Quando Bruckner arriva a Vienna, preceduto da una discreta fama di compositore di musica sacra, Brahms aveva già impiantato nella capitale il suo tempietto neo-classico. Guardiano del sacro fuoco è Hanslick il quale però assolve anche a un'altra funzione, quella, cioè, di Cassandra, le cui profezie si riveleranno per fortuna infondate. L'accoglienza che i due riservano a Bruckner è, sulle prime, cauta. Questo innocente compositore di messe, pensano, non ci darà molto fastidio. Tuttavia Bruckner ha già deciso da tempo la propria vocazione di sinfonista; non solo, egli è il primo ad aderire ufficialmente al movimento radicale della Neuedeutsche Schule, dedicando la Terza Sinfonia a Wagner in segno di profonda venerazione. Ma al di là dell'omaggio riverente, al di la della sperticata ammirazione, c'è la musica a testimoniare una scelta precisa di linguaggio che si pone in aperto contrasto con la tradizione e il formalismo anacronistico allora imperanti. La ripresa del discorso sinfonico nella seconda metà dell'Ottocento non poteva più avvenire nel segno di Beethoven; ogni tentativo di prolungare la Nona in un clima di fermenti e di sommovimenti linguistici avrebbe potuto soltanto adulare un pubblico già disorientato dalla morte apparente della sinfonia. Tuttavia, innovare significava, come sempre, andare contro il pubblico che ha bisogno in media di mezzo secolo per assuefarsi al nuovo. Agli innovatori, quindi, è garantito un insuccesso immediato. L'opposizione maggiore che Bruckner incontra a Vienna dopo la sua adesione al movimento radicale gli viene da Brahms che occupa posizioni di prestigio, ha dalla sua parte i migliori direttori e naturalmente Hanslick, Kalbeck e Dömpke; però a differenza di costoro, Brahms ha per lo meno il buon gusto di lasciarsi andare a profezie catastrofiche solo in privato.
Hanslick e gli altri si servono invece della stampa e attaccano i radicali con un linguaggio che rasenta la querela.
Ma Bruckner non è solo: c'è Mahler, c'è Wolf, ci sono i fratelli Schalk e Ferdinand Loewe che gli si stringono attorno. Wolf, improvvisatosi critico musicale sul foglio Salonblatt, cerca di neutralizzare gli strali di Hanslick colpendo Brahms con la stessa ferocia con cui il suo rivale colpisce Bruckner, Liszt e Wagner. Risultato: Wolf si vede sbarrare la porta dei Philharmoniker e la sua musica viene per lungo tempo sabotata sistematicamente dalle istituzioni musicali più autorevoli. I due giovani amici di Bruckner trovano conforto nel verbo wagneriano, discutono, battagliano e organizzano pranzi solo vegetariani in omaggio alle prediche che vengono da Bayreuth. Preparano esecuzioni a quattro mani delle sinfonie di Bruckner, lo difendono e lo ergono a loro capo spirituale. L'insuccesso della sua musica viene interpretato come un segno positivo. Infatti, che cos'è che la rende indigerabile al pubblico viennese? E' il fatto che Bruckner non la configura come un prodotto di consumo gradevole a tutti i palati e quindi sostanzialmente neutro. Con la sua musica egli sembra dire: ecco, io vi do esattamente quello che voi non volete. Io compongo per me stesso, mentre il Dottor Brahms... E la polemica continua.
I furori e le battaglie che caratterizzano la Vienna di Bruckner e di Brahms sono in fondo il segno di una vitalità vulcanica di un ambiente in parte evoluto e in parte tradizionalista che si schiera in due distinte fazioni tanto ostili quanto inutili; perché, a ben vedere, ciò che anima tali fazioni è uno spirito esclusivamente settario che nega a priori determinati valori non tanto in quanto appartengono alla musica, ma in quanto originano da pregiudizi e classificazioni gratuite. In questa Vienna passionale e polemica, l'unica persona fuori posto sembra proprio Hanslick che, sia nelle lodi sperticate rivolte alla musica di Brahms, sia negli attacchi riservati a quella di Bruckner, rivela sempre una fondamentale incapacità a giudicare e soprattutto la mancanza di una qualità indispensabile a un critico: l'aperta discussione su di uno stesso piano storico di due momenti radicalmente diversi. Da queste polemiche, da questi furori Bruckner sembra stranamente lontano, assorto com'è nel suo musicare esclusivo e totale. In assoluta concentrazione e distacco, egli ci offre il distillato di una mente superiore per quanto non sorretta da un bagaglio culturale che è invece cospicuo nei suoi contemporanei (ma che per lui costituirebbe senz'altro un impaccio notevole). Compone e basta; il resto è letteratura.
Il concetto del tempo al quale si è adeguata la società che si agita intorno a lui e che anela al senso della proporzione piacevole, ma impegnativa e quindi passiva (è questo il prodotto più richiesto in quel momento), assume in lui una portata diversa e si colloca non più come esigenza da rispettare in un ambito formale pre-costituito, ma come elemento estraneo o, per lo meno, marginale dell'opera d'arte e della creatività. Quando Brahms scrive Tutto ha un limite e Bruckner lo ha superato, implicitamente egli ci da il miglior ritratto di sé stesso perché nella sua musica la coscienza del limite è talmente avvertita al punto che essa musica ne sembra ciecamente condizionata. Ed è anche questa una forma di bellezza, ma si tratta di una bellezza stanca, malinconica e amara come quella che Rimbaud trova seduta sulle sue ginocchia.
Nelle aperture che Bruckner propone con le sinfonie, aperture attuate timidamente più che cautamente, c'è la forza inattesa di chi sa che potrà un certo punto spalancare le porte e offrire altre e più solari visioni. Nel modo di porgere il tema all'inizio di ciascun primo movimento, speso assistito da null'altro che un lieve palpitare di archi in tremolo, v'è il trapasso misterioso della materia musicale dallo stato di quiete allo stato di moto sicché essa gradualmente si dipana come una cometa che poi esplode in spazi sonori carichi di spessori emotivi. Il modo di trattare il tema è nuovo: Bruckner lo scava, ne estrae cellule, le discute, le sfrutta all'osso e poi le distrugge in una specie di caos sonoro primordiale dove la musica si e fatta puro ritmo, sostanza frantumata da cui non c'è più nulla da cogliere. E le pause che seguono, le riprese sbucate dal nulla, paiono proposte assurde e paradossali tanto contrastano con l'ortodossia della prassi post-romantica; sembrano mese lì a bella posta perché il pubblico non le capisca.
Il peculiare senso della costruzione già in atto a partire dalla Quarta Sinfonia e quello della distruzione presente come non mai nella Nona, sono elementi, tratti stilistici che trascendono la dialettica del secondo Ottocento e che si collocano in una prospettiva a sé stante ancorché allargabile al secolo successivo. Ed è per questo che gli allievi zelanti, credono di far bene, tagliano le partiture del maestro, ne modificano lo strumentale, fondono laddove Bruckner voleva distinguere e creare piani sonori, differenziazioni timbriche (che il pubblico non gradirebbe, sostengono gli allievi per giustificarsi). L'opera da loro svolta per far conoscere il maestro li fa oggi perdonare di simili ingenuità commesse in buona fede, ma che sono la dimostrazione più lampante del radicalismo bruckneriano sul quale Adorno, scrivendo di Mahler non ha speso una sola parola. Eppure sappiamo benissimo attraverso testimonianze dirette, quanto la Scuola di Vienna avesse cara la sua musica e soprattutto Berg che arrivò persino a inserire una citazione bruckneriana nel Wozzeck.
La reazione di Bruckner contro il proprio tempo non avviene però per stimoli polemici, ma si configura come risultato di una naturale e spontanea evoluzione; si tratta di sviluppo più che di fattura. D'altra parte, se si pensa che Bruckner era coetaneo di Smetana, riesce difficile e comunque storicamente impossibile pretendere da lui anticipazioni più nette che invece sono possibili in Mahler appartenuto alla generazione successiva. Ad ogni buon conto, ai musicisti non si chiede di essere profeti, ma solo musicisti. Se si pensa che i mezzi a disposizione di Bruckner sono il cromatismo di Wagner e un'orchestra che non si discosta molto da quella beethoveniana (salvo le tube) assistita da un apparato percussivo ancora lisztiano, triangolo compreso in modo riluttante), ci si può rendere conto a maggior ragione della portata del suo radicalismo introverso che ha le radici non tanto nell'effetto prodotto dall'inconsueto accostamento di timbri, quanto nell'interno della materia sonora, dialetticizzata al limite delle proprie possibilità e oltre. Per questo un raffronto tra Bruckner e Mahler è reso problematico dalla diversa disposizione della loro musica, ma risulta senz'altro possibile quando i due musicisti non vengano più considerati come entità parallele, ma come entità successive.
Benché Mahler non fosse stato in senso stretto un allievo di Bruckner, il solo fatto che egli appartenesse con Wolf alla stessa corrente radicale, costituisce di per sé una indicazione sufficiente dei contatti spirituali che esistevano tra i due. E' pur vero che Mahler modificava continuamente i propri giudizi sui musicisti del suo tempo, ma il fatto che egli eseguisse le sinfonie di Bruckner con tagli vistosi rivela un atteggiamento critico che è più tipico dell'interprete che non del musicista, per quanto, a dire il vero, è molto improbabile che Mahler avesse tollerato lo stesso trattamento nei confronti delle sue stesse sinfonie (che in fatto di durata battono spesso quelle di Bruckner). Il primo Mahler, tuttavia, sembra partire da premesse diverse da quelle che avevano ispirato il sinfonismo bruckneriano; il suo orientamento sembra rivolto a un tipo di cantata sinfonica volta a mettere in luce testi romantici sulla via del tramonto: Das klagende Lied ne è la dimostrazione. Ma la sua prima opera di grande respiro, la Seconda Sinfonia, pur conciliando sinfonismo e voce umana in una sintesi non sempre omogenea, dichiara il proprio debito col maestro spirituale. La Prima Sinfonia possedeva invece troppe implicazioni letterarie per potersi considerare il prolungamento ideale del sinfonismo bruckneriano anche se, tenuto conto che essa venne in origine concepita in cinque movimenti, lasciava già intendere la disposizione mahleriana per l'espansione del discorso sinfonico.
E' chiaro che la ricerca mahleriana di una soluzione definitiva dei propri orientamenti non venne mai meno e appunto per questo non ebbe mai fine. La presenza di una cultura raffinata fu per lui un'ancora di salvezza, ma anche un impaccio perché essa finì per gravitare sempre attorno allo stesso ambiente già appartenuto a uno Schumann e da questi rappresentato come non mai. E' pur vero che la mancata contemporaneità tra testo e musica non costituisce certamente una pregiudiziale alla validità della musica stessa, anche se collabora a collocarla in termini di cultura e di gusto. E il gusto di Mahler è ancora fatalmente romantico, come si è visto, è il gusto della persona colta che vive nella seconda metà dell'Ottocento e tiene tra i propri libri, Goethe, Jean Paul, E.T.A. Hoffmann, Rückert e Mörike. Il mondo di questi autori, con tutte le implicazioni fiabesche, trova dunque un prolungamento anche in Mahler (e potrebbe prolungarsi all'infinito). Egli però lo fa assistere da un linguaggio che è proiettato più avanti. In fondo Bruckner con la Nona aveva dimostrato inequivocabilmente che l'Ottocento era finito, dissolto, e Mahler è perfettamente consapevole del destino cui va incontro la musica della sua epoca, ma a tutti gli interrogativi che egli si pone, la sua musica non dà risposta.
Le sinfonie restano ancorate alla tonalità sia pure intesa nella sua ampia e libera accezione, e si situano in una sfera ancora post-romantica. Quegli elementi che Bruckner aveva allargato sino alla dissoluzione, vengono da Mahler esasperati al limite, sovrapposti o accostati ad altri, spesso eterogenei e spuri, sui quali tutti grava l'ombra del dubbio. Nel ricorso a timbri inconsueti, tanto puntualizzato da Adorno (ma a scapito di altri elementi pure rientranti nel complesso quadro dell'arte mahleriana), è pure intuibile una soluzione di compromesso, la impossibilità del resto storica di operare una scelta precisa, impossibilità tutta esistenziale, ma mai risolta in un senso o nell'altro.
La sinfonia mahleriana con tutta la sua salutare ambiguità rappresenta dunque il presagio di una crisi imminente, quella cioè che precede la rivoluzione solitaria operata dalla Scuola di Vienna. Ma la distanza che separa Mahler dalla Scuola Viennese è minore di quella che lo separa da Bruckner. La generazione di Mahler è in fondo la stessa di Strauss; entrambi si trovano infatti a operare con un piede nell'ultimo Ottocento e l'altro nel primo Novecento e non può immaginarsi situazione peggiore per un artista perché lo stile non può adeguarsi ad un tratto a una mutazione così sensibile dei valori espressivi quale fu quella che contraddistingue il linguaggio musicale di quei due momenti storici. Per questo, Mahler rimane coerente a se stesso sino all'ultimo, cioè, rimane coerente al dubbio. Reminiscenze di sonata classica e di rondò si alternano a strepiti di fanfare o a compassate cadenze funebri; si passa dalla eterogeneità del pastíche alla pateticità pucciniana degli adagi, e in tutto è possibile cogliere l'instabilità e l'insicurezza del suo temperamento musicale, l'impossibilità di una risoluzione omogenea. Mai prima di lui la musica era riuscita a esprimere il tormento e l'angoscia generati dalla spinta cumulativa di tante forze contrarie e contrastanti.
Inutile si rivela la ricerca di un fulcro nella musica mahleriana. La continua e forzata evasione da un punto di convergenza trova momenti isolati di appagamento solo negli adagi che sono sempre il ritratto affettuoso di qualche cosa; stasi provvisorie dove però la vera lirica di Mahler affiora e si dispiega con pienezza e iterazioni a volte eccessive. Nella produzione sinfonica di Mahler solo la Quarta rappresenta un punto di riposo stabile, l'evasione completa, come la Sesta di Bruckner, ma in genere tutta la musica di Mahler è una ricerca continua e, al fine, un non trovare. E all'effetto immaginato spesso non corrisponde l'effetto reale. Le sue partiture sono costellate di indicazioni che rivelano, ora l'ansia tutta tardo-romantica di espressivizzare al massimo il contenuto, ora la mancanza di fiducia nell'interprete, il timore di non essere compreso. In questo, Mahler è tutto l'opposto di Bruckner la cui carenza di indicazioni in partitura esprime una meravigliosa sicurezza perché l'interpretazione non è vincolata da nessun fattore che non sia il linguaggio stesso, laddove in Mahler la continua assistenza che la parola presta alla grafia musicale sembra precostituire a quest'ultima un alibi assolutistico. Se per Bruckner il tema è entità relativa, in grado di muoversi in tutte le direzioni così da diventare materia di costruzione altamente dialettica, per Mahler esso non è che una particella di un complesso costrutto polimorfo e in quanto tale scompare pur facendo sempre parte del mucchio.
Il timbro emerge e diventa componente primaria. Quel La sovracuto dei violini, con cui inizia la Prima Sinfonia e che Mahler vuol configurare come un suono naturale (della Natura), ma che in pratica rischia di diventare innaturale se le orchestre non sono tra le migliori!, rivela subito la propensione mahleriana per la esasperazione timbrica, ma anche una propensione per la Natura stessa (e per i timbri della Natura). Per Bruckner, invece, la Natura era irrimediabilmente guastata dall'uomo e le implicazioni metafisiche del compositore lo portavano a estraniarsi da essa sicché la sua musica ne rimane indenne, salvo il caso della Quarta Sinfonia dove un programma a posteriori ne rende possibile l'eccezionale ingresso.
Tutto ciò che viene programmato, come spesso avviene in Mahler, malgrado pentimenti e contraddizioni, non può che prefigurare una disposizione descrittiva anche se, programma o no, la musica finisce per restare sempre quella che è. Ma a parte i luoghi vieti e triti come l'inevitabile gorgheggio dell'usignolo imitato dal flauto o il corno inglese per ricreare un'ambiente pastorale, la presenza della Natura nella musica mahleriana è posta in termini timbrici; essa si pone dunque secondo a premessa precisa annunziata nella Prima Sinfonia: Wie ein Naturlaut; suoni, echi talvolta indistinti, rumori organizzati o disorganizzati, rigurgiti sonori, strepiti aspri, faville incandescenti di ritmi primordiali o consueti. L'esasperazione del timbro, il rilievo che assume nel diventare ínnaturale dal punto di vista esecutivo, sembrano prefigurare il puntillismo Weberniano oltre a estrinsecare tensioni e conflitti interni e a sfogarli in una forma di sadismo strumentale non ignota a un Berlioz. La musica si corrompe e si svuota di contenuti preordinati, lo schema si altera, si dilata e si decompone. L'inserimento della voce umana in una struttura tipicamente sinfonica, secondo il cattivo esempio della Nona di Beethoven, l'orrendo accostamento dell'inno Veni Creator spiritus col testo del Faust goethiano, o la preziosità scontata di liriche cinesi, danno il colpo di grazia a troppa compostezza formale, alle quiete strutture del sinfonismo brahmsiano. La reazione contro il proprio tempo operata da Bruckner che era figlio del suo tempo, ma che ne stava al di fuori per poterlo colpire più effìcacemente, trova un risvolto più drammatico in Mahler perché egli è una figura di transizione che riassume in sè tendenze e conflitti opposti, sapendo di non poterli conciliare.
Se Brahms, disceso da Mendelssohn e Schumann, ebbe parecchi imitatori ed esercitò notevole influenza sulle generazioni successive, Bruckner e Mahler restarono in fondo isolati, ancorché il secondo non possa spiegarsi senza il primo. Posizione dunque invidiabile se oggi la si verifica nel vario contesto linguistico che caratterizza la fine del loro secolo e l'inizio del nostro, articolato da una successione a scatti di forti personalità, più che dalla evoluzione naturale dovuta a discendenze e a fattori ereditari. Per cui, a conti fatti, a Brahms tocca il ruolo un po' scomodo dell'epigono; e il tempietto neo-classico da lui costruito tenacemente in una Vienna spumeggiante non solo di barocco solare e lievissimo, ma anche di idee presenti e future, ha oggi il fascino un po' malinconico e anacronistico di una curiosità domenicale.
Edward D.R. Neill
("Rassegna Musicale Curci", anno XXII, n.1 marzo 1970)
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