Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, febbraio 20, 2022

Bruckner e Mahler


Quando Bruckner arriva a Vienna, preceduto da una discreta fama di compo
sitore di musica sacra, Brahms aveva già impiantato nella capitale il suo tempietto neo-classico. Guardiano del sacro fuoco è Hanslick il quale però assolve anche a un'altra funzione, quella, cioè, di Cassandra, le cui profezie si riveleranno per fortuna infondate. L'accoglienza che i due riservano a Bruckner è, sulle prime, cauta. Questo innocente compositore di messe, pensano, non ci darà molto fastidio. Tuttavia Bruckner ha già deciso da tempo la propria vocazione di sinfonista; non solo, egli è il primo ad aderire ufficialmente al movimento radicale della Neuedeutsche Schule, dedicando la Terza Sinfonia a Wagner in segno di profonda venerazione. Ma al di là dell'omaggio riverente, al di la della sperticata ammirazione, c'è la musica a testimoniare una scelta precisa di linguaggio che si pone in aperto contrasto con la tradizione e il formalismo anacronistico allora imperanti. La ripresa del discorso sinfonico nella seconda metà dell'Ottocento non poteva più avvenire nel segno di Beethoven; ogni tentativo di prolungare la Nona in un clima di fermenti e di sommovimenti linguistici avrebbe potuto soltanto adulare un pubblico già disorientato dalla morte apparente della sinfonia. Tuttavia, innovare significava, come sempre, andare contro il pubblico che ha bisogno in media di mezzo secolo per assuefarsi al nuovo. Agli innovatori, quindi, è garantito un insuccesso immediato. L'opposizione maggiore che Bruckner incontra a Vienna dopo la sua adesione al movimento radicale gli viene da Brahms che occupa posizioni di prestigio, ha dalla sua parte i migliori direttori e naturalmente Hanslick, Kalbeck e Dömpke; però a differenza di costoro, Brahms ha per lo meno il buon gusto di lasciarsi andare a profezie catastrofiche solo in privato.
Hanslick e gli altri si servono invece della stampa e attaccano i radicali con un linguaggio che rasenta la querela.
Ma Bruckner non è solo: c'è Mahler, c'è Wolf, ci sono i fratelli Schalk e Ferdinand Loewe che gli si stringono attorno. Wolf, improvvisatosi critico musicale sul foglio Salonblatt, cerca di neutralizzare gli strali di Hanslick colpendo Brahms con la stessa ferocia con cui il suo rivale colpisce Bruckner, Liszt e Wagner. Risultato: Wolf si vede sbarrare la porta dei Philharmoniker e la sua musica viene per lungo tempo sabotata sistematicamente dalle istituzioni musicali più autorevoli. I due giovani amici di Bruckner trovano conforto nel verbo wagneriano, discutono, battagliano e organizzano pranzi solo vegetariani in omaggio alle prediche che vengono da Bayreuth. Preparano esecuzioni a quattro mani delle sinfonie di Bruckner, lo difendono e lo ergono a loro capo spirituale. L'insuccesso della sua musica viene interpretato come un segno positivo. Infatti, che cos'è che la rende indigerabile al pubblico viennese? E' il fatto che Bruckner non la configura come un prodotto di consumo gradevole a tutti i palati e quindi sostanzialmente neutro. Con la sua musica egli sembra dire: ecco, io vi do esattamente quello che voi non volete. Io compongo per me stesso, mentre il Dottor Brahms... E la polemica continua.
I furori e le battaglie che caratterizzano la Vienna di Bruckner e di Brahms sono in fondo il segno di una vitalità vulcanica di un ambiente in parte evoluto e in parte tradizionalista che si schiera in due distinte fazioni tanto ostili quanto inutili; perché, a ben vedere, ciò che anima tali fazioni è uno spirito esclusivamente settario che nega a priori determinati valori non tanto in quanto appartengono alla musica, ma in quanto originano da pregiudizi e classificazioni gratuite. In questa Vienna passionale e polemica, l'unica persona fuori posto sembra proprio Hanslick che, sia nelle lodi sperticate rivolte alla musica di Brahms, sia negli attacchi riservati a quella di Bruckner, rivela sempre una fondamentale incapacità a giudicare e soprattutto la mancanza di una qualità indispensabile a un critico: l'aperta discussione su di uno stesso piano storico di due momenti radicalmente diversi. Da queste polemiche, da questi furori Bruckner sembra stranamente lontano, assorto com'è nel suo musicare esclusivo e totale. In assoluta concentrazione e distacco, egli ci offre il distillato di una mente superiore per quanto non sorretta da un bagaglio culturale che è invece cospicuo nei suoi contemporanei (ma che per lui costituirebbe senz'altro un impaccio notevole). Compone e basta; il resto è letteratura.
Il concetto del tempo al quale si è adeguata la società che si agita intorno a lui e che anela al senso della proporzione piacevole, ma impegnativa e quindi passiva (è questo il prodotto più richiesto in quel momento), assume in lui una portata diversa e si colloca non più come esigenza da rispettare in un ambito formale pre-costituito, ma come elemento estraneo o, per lo meno, marginale dell'opera d'arte e della creatività. Quando Brahms scrive Tutto ha un limite e Bruckner lo ha superato, implicitamente egli ci da il miglior ritratto di sé stesso perché nella sua musica la coscienza del limite è talmente avvertita al punto che essa musica ne sembra ciecamente condizionata. Ed è anche questa una forma di bellezza, ma si tratta di una bellezza stanca, malinconica e amara come quella che Rimbaud trova seduta sulle sue ginocchia.
Nelle aperture che Bruckner propone con le sinfonie, aperture attuate timidamente più che cautamente, c'è la forza inattesa di chi sa che potrà un certo punto spalancare le porte e offrire altre e più solari visioni. Nel modo di porgere il tema all'inizio di ciascun primo movimento, speso assistito da null'altro che un lieve palpitare di archi in tremolo, v'è il trapasso misterioso della materia musicale dallo stato di quiete allo stato di moto sicché essa gradualmente si dipana come una cometa che poi esplode in spazi sonori carichi di spessori emotivi. Il modo di trattare il tema è nuovo: Bruckner lo scava, ne estrae cellule, le discute, le sfrutta all'osso e poi le distrugge in una specie di caos sonoro primordiale dove la musica si e fatta puro ritmo, sostanza frantumata da cui non c'è più nulla da cogliere. E le pause che seguono, le riprese sbucate dal nulla, paiono proposte assurde e paradossali tanto contrastano con l'ortodossia della prassi post-romantica; sembrano mese lì a bella posta perché il pubblico non le capisca.
Il peculiare senso della costruzione già in atto a partire dalla Quarta Sinfonia e quello della distruzione presente come non mai nella Nona, sono elementi, tratti stilistici che trascendono la dialettica del secondo Ottocento e che si collocano in una prospettiva a sé stante ancorché allargabile al secolo successivo. Ed è per questo che gli allievi zelanti, credono di far bene, tagliano le partiture del maestro, ne modificano lo strumentale, fondono laddove Bruckner voleva distinguere e creare piani sonori, differenziazioni timbriche (che il pubblico non gradirebbe, sostengono gli allievi per giustificarsi). L'opera da loro svolta per far conoscere il maestro li fa oggi perdonare di simili ingenuità commesse in buona fede, ma che sono la dimostrazione più lampante del radicalismo bruckneriano sul quale Adorno, scrivendo di Mahler non ha speso una sola parola. Eppure sappiamo benissimo attraverso testimonianze dirette, quanto la Scuola di Vienna avesse cara la sua musica e soprattutto Berg che arrivò persino a inserire una citazione bruckneriana nel Wozzeck.
La reazione di Bruckner contro il proprio tempo non avviene però per stimoli polemici, ma si configura come risultato di una naturale e spontanea evoluzione; si tratta di sviluppo più che di fattura. D'altra parte, se si pensa che Bruckner era coetaneo di Smetana, riesce difficile e comunque storicamente impossibile pretendere da lui anticipazioni più nette che invece sono possibili in Mahler appartenuto alla generazione successiva. Ad ogni buon conto, ai musicisti non si chiede di essere profeti, ma solo musicisti. Se si pensa che i mezzi a disposizione di Bruckner sono il cromatismo di Wagner e un'orchestra che non si discosta molto da quella beethoveniana (salvo le tube) assistita da un apparato percussivo ancora lisztiano, triangolo compreso in modo riluttante), ci si può rendere conto a maggior ragione della portata del suo radicalismo introverso che ha le radici non tanto nell'effetto prodotto dall'inconsueto accostamento di timbri, quanto nell'interno della materia sonora, dialetticizzata al limite delle proprie possibilità e oltre. Per questo un raffronto tra Bruckner e Mahler è reso problematico dalla diversa disposizione della loro musica, ma risulta senz'altro possibile quando i due musicisti non vengano più considerati come entità parallele, ma come entità successive.
Benché Mahler non fosse stato in senso stretto un allievo di Bruckner, il solo fatto che egli appartenesse con Wolf alla stessa corrente radicale, costituisce di per sé una indicazione sufficiente dei contatti spirituali che esistevano tra i due. E' pur vero che Mahler modificava continuamente i propri giudizi sui musicisti del suo tempo, ma il fatto che egli eseguisse le sinfonie di Bruckner con tagli vistosi rivela un atteggiamento critico che è più tipico dell'interprete che non del musicista, per quanto, a dire il vero, è molto improbabile che Mahler avesse tollerato lo stesso trattamento nei confronti delle sue stesse sinfonie (che in fatto di durata battono spesso quelle di Bruckner). Il primo Mahler, tuttavia, sembra partire da premesse diverse da quelle che avevano ispirato il sinfonismo bruckneriano; il suo orientamento sembra rivolto a un tipo di cantata sinfonica volta a mettere in luce testi romantici sulla via del tramonto: Das klagende Lied ne è la dimostrazione. Ma la sua prima opera di grande respiro, la Seconda Sinfonia, pur conciliando sinfonismo e voce umana in una sintesi non sempre omogenea, dichiara il proprio debito col maestro spirituale. La Prima Sinfonia possedeva invece troppe implicazioni letterarie per potersi considerare il prolungamento ideale del sinfonismo bruckneriano anche se, tenuto conto che essa venne in origine concepita in cinque movimenti, lasciava già intendere la disposizione mahleriana per l'espansione del discorso sinfonico.
E' chiaro che la ricerca mahleriana di una soluzione definitiva dei propri orientamenti non venne mai meno e appunto per questo non ebbe mai fine. La presenza di una cultura raffinata fu per lui un'ancora di salvezza, ma anche un impaccio perché essa finì per gravitare sempre attorno allo stesso ambiente già appartenuto a uno Schumann e da questi rappresentato come non mai. E' pur vero che la mancata contemporaneità tra testo e musica non costituisce certamente una pregiudiziale alla validità della musica stessa, anche se collabora a collocarla in termini di cultura e di gusto. E il gusto di Mahler è ancora fatalmente romantico, come si è visto, è il gusto della persona colta che vive nella seconda metà dell'Ottocento e tiene tra i propri libri, Goethe, Jean Paul, E.T.A. Hoffmann, Rückert e Mörike. Il mondo di questi autori, con tutte le implicazioni fiabesche, trova dunque un prolungamento anche in Mahler (e potrebbe prolungarsi all'infinito). Egli però lo fa assistere da un linguaggio che è proiettato più avanti. In fondo Bruckner con la Nona aveva dimostrato inequivocabilmente che l'Ottocento era finito, dissolto, e Mahler è perfettamente consapevole del destino cui va incontro la musica della sua epoca, ma a tutti gli interrogativi che egli si pone, la sua musica non dà risposta.
Le sinfonie restano ancorate alla tonalità sia pure intesa nella sua ampia e libera accezione, e si situano in una sfera ancora post-romantica. Quegli elementi che Bruckner aveva allargato sino alla dissoluzione, vengono da Mahler esasperati al limite, sovrapposti o accostati ad altri, spesso eterogenei e spuri, sui quali tutti grava l'ombra del dubbio. Nel ricorso a timbri inconsueti, tanto puntualizzato da Adorno (ma a scapito di altri elementi pure rientranti nel complesso quadro dell'arte mahleriana), è pure intuibile una soluzione di compromesso, la impossibilità del resto storica di operare una scelta precisa, impossibilità tutta esistenziale, ma mai risolta in un senso o nell'altro.
La sinfonia mahleriana con tutta la sua salutare ambiguità rappresenta dunque il presagio di una crisi imminente, quella cioè che precede la rivoluzione solitaria operata dalla Scuola di Vienna. Ma la distanza che separa Mahler dalla Scuola Viennese è minore di quella che lo separa da Bruckner. La generazione di Mahler è in fondo la stessa di Strauss; entrambi si trovano infatti a operare con un piede nell'ultimo Ottocento e l'altro nel primo Novecento e non può immaginarsi situazione peggiore per un artista perché lo stile non può adeguarsi ad un tratto a una mutazione così sensibile dei valori espressivi quale fu quella che contraddistingue il linguaggio musicale di quei due momenti storici. Per questo, Mahler rimane coerente a se stesso sino all'ultimo, cioè, rimane coerente al dubbio. Reminiscenze di sonata classica e di rondò si alternano a strepiti di fanfare o a compassate cadenze funebri; si passa dalla eterogeneità del pastíche alla pateticità pucciniana degli adagi, e in tutto è possibile cogliere l'instabilità e l'insicurezza del suo temperamento musicale, l'impossibilità di una risoluzione omogenea. Mai prima di lui la musica era riuscita a esprimere il tormento e l'angoscia generati dalla spinta cumulativa di tante forze contrarie e contrastanti.
Inutile si rivela la ricerca di un fulcro nella musica mahleriana. La continua e forzata evasione da un punto di convergenza trova momenti isolati di appagamento solo negli adagi che sono sempre il ritratto affettuoso di qualche cosa; stasi provvisorie dove però la vera lirica di Mahler affiora e si dispiega con pienezza e iterazioni a volte eccessive. Nella produzione sinfonica di Mahler solo la Quarta rappresenta un punto di riposo stabile, l'evasione completa, come la Sesta di Bruckner, ma in genere tutta la musica di Mahler è una ricerca continua e, al fine, un non trovare. E all'effetto immaginato spesso non corrisponde l'effetto reale. Le sue partiture sono costellate di indicazioni che rivelano, ora l'ansia tutta tardo-romantica di espressivizzare al massimo il contenuto, ora la mancanza di fiducia nell'interprete, il timore di non essere compreso. In questo, Mahler è tutto l'opposto di Bruckner la cui carenza di indicazioni in partitura esprime una meravigliosa sicurezza perché l'interpretazione non è vincolata da nessun fattore che non sia il linguaggio stesso, laddove in Mahler la continua assistenza che la parola presta alla grafia musicale sembra precostituire a quest'ultima un alibi assolutistico. Se per Bruckner il tema è entità relativa, in grado di muoversi in tutte le direzioni così da diventare materia di costruzione altamente dialettica, per Mahler esso non è che una particella di un complesso costrutto polimorfo e in quanto tale scompare pur facendo sempre parte del mucchio.
Il timbro emerge e diventa componente primaria. Quel La sovracuto dei violini, con cui inizia la Prima Sinfonia e che Mahler vuol configurare come un suono naturale (della Natura), ma che in pratica rischia di diventare innaturale se le orchestre non sono tra le migliori!, rivela subito la propensione mahleriana per la esasperazione timbrica, ma anche una propensione per la Natura stessa (e per i timbri della Natura). Per Bruckner, invece, la Natura era irrimediabilmente guastata dall'uomo e le implicazioni metafisiche del compositore lo portavano a estraniarsi da essa sicché la sua musica ne rimane indenne, salvo il caso della Quarta Sinfonia dove un programma a posteriori ne rende possibile l'eccezionale ingresso.
Tutto ciò che viene programmato, come spesso avviene in Mahler, malgrado pentimenti e contraddizioni, non può che prefigurare una disposizione descrittiva anche se, programma o no, la musica finisce per restare sempre quella che è. Ma a parte i luoghi vieti e triti come l'inevitabile gorgheggio dell'usignolo imitato dal flauto o il corno inglese per ricreare un'ambiente pastorale, la presenza della Natura nella musica mahleriana è posta in termini timbrici; essa si pone dunque secondo a premessa precisa annunziata nella Prima Sinfonia: Wie ein Naturlaut; suoni, echi talvolta indistinti, rumori organizzati o disorganizzati, rigurgiti sonori, strepiti aspri, faville incandescenti di ritmi primordiali o consueti. L'esasperazione del timbro, il rilievo che assume nel diventare ínnaturale dal punto di vista esecutivo, sembrano prefigurare il puntillismo Weberniano oltre a estrinsecare tensioni e conflitti interni e a sfogarli in una forma di sadismo strumentale non ignota a un Berlioz. La musica si corrompe e si svuota di contenuti preordinati, lo schema si altera, si dilata e si decompone. L'inserimento della voce umana in una struttura tipicamente sinfonica, secondo il cattivo esempio della Nona di Beethoven, l'orrendo accostamento dell'inno Veni Creator spiritus col testo del Faust goethiano, o la preziosità scontata di liriche cinesi, danno il colpo di grazia a troppa compostezza formale, alle quiete strutture del sinfonismo brahmsiano. La reazione contro il proprio tempo operata da Bruckner che era figlio del suo tempo, ma che ne stava al di fuori per poterlo colpire più effìcacemente, trova un risvolto più drammatico in Mahler perché egli è una figura di transizione che riassume in sè tendenze e conflitti opposti, sapendo di non poterli conciliare.
Se Brahms, disceso da Mendelssohn e Schumann, ebbe parecchi imitatori ed esercitò notevole influenza sulle generazioni successive, Bruckner e Mahler restarono in fondo isolati, ancorché il secondo non possa spiegarsi senza il primo. Posizione dunque invidiabile se oggi la si verifica nel vario contesto linguistico che caratterizza la fine del loro secolo e l'inizio del nostro, articolato da una successione a scatti di forti personalità, più che dalla evoluzione naturale dovuta a discendenze e a fattori ereditari. Per cui, a conti fatti, a Brahms tocca il ruolo un po' scomodo dell'epigono; e il tempietto neo-classico da lui costruito tenacemente in una Vienna spumeggiante non solo di barocco solare e lievissimo, ma anche di idee presenti e future, ha oggi il fascino un po' malinconico e anacronistico di una curiosità domenicale.
Edward D.R. Neill
("Rassegna Musicale Curci", anno XXII, n.1 marzo 1970)

giovedì, febbraio 10, 2022

Mario Delli Ponti: Esperienze di un pianista italiano in Russia

Nell'epoca degli "inclusive tours", delle 
vacanze crocieristiche collettive in cui resta a stento il tempo per fotografare ciò che si vedrà poi a casa con più comodo, e dei viaggi compiuti per assolvere incarichi tecnici, professionali o politici, così tanto rigidamente programmati da veder le refezioni degradate a "colazioni di lavoro", è pur sempre un fatto meno consueto visitare una nazione straniera allo scopo di darvi dei concerti.
La prospettiva di osservazione di luoghi e persone è senza dubbio singolare anche se molto spesso grandemente limitata. Appartiene tuttavia al passato la figura del concertista o del cantante che si muoveva da un teatro ad un albergo, da un ristorante ad una stazione senza nulla vedere, ben protetto da guanti, tabarri e sciarpe, il quale poi, al ritorno a casa, veniva pubblicamente definito il "migliore ambasciatore della Patria". Quanto al giudizio sulle nazioni visitate, esso si rattrappiva nel doloroso stupore d'aver trovato il caffè mal tostato e gli spaghetti sempre troppo cotti. Oggi il pianista o il baritono hanno una indiscutibile competenza in fatto di attrezzature alberghiere e sdottoreggiano volentieri sulle caratteristiche di volo del "Trident" rispetto a quelle dell'altro trigetto, il "Boeing 727". Ma le condizioni del concertismo e del teatro si trovano in una tale fase evolutiva o preevolutiva, critica comunque, per cui è attualmente impossibile per il musicista entrare in una qualsiasi struttura organizzativa senza avvertirne certe caratteristiche culturali risalenti sempre ad una determinata temperatura sociale e ad una precisa condizione umana.
E ciò avviene anche senza un preventivo corredo d'informazioni. Anzi è fuori dubbio trattarsi di una saggia profilassi mentale l'astenersi, prima di un viaggio, da ogni lettura o racconto verbale aventi per oggetto il Paese che si e in procinto di conoscere. Ricordo per inciso le parole di pur decisa ammirazione per Guido Piovene pronunciate da Fernanda Wittgens mentre mi strappava letteralmente di mano il pregevolissimo "De America" alla vigilia della mia prima inesperta partenza per gli Stati Uniti, volume che oltre al resto mi avrebbe potuto sottrarre il piacere della mia piccola scoperta di quella Nazione. Non che oggi la mia esperienza di viaggiatore sia poi così cospicua, fatto è, però, che sono riuscito a partire per l'Unione Sovietica respingendo i conforti della cultura, i lumi dell'informazione aggiornata. Il mio arrivo a Mosca, che seguiva un lungo emozionante soggiorno in Israele, avvenne con una sostanziale serenità, non scalfita dalle consuete apprensioni di tipo professionale in questo caso aggravate dal fatto di sbarcare nella terra di Richter e Gilels.
La prima persona incontrata è stata l'accompagnatore-interprete, Sergio, messomi a disposizione per tutta la durata del mio giro dal "Goskonzert", l'organizzazione concertistica statale. Singolare personaggio, con un senso fiero e geloso della sua qualità di studente (sta terminando un corso universitario per interpreti) così corporativo da parermi quasi uscito nel 1400 da una rispettabile taverna di Heidelberg. In realtà egli doveva, per rendere più facile il primo nostro incontro, costruirsi un atteggiamento, per colmare quelle distanze di mentalità più apparenti che reali che presupponeva esistessero con un pianista italiano.
Per di più, come traduttore, aveva una straordinaria efficienza e rapidità tali da consentirmi dialoghi serrati con quelle persone che dall'anonimato del pubblico, al termine dei concerti, mi raggiungevano numerose nel camerino per commentare con me ciò che avevano ascoltato. A questo punto sorgerebbero naturali delle considerazioni sulle caratteristiche dei frequentatori delle manifestazioni musicali in Russia. Che in una società quale quella sovietica il pubblico fosse il risultato di forze e stimoli singolarissimi prodotti dalla storia e dalla struttura etnica, e costituisse l'ambiente ideale di lavoro per un concertista, grazie allo straordinario bisogno di musica manifestato in ogni attimo dell'ascolto vissuto con silenzio teso ed appassionato, era, in fondo, una di quelle "idee ricevute" dalle quali mi ero volontariamente sbarazzato prima della mia partenza. Tanto più vera quindi mi pare l'impressione sull'eccellenza del pubblico per averla recuperata intatta ed identica alle previsioni, proprio nell'esperienza reale che ho potuto compiere in diverse tra le più grandi città dell'Unione Sovietica.
Il frequentatore ideale delle sale da concerto è sempre colui che si tiene ben lontano dall'idea di assolvere a degli obblighi sociali ascoltando Beethoven, e respinge i miti di una cultura sontuosa e superba la quale trova nel privilegio della conoscenza l'unica meta da conseguire. Farei torto grave a tanti gruppi di ascoltatori vivi e fervidi che ho incontrato in Italia, in Europa ed in America nel decidere arbitrariamente che questa "rara avis" prosperi solo nei cieli dei paesi a democrazia socialista per taumaturgiche virtù ideologiche. Tuttavia la presenza della musica in Russia è una realtà autentica e partecipante grazie a una precisa politica di organizzazione culturale che si inserisce agevolmente su di un patrimonio di storia e di caratteristiche etniche che è un grandioso carico umano di speranze, riscatti, dolori e solitudine.

9 aprile 1969 - Mosca - Arrivo verso sera all'aeroporto Ceremetievo.
Volontà mia di scorgervi le prime caratteristiche di quel mondo nuovo che mi avviavo a conoscere. Ma, ahimè, tutti gli aeroporti sono uguali: premonizione di una tecnocrazia futura che imporrà standard identici per ogni Paese? Quasi consolato osservo mentre sono in coda per la dogana, la scritta in cirillico, unico elemento di "colore" che riesco anche a decifrare da quando anni fa in Serbia capii che la scritta PECTOPAH significava "ristorante" e non era la pubblicità di uno sciroppo per la tosse. Ricevo l'impressione che i miei documenti che mi qualificavano come pianista scritturato dal "Goskonzert" mi procurino da parte dei doganieri e dei poliziotti una dose almeno doppia di sorrisi. Poco dopo mi incontro con l'interprete con il quale mi trasferisco in una stazione ferroviaria del centro di Mosca da dove viaggerò in vagone letto alla volta di Leningrado. Nel passaggio della capitale riconosco i fantasmi notturni delle torri del Cremlino e l'immagine scura, come in una negativa, della facciata del Bolshoi. Un pasto consumato nel vagone-buffet del treno mi fa pensare alla santa preveggenza della Signora Peppina Verdi che fece precedere l'arrivo a Pietroburgo del Maestro da ingenti provviste di riso, maccheroni, formaggio, salumi e "Bordeaux".

10 e 11 aprile - Leningrado - Giorni di studio in vista del primo concerto in Unione Sovietica nella sala della "Filarmonica" situata in un palazzo neoclassico della "Prospettiva Nevski". Mi costringo alla grave automutilazione della rinuncia a visitare il Museo dell'"Ermitage" e dell'annessa raccolta d'arte scita, quasi sconosciuto ed unico sensazionale documento esistente di quella civiltà. I musei sono proibitivi per i pianisti alla vigilia dei concerti. C'è anche il caso che qualche impresario scoprendomi davanti ad un Cezanne si arrabbi come Helenio Herrera quando al sabato sera stana un suo centravanti da un "night-club". Trovo però qualche minuto per richiedere la partitura del concerto di Rodion Scedrin, inteso l'anno scorso alla Scala. Non la trovo e così comincio a sentire i primi "niet". La sera del mio "recital", prima di entrare sul palcoscenico noto un profondo silenzio in sala e deduco che i presenti debbono essere molto pochi. Errore: il pubblico, che io non potevo vedere, riempie la vasta sala e noto persino sedie aggiunte nel corridoio centrale e ai lati. Inizio con un'"aria alla napoletana" di Domenico Scarlatti a cui sono molto affezionato e con un'altra sonata. L'accoglienza del pubblico, ad essere franchi, mi pare fredda, anzi. freddissima. Tre successivi brani di Francesco Durante non hanno migliore risultato. Ho l'impressione (sono sempre ottimista e questa volta ho ragione) che gli ascoltatori si secchino, così, "ex abrupto", d'osservare il rituale dell'applauso. Le liturgie concertistiche, penso velocemente, vanno di sicuro riformate, ma è spiacevole subirne i primi effetti. Dopo Durante seguono le "Bagatelle op. 126" di Beethoven. Il linguaggio, ascetico, essenziale non concede nulla; chiede il massimo di concentrazione tanto a chi suona quanto a chi ascolta. La sesta bagatella poi, si congeda tra spazi metafisici la cui conclusiva sfuriata, per la maggior parte degli ascoltatori, risulta spesso sconcertante. Solo che a Leningrado sconcertato rimango unicamente io per lo strepitoso entusiasmo con il quale il pubblico accoglie questa musica. L'ottava Novelletta di Schumann, e, nella II parte, la Terza sonata di Brahms mi riportano al consueto caloroso clima concertistico in cui l'estrema parsimonia di consensi sonori concessa all'esecuzione dei due nostri clavicembalisti non era certo gelido distacco, ma senso delle proporzioni nel seguire e vivere un programma al di fuori di una certa convenzionalità del cerimoniale che stabilisce "standard" di accoglienza minime uguali per tutti.

12, 13 aprile - Riga - La partenza da Leningrado avviene di mattina, in aereo, troppo presto per poter vedere all'"Ermitage" almeno qualche Cezanne e Picasso, e la sezione dedicata agli Sciti. Il decollo ha proprio il carattere di uno strappo violento. Questa città mi è apparsa tra le sue luci nordiche così suggestive un lirico miraggio tale che mi accorgo di pensare, come scrive Andrej Belyj nel suo affascinante e un po' sinistro "Pietroburgo": "la sua esistenza è soltanto illusoria". L'arrivo a Riga, oggi capitale della Repubblica Socialista Sovietica Lettone, avviene in una chiara giornata di sole che illumina con serenità elegiaca vie e case superstiti dell'antica città anseatica. Visito il Duomo, oggi sede permanente di concerti organistici e la sala della "Filarmonica" dove l'indomani suonerò. Alla sera sono invitato ad uno spettacolo di danze, canti e cori. Nutro sempre una sospettosità preventiva nei confronti di un folclore che da un po' di tempo, in tutto il mondo, è divenuto troppo spesso un abile ma meschino surrogato di genuinità ed una demagogica proposta di ritorno ad improbabiliradizioni popolari. Nulla di tutto ciò: i cori e le danze hanno una compostezza umile ed aristocratica insieme; i gesti, spesso ieratici, spaziano racchiusi in misure dolci e in forme circolari: espressività slava e melanconia baltica si uniscono qui in uno spettacolo dalla tristezza delicata e struggente. La sera dopo, l'intelligenza e la cultura del pubblico di Riga si rivela nelle domande e nei problemi che diverse persone mi pongono sul programma eseguito: caratteri stilistici di Scarlatti e Durante; consensi sulla coerenza e consequenzialità (alla quale non avevo pensato!) delle bagatelle beethoveniane seguite dall'ultima novelletta di Schumann e dalla "terza" di Brahms; interrogativi sui nomi ancora mitici per Riga di Dallapiccola e Petrassi.

14, 15 16 aprile - Mosca - Il recital alla "Sala Ciaikovski" mi impedisce del tutto la vita da turista. La città, esuberante e massiccia, tuttavia mi investe di continuo: la folla con un vorticoso caleidoscopio di volti e gesti, la "meraviglia" assirobabilonese della metropolitana, le chiese ortodosse spesso sospese tra favola poeticissima e invenzione da pasticciere-architetto, il Cremlino, sempre intravisto, col quale rimando un appuntamento alla fine della "tournée". Altra "tournée" presso i negozi di musica e dischi per trovare una qualsiasi edizione del concerto di Scedrin: sempre "niet". Chiedo qualche partitura delle sinfonie di Shostakovic e ragguagli sulla più recente produzione musicale sovietica: i "niet" mi suonano
sempre più strani e scoraggianti.
Arriva il giorno del concerto: è trasmesso per radio, mi fanno interviste per diversi giornali e circolano tra le quinte alcuni fotografi. Ne avvicino uno che porta appese due "reflex" di gran marca e, tramite Sergio, tanto per ingannare l'attesa e deviare le legittime e tradizionali apprensioni prima di un concerto molto importante, chiedo informazioni sugli obiettivi da lui usati. Con aria infastidita estrae un tesserino rosso su cui spicca in bianco la scritta "TACC" (Agenzia Tass). Mi allontano come chi sulla pubblica piazza si sente dire: "ragazzino fatti in là, lasciami lavorare". Il successo "fonico" del concerto è maggiore di quello ottenuto a Leningrado e Riga. Eseguo come bis un "Preludio e fuga" di Shostakovic che dà il pretesto ad un signore del pubblico, non musicista, di intavolare con me, dopo, un dialogo su analogie con l'ottavo quartetto del compositore leningradese, (quello, stupendo, dedicato ai caduti per la guerra e la resistenza). Meraviglia del mio interlocutore per il fatto che io, italiano, conoscessi quel quartetto. Mi sono ricordato di una testimonianza di Gianandrea Gavazzeni circa la sorpresa dei russi nel constatare che la loro produzione recente e seguita e studiata in Europa ed in America con tempestività maggiore di quanto potrebbe essere sospettabile. Prima di lasciare la sala, la rappresentante del Goskonzert mi informa che nei prossimi contratti che riceverò da parte russa, sarà contenuta una clausola riguardante più tempo libero da impiegare in visite a musei! Felicità mia nel ricevere una così immediata "riconferma", con il conforto aggiuntivo della possibilità di visitare meglio questo Paese.

17, 18, 19, 20 aprile - Rostov - In questa che è la citta dei Cosacchi devo dare due concerti: uno da solo e l'altro con orchestra. Grosso centro di provincia, 800.000 abitanti. Anche Sergio, per essere moscovita, riscuote quei successi che ottenevano i giovani ufficiali brillanti che arrivavano dalla capitale, come nei racconti di Gogol. E' vivacissimo, racconta le ultime barzellette, ed ottiene così nei ristoranti un servizio veloce ed inappuntabile. Incomincio la prova con 1'orchestra (IV e V di Beethoven); gli archi sono potenti e dolci. Solo il primo corno non è all'altezza dei suoi colleghi ed è cronicamente in ritardo nelle "entrate". Le mie due serate hanno un successo "meridionale". Alla fine della seconda parte mi consegnano, insieme ai rituali fiori, un biglietto che Sergio, come sempre a mia disposizione tra le quinte, mi traduce: è la richiesta firmata dal direttore del locale Conservatorio di eseguire in bis musiche di Schubert, Ravel e Prokofief, cosa che faccio puntualmente e con disciplina. A concerto terminato molti dei presenti fanno una specie di invasione di campo e si infoltiscono sul palcoscenico. Mi rimetto di nuovo al piano ed eseguo il primo tempo della Nona sonata di Prokofief. Non so quanti abbiano riconosciuto questa musica; del resto la capacità di classificazione conta ben poco. Vedo teste e braccia ondeggiare al ritmo di questa pagina, tra l'altro penetrante, ma imprevedibile. Improvvisa tristezza nel pensare che da noi tali reazioni sono troppo spesso riservate ad appositi brani "da bis" degradati dagli ascoltatori a feticci sonori e a congegni per lo scatto di una commozioncella ottenuta in base ad un meccanismo di riflessi condizionati.

21, 22 aprile - Baku - Ultimo concerto di questo giro. Baku, sulle rive del Mar Caspio, sorge in terreno paludoso ed è circondata da una selva di pozzi petroliferi dall'aspetto minaccioso come la macbethiana foresta di Birnam. Eppure nessuna tragedia petrolchimica del rimorso sugli inquinamenti atmosferici si potrà avere qui, poichè l'aria che si respira è straordinariamente pulita e salubre. Come se si fosse in una enorme Stresa di 1.200.000 abitanti. Come sempre nei concerti precedenti, ho a disposizione uno splendido Steinway, nuovissimo; l'organizzazione ed il rispetto estremo del mio lavoro da parte del Goskonzert arrivavano persino a farmi trovare nella stessa camera dell'albergo un ottimo strumento per lo studio. Dopo il concerto si presenta una signora. E' una giornalista di Leningrado, redattrice di una pubblicazione dedicata a cronache e studi sul pianismo (come la nostra rivista "Il pianoforte" di quarant'anni fa). Le domande che mi rivolge sono straordinariamente acute e a me, stanco e felice per l'esito dei concerti terminati a Baku, paiono persino esagerate e pedanti. Sono anche meravigliato per il fatto che da Leningrado, dove avevo suonato undici giorni prima, si sia mossa una persona per ascoltarmi e mettermi quindi sotto il microscopio della sua minuziosa indagine critica.

Ricordo che tante persone, appena tornato dal mio primo viaggio negli Stati Uniti mi chiedevano: "E cosa ne pensi dell'America?" Al che rispondevo in tutta onestà, seppure con discutibile eloquenza: "Mah". Oggi dopo un'esperienza di una ventina di giorni in Unione Sovietica (dopo Baku tornai a Mosca, dove feci un po' il turista ed ebbi un incontro cordialissimo con Sviatoslav Richter) mi trovo nelle condizioni di dare la stessa risposta. E non è certo qualunquismo o paura d'impegnarmi in un giudizio che in ogni caso, per me professionista, è addirittura entusiastico. Ma la natura stessa del mio lavoro, le sue fatiche e difficoltà, mi consentono solo alcuni spiragli attraverso i quali intravedo passare la vita nei luoghi dove mi trovo. In compenso ho la presunzione di affermare che questa prospettiva d'osservazione recupera in profondità ciò che inevitabilmente perde in estensione. Attraverso il silenzio che il pubblico mi offre e con la spontaneità delle reazioni che la musica produce sulle persone sane, io sento l'uomo e mi sento uomo. Le costanti positive dell'umanità si stabiliscono consolatrici tra esecutore ed ascoltatore a costruire quella conoscenza reciproca tra individui che sola potrà contrastare egoismi ed ipocrisie.
Non so cosa abbia potuto scrivere di interessante in queste pagine. Non ho visto quasi nulla di ciò di cui si chiedono poi notizie al ritorno da un viaggio. Ma i luoghi non contano. Come in Israele mi lasciarono freddo o quasi infastidito i luoghi deputati dalla cristianità, emozionandomi invece al passaggio tra le colline della Giudea e all'eterna presenza degli storpi e dei mendicanti alla "Porta di Damasco", a Gerusalemme; così in Russia una impressione che dapprima volle precludersi a qualsiasi condizionamento politico, divenne quindi un commosso recupero di una società dalla quale io coglievo alcuni "campioni" nel momento in cui, col tramite della musica, emergevano emozioni allo stato nascente. L'ammirazione per le strutture dell'organizzazione culturale non può precedere quella per la tenace facilità con la quale il popolo russo crede nella poesia. Nelle edicole e nelle cartolerie accanto alle immagini, peraltro non abbondanti, di attori e attrici sovietici compaiono sempre, numerose, vecchie fotografie di Esenin dal volto dolcissimo, luminoso e sperduto. Il suo "Acero antico" è il testo di una canzone tuttora popolarissima: "Io non tornerò troppo presto - la porcellana non ha un canto breve - Veglierà sulla Russia celeste - l'acero ritto su un piede - So che tu sei grandissimo amico - di chi bacia la pioggia dei tigli - anche perché, acero antico - a me nel capo somigli".
Mario Delli Ponti
("Rassegna Musicale Curci", anno XII, n. 2, giugno 1969)

mercoledì, febbraio 02, 2022

Piero Rattalino: Ercole al trivio

Sbarca lieto sul mio tavolo da 
lavoro un disco di Beatrice Rana dedicato a Chopin, con gli Studi op. 25 e i quattro ScherziLo ascolto, e al primo momento mi sembra di dover parafrasare il discorso che ho fatto più volte sui giovani che, programmati e addestrati per vincere un importante concorso internazionale, cominciano poi a percorrere una carriera di cui mal conoscono le esigenze e le insidie. Molti di essi fanno la fine di Josef Knecht nel Gioco delle perle di vetro di Hesse. Perfetto esemplare di alta educazione spirituale in un monastero della Castalia, Josef, quando esce per la prima volta dalla tana, annega nelle gelide acque di un laghetto di montagna perché, pur dominando da virtuoso una infinità di materie dello scibile umano, non sa che qualche specchio d'acqua, placido e seducente per la vista, nasconde trappole mortali per le membra. Non sarà questo - lo dico subito - il destino di Beatrice Rana, prima e finora unica pianista italiana ad aver vinto il secondo premio nel concorso Van Cliburn di Fort Worth. Detto per inciso, il maestro di Beatrice, Benedetto Lupo, era stato il primo e finora unico pianista italiano ad aver vinto in quello stesso concorso il terzo premio. Quasi una dinastia. A quando il seguito?
Un secondo e un terzo premio italiani in uno dei concorsi top. E il primo, mi si chiederà? Qui, apparentemente, casca l'asino, perché il primo e finora unico vincitore italiano del Van Cliburn fu un mio allievo. Simone Pedroni. Tutti coloro che mi conoscono sanno che io non sono affatto un estimatore dei concorsi come si sono evoluti pian piano dopo la seconda guerra mondiale. Sarei uno che predica in un modo e razzola in un altro? No. Ben sapendo di non conoscere a menadito la scala di valori su cui si basano anche inconsciamente le giurie dei concorsi, dopo un paio di tentativi finiti in coda di pesce mi ritirai in buon ordine e affidai Simone al mio amico Lazar Berman, che da buon sovietico maneggiava con disinvoltura la meccanica delle valutazioni e che pilotò brillantemente Pedroni nella conquista del secondo premio al Rubinstein di Tel Aviv, e del primo premio al concorso della Regina di Norvegia e al Van Cliburn. Fui felice dell'esito e mi complimentai caldamente con Lazar. Ma a lui spetta il merito di aver guidato il primo e finora unico pianista italiano alla vittoria nel Van Cliburn. Pianista italiano, allenatore sovietico, con il mentore, che sarei io, in panciolle a godersi lo spettacolo.
Dicevo, e ne sono pienamente convinto, che Beatrice Rana non è una candidata al premio Josef Knecht. E' molto talentosa, Beatrice. Il che significa che possiede in alto grado gli istinti del canto e della danza, riordinati nella musica classica come melodia e ritmo. Canta bene, molto bene, Beatrice Rana. Lo si vede nello Studio op. 25 n. l, che in questo disco è senza dubbio la sua interpretazione più compiuta. Compiuta e tradizionale, e cioè legata alla messa in luce, del tutto legittima, dei legami di Chopin con l'opera italiana. Il che significa che la melodia è intesa come canto accompagnato, non come misteriosa voce senza figura che emerge dai flutti dell'armonia.
Canto e danza sono fattori antropologici che appaiono, con varie modalità, in tutte le civiltà musicali, mentre l'armonia è una costruzione della civiltà occidentale, sia pur basata su un fenomeno fisico ma frutto di strutturazione, cioè di calcolo. Che differenza corre fra lo Studio op. 25 n. 1 interpretato in modo tradizionale e lo stesso Studio interpretato in modo novativo? E' una differenza non di poco conto. Nel primo caso - lo dico chiedendo scusa a Schumann, che la pensava diversamente - abbiamo una specie di canto delle naiadi che si stanno gioiosamente godendo il getto d'acqua di una cascata, mentre nel secondo caso abbiamo il canto della cascata. Uno Chopin - lo ripeterò fra poco - proiettato verso Debussy.
Mi è capitato una volta di paragonare lo Studio op. 10 n. l al quadro di Hokusai, La Grande onda. In quel celebre quadro troviamo la raffigurazione di una enorme onda e di due barchette di pescatori che arditamente ne attraversano la pancia. E' un simbolo che per noi occidentali rinvia a un mito: S. Giorgio che immerge la spada nel ventre del Drago. Debussy scelse il quadro di Hokusai come frontespizio per la partitura del trittico La Mer. Ma fece togliere le barchette. S. Giorgio e il Drago non hanno più voce in capitolo: l'onda è il canto potente del mare, di un mare che non conosce ancora l`uomo, di un mare che non è ancora stato tagliato dalla aguzza prua di una barca che come il filo di una lama lo ferisce, cioè di un mare preistorico, di una natura incontaminata. In Debussy, che poteva conoscere il termine, inventato nel 1866, ma anche in Chopin, che non poteva conoscerlo, troviamo l'intuizione della ecologia, cioè del grande problema di vita o di morte che l'umanità deve oggi affrontare e di cui stiamo diventando sempre più coscienti. Dalla mitologia greca e cristiana alla ecologia del duemila: non è un passo di poco conto.
Proprio a risultati di riattualizzazione dei miti mirava secondo me Beethoven quando rifiutò di esser detto Componist e coniò per sé e per chi venne dopo di lui il termine Tondichter, Poeta del suono. Il Componist, artigiano, soddisfaceva i bisogni della collettività, il Poeta, intellettuale, faceva emergere nella collettività aspirazioni inespresse e le indirizzava verso traguardi che non comparivano ancora sugli orizzonti della vita ma che erano impliciti nella natura dell'Uomo. Beethoven, pensando e componendo da intellettuale del suo tempo, intendeva in concreto educare la collettività alla virtù, alla virtù intesa nel senso dell'etica di Kant. Ma, quali che fossero per lui i significati del termine, è importante capire che cosa la virtù sia per noi. Dobbiamo porci di fronte alla sua musica così come Arnold Böcklin - l'ho citato spesso - ci consiglia di guardare un quadro: "Chiunque si pone di fronte a un quadro deve cercar di capire che cosa il quadro gli dice. Non è assolutamente importante che ciò corrisponda esattamente a quello che il pittore aveva in mente ". Non il colloquio con l'autore ma il colloquio con l`opera, che il pensiero dell'autore lo trascende. Il lettore si rende ben conto di quello che consegue dalla accettazione di questa prospettiva: non è più questione di barocco e di classico, di classico e di romantico, di romantico e di moderno, di moderno e di postmoderno, ma di passaggio, traumatico, dal noto all'ignoto.
Le interpretazioni chopiniane di Beatrice Rana sono chiaramente immature. Nella loro immaturità ci sono tuttavia molti spunti che non le rendono del tutto ripetitive. Quando la difficoltà tecnica non presenta problemi per nessun pianista, la Rana cava dal cilindro qualche idea, in genere non peregrina ma neppure convenzionale, o qualche simpatica birichinata, mentre ricade nella prigione della sua formazione da concorrente quando vuole essere asfaltata dai rapidi "Brava!!!" strozzati dei fan. Allora sfoggia velocità e potenza, e indulge persino in boati, e persino in uno Studio così intimamente sofferto come l'op. 25 n. 7. Lo Studio op. 25 n. 1, dicevo, suona sotto le sue dita tradizionale ma esteticamente impeccabile. Lo Studio op. 25 n. 12, poeticamente analogo al n. 1, non solo non è esteticamente impeccabile ma travalica persino l'esecuzione da concorso, che viene elevata alla seconda potenza. Non è questo, ciò che il poeta del suono Chopin richiede al suo interprete e, visto nell'altra prospettiva, non è
questo, ciò che lo Studio gli dice oggi.
Perché Beatrice Rana casca in questi tranelli? Qui converrà parlare del tipo di addestramento a cui sono sottoposti coloro che, possedendo uno spiccato talento naturale, vengono individuati come potenziali vincitori di grandi concorsi. Nell'Ottocento i talenti in formazione si trovavano di fronte al bivio da cui partivano la strada della virtù e la strada del piacere, cioè la strada della cultura e la strada dell'arte. Pensiamo alle grandi coppie di interpreti opposti, a Hans von Bülow e Anton Rubinstein, a Busoni e Paderewski, a Arrau e Horowitz e, in campo violinistico, a Vieuxtemps e Paganini, a Joachim e Wieniawski, a Ysaye e Sarasate. La strada della cultura era sapienza, oggettività, adesione per lo meno programmatica al pensiero del compositore, la strada dell'arte era creatività, soggettività, adesione alle emozioni dell'interprete. Ci pensò il Novecento, a etichettare la strada del piacere come strada del vizio. L'emozione cambiò il nome in sentimentalismo e fu lasciata orfana di padre e di madre. Fu una drammatica, sebbene sotterranea svolta: l'interprete, ma in parallelo anche il compositore di musica strumentale, rinunciava al sogno di Beethoven e di Paganini e di Liszt, rinunciava cioè a entrare nell'immaginario collettivo, e non si preoccupava del fatto che l`ANAS della strada dell'arte finisse senza colpo ferire nelle accoglienti mani della musica leggera.
Svolta drammatica, dicevo. Ma la indomabile ratio dei concorsi inventò per sé una terza strada. La chiamerò la strada delle coppe, prendendo questo termine dallo sport, Coppa Rimet, Coppa Davis, Coppa del Mondo, Coppa America, Coppa Europa, Coppa Italia, nonché l'immortale Coppa Pìanisti d'Italia. La didattica avvia oggi tutti i praticanti verso la brama della coppa da conquistare, sia della lucente coppetta vera, di materiale scadente, sia della coppa metaforica consistente in un ricco assegno. La strada delle coppe è la strada delle tradizioni, signorilmente anonima e tutta costeggiata da pietre tombali. E così il bivio di Ercole è diventato trivio, sia pure con una delle tre strade talmente malfamata
da scoraggiare il giovane che volesse inoltrarvisi.
La strada delle coppe non è affatto accademica e non conduce affatto alla pedissequa riproduzione della notazione della musica. Anche i più accaniti cultori della notazione sanno che la sua riproduzione letterale è intollerabilmente meccanica. Si tratta allora, ed è cosa di estrema difficoltà, di adottare per ogni particolare la concreta soluzione consegnataci dalle tradizioni. Una volta un mio collega, stimabile persona anche se dotata a mio giudizio di robusti paraocchi, mi fece vedere una copia della Sonata di Liszt, coperta di segni a matita a un punto tale che si distinguevano con difficoltà le note. Segni di espressione. E il mio collega mi assicurò con orgoglio che quella era la vera edizione critica, la summa del sapere di grandi maestri. Mi venne in mente un lungo colloquio che avevo avuto con un vecchio musicista, un tempo addetto all'ufficio noleggi di una importante casa editrice, il quale mi confessò di aver sempre riportato nelle nuove ristampe delle partiture operistiche, senza mai consultare gli autografi che stavano nel caveau, le annotazioni a matita dei maggiori direttori. Certo, se si fosse trattato di materiale per la storia dell'interpretazione, raccolto in modo ragionato, non meccanico, quella specie di edizione critica collettiva avrebbe potuto essere preziosa. Ma si trattava in concreto della imbalsamazione di un testo che suggeriva invece inesauribili altri modi di lettura.
L'addestramento da concorso consiste nella alta e disinvolta definizione di una infinità di particolari, lavorati tecnicamente senza che se ne conosca più la radice emotiva. Definizione della infinitesimale sfumatura dinamica e della infinitesimale sfumatura agogica di ogni nota fino a riprodurre esattamente, a piacere e senza patemi d'animo, tutto quello che si è messo industriosamente nel fienile. Alta definizione tecnica, dicevo, cioè alta definizione della esecuzione. Se i concorsi aspirassero a individuare e premiare gli artisti in nuce dovrebbero valutare l'alta definizione dell'interpretazione in una esecuzione passabile. Nella distorta ottica che li guida è invece passabile l'interpretazione, che è passabile perché non infastidisce, perché non urta nessun componente la commissione giudicatrice che sappia come ci si regola nei concorsi, dove si assegnano voti senza, in genere, discutere del voto le motivazioni. E senza che si conosca la scala dei valori alla quale si fa riferimento per inveterata abitudine.
l vecchi lupi delle commissioni giudicatrici sanno classificare nello stretto spazio fra il 3 e il 4, fra il 7 e l'8 e così via nove concorrenti, ciascuno con il suo bravo decimale che lo distingue dagli altri e che può diventare decisivo quando si fa la media matematica dei voti. Ma si può per davvero sentire la differenza fra una esecuzione da 3,10 e una esecuzione da 3,20? I vecchi lupi dicono che si può e, se provocati, lo dimostrano tirando fuori dalla borsa tabelle su tabelle. Il peggio del peggio arriva però quando due vecchi lupi sono radicati in due "scuole" diverse, ad esempio la russa e la francese. Durante le sedute di commissione non si discute: si vota e basta. Ma talvolta si discute poi, davanti a un piatto di
spaghetti al tonno o di pescetti fritti, così, tanto per sport. E allora salta fuori un paradosso non di poco conto: un 3,80 e un 7,25 sono stati assegnati allo stesso candidato da due commissari diversi per le stesse, identiche ragioni. Non sono mai stato un assiduo frequentatore di giurie, ma ho fatto comunque un certo numero di esperienze ai massimi livelli. E assicuro il lettore incredulo che ciò che dico l'ho vissuto, sia pure non giornalmente, ma nemmeno a ogni morte di papa.
lo non intendo affatto mettere alla berlina i componenti le commissioni di concorso, che sono persone del tutto rispettabili perché credono onestamente in quello che fanno. Però i concorsi non sono oggi una infrastruttura fra la scuola e la vita, sebbene credano di esserlo. Sono un gioco, un gioco che ha le sue regole e che viene giocato secondo le regole. Gli scacchi sono un gioco, e il gioco degli scacchi ha le sue regole. Ma il risultato - vittoria o sconfitta o patta - lo da la scacchiera, non una giuria. Gli esiti che si raggiungono con la giuria sono invece casuali: capita che arrivi il risultato che - si vedrà poi, alla prova dei fatti - era quello giusto. E capita che il risultato sia poi seguito, alla prova dei fatti, dalla assegnazione della Coppa Josef Knecht. La strada delle coppe, ho detto, è fiancheggiata da pietre tombali. Ma al largo delle pietre tombali ci sono, ben piantate sul brullo arido terreno, una infinità di croci.
Riprendo la recensione. Sotto le dita di Beatrice Rana gli Studi op. 25 scorrono tranquilli davanti ai nostri occhi, tutti con il vestito della festa e il fazzoletto nel taschino perché il dominio della esecuzione non solo è senza falle, ma è di gran classe. L'ascoltatore prova interesse per le idee, prova divertimento per le birichinate, prova un certo fastidio per le forzature virtuosistiche e soprattutto per i boati. Ma forzature e boati sono peccati veniali che spariranno quando Beatrice avrà raggiunto la convinzione di poter contare sul successo assicurato senza bisogno di spendersi in capriole e salti clowneschi. Non manca però il peccato mortale, rappresentato dai quattro grandi accordi che chiudono lo Studio n. 8. I quattro accordi vengono sparati come palle di cannone. Non si tratta però di palle di cannone. Si tratta di due cadenze, perfetta la prima, plagale la seconda. E mentre la prima cadenza è strumentata pianisticamente in un modo usuale, la seconda è strumentata con una sonorità così gioiosa e così seducente che ti fa allargare il cuore e ti fa inumidire gli occhi dalla felicità. Intendere due cadenze come quattro palle di cannone, ripeto, è un peccato mortale. Che viene replicato alla fine dello Scherzo n. 1 e dello Scherzo n. 2, di scritture analoghe a quella dello Studio.
Se vengono tenuti lontani dal Muro del Pianto gli Studi, in fondo in fondo, sono dolci o vivaci mammolette che non turbano i sonni di nessuno. I quattro Scherzi sono cardi selvatici e spinosi che ti graffiano e ti feriscono. Il loro humus è la spianata del Muro del Pianto, che è, beninteso, sia pianto di dolore che pianto di gioia. Affrontandoli tutti e quattro insieme si possono perseguire tre finalità diverse: artistiche, culturali, collezionistiche. Il più delle volte la finalità che viene raggiunta, anche se non voluta, è proprio il collezionismo. Ma questa scelta ha un senso quando gli elementi della collezione presentano molti tratti in comune. I quattro Scherzi di Chopin hanno in comune solo il nome - che rispetto ai contenuti è paradossale -, il metro ternario, la forma con alternativo ma articolata in modi molto diversi. Beatrice Rana ci propone la galleria di tutti i figli di Chopin iscritti in un genere, in un club. Ed è un po' poco, oggi. Qualche idea che appare qua e là non è priva di interesse, specialmente nello Scherzo n. 2. Ma una piccola imprecisione ritmica che appare fin dalle prime due battute della composizione e che ritorna poi sistematicamente basta a guastare il panorama. Quattro Scherzi, quattro momenti della evoluzione sia artistica che spirituale di Chopin, quattro vicende contrastanti e drammatiche della sua vita. Meglio affrontarli uno alla volta, o non affrontarli mai tutti se non ci si sente all'altezza di rendere loro giustizia. Come fece Arturo Benedetti Michelangeli, che da semplice ma dovizioso collezionista avrebbe potuto sbrigarli nel giro di poche settimane e che invece, da autentico artista, si tenne sempre alla larga dal Terzo e dal Quarto. Saggia persona, il nostro vecchio Ciro.
Piero Rattalino
("Musica", n. 329 settembre 2021)