo delle voci fa riscontro un continuo fraseggio del flauto; gli archi sono presenti ma in secondo piano. L’atmosfera che ne risulta è di serenità quasi campestre, di accettazione delle leggi della Natura, nel cui grembo tutti ritorniamo. Non si può non ricordare a questo proposito la concezione spinoziana secondo cui dopo la morte non vi sarà una immortalità personale, ma una immortalità impersonale, che consisterà nel divenire sempre più una sola cosa con Dio.
Nelle cantate che abbiamo brevemente esaminato Bach tratta della morte come momento futuro, prossimo. Cioè visto ancora dalla parte dell’uomo. Nelle composizioni per organo e cembalo egli pare aver superato il fatidico momento e rappresentarci, trasposto in proporzioni sonore, ciò che vi è al di la, ovvero l'oggettività, il non-essere soggettivo, cioè individuale, o, per dir meglio, l’annullamento del particolare nell’universale. I1 distacco è qui completo: ciò a cui il Kantor tendeva è stato raggiunto ed egli ce lo traspone in estetica pura. Ma, nel cammino a ritroso di Johann Sebastian verso le fonti dell'Essere, nel suo tentativo di compenetrare il mondo nouomenico tramite il controllo della ragione sulla fantasia, la mèta non poteva essere ancora questa, ma bensì più in alto ancora. Vi sarà anche l'annullamento delle figurazioni oggettive come quelle della musica per tastiera. Nell'Arte della Fuga la bipolarità che pur sempre esiste fra soggetto e oggetto, anche se minima è quasi impercettibile nei preludi e fughe per organo e cembalo o nelle Variazioni Goldberg, cessa. Sopravviene la polarità unica della riflessione su se stessa, dell’identità A = A, che è propria dell'Essere supremo. Davanti a quest’unico principio "causa sui" e "causa mundi" Bach ha terminato il suo viaggio: la XIX (19°) gigantesca variazione contrappuntistica su di un tema fisso (come il mondo è una variazione continua sul tema di Dio o Necessità) termina nullificandosi, perché assorbita dall’Essere che nulla concede al di fuori di Sé, essendo il Tutto. Ora il Kantor è veramente arrivato alla fine e può dettare con serenità e pace sul letto di morte l'ultimo corale "Davanti al Tuo Trono io vengo solo": anch'egli viene assorbito dall'Essere, per la cui esplicazione musicale Bach ha vissuto.
Paolo Fenoglio
("Rassegna Musicale Curci", Anno XXVI, n. 3 dicembre 1973)

sabato, settembre 05, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (12/14)

Man weicht der Welt nicht sicherer aus als durch die
Kunst, und man verknüpft sich nicht sicherer mit ihr als durch die Kunst.
 
Non c'è via più sicura per evadere dal mondo, che
l'arte, non c'è legame con il mondo più sicuro dell'arte.
Johann Wolfgang von GOETHE
 
MUSICA E MODELLI INTERIORI
Dodicesima parte.
 
Platone e Kant sono i due filosofi più rappresentativi e decisivi nel pensiero occidentale. Inevitabilmente, la visione della musica che emerge dalla filosofia critica kantiana è la più chiara antitesi alla visione platonica. Se i limiti dell'io, come coscienza ma anche come realtà fisica, sono il diaframma tra il soggetto e il mondo oggettivo esterno, il modello della musica, che in Platone si dichiara tutto esteriore ed anzi il più esteriore possibile, in un cielo metafisico che l'esperienza non può conquistare ma da cui è continuamente diretta, diviene, dopo un lungo percorso che abbiamo indicato nella puntata precedente, tutto interiore nel pensiero di Immanuel Kant.
Almeno per un istante, questa asserzione sembra smentita dalle parole che aprono la pagina conclusiva della Kritik der praktischen Vernunft (1788): "Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo dinanzi a me e le connetto immediatamente con la coscienza del mio esistere". Le parole farebbero supporre che in Kant persista o addirittura si rafforzi la funzione archetipica del cosmo, ossia dell'universo planetario finalisticamente ordinato la cui visione concludeva la Politeia platonica.
Si ha l'illusione che Kant voglia indicare, tra il cielo stellato e la legge morale, un rapporto di modello e mimesi, il che già di per sé implicherebbe un tributo alla filosofia platonica. Diverrebbe postulato, in tal caso, l'archetipo supremo delle due realtà rette da immutabile armonia, e tale archetipo, per definizione, sarebbe trascendente, non soggetto all'esperienza e quindi metafisico.
L'illusione si dissolve non appena rinviamo questa pagina conclusiva all'insieme della Kritik der praktischen Vernunft e agli altri scritti critici di Kant. Leggiamo, nella prefazione alla Kritik der Urtheilskraft, che la natura, di cui il cielo stellato fa parte, è un "complesso di fenomeni la cui forma è data a priori", e sappiamo che l'a priori kantiano ha sede nell'io penso, non al di fuori di esso. Analogamente, la forma è non già il carattere oggettivo di qualcosa che sia determinato (come nella metafisica di Aristotele), bensì la "determinazione del determinabile" (Kritik der reinen Vernunft, § 266), e quindi un atto dell'io penso. La stessa determinabilità su cui opera la determinazione da parte dell'io è un modo di pensare, non un oggetto nel senso aristotelico della parola. Nel pensiero di Kant si compie la sostituzione dell'ontologia con la gnoseologia come problema centrale. Da questo riepilogo di nozioni vulgate risulta sufficientemente chiara la collocazione assegnata alla musica, in termini espliciti o impliciti, dopo l'immenso lavoro filosofico compiuto da Kant. Tramontata l'oggettività dell'idea di natura, i suoni e la loro possibilità di organizzarsi in sistema tendono a divenire non più "naturali", ma "razionali", traendo con sé una conseguenza non inevitabile negli enunciati individuali dei filosofi postkantiani ma sempre possibile in teoria: che l'universo dei suoni, inteso come fenomeno esterno all'io, sia "non razionale" o addirittura "irrazionale", e che di conseguenza l'arte sia "razionale" quando, restìa a catturare i suoni così come sono, li teorizza, li programma e li produce. E' superfluo notare quanta influenza tutto ciò ha avuto sulla fabbricazione degli strumenti musicali nei due secoli che ci separano da Kant.
Appena più necessario è ricordare come la nascita del temperamentum aequabile, con l'ottava divisa in dodici semitoni, ossia in dodici intervalli perfettamente uguali determinabili, rispetto al suono di base, da radici dodicesime di potenze di 2 in grado crescente o decrescente, sia non casualmente coeva al fiorire del razionalismo filosofico. Ma l'attività legislatrice e decisionale dell'io-ragione ha agito sulla crisi della modalità, in cui scale "naturali" avevano ciascuna una propria fisionomia, e ha favorito il sistema tonale, in cui all'interno di ciascuna tonalità si riproducono per analogia i medesimi rapporti intervallari tra suono e suono. Il sistema modale è una realtà di natura che pone problemi spesso formidabili e insormontabili al pensiero musicale; è , oggettivo, e costringe i musici a complicate operazioni di raccordo, così come obbliga gli strumentisti a trovare una faticosa intesa tra strumenti diversi. Coloro che accordano le proprie mirabili macchine produttrici di suoni intonati non le accordano soltanto "tra loro", "l'una con le altre": le pongono anche d'accordo con la natura stessa. Ciò vale a mantenere stabile la tradizione, concedendo lievi e graduali varianti. Il sistema tonale è un frutto del pensiero; è l'io-penso-in-musica che si riconosce di volta in volta nelle sue creature teoriche, in ciascuna delle quali ha impresso il suo marchio di fabbrica che le rende similari l'una all'altra. Il sistema tonale è qui, non ; grazie alla teorizzazione del temperamentum aequabile, rende agevole a priori l'accordo fra gli strumenti, e apre nuove immense possibilità combinatorie. Tutto ciò vale a destabilizzare rapidamente la tradizione, le varianti diventano capovolgimenti o, in senso etimologico, rivoluzioni.
Di questi fondamenti teoretici, che gli appartengono di diritto, l'artista romantico è talora inconsapevole, anche quando li porta all'estremo. Il punto di partenza per intendere i diversissimi aspetti del romanticismo musicale è il carattere che unifica tanta diversità: la coscienza dell'artista legislatore assoluto, e quindi interamente responsabile della propria opera. Questo genera nell'artista romantico una moralità "non moralistica" ma "poetica", nel senso etimologico di "'produttiva" o "creatrice". All'artista che può e deve seguire soltanto la via segnata dalla natura, subentra l'artista che traccia una via e la via inversa, che erige un edificio ma anche la sua immagine speculare, che è insieme, in una parola, Dio creatore e Satana distruttore. Il pietista e austero Kant non poteva prevedere che da lui sarebbe nato questo gioco pericoloso. A nessuno sfugge che il motto apposto da Beethoven al Finale del Quartetto in fa maggiore op.135 ("Muß es sein? Es muß sein!") ha in sé lo spirito vivo dell'imperativo categorico definito da Kant nella Kritik derpraktischen Vernunft: "ich muß", fratello speculare del "du mußt" goethiano nel Faust. Ma questa è un'eco culturale immediatamente percepita. Ad Arnold Schönberg siamo grati per una fulminea analisi ulteriore: "Muß es sein? " corrisponde a Sol, Mi inferiore e La inferiore, ossia all'inversione del retrogrado rispetto al precedente inciso di tre note. La via che va all'insù può essere la stessa, diceva Eraclito, che la via all'ingiù, ma la prospettiva è comunque diversa, e la soggettività radicale dell'io-penso non può trascurare le prospettive, il sopra e il sotto, la destra e la sinistra, mentre l'oggettività del cosmo potrebbe farne a meno. Si noti: inversioni, specularità, mascheramenti, sono il pane quotidiano nella musica dei secoli prekantiani: della tradizione polifonica rinascimentale, dalle forme musicali barocche, dello stile contrappuntistico più arduo. In Beethoven, l'inversione delle linee viene dichiarata con intransigenza più che con eleganza; è orizzontale con figurazioni affiancate, e si svolge nel tempo, non verticale con figurazioni sovrapposte e aggettante nello spazio. Anche questo suggerisce un primato dell'io-penso, ragione-soggetto che trova i propri modelli nell'interiorità dove il reale è essenzialmente tempo (Sein und Zeit, se anticipiamo la formula di un filosofo più recente), non nel mondo esterno dove il reale è, o ci appare, soprattutto spazio.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 1, Gennaio 1991, Anno XV)