Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 22, 2014

Gustav Mahler: gigantismo e tecnica narrativa

Toblach (Sudtirolo) - Italia
Si è fatto di già cenno del gigantismo architettonico che connota, nel suo insieme, la Sinfonia mahleriana. Ove si eccettuino la Prima e la Quarta, uniche fra le nove cui il musicista dette completezza ad aver dimensioni e durata pressoché analoghe a quelle dei coetanei prodotti sinfonici del tempo, le altre del gruppo mostrano una visibile dilatazione degli spazi e dei tempi, articolandosi talora in un numero di movimenti superiore ai quattro canonici della convenzione: cinque nella Seconda, nella Quinta e nella Settima, sei addirittura nella mastodontica Terza; e quattro di esse (Seconda, Terza, Quarta e Ottava) accoglieranno, addirittura, la voce umana, vuoi in senso corale, vuoi come intervento solistico. V'è ancor qui da apporre qualche non irrisoria chiosa: se il concetto di "durata" è ormai palesemente da mettere in rapporto con il mutato ambito psicologico del wagnerismo, per cui alla lunghissima Sinfonia di Mahler viene commesso il paradosso (già in parte bruckneriano) di fungere da veicolo della immobilità anziché del decorso narrativo, lo stesso potenziamento della sonorità risponde, nei suoi esempi più felici, a un’esigenza del tutto opposta a quella del gigantismo: quanto più Mahler "alza la voce", tanto più vi si manifesta esautorato il principio fonico di potenza e un’ombra di insicurezza si fa strada fra gli ingranaggi maestosi di quei movimenti.
L'incrudirsi della sproporzione, cioè di quella enorme dilatazione dei tessuti sinfonici, è dovuta in realtà al dubbio che quella sproporzione costituisca davvero la via alla salvezza. E l'apparente intensificarsi del criterio di forma-sonata è solo confutazione, impiego all’incontrario, uso di un eccesso per scopi difettivi; almeno in questo Mahler si palesa il vero continuatore di quella "linea austriaca" della Sinfonia che venne propugnata da Paul Bekker.
Gigantismo, eclettismo stilistico, per cui al "progressivo" Mahler è dato di ricordare certe luminose iridescenze del più classico dei romantici, Mendelssohn, rappresentano i poli di un’unica faccia, attraverso cui alla Sinfonia è fatto carico di "essere il mondo e contenere tutto". Non può negarsi che a ciò Mahler venisse spronato, non soltanto dalle ragioni ideologico-stilistiche che si son più volte riferite, ma anche da un ovvio,  mai pienamente ammesso ma stringente dato di fatto: l’essere egli, oltre che l’importante musicista che si è in ritardo riconosciuto, anche il sommo direttore d’orchestra cui fu invece concessa subito gloria. La frequentazione diuturna di un vasto repertorio d’immagini, sinfoniche e teatrali (la presenza di Mahler a capo della Staatsoper Viennese fu uno dei capitoli più avvincenti della storia culturale austriaca) costituì senza dubbio una via dischiusa sull’eclettismo, cosi come la manipolazione e l'estensione dei processi compositivi fu in parte anche la logica risultanza di un ferreo virtuosismo d’orchestratore forgiato alla fucina dell’interprete oltre che del soggetto compositivo.
Il principio di mutazione della tecnica del narrare e al fondamento di quello che si usa definire 1’epilogo tragico di Mahler sinfonista: introdotto, secondo le categorie critiche ufficiali, dall’anomalo caso dell’Ottava Sinfonia per soli, coro e orchestra, esso si concreta nella fioritura della Nona in re minore e in quel traumatico torso che e l’Andante-Adagio in fa diesis minore, primo e unico movimento completato in partitura, nel 1910, di quella che avrebbe dovuto essere la Decima e di cui la vicina morte dell’autore a Vienna vietò il completamento, Si ricorrerà ancora alla monografia di Adorno per acquisir meglio il senso di quella tecnica. Osservò infatti lo scrittore tedesco che i temi mahleriani "non vengono modificati attraverso uno sviluppo continuo" e, insomma, che il musicista "sfugge al principio di 'tema' inteso come un fattore posto in maniera ben distinta e poi soggetto a modifiche. Si può paragonare piuttosto il nucleo della sua musica a ciò che viene raccontato per tradizione orale: ogni volta che si ripete si modifica un poco".
Questa prassi narrativa, secondo cui i gruppi motivici, non che rigenerarsi in base alla teoria dialettica del sonatismo, si limitano invece a permanente trasformazione, e assimilabile a quella donde stavano per nascere, più o meno in contemporanea, le digressioni psicologiche della grande narrativa europea: dissolti i contorni reali delle unità di struttura, perennemente variabili e proliferanti al punto di distruggersi in quanto unita per rifluire in un tutto indistinto e pur lucidissimo, tali canoni procedurali si ritrovano a fondamento del lascito ultimo mahleriano. Lascito che si amerebbe far partire, contro una tradizione consolidata, non dall’Ottava ma da quell'enigmatica Settima di norma giudicata l’ultimo tassello del Mahler alle prese con il rinnovato quesito dell’architettu1a classica. La surreale, complessa effigie di questa Sinfonia pare, insomma, gettare segnali non così univoci; e intanto perché Mahler vi avalla un ritorno in forze alla tematica delle Wunderhornsymphonien. L'esperienza giovanile si decanta, come vista attraverso un binocolo rovesciato, e viene a precisazione, forse per la prima volta in modo così radicale, come l’ultimo sinfonismo del musicista si giuochi sulla definizione di due basilari coordinate: quelle del timbro e della polifonia, uniche vere sonde emesse da un autore dal cuore gonfio di memorie verso l’atarassia della Musica Nuova.
Come avviene in quest'opera-editto il recupero del "preesistente"? Già nell’allucinato attacco del primo movimento notiamo che gli strumenti sono impiegati secondo un canone di differenziazione timbrica affatto personale, ignoto alla convenzione: legni al confine delle possibilità acustiche (com’era accaduto nel celebre incipit della Prima), con flauti e oboi procedenti per larghi intervalli; violini e viole tenuti su registri gravi, sin che non risuona nel più totale grigiore il morbido, allusivo disegno melodico del corno. D’altronde è indubbio che in nessuna Sinfonia come nella Settima le connotazioni contrappuntistiche si prospettino in dimensione tanto straniante: estraneo per l’intera vita al concetto di contrappunto scolastico, Mahler sfiora qui, nella pluralità di voci intersecantisi e riproducentisi, il principio figurativo di collage; e il gigantesco Rondò conclusivo, nella trionfalistica tonalità di do maggiore, non assicura più nessun trionfo. Anzi, pare fondarsi sull’intellettualistico recupero del significato arcaico di "rondo": canto da intonare à la ronde, iterazione meccanicistica dello stesso canto. Considerare, come Hans Redlich ha fatto, quest'ultimo tempo della Settima puro e semplice "studio virtuosistico di tecnica orchestrale", equivale a non tener in conto, a tacer d’altro, il tipo di materia tematica su cui Mahler ha chiamato tale tecnica ad esercitarsi: il più disperatamente triviale che mai forse gli sia uscito dalla penna. Ma triviale proprio nel senso etimologico del termine: ritorno alla incontaminata ingenuità del Trivium, della canzone da intonare allo spartiterra tra boschi pervasi di silenti rumori e maleodoranti strade suburbane. Ritorno, insomma, al Wunderhorn, ormai compromesso in stampa popolare, in cartone colorato del cantastorie.
Non sembri, alla fine, contraddittorio che il sinfonismo mahleriano, forgiatosi a un linguaggio di assai relativa modernità, finisca con l’additare egualmente le vie di una possibile marcia in avanti, risolutoria a suo modo dei problemi della forma. Le ragioni e le aspirazioni più antitetiche, ancora e per sempre, si mescolano nel Mahler degli approdi finali; già che, essendo vero che la sua musica imprende al ripristino di mondi messi al bando dalla borghesia, è del pari vero che tali mondi conoscono il loro risvolto in una sterilizzazione, s’altre mai di matrice colta, tale da reinserire il reprobo eversore nei ranghi che, soli, gli
competono, quelli della classicità. L'atteggiamento di Mahler, lo si ribadisca per definitiva chiarezza, è in palese contrasto con qualsivoglia rivalsa del nazionalpopolare; 1’antinomia lampante tra appelli epici della fiaba di natura e raffinatezza della strumentazione, inconciliabile con la "musica dei mercati e delle fiere", la spoliazione dei gigantismi sino a una grafia di complessità quasi cameristica (si pensi alle strepitose misure terminali dell’Andante comodo della Nona) sono, in sostanza, il solvente mediante cui Mahler scioglie i nodi del rapporto storia-individualità e lo consegna al braccio secolare dell’Oggettivo.
Nel Mahler delle ultime opere il rovello straordinariamente nuovo del timbro e del contrappunto, è volto alla glorificazione di Memoria e Bellezza: fuga dal mondo di segno mirabilmente "decadente", per rintanarsi in quell’"altro mondo" che stava nel cuore del musicista e che ha più di un contatto con la celebre "rilkiana terribilità del bello" di cui disse Lukàcs, Dalla meditazione del Lied von der Erde alle rarefazioni dolorose della Nona e alle foglie secche dell’incompiuta Decima, memoria e bellezza si danno la mano contro ogni soluzione immediata, poiché in questa musica non si vuol più distruggere né costruire, ma solo accumulare e additare. Se Mahler recupera, analizza, ripropone, ravviva, epicizza una sconfinata esperienza del sepolto e del caduco, ciò è proprio in quanto in lui non domina la mira del riformatore quanto quella del fuggiasco; raccogliere per rammentare, con il massimo della pieta e, insieme, dell’indifferenza. Si vede, dunque, che questa bellezza, in pari misura atarassica e dolente, non ha nulla in comune con il "popolare" e con il "banale", pur da ambedue le categorie nascendo.
Ma sarebbe forse più opportuno precisare: nulla in comune essa ha con il popolare e con il banale di cui hanno dissertato a lungo, e con pari inutilità, agiografi progressisti e detrattori reazionari del verbo di Mahler (e s’intendano gli aggettivi nel senso più virgolettato possibile). Vale a dire, che ogni tentativo di volgerla ancora nelle ipotesi della cosiddetta trivialità demistificante, care ai collezionisti di crisi asburgiche, va denunciato a tal punto come a sua volta mistificatorio. Parleremo allora, semmai, di semplicità; ma tenendo ben fermo che siamo qui nell’identica prospettiva del "semplice" di cui, ad esempio, s’ingemmano pagine capitali della musica quali il primo tempo della Sonata op.110 o la Marcia del Quartetto in fa maggiore di Beethoven. Quel "semplice" che, al pari del volo delle procellarie, prelude direttamente alle tempeste.

Aldo Nicastro (da "Come ascoltare le sinfonie di Mahler", Mursia, 1998)

sabato, novembre 15, 2014

Anton Bruckner: il carattere e la religiosità

Anton Bruckner (1824-1896)
Fondamentali per la corretta comprensione dell'uomo-Bruckner e della sua musica sono il particolare carattere e l'incredibile religiosità, in un contesto storico, sociale ed ambientale di indubbio interesse.
Va detto come, nella prima metà dell'800, la regione dove visse il nostro (Austria superiore) fosse una delle più semplici e retrograde della contemporanea società europea: strettamente legata alla coltivazione della terra oltre che ad un costante sodalizio spirituale con lo Stato Vaticano.
Per più di cinque secoli i suoi antenati erano rimasti nella più completa ignoranza del mondo circostante, prima come servi della gleba, poi come agricoltori e gestori di locande, ed infine, nelle generazioni più vicine al periodo che ci interessa, come maestri alla scuola del villaggio di appartenenza.
Villaggi come Ansfelden, luogo di nascita di Anton, gravitavano nei pressi di complessi monastici cattolici (v. Sankt Florian), in una sorta di economia curtense e post-feudalesimo di stampo quasi medievale. In questo remotissimo mondo, Bruckner creb
be semplice, fiducioso, oltre che devoto, come solo poteva essere un uomo nato in uno sperduto paesino del tempo di Metternich, sotto un governo dispotico e conservatore.
Egli nel corso degli anni sarebbe rimasto uguale a se stesso: un tipico personaggio del mondo contadino, pur dotato di apparente saggezza popolare e con in più uno straordinario talento musicale.
Quello che stupiva, però, era che nonostante il mutare dei tempi e dell'ambiente (si pensi ai suoi innumerevoli trasferimenti da Sankt Florian a Linz e a Vienna) il nostro non cambiasse mai le vecchie abitudini campagnole, continuando sempre ad indossare goffi abiti provinciali, a esprimersi nel pittoresco dialetto della sua terra, a mostrarsi ossequioso ai limiti della piaggeria verso ogni genere di autorità costituita.
Al riguardo una ricca aneddotica può chiarire meglio le continue gaffes cui spesso andava incontro: una volta, per esempio, offrì un tallero al direttore d’orchestra Hans Richter, dopo una prova che lo aveva particolarmente soddisfatto; un'altra volta rispose ad un'offerta di assistenza economica dell'Imperatore in persona con la preghiera di non permettere al feroce Hanslick di scrivere le sue ostili e abituali critiche nei confronti delle sinfonie da lui composte.
L'obiettiva incapacità di Bruckner di darsi una certa misura o almeno un'apparente sobrietà, sono indicative secondo alcuni biografi di un carente sviluppo psicologico, dovuto alla lunga permanenza nell'atmosfera sin troppo monastica e solitaria di Sankt Florian. Egli cominciò sin dagli anni vissuti in quella dimensione a disinteressarsi completamente delle cose terrene e pratiche, ed a privilegiare unicamente il suo rapporto diretto con Dio, la sua profonda fedeltà al Creatore: dati oggettivi di rilevante interesse per capire il senso più recondito e l'originaria ispirazione delle opere musicali bruckneriane.
Sin dall'inizio risultarono evidenti le difficoltà di ambientamento che il nostro dovette superare quando, ritrovatosi, seppur in età già matura, a Vienna, capitale della musica riconosciuta in tutto il mondo occidentale, visse sempre nell'insicurezza più totale i rapporti con i propri simili.
Un uomo così devoto a Dio non poteva poi prendere in considerazione una relazione non consacrata dal sacro vincolo matrimoniale; le sue ricerche in tal senso non furono quasi mai coronate da successo.
Spesso le sue infatuazioni erano dirette a graziose fanciulle che conosceva appena e sconcertava con audaci e immediate proposte già al primo incontro, chiedendone la mano; l'imbarazzata risposta della ragazza di turno era più o meno... "Ma signor Bruckner, lei non é più così giovane!".
Il nostro povero Anton “cadeva” così vittima di gravi depressioni, immergendosi ancor di più nel lavoro creativo e nei suoi innumerevoli impegni religiosi e didattici.
Altro aspetto rilevante del suo carattere era l'assurda mania di sottoporsi continuamente ad esami per verificare il livello della sua preparazione musicale e didattica, che lo lasciava perennemente scontento.
Ma la più singolare delle sue ossessioni era quella di osservare i cadaveri da vicino (quasi ai limiti della necrofilia): i corpi degli amati Beethoven e Schubert, dopo la loro esumazione, o addirittura quello dell'Imperatore Massimiliano riportato dal Messico a Vienna per la sua definitiva sepoltura.
Per Bruckner la composizione doveva essere indubbiamente un rifugio da tutte le manie ossessive e le insicurezze che lo fagocitavano in continuazione; l'atto del comporre era parte imprescindibile della sua vita religiosa tanto che, criticare le finalità o la forma delle sue sinfonie, era come convincerlo dell'assenza di Dio nei cieli. E questo atteggiamento che all'epoca non ispirava alcuna simpatia o ammirazione in personaggi coevi come il protestante Johannes Brahms o il critico Eduard Hanslick, lo espose molto spesso al pubblico ludibrio, come accadde in particolare durante la prima infelice esecuzione della Terza Sinfonia, dallo stesso Bruckner diretta a Vienna, che costituì certo uno dei momenti, in assoluto, peggiori della sua vita.
D'altra parte, si formò intorno al Maestro nel periodo Viennese un cenacolo di amici ed allievi che cercarono di sorreggerlo ed aiutarlo nei momenti di difficoltà, ma che tuttavia contaminarono, in una
certa misura, la sua opera negli anni successivi alla sua morte, con la redazione di apocrife versioni delle sue sinfonie, non troppo rispondenti agli stilemi artistici ed estetici di Anton Bruckner.

Alessandro Romanelli (da "Divino Bruckner", Schena editore, 1996)