Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, settembre 28, 2007

In Italia: la musica come evasione

Non è certo che la musica sia davvero considerata un'arte, in Italia: burocraticamente, è affidata ad un Ministero che sovrintende anche allo sport e al turismo e che accoglie la musica sotto la dizione «spettacolo». Partite di calcio e quartetti di Mozart, "pro loco" e opere di Verdi, musical comedy, Pirandello e Vivaldi coabitano nelle stesse stanze del potere.
Le risorse economiche devolute alla musica sono minime, distribuite "a pioggia", ma con un criterio ben preciso: servono ad un'attività musicale ridotta, distribuita fra tredici enti lirici principali, ventiquattro secondari e fra una miriade di società concertistiche che combattono quotidianamente la battaglia per la sopravvivenza. Da questo punto di vista, siamo ancora alla divisione ottocentesca dell'Italia in tanti stati indipendenti, in cui i teatri provengono in eredità dai Borboni a Napoli, dallo Stato Pontificio a Roma, dalla monarchia sabauda a Torino, dall'Impero asburgico a Milano, Venezia e Trieste, per tacere del Granducato di Firenze, del Ducato di Parma e così via.
Ma c'è una particolarità tutta italiana: ogni spettacolo deve essere un "evento" memorabile, cui prendono parte, sia pure per poche repliche,, il Grande Regista, il Grande Cantante e il Grande Direttore. E considerato degradante ("alla tedesca", si dice) svolgere un'attività a livelli più modesti, ma costanti, ripetuti, tali da costituire un tessuto culturale. Un esempio: con la stessa sovvenzione statale, in un anno la Scala svolge poco più di ottanta spettacoli e il teatro di Monaco ne svolge più di trecento.
La Traviata venne rappresentata a Milano nel 1956 in un'edizione memorabile, con Maria Callas, con la regia di Visconti, con la direzione di Giulini. Da allora, salvo un'edizione fischiata ingiustamente nel 1964, si è dovuto attendere il 1990 perché Riccardo Muti, fra grandi tremori e rumori fuori scena, osasse riprendere il capolavoro di Verdi con una compagnia di giovani. Risultato: un'intera generazione di milanesi, dal 1956 al 1990, non ha visto La Traviata. Si è trattato di un vero e proprio attentato alla cultura musicale.
Per quanto riguarda la musica sinfonica, le orchestre create nella prima metà del Novecento (quella dell'Accademia di Santa Cecilia, le quattro della Rai-Radiotelevisione Italiana) sono in decadenza, mentre se ne formano di nuove che appartengono a quella miriade di società che, come si è detto, combattono del loro meglio. L'Italia è tuttavia un paese contraddittorio: italiani sono due fra i più grandi direttori d'orchestra del momento, Claudio Abbado e Riccardo Muti, ma la loro attività si svolge all'estero, secondo una secolare tradizione nazionale, e si dividono il mondo musicale internazionale, dalla Mitteleuropa agli Stati Uniti.
Ogni volta che si parla di musica, in Italia, occorre premettere che si tratta di un'arte e che rientra nella cultura. Del resto, nessun ministro italiano preposto all'istruzione, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi regime, ha inserito la musica fra gli insegnamenti artistici obbligatori nella scuola primaria: ci si è limitati ad ereditare (e a far proliferare) i conservatori cittadini, risalenti al modello sei-settecentesco della scuola per poveri, giusto per avere scuole destinate a specializzati.
Anche in questo caso, la storia offre motivi di riflessione: la musica è rimasta alla committenza aristocratica dei secoli andati, senza che alcun cambiamento sia avvenuto nell'epoca borghese.
Essa era considerata, nel Cinquecento e nel Seicento, un intrattenimento per feste e cerimonie sacre e profane, dalla polifonia di Palestrina per la Curia romana ai celebri intermedi fiorentini per nozze principesche; e anche nel teatro musicale, che dalla metà Settecento in poi fu l'espressione più caratteristica della musica italiana, si dovevano creare occasioni di divertimento evasivo, con spettacoli in cui non contava la drammaturgia, ma il virtuosismo, non la verosimiglianza drammatica, ma il concerto canoro di castrati e primedorme travestiti da eroi e divinità del mondo classico: Pietro Metastasio reinventò i più inverosimili casi della storia, dalla Clemenza di Tito ad Alessandro nelle Indie, sotto forma di ariette armoniose destinate a fornire metafore per strepitosi gorgheggi; Carlo Goldoni trasferì nella lirica il suo talento per la commedia realistica, nobilitando la comicità popolare in un teatro musicale buffo (non meno surreale di quello tragico) popolato di bassi comicamente balbuzienti, di sospirosi amanti e di capricciose soubrettes. Napoli, con i suoi fantasiosi e colti letterati e con i suoi geni musicali spontanei, ad esempio Paisiello e Cimarosa, fu il serbatoio della comicità operística italiana.
Per la stessa contraddizione per cui i grandi direttori italiani di oggi sono applauditi all'estero, i grandi compositori di un tempo fecero fortuna nell'Europa musicale: gli autori di musica strumentale, da Geminiani a Domenico Scarlatti, da Boccherini a Clementi, si piazzarono nel grande mercato musicale di Londra o si allogarono presso le corti di Spagna; gli autori operistici si procurarono vantaggiosi contratti presso tutte le corti europee, da Stoccarda a Dresda e a San Pietroburgo, per diffondere il loro prodotto tipico, l'opera seria e l'opera comica, e divertire l'aristocrazia europea.
Nell'Ottocento, Verdi impiegò una vita, fra compromessi e adattamenti, a trasformare in dramma musicale lo spettacolo a base di virtuosismo canoro che attraverso Rossini gli era stato lasciato in eredità dai secoli antecedenti e che era stato in qualche modo trasformato da Donizetti, in maniera confusa e contraddittoria, e da Bellini con distillati lirici troppo esigui per modificare convenzioni secolari.
Verdi compì esperimenti audaci ma rinfoderò prontamente le sue intenzioni quando, nel 1847, il poeta nazionalista Giuseppe Giusti recensì Macbeth ricordandogli di non andare dietro alle «vaghe veneri» straniere (intendeva l'opera tedesca), e si affrettò a comporre un tradizionalissimo melodramma, I Masnadieri. Aspettò il 1887, con Otello, per tornare ad ispirarsi al teatro di Shakespeare che considerava il modello della propria drammaturgia musicale e ripeté l'esperimento nel 1893 con Falstaff.
Vennero poi le avanguardie novecentesche che, smaniose di "sprovincializzare" l'Italia musicale, per prima cosa cancellarono dalla cultura il teatro musicale ottocentesco e con esso l'atteggiamento anti-evasivo di Verdi. Le avanguardie, nel corso del secolo, si sono internazionalizzate, e le abitudini musicali italiane di un tempo a poco a poco hanno ripreso il sopravvento. Si rivaluta la musica come evasione: si torna ai virtuosismi di Rossini e dei suoi predecessori; si scritturerebbero, se fosse possibile riaverli, perfino i castrati. E' forse giusto che burocraticamente la musica stia insieme con i calciatori e le "pro loco".

di Claudio Casini (da "L'arte di ascoltare la musica", Rusconi 1991)

domenica, settembre 23, 2007

Edvard Grieg: le radici di un lirico

Ripensare il compositore norvegese morto il 4 settembre di cento anni fa.
C'è un cratere Grieg su Mercurio, per ricordarci il compositore norvegese molto amato nei salotti dell'ottocento (nonchè da Verdi e Ciakovskij), e forse per questo meno compreso più tardi. Grande, eppure poco noto, se non per una piccola parte della sua produzione. Spesso saccheggiato dalle colonne sonore delcinema, ma raramente citato.

Nacque a Bergen, una città relativamente piccola (la Norvegia ha ancora oggi meno di cinque milioni di abitanti), in una nazione da cui non partivano più le lunghe navi vichinghe alla scoperta del mondo e ancora non incrociavano le petroliere, una pura espressione geografica, avrebbe detto Bismarck, ancora sottomessa alla Svezia, insomma una periferia della periferia. Era il 1843. La sua famiglia di ricchi commercianti, con lontane ascendenze scozzesi, vantava da parte di madre un ottimo pedigree musicale, e un antenato compositore del Seicento ancora ricordato (Kjeld Stub). A Bergen succedeva ben poco e il principale divertimento era fare musica in casa. Dai Grieg la musica era qualcosa di più: la madre era veramente brava al pianoforte e il primo dei cinque figli (Edvard era il quarto) divenne un apprezzato critico musicale. Inutile dire che a nove anni il nostro già componeva, suonava, improvvisava. Ma risolutiva per il suo futuro professionale, all'ètà di quindici anni, fu la visita del lontano parente Ole Bull, violinista virtuoso di fama internazionale, che autorevolmente consigliò seri studi in Germania, nel centro della vita musicale, e precisamente a Lipsia, la città che fu del Kantor Bach.
L'opportunità di ascoltare il meglio della musica classica e romantica tedesca fu molto più importante del percorso scolastico, dove insistevano ad insegnargli cose che era poco interessato a sapere, e dove, a suo dire, non gli sapevano insegnare ciò che più lo affascinava (l'orchestrazione). Meno male, altrimenti oggi parleremmo di lui soltanto in qualche pagina di enciclopedia dedicata agli epigoni periferici del romanticismo germanico. Però un insegnante di pianoforte, Wenzel, era stato amico di Schumann, e quei pezzi brevi e liberi, quelle illuminazioni armoniche, gli rimasero nel cuore. Seguono vari soggiorni in patria, in Svezia e Danimarca, durante i quali si distingue soprattutto come pianista. Facciamo sosta a Copenhagen, perché qui incontra il conterraneo Rikard Nordraak, valido compositore morto prematuramente e soprattutto acceso nazionalista (e autore dell'inno nazionale norvegese), che gli insegna ad amare il repertorio popolare. Un altro importante seme lasciato a maturare. Dopo un primo viaggio in Italia (nel 1860 era sopravvissuto ad una malattia ai polmoni, e l'Italia era una meta necessaria oltre che gradita), in cui incontra Ibsen, l'altro grande norvegese, si stabilizza ad Oslo, dove si adopera come organizzatore di concerti, aggiornando di molto la vita musicale del suo paese, e fonda l'Accademia Norvegese di Musica. Abbandoniamo ora la biografia, fatta essenzialmente di tournées come pianista, talvolta massacranti per la salute. Ricordiamo solo un altro viaggio in Italia, perché l'incontro personale con Liszt, che con la consueta generosità ne aveva capito il talento, portò anche ad una stabile collaborazione con le edizioni Peters, e alla diffusione della sua musica.
E veniamo al Grieg che conosciamo e a quello che dovremmo conoscere meglio. Va detto subito che il lavoro più celebre, le due Suites dalle musiche di scena per il Peer Gynt di Ibsen, non rappresenta un'immagine riduttiva del suo mondo musicale: il gusto quasi impressionistico per l'immagine evocativa (il memorabile "Mattino"), l'indagine sul folklore nazionale, il bozzetto comico-grottesco, le forme libere e talvolta sorprendenti, il lirismo suadente e disteso, la disinvoltura armonica, sono tutti lì. Ma è solo una porta aperta verso soluzioni e risultati che dobbiamo cercare altrove.

Lirismo libero
Inutile cercarli nel pur piacevolissimo e giovanile Concerto per pianoforte in la minore (guarda caso la stessa tonalità di quello di Schumann), un lodevole sforzo di mimesi con la grande forma tedesca. Ci provò una seconda volta, ma ormai era abbastanza maturo da capire di lasciar perdere. Ci provò anche con l'opera, ma si fermò alla terza scena. Più vero il Grieg della musica da camera, delle tre Sonate per violino e pianoforte, della Sonata per violoncello e pianoforte e del Quartetto in sol minore, lavori che troviamo lungo tutto il percorso dagli anni giovanili alla maturità. Possiamo anche abbandonarci alle belle melodie e alle invenzioni di ottima; i più attenti possono perfino cogliere percorsi formali inattesi e innovativi, che sono il positivo rovescio della medaglia di uno sforzo per comporre secondo archi formali non del tutto sentiti, ma non è ancora tutto, non l'essenziale almeno. La grandezza di Grieg è in gran parte nascosta: non per mancanza di fonti pubblicate, ma perché la dimensione intima, domestica, lontana da magniloquenza e virtuosismo, la tiene spesso fuori dalle sale da concerto, e pochi interpreti la considerano un biglietto da visìta da consegnare al disco. Si tratta di due percorsi paralleli, rappresentati da dieci serie di Lyriske Stykker (Pezzi lirici), che vanno dal 1867 al 1901, completati da sette Stemminger (stati d'animo) del 1907, e da un numero infinito di Lieder per canto e pianoforte. I due percorsi talvolta si intrecciano attraverso trascrizioni. In questi brevi pezzi, quasi tutti con un titolo evocativo, Grieg si sente pienamente libero, a partire dall'antica matrice schumanniana. Le forme procedono spesso per libera associazione, alla maniera che sarà di Debussy e di tanto Novecento. L'armonia deriva in una prima fase da una sapiente condotta delle voci che incorpora sottili cromatismi, più tardi associa elementi modali, legati al canto popolare, fino a intuizioni di puro colore. A caratterizzare l'inconfondibile stile concorrono anche soluzioni costanti e riconoscibili (la sensibile che scende alla dominante, il quarto grado della scala alzato). Nonostante la brillante carriera di pianista, la scrittura è abilissima, ma lontana da ogni esibizione. Il canto popolare nordico è spesso protagonista, in parte come vero e proprio recupero, anticipatore delle ricerche del primo Novecento (negli Slaatter, danze paesane, del 1903, sembra anticipare Bartók), in parte come pretesto per inedite esplorazioni armoniche: è infatti un canto che nasce dall'antico incontro fra la remota musica dei vichinghi e l'introduzione del gregoriano con la conversione cristiana, per non contare i trovatori erranti fra le instabili corti medievali, che portavano con sé echi mediterranei. L'incredibile successo nei salotti dell'Ottocento non tragga m inganno: Grieg non propone infatti un folclore presentabile, elegante e imborghesito, ma il più possibile autentico, e sentito come veicolo, per la formazione di una identità culturale nazionale. Oltre al canto popolare ricorrono tracce e allusioni di una natura sicuramente curiosa e cosmopolita (Bizet, Gounod, Massenet, Fauré, Dvorak, spesso Liszt e più tardi Wagner), memorie di percorsi europei, frammenti di un intimo diario musicale. Lungo questo cammino troviamo anche una geniale intuizione, Fra Holbergs Tid (nota anche come Holberg Suite, 1884). E' chiaramente un pezzo da concerto, e discutere se anticipi di trent'anni soluzioni neoclassiche, o più semplicemente partecipi del gusto neogotico che furoreggiava in pittura, nei castelli di Ludwig di Baviera e in certe opere di Wagner, è abbastanza ozioso. Sta di fatto che la soluzione è convincente, e ci mostra un Grieg inedito e sorprendente, che non può mancare negli ascolti di un vero appassionato. Infine, per conoscere a fondo il compositore, e per abbandonare ancora una volta l'abusato cliché piacevolmente salotticro, bisognerebbe andare a scovare le composizioni per coro, come i 12 Canti popolari norvegesi per varie combinazioni di voci maschili del 1880, e i tardi, segreti e intimi Quattro salmi per coro a cappella del 1906, un vero e proprio ponte lanciato verso i decenni più recenti della musica. La morte lo restituì ai nordici elfi nel 1907, in una semplice tomba scavata nella roccia nei pressi della sua casetta sul lago di Troldhaugen, non lontano dalla città natale.

Lorenzo Ferrero (il giornale della musica, 09/07)