Nell'epoca degli "inclusive tours", delle vacanze crocieristiche collettive in cui resta a stento il tempo per fotografare ciò che si vedrà poi a casa con più comodo, e dei viaggi compiuti per assolvere incarichi tecnici, professionali o politici, così tanto rigidamente programmati da veder le refezioni degradate a "colazioni di lavoro", è pur sempre un fatto meno consueto visitare una nazione straniera allo scopo di darvi dei concerti.
La prospettiva di osservazione di luoghi e persone è senza dubbio singolare anche se molto spesso grandemente limitata. Appartiene tuttavia al passato la figura del concertista o del cantante che si muoveva da un teatro ad un albergo, da un ristorante ad una stazione senza nulla vedere, ben protetto da guanti, tabarri e sciarpe, il quale poi, al ritorno a casa, veniva pubblicamente definito il "migliore ambasciatore della Patria". Quanto al giudizio sulle nazioni visitate, esso si rattrappiva nel doloroso stupore d'aver trovato il caffè mal tostato e gli spaghetti sempre troppo cotti. Oggi il pianista o il baritono hanno una indiscutibile competenza in fatto di attrezzature alberghiere e sdottoreggiano volentieri sulle caratteristiche di volo del "Trident" rispetto a quelle dell'altro trigetto, il "Boeing 727". Ma le condizioni del concertismo e del teatro si trovano in una tale fase evolutiva o preevolutiva, critica comunque, per cui è attualmente impossibile per il musicista entrare in una qualsiasi struttura organizzativa senza avvertirne certe caratteristiche culturali risalenti sempre ad una determinata temperatura sociale e ad una precisa condizione umana.
E ciò avviene anche senza un preventivo corredo d'informazioni. Anzi è fuori dubbio trattarsi di una saggia profilassi mentale l'astenersi, prima di un viaggio, da ogni lettura o racconto verbale aventi per oggetto il Paese che si e in procinto di conoscere. Ricordo per inciso le parole di pur decisa ammirazione per Guido Piovene pronunciate da Fernanda Wittgens mentre mi strappava letteralmente di mano il pregevolissimo "De America" alla vigilia della mia prima inesperta partenza per gli Stati Uniti, volume che oltre al resto mi avrebbe potuto sottrarre il piacere della mia piccola scoperta di quella Nazione. Non che oggi la mia esperienza di viaggiatore sia poi così cospicua, fatto è, però, che sono riuscito a partire per l'Unione Sovietica respingendo i conforti della cultura, i lumi dell'informazione aggiornata. Il mio arrivo a Mosca, che seguiva un lungo emozionante soggiorno in Israele, avvenne con una sostanziale serenità, non scalfita dalle consuete apprensioni di tipo professionale in questo caso aggravate dal fatto di sbarcare nella terra di Richter e Gilels.
La prima persona incontrata è stata l'accompagnatore-interprete, Sergio, messomi a disposizione per tutta la durata del mio giro dal "Goskonzert", l'organizzazione concertistica statale. Singolare personaggio, con un senso fiero e geloso della sua qualità di studente (sta terminando un corso universitario per interpreti) così corporativo da parermi quasi uscito nel 1400 da una rispettabile taverna di Heidelberg. In realtà egli doveva, per rendere più facile il primo nostro incontro, costruirsi un atteggiamento, per colmare quelle distanze di mentalità più apparenti che reali che presupponeva esistessero con un pianista italiano.
Per di più, come traduttore, aveva una straordinaria efficienza e rapidità tali da consentirmi dialoghi serrati con quelle persone che dall'anonimato del pubblico, al termine dei concerti, mi raggiungevano numerose nel camerino per commentare con me ciò che avevano ascoltato. A questo punto sorgerebbero naturali delle considerazioni sulle caratteristiche dei frequentatori delle manifestazioni musicali in Russia. Che in una società quale quella sovietica il pubblico fosse il risultato di forze e stimoli singolarissimi prodotti dalla storia e dalla struttura etnica, e costituisse l'ambiente ideale di lavoro per un concertista, grazie allo straordinario bisogno di musica manifestato in ogni attimo dell'ascolto vissuto con silenzio teso ed appassionato, era, in fondo, una di quelle "idee ricevute" dalle quali mi ero volontariamente sbarazzato prima della mia partenza. Tanto più vera quindi mi pare l'impressione sull'eccellenza del pubblico per averla recuperata intatta ed identica alle previsioni, proprio nell'esperienza reale che ho potuto compiere in diverse tra le più grandi città dell'Unione Sovietica.
Il frequentatore ideale delle sale da concerto è sempre colui che si tiene ben lontano dall'idea di assolvere a degli obblighi sociali ascoltando Beethoven, e respinge i miti di una cultura sontuosa e superba la quale trova nel privilegio della conoscenza l'unica meta da conseguire. Farei torto grave a tanti gruppi di ascoltatori vivi e fervidi che ho incontrato in Italia, in Europa ed in America nel decidere arbitrariamente che questa "rara avis" prosperi solo nei cieli dei paesi a democrazia socialista per taumaturgiche virtù ideologiche. Tuttavia la presenza della musica in Russia è una realtà autentica e partecipante grazie a una precisa politica di organizzazione culturale che si inserisce agevolmente su di un patrimonio di storia e di caratteristiche etniche che è un grandioso carico umano di speranze, riscatti, dolori e solitudine.
9 aprile 1969 - Mosca - Arrivo verso sera all'aeroporto Ceremetievo.
Volontà mia di scorgervi le prime caratteristiche di quel mondo nuovo che mi avviavo a conoscere. Ma, ahimè, tutti gli aeroporti sono uguali: premonizione di una tecnocrazia futura che imporrà standard identici per ogni Paese? Quasi consolato osservo mentre sono in coda per la dogana, la scritta in cirillico, unico elemento di "colore" che riesco anche a decifrare da quando anni fa in Serbia capii che la scritta PECTOPAH significava "ristorante" e non era la pubblicità di uno sciroppo per la tosse. Ricevo l'impressione che i miei documenti che mi qualificavano come pianista scritturato dal "Goskonzert" mi procurino da parte dei doganieri e dei poliziotti una dose almeno doppia di sorrisi. Poco dopo mi incontro con l'interprete con il quale mi trasferisco in una stazione ferroviaria del centro di Mosca da dove viaggerò in vagone letto alla volta di Leningrado. Nel passaggio della capitale riconosco i fantasmi notturni delle torri del Cremlino e l'immagine scura, come in una negativa, della facciata del Bolshoi. Un pasto consumato nel vagone-buffet del treno mi fa pensare alla santa preveggenza della Signora Peppina Verdi che fece precedere l'arrivo a Pietroburgo del Maestro da ingenti provviste di riso, maccheroni, formaggio, salumi e "Bordeaux".
10 e 11 aprile - Leningrado - Giorni di studio in vista del primo concerto in Unione Sovietica nella sala della "Filarmonica" situata in un palazzo neoclassico della "Prospettiva Nevski". Mi costringo alla grave automutilazione della rinuncia a visitare il Museo dell'"Ermitage" e dell'annessa raccolta d'arte scita, quasi sconosciuto ed unico sensazionale documento esistente di quella civiltà. I musei sono proibitivi per i pianisti alla vigilia dei concerti. C'è anche il caso che qualche impresario scoprendomi davanti ad un Cezanne si arrabbi come Helenio Herrera quando al sabato sera stana un suo centravanti da un "night-club". Trovo però qualche minuto per richiedere la partitura del concerto di Rodion Scedrin, inteso l'anno scorso alla Scala. Non la trovo e così comincio a sentire i primi "niet". La sera del mio "recital", prima di entrare sul palcoscenico noto un profondo silenzio in sala e deduco che i presenti debbono essere molto pochi. Errore: il pubblico, che io non potevo vedere, riempie la vasta sala e noto persino sedie aggiunte nel corridoio centrale e ai lati. Inizio con un'"aria alla napoletana" di Domenico Scarlatti a cui sono molto affezionato e con un'altra sonata. L'accoglienza del pubblico, ad essere franchi, mi pare fredda, anzi. freddissima. Tre successivi brani di Francesco Durante non hanno migliore risultato. Ho l'impressione (sono sempre ottimista e questa volta ho ragione) che gli ascoltatori si secchino, così, "ex abrupto", d'osservare il rituale dell'applauso. Le liturgie concertistiche, penso velocemente, vanno di sicuro riformate, ma è spiacevole subirne i primi effetti. Dopo Durante seguono le "Bagatelle op. 126" di Beethoven. Il linguaggio, ascetico, essenziale non concede nulla; chiede il massimo di concentrazione tanto a chi suona quanto a chi ascolta. La sesta bagatella poi, si congeda tra spazi metafisici la cui conclusiva sfuriata, per la maggior parte degli ascoltatori, risulta spesso sconcertante. Solo che a Leningrado sconcertato rimango unicamente io per lo strepitoso entusiasmo con il quale il pubblico accoglie questa musica. L'ottava Novelletta di Schumann, e, nella II parte, la Terza sonata di Brahms mi riportano al consueto caloroso clima concertistico in cui l'estrema parsimonia di consensi sonori concessa all'esecuzione dei due nostri clavicembalisti non era certo gelido distacco, ma senso delle proporzioni nel seguire e vivere un programma al di fuori di una certa convenzionalità del cerimoniale che stabilisce "standard" di accoglienza minime uguali per tutti.
12, 13 aprile - Riga - La partenza da Leningrado avviene di mattina, in aereo, troppo presto per poter vedere all'"Ermitage" almeno qualche Cezanne e Picasso, e la sezione dedicata agli Sciti. Il decollo ha proprio il carattere di uno strappo violento. Questa città mi è apparsa tra le sue luci nordiche così suggestive un lirico miraggio tale che mi accorgo di pensare, come scrive Andrej Belyj nel suo affascinante e un po' sinistro "Pietroburgo": "la sua esistenza è soltanto illusoria". L'arrivo a Riga, oggi capitale della Repubblica Socialista Sovietica Lettone, avviene in una chiara giornata di sole che illumina con serenità elegiaca vie e case superstiti dell'antica città anseatica. Visito il Duomo, oggi sede permanente di concerti organistici e la sala della "Filarmonica" dove l'indomani suonerò. Alla sera sono invitato ad uno spettacolo di danze, canti e cori. Nutro sempre una sospettosità preventiva nei confronti di un folclore che da un po' di tempo, in tutto il mondo, è divenuto troppo spesso un abile ma meschino surrogato di genuinità ed una demagogica proposta di ritorno ad improbabiliradizioni popolari. Nulla di tutto ciò: i cori e le danze hanno una compostezza umile ed aristocratica insieme; i gesti, spesso ieratici, spaziano racchiusi in misure dolci e in forme circolari: espressività slava e melanconia baltica si uniscono qui in uno spettacolo dalla tristezza delicata e struggente. La sera dopo, l'intelligenza e la cultura del pubblico di Riga si rivela nelle domande e nei problemi che diverse persone mi pongono sul programma eseguito: caratteri stilistici di Scarlatti e Durante; consensi sulla coerenza e consequenzialità (alla quale non avevo pensato!) delle bagatelle beethoveniane seguite dall'ultima novelletta di Schumann e dalla "terza" di Brahms; interrogativi sui nomi ancora mitici per Riga di Dallapiccola e Petrassi.
14, 15 16 aprile - Mosca - Il recital alla "Sala Ciaikovski" mi impedisce del tutto la vita da turista. La città, esuberante e massiccia, tuttavia mi investe di continuo: la folla con un vorticoso caleidoscopio di volti e gesti, la "meraviglia" assirobabilonese della metropolitana, le chiese ortodosse spesso sospese tra favola poeticissima e invenzione da pasticciere-architetto, il Cremlino, sempre intravisto, col quale rimando un appuntamento alla fine della "tournée". Altra "tournée" presso i negozi di musica e dischi per trovare una qualsiasi edizione del concerto di Scedrin: sempre "niet". Chiedo qualche partitura delle sinfonie di Shostakovic e ragguagli sulla più recente produzione musicale sovietica: i "niet" mi suonano
sempre più strani e scoraggianti.
Arriva il giorno del concerto: è trasmesso per radio, mi fanno interviste per diversi giornali e circolano tra le quinte alcuni fotografi. Ne avvicino uno che porta appese due "reflex" di gran marca e, tramite Sergio, tanto per ingannare l'attesa e deviare le legittime e tradizionali apprensioni prima di un concerto molto importante, chiedo informazioni sugli obiettivi da lui usati. Con aria infastidita estrae un tesserino rosso su cui spicca in bianco la scritta "TACC" (Agenzia Tass). Mi allontano come chi sulla pubblica piazza si sente dire: "ragazzino fatti in là, lasciami lavorare". Il successo "fonico" del concerto è maggiore di quello ottenuto a Leningrado e Riga. Eseguo come bis un "Preludio e fuga" di Shostakovic che dà il pretesto ad un signore del pubblico, non musicista, di intavolare con me, dopo, un dialogo su analogie con l'ottavo quartetto del compositore leningradese, (quello, stupendo, dedicato ai caduti per la guerra e la resistenza). Meraviglia del mio interlocutore per il fatto che io, italiano, conoscessi quel quartetto. Mi sono ricordato di una testimonianza di Gianandrea Gavazzeni circa la sorpresa dei russi nel constatare che la loro produzione recente e seguita e studiata in Europa ed in America con tempestività maggiore di quanto potrebbe essere sospettabile. Prima di lasciare la sala, la rappresentante del Goskonzert mi informa che nei prossimi contratti che riceverò da parte russa, sarà contenuta una clausola riguardante più tempo libero da impiegare in visite a musei! Felicità mia nel ricevere una così immediata "riconferma", con il conforto aggiuntivo della possibilità di visitare meglio questo Paese.
17, 18, 19, 20 aprile - Rostov - In questa che è la citta dei Cosacchi devo dare due concerti: uno da solo e l'altro con orchestra. Grosso centro di provincia, 800.000 abitanti. Anche Sergio, per essere moscovita, riscuote quei successi che ottenevano i giovani ufficiali brillanti che arrivavano dalla capitale, come nei racconti di Gogol. E' vivacissimo, racconta le ultime barzellette, ed ottiene così nei ristoranti un servizio veloce ed inappuntabile. Incomincio la prova con 1'orchestra (IV e V di Beethoven); gli archi sono potenti e dolci. Solo il primo corno non è all'altezza dei suoi colleghi ed è cronicamente in ritardo nelle "entrate". Le mie due serate hanno un successo "meridionale". Alla fine della seconda parte mi consegnano, insieme ai rituali fiori, un biglietto che Sergio, come sempre a mia disposizione tra le quinte, mi traduce: è la richiesta firmata dal direttore del locale Conservatorio di eseguire in bis musiche di Schubert, Ravel e Prokofief, cosa che faccio puntualmente e con disciplina. A concerto terminato molti dei presenti fanno una specie di invasione di campo e si infoltiscono sul palcoscenico. Mi rimetto di nuovo al piano ed eseguo il primo tempo della Nona sonata di Prokofief. Non so quanti abbiano riconosciuto questa musica; del resto la capacità di classificazione conta ben poco. Vedo teste e braccia ondeggiare al ritmo di questa pagina, tra l'altro penetrante, ma imprevedibile. Improvvisa tristezza nel pensare che da noi tali reazioni sono troppo spesso riservate ad appositi brani "da bis" degradati dagli ascoltatori a feticci sonori e a congegni per lo scatto di una commozioncella ottenuta in base ad un meccanismo di riflessi condizionati.
21, 22 aprile - Baku - Ultimo concerto di questo giro. Baku, sulle rive del Mar Caspio, sorge in terreno paludoso ed è circondata da una selva di pozzi petroliferi dall'aspetto minaccioso come la macbethiana foresta di Birnam. Eppure nessuna tragedia petrolchimica del rimorso sugli inquinamenti atmosferici si potrà avere qui, poichè l'aria che si respira è straordinariamente pulita e salubre. Come se si fosse in una enorme Stresa di 1.200.000 abitanti. Come sempre nei concerti precedenti, ho a disposizione uno splendido Steinway, nuovissimo; l'organizzazione ed il rispetto estremo del mio lavoro da parte del Goskonzert arrivavano persino a farmi trovare nella stessa camera dell'albergo un ottimo strumento per lo studio. Dopo il concerto si presenta una signora. E' una giornalista di Leningrado, redattrice di una pubblicazione dedicata a cronache e studi sul pianismo (come la nostra rivista "Il pianoforte" di quarant'anni fa). Le domande che mi rivolge sono straordinariamente acute e a me, stanco e felice per l'esito dei concerti terminati a Baku, paiono persino esagerate e pedanti. Sono anche meravigliato per il fatto che da Leningrado, dove avevo suonato undici giorni prima, si sia mossa una persona per ascoltarmi e mettermi quindi sotto il microscopio della sua minuziosa indagine critica.
Ricordo che tante persone, appena tornato dal mio primo viaggio negli Stati Uniti mi chiedevano: "E cosa ne pensi dell'America?" Al che rispondevo in tutta onestà, seppure con discutibile eloquenza: "Mah". Oggi dopo un'esperienza di una ventina di giorni in Unione Sovietica (dopo Baku tornai a Mosca, dove feci un po' il turista ed ebbi un incontro cordialissimo con Sviatoslav Richter) mi trovo nelle condizioni di dare la stessa risposta. E non è certo qualunquismo o paura d'impegnarmi in un giudizio che in ogni caso, per me professionista, è addirittura entusiastico. Ma la natura stessa del mio lavoro, le sue fatiche e difficoltà, mi consentono solo alcuni spiragli attraverso i quali intravedo passare la vita nei luoghi dove mi trovo. In compenso ho la presunzione di affermare che questa prospettiva d'osservazione recupera in profondità ciò che inevitabilmente perde in estensione. Attraverso il silenzio che il pubblico mi offre e con la spontaneità delle reazioni che la musica produce sulle persone sane, io sento l'uomo e mi sento uomo. Le costanti positive dell'umanità si stabiliscono consolatrici tra esecutore ed ascoltatore a costruire quella conoscenza reciproca tra individui che sola potrà contrastare egoismi ed ipocrisie.
Non so cosa abbia potuto scrivere di interessante in queste pagine. Non ho visto quasi nulla di ciò di cui si chiedono poi notizie al ritorno da un viaggio. Ma i luoghi non contano. Come in Israele mi lasciarono freddo o quasi infastidito i luoghi deputati dalla cristianità, emozionandomi invece al passaggio tra le colline della Giudea e all'eterna presenza degli storpi e dei mendicanti alla "Porta di Damasco", a Gerusalemme; così in Russia una impressione che dapprima volle precludersi a qualsiasi condizionamento politico, divenne quindi un commosso recupero di una società dalla quale io coglievo alcuni "campioni" nel momento in cui, col tramite della musica, emergevano emozioni allo stato nascente. L'ammirazione per le strutture dell'organizzazione culturale non può precedere quella per la tenace facilità con la quale il popolo russo crede nella poesia. Nelle edicole e nelle cartolerie accanto alle immagini, peraltro non abbondanti, di attori e attrici sovietici compaiono sempre, numerose, vecchie fotografie di Esenin dal volto dolcissimo, luminoso e sperduto. Il suo "Acero antico" è il testo di una canzone tuttora popolarissima: "Io non tornerò troppo presto - la porcellana non ha un canto breve - Veglierà sulla Russia celeste - l'acero ritto su un piede - So che tu sei grandissimo amico - di chi bacia la pioggia dei tigli - anche perché, acero antico - a me nel capo somigli".
Mario Delli Ponti
("Rassegna Musicale Curci", anno XII, n. 2, giugno 1969)
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