Sbarca lieto sul mio tavolo da lavoro un disco di Beatrice Rana dedicato a Chopin, con gli Studi op. 25 e i quattro Scherzi. Lo ascolto, e al primo momento mi sembra di dover parafrasare il discorso che ho fatto più volte sui giovani che, programmati e addestrati per vincere un importante concorso internazionale, cominciano poi a percorrere una carriera di cui mal conoscono le esigenze e le insidie. Molti di essi fanno la fine di Josef Knecht nel Gioco delle perle di vetro di Hesse. Perfetto esemplare di alta educazione spirituale in un monastero della Castalia, Josef, quando esce per la prima volta dalla tana, annega nelle gelide acque di un laghetto di montagna perché, pur dominando da virtuoso una infinità di materie dello scibile umano, non sa che qualche specchio d'acqua, placido e seducente per la vista, nasconde trappole mortali per le membra. Non sarà questo - lo dico subito - il destino di Beatrice Rana, prima e finora unica pianista italiana ad aver vinto il secondo premio nel concorso Van Cliburn di Fort Worth. Detto per inciso, il maestro di Beatrice, Benedetto Lupo, era stato il primo e finora unico pianista italiano ad aver vinto in quello stesso concorso il terzo premio. Quasi una dinastia. A quando il seguito?
Un secondo e un terzo premio italiani in uno dei concorsi top. E il primo, mi si chiederà? Qui, apparentemente, casca l'asino, perché il primo e finora unico vincitore italiano del Van Cliburn fu un mio allievo. Simone Pedroni. Tutti coloro che mi conoscono sanno che io non sono affatto un estimatore dei concorsi come si sono evoluti pian piano dopo la seconda guerra mondiale. Sarei uno che predica in un modo e razzola in un altro? No. Ben sapendo di non conoscere a menadito la scala di valori su cui si basano anche inconsciamente le giurie dei concorsi, dopo un paio di tentativi finiti in coda di pesce mi ritirai in buon ordine e affidai Simone al mio amico Lazar Berman, che da buon sovietico maneggiava con disinvoltura la meccanica delle valutazioni e che pilotò brillantemente Pedroni nella conquista del secondo premio al Rubinstein di Tel Aviv, e del primo premio al concorso della Regina di Norvegia e al Van Cliburn. Fui felice dell'esito e mi complimentai caldamente con Lazar. Ma a lui spetta il merito di aver guidato il primo e finora unico pianista italiano alla vittoria nel Van Cliburn. Pianista italiano, allenatore sovietico, con il mentore, che sarei io, in panciolle a godersi lo spettacolo.
Dicevo, e ne sono pienamente convinto, che Beatrice Rana non è una candidata al premio Josef Knecht. E' molto talentosa, Beatrice. Il che significa che possiede in alto grado gli istinti del canto e della danza, riordinati nella musica classica come melodia e ritmo. Canta bene, molto bene, Beatrice Rana. Lo si vede nello Studio op. 25 n. l, che in questo disco è senza dubbio la sua interpretazione più compiuta. Compiuta e tradizionale, e cioè legata alla messa in luce, del tutto legittima, dei legami di Chopin con l'opera italiana. Il che significa che la melodia è intesa come canto accompagnato, non come misteriosa voce senza figura che emerge dai flutti dell'armonia.
Canto e danza sono fattori antropologici che appaiono, con varie modalità, in tutte le civiltà musicali, mentre l'armonia è una costruzione della civiltà occidentale, sia pur basata su un fenomeno fisico ma frutto di strutturazione, cioè di calcolo. Che differenza corre fra lo Studio op. 25 n. 1 interpretato in modo tradizionale e lo stesso Studio interpretato in modo novativo? E' una differenza non di poco conto. Nel primo caso - lo dico chiedendo scusa a Schumann, che la pensava diversamente - abbiamo una specie di canto delle naiadi che si stanno gioiosamente godendo il getto d'acqua di una cascata, mentre nel secondo caso abbiamo il canto della cascata. Uno Chopin - lo ripeterò fra poco - proiettato verso Debussy.
Mi è capitato una volta di paragonare lo Studio op. 10 n. l al quadro di Hokusai, La Grande onda. In quel celebre quadro troviamo la raffigurazione di una enorme onda e di due barchette di pescatori che arditamente ne attraversano la pancia. E' un simbolo che per noi occidentali rinvia a un mito: S. Giorgio che immerge la spada nel ventre del Drago. Debussy scelse il quadro di Hokusai come frontespizio per la partitura del trittico La Mer. Ma fece togliere le barchette. S. Giorgio e il Drago non hanno più voce in capitolo: l'onda è il canto potente del mare, di un mare che non conosce ancora l`uomo, di un mare che non è ancora stato tagliato dalla aguzza prua di una barca che come il filo di una lama lo ferisce, cioè di un mare preistorico, di una natura incontaminata. In Debussy, che poteva conoscere il termine, inventato nel 1866, ma anche in Chopin, che non poteva conoscerlo, troviamo l'intuizione della ecologia, cioè del grande problema di vita o di morte che l'umanità deve oggi affrontare e di cui stiamo diventando sempre più coscienti. Dalla mitologia greca e cristiana alla ecologia del duemila: non è un passo di poco conto.
Proprio a risultati di riattualizzazione dei miti mirava secondo me Beethoven quando rifiutò di esser detto Componist e coniò per sé e per chi venne dopo di lui il termine Tondichter, Poeta del suono. Il Componist, artigiano, soddisfaceva i bisogni della collettività, il Poeta, intellettuale, faceva emergere nella collettività aspirazioni inespresse e le indirizzava verso traguardi che non comparivano ancora sugli orizzonti della vita ma che erano impliciti nella natura dell'Uomo. Beethoven, pensando e componendo da intellettuale del suo tempo, intendeva in concreto educare la collettività alla virtù, alla virtù intesa nel senso dell'etica di Kant. Ma, quali che fossero per lui i significati del termine, è importante capire che cosa la virtù sia per noi. Dobbiamo porci di fronte alla sua musica così come Arnold Böcklin - l'ho citato spesso - ci consiglia di guardare un quadro: "Chiunque si pone di fronte a un quadro deve cercar di capire che cosa il quadro gli dice. Non è assolutamente importante che ciò corrisponda esattamente a quello che il pittore aveva in mente ". Non il colloquio con l'autore ma il colloquio con l`opera, che il pensiero dell'autore lo trascende. Il lettore si rende ben conto di quello che consegue dalla accettazione di questa prospettiva: non è più questione di barocco e di classico, di classico e di romantico, di romantico e di moderno, di moderno e di postmoderno, ma di passaggio, traumatico, dal noto all'ignoto.
Le interpretazioni chopiniane di Beatrice Rana sono chiaramente immature. Nella loro immaturità ci sono tuttavia molti spunti che non le rendono del tutto ripetitive. Quando la difficoltà tecnica non presenta problemi per nessun pianista, la Rana cava dal cilindro qualche idea, in genere non peregrina ma neppure convenzionale, o qualche simpatica birichinata, mentre ricade nella prigione della sua formazione da concorrente quando vuole essere asfaltata dai rapidi "Brava!!!" strozzati dei fan. Allora sfoggia velocità e potenza, e indulge persino in boati, e persino in uno Studio così intimamente sofferto come l'op. 25 n. 7. Lo Studio op. 25 n. 1, dicevo, suona sotto le sue dita tradizionale ma esteticamente impeccabile. Lo Studio op. 25 n. 12, poeticamente analogo al n. 1, non solo non è esteticamente impeccabile ma travalica persino l'esecuzione da concorso, che viene elevata alla seconda potenza. Non è questo, ciò che il poeta del suono Chopin richiede al suo interprete e, visto nell'altra prospettiva, non è
questo, ciò che lo Studio gli dice oggi.
Perché Beatrice Rana casca in questi tranelli? Qui converrà parlare del tipo di addestramento a cui sono sottoposti coloro che, possedendo uno spiccato talento naturale, vengono individuati come potenziali vincitori di grandi concorsi. Nell'Ottocento i talenti in formazione si trovavano di fronte al bivio da cui partivano la strada della virtù e la strada del piacere, cioè la strada della cultura e la strada dell'arte. Pensiamo alle grandi coppie di interpreti opposti, a Hans von Bülow e Anton Rubinstein, a Busoni e Paderewski, a Arrau e Horowitz e, in campo violinistico, a Vieuxtemps e Paganini, a Joachim e Wieniawski, a Ysaye e Sarasate. La strada della cultura era sapienza, oggettività, adesione per lo meno programmatica al pensiero del compositore, la strada dell'arte era creatività, soggettività, adesione alle emozioni dell'interprete. Ci pensò il Novecento, a etichettare la strada del piacere come strada del vizio. L'emozione cambiò il nome in sentimentalismo e fu lasciata orfana di padre e di madre. Fu una drammatica, sebbene sotterranea svolta: l'interprete, ma in parallelo anche il compositore di musica strumentale, rinunciava al sogno di Beethoven e di Paganini e di Liszt, rinunciava cioè a entrare nell'immaginario collettivo, e non si preoccupava del fatto che l`ANAS della strada dell'arte finisse senza colpo ferire nelle accoglienti mani della musica leggera.
Svolta drammatica, dicevo. Ma la indomabile ratio dei concorsi inventò per sé una terza strada. La chiamerò la strada delle coppe, prendendo questo termine dallo sport, Coppa Rimet, Coppa Davis, Coppa del Mondo, Coppa America, Coppa Europa, Coppa Italia, nonché l'immortale Coppa Pìanisti d'Italia. La didattica avvia oggi tutti i praticanti verso la brama della coppa da conquistare, sia della lucente coppetta vera, di materiale scadente, sia della coppa metaforica consistente in un ricco assegno. La strada delle coppe è la strada delle tradizioni, signorilmente anonima e tutta costeggiata da pietre tombali. E così il bivio di Ercole è diventato trivio, sia pure con una delle tre strade talmente malfamata
da scoraggiare il giovane che volesse inoltrarvisi.
La strada delle coppe non è affatto accademica e non conduce affatto alla pedissequa riproduzione della notazione della musica. Anche i più accaniti cultori della notazione sanno che la sua riproduzione letterale è intollerabilmente meccanica. Si tratta allora, ed è cosa di estrema difficoltà, di adottare per ogni particolare la concreta soluzione consegnataci dalle tradizioni. Una volta un mio collega, stimabile persona anche se dotata a mio giudizio di robusti paraocchi, mi fece vedere una copia della Sonata di Liszt, coperta di segni a matita a un punto tale che si distinguevano con difficoltà le note. Segni di espressione. E il mio collega mi assicurò con orgoglio che quella era la vera edizione critica, la summa del sapere di grandi maestri. Mi venne in mente un lungo colloquio che avevo avuto con un vecchio musicista, un tempo addetto all'ufficio noleggi di una importante casa editrice, il quale mi confessò di aver sempre riportato nelle nuove ristampe delle partiture operistiche, senza mai consultare gli autografi che stavano nel caveau, le annotazioni a matita dei maggiori direttori. Certo, se si fosse trattato di materiale per la storia dell'interpretazione, raccolto in modo ragionato, non meccanico, quella specie di edizione critica collettiva avrebbe potuto essere preziosa. Ma si trattava in concreto della imbalsamazione di un testo che suggeriva invece inesauribili altri modi di lettura.
L'addestramento da concorso consiste nella alta e disinvolta definizione di una infinità di particolari, lavorati tecnicamente senza che se ne conosca più la radice emotiva. Definizione della infinitesimale sfumatura dinamica e della infinitesimale sfumatura agogica di ogni nota fino a riprodurre esattamente, a piacere e senza patemi d'animo, tutto quello che si è messo industriosamente nel fienile. Alta definizione tecnica, dicevo, cioè alta definizione della esecuzione. Se i concorsi aspirassero a individuare e premiare gli artisti in nuce dovrebbero valutare l'alta definizione dell'interpretazione in una esecuzione passabile. Nella distorta ottica che li guida è invece passabile l'interpretazione, che è passabile perché non infastidisce, perché non urta nessun componente la commissione giudicatrice che sappia come ci si regola nei concorsi, dove si assegnano voti senza, in genere, discutere del voto le motivazioni. E senza che si conosca la scala dei valori alla quale si fa riferimento per inveterata abitudine.
l vecchi lupi delle commissioni giudicatrici sanno classificare nello stretto spazio fra il 3 e il 4, fra il 7 e l'8 e così via nove concorrenti, ciascuno con il suo bravo decimale che lo distingue dagli altri e che può diventare decisivo quando si fa la media matematica dei voti. Ma si può per davvero sentire la differenza fra una esecuzione da 3,10 e una esecuzione da 3,20? I vecchi lupi dicono che si può e, se provocati, lo dimostrano tirando fuori dalla borsa tabelle su tabelle. Il peggio del peggio arriva però quando due vecchi lupi sono radicati in due "scuole" diverse, ad esempio la russa e la francese. Durante le sedute di commissione non si discute: si vota e basta. Ma talvolta si discute poi, davanti a un piatto di
spaghetti al tonno o di pescetti fritti, così, tanto per sport. E allora salta fuori un paradosso non di poco conto: un 3,80 e un 7,25 sono stati assegnati allo stesso candidato da due commissari diversi per le stesse, identiche ragioni. Non sono mai stato un assiduo frequentatore di giurie, ma ho fatto comunque un certo numero di esperienze ai massimi livelli. E assicuro il lettore incredulo che ciò che dico l'ho vissuto, sia pure non giornalmente, ma nemmeno a ogni morte di papa.
lo non intendo affatto mettere alla berlina i componenti le commissioni di concorso, che sono persone del tutto rispettabili perché credono onestamente in quello che fanno. Però i concorsi non sono oggi una infrastruttura fra la scuola e la vita, sebbene credano di esserlo. Sono un gioco, un gioco che ha le sue regole e che viene giocato secondo le regole. Gli scacchi sono un gioco, e il gioco degli scacchi ha le sue regole. Ma il risultato - vittoria o sconfitta o patta - lo da la scacchiera, non una giuria. Gli esiti che si raggiungono con la giuria sono invece casuali: capita che arrivi il risultato che - si vedrà poi, alla prova dei fatti - era quello giusto. E capita che il risultato sia poi seguito, alla prova dei fatti, dalla assegnazione della Coppa Josef Knecht. La strada delle coppe, ho detto, è fiancheggiata da pietre tombali. Ma al largo delle pietre tombali ci sono, ben piantate sul brullo arido terreno, una infinità di croci.
Riprendo la recensione. Sotto le dita di Beatrice Rana gli Studi op. 25 scorrono tranquilli davanti ai nostri occhi, tutti con il vestito della festa e il fazzoletto nel taschino perché il dominio della esecuzione non solo è senza falle, ma è di gran classe. L'ascoltatore prova interesse per le idee, prova divertimento per le birichinate, prova un certo fastidio per le forzature virtuosistiche e soprattutto per i boati. Ma forzature e boati sono peccati veniali che spariranno quando Beatrice avrà raggiunto la convinzione di poter contare sul successo assicurato senza bisogno di spendersi in capriole e salti clowneschi. Non manca però il peccato mortale, rappresentato dai quattro grandi accordi che chiudono lo Studio n. 8. I quattro accordi vengono sparati come palle di cannone. Non si tratta però di palle di cannone. Si tratta di due cadenze, perfetta la prima, plagale la seconda. E mentre la prima cadenza è strumentata pianisticamente in un modo usuale, la seconda è strumentata con una sonorità così gioiosa e così seducente che ti fa allargare il cuore e ti fa inumidire gli occhi dalla felicità. Intendere due cadenze come quattro palle di cannone, ripeto, è un peccato mortale. Che viene replicato alla fine dello Scherzo n. 1 e dello Scherzo n. 2, di scritture analoghe a quella dello Studio.
Se vengono tenuti lontani dal Muro del Pianto gli Studi, in fondo in fondo, sono dolci o vivaci mammolette che non turbano i sonni di nessuno. I quattro Scherzi sono cardi selvatici e spinosi che ti graffiano e ti feriscono. Il loro humus è la spianata del Muro del Pianto, che è, beninteso, sia pianto di dolore che pianto di gioia. Affrontandoli tutti e quattro insieme si possono perseguire tre finalità diverse: artistiche, culturali, collezionistiche. Il più delle volte la finalità che viene raggiunta, anche se non voluta, è proprio il collezionismo. Ma questa scelta ha un senso quando gli elementi della collezione presentano molti tratti in comune. I quattro Scherzi di Chopin hanno in comune solo il nome - che rispetto ai contenuti è paradossale -, il metro ternario, la forma con alternativo ma articolata in modi molto diversi. Beatrice Rana ci propone la galleria di tutti i figli di Chopin iscritti in un genere, in un club. Ed è un po' poco, oggi. Qualche idea che appare qua e là non è priva di interesse, specialmente nello Scherzo n. 2. Ma una piccola imprecisione ritmica che appare fin dalle prime due battute della composizione e che ritorna poi sistematicamente basta a guastare il panorama. Quattro Scherzi, quattro momenti della evoluzione sia artistica che spirituale di Chopin, quattro vicende contrastanti e drammatiche della sua vita. Meglio affrontarli uno alla volta, o non affrontarli mai tutti se non ci si sente all'altezza di rendere loro giustizia. Come fece Arturo Benedetti Michelangeli, che da semplice ma dovizioso collezionista avrebbe potuto sbrigarli nel giro di poche settimane e che invece, da autentico artista, si tenne sempre alla larga dal Terzo e dal Quarto. Saggia persona, il nostro vecchio Ciro.
Piero Rattalino
("Musica", n. 329 settembre 2021)
1 commento:
Rattalino parla di altro . Il disco è favoloso
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