Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, giugno 26, 2020

Requiem italiano per Wagner

Richard Wagner (1813-1883)
Per aver prediletto l’Italia nelle circostanze liete e tristi della sua vita Wilhelm Richard Wagner, fucinatore di sublimi accenti musicali, poetici e drammatici, merita da parte nostra una sentita orazione di lode e ringraziamento. Ed in questo ricordo non possono essere trascurati i cenni biografici più rilevanti della vita del Grande di Lipsia.
Dieci le sue Opere, dalle "Fate" 1833 al "Parsifal" 1882. Numerosi i vari "Lieders", una sinfonia, brani sinfonici fra i quali spicca "L’Idillio di Sigfrido". Ma Wagner oltre che compositore, drammaturgo, poeta, fu anche acuto scrittore fin dal suo primo lavoro - appena quindicenne - "Leubaldo ed Adelaide". dramma che si rivelò nutrito di Shakespeare, Goethe, Amleto e Re Lear. Seguirono gli scritti teorici che palesarono il suo pensiero: "La musica del1’avvenire" 1850; "Musica e dramma" 1851; "La mia vita" 1871.
E' d’obbligo anche menzionare il suo primo componimento musicale "Capricci dell`amante" di tendenza pastorale scritto senza avere nozione degli strumenti mentre solo più tardi sarà la "Jupiter" di Mozart ad attirarlo e spronarlo ad allargare il suo trasporto musicale.
Si sa che Wagner fin dagli albori del suo crescere nell’Arte, si orientò verso la leggenda, l’allegoria, la favola, l’esaltazione degli Dei e degli Eroi, verso tutto ciò che profumava di antica dottrina ellenica. Fu appunto tale concezione che si richiama al Mito a caratterizzare l’intimo tormento della sua poliedrica attività di artista.
E anche se della vita di Wagner son piene le fosse, di Lui si scopre sempre nuova materia per parlarne, specie quando si presentano quelle ricorrenze che ci riportano la sua voce musicale. L’Autore del "Rienzi", sua prima vera Opera che nel 1842 trionfò a Dresda e mitigò poi le poco lusinghiere accoglienze riserbate al "Vascello fantasma", non ebbe certo vita facile ed esemplare. Tanto furono turbolenti i suoi passaggi di crescita, quanto furono egualmente prolifici i suoi estri di artista fecondo, le sue speranze, tutto il suo lavoro inquadrato in un carattere egocentrico ed intollerante. Fu poeta, musicista, scrittore a volte a volte, o sempre fu insieme di queste tre virtù fedele interprete?
Non fu certo scevro di sregolatezze. Conquistatore o conquistato, per Lui la donna. la presenza femminile fu in ogni momento determinante e mise a giusto passo l’altalena della sua vita di nomade costretto più dagli eventi che dalla sua volontà.
Teresa Ringelmann e Federica Galvani, due Coriste del Teatro di Würzburg ove Wagner era Maestro del coro, furono i primi sogni del suo cuore. Poi: Minna Planer (moglie nel 1836); Guglielmina Schröder-Devrient che guidò Richard nei meandri dell`arte drammatica; Matilde Wesendonk forse ispiratrice del "Tristano" che usò ogni mezzo per avvicinare Wagner a Francesco De Sanctis esule a Zurigo; Cosima Liszt, moglie di Hans von Bülow e moglie di Richard nel giorno di Natale del 1870; Elisa Wille conosciuta a Venezia che chiama "bambina, bambina mia"; Blandina Ollivier, Serafina Mauro, Federica Meyer, la Marietta compagna della solitudine di Penzing che lascia per rifugiarsi ancora una volta in Isvizzera dove a Mariafeld - presso Zurigo - è ospitato da Elisa Wille. E ancora: Judit Gautier la cui presenza da Lucerna a Triebschen allevia le amarezze patite da Richard a Monaco. Ultima donna nei pensieri di Wagner fu forse Miss Carrie Pringle rassomigliata come una delle "fanciulle fiori".
Ugualmente determinanti nella vita di Wagner furono le amicizie, i riconoscimenti, gli aiuti. Bellini gli andò a genio tanto da indurlo a dirigere la "Norma" a Magdemburgo; i salotti parigini lo accostarono a Heine, Berlioz, George Sand. Mendelssohn, quest’ultimo pieno di sussieguo e noncuranza. I suoi amici-nemici furono Rossini, Donizetti, Meyerber, Halévy, Verdi col quale però non s’incontrò mai. I suoi vicini in arte: Gluck, Mozart, Spontini. Ma c'è qualche donna ancora da citare: Jessie Taylor diciottenne poi signora Laussot, e Giulia Ritter che gli furono prodighe di aiuti a Parigi. Anzi la prima nell’esaltazione di un viaggio immaginario in Grecia intrecciò con Richard una breve relazione amorosa.
E c’era anche Liszt che pur lontano lo stimolava nel lavoro: "l’ammirazione che ho per il tuo genio non potrebbe adattarsi a sonnolenti abitudini e a sterili sentimenti. Per te, per la tua gloria farò tutto ciò che mi è possibile". Così l’autore delle celebrate "Rapsodie Ungheresi", orgoglioso di aver presentato per la prima volta in pubblico il "Lohengrin" scriveva a Wagner ed era il tempo della "Morte di Siegfried".
Su tutti però la figura e la protezione di Re Luigi II di Baviera, lasciò indelebili tracce. "Voi siete e resterete, attraverso i tempi e l’eternità, il mio unico amore" questo scriveva il Re al suo protetto che gli rispondeva: "O mio Re tu sei divino". Ed è il diciottenne munifico Re a liberarlo dalle ristrettezze economiche in cui si dibatteva, a spronarlo per un lavoro più fiducioso, ad offrirgli dimora ed agiatezze. Ma su questa protezione di dubbia interpretazione passionale si addensa la calunnia, la diceria, la malvagità così che il Re si vede costretto ad allontanare Wagner dalla sua Corte.
Altro profilo della vita del Cantore dei Nibelunghi fu segnato dai suoi risvolti politici che spesso lo costrinsero in esilio, approfittando dell’ospitalità dei suoi amici svizzeri. Zurigo, Ginevra, Vevey, Lucerna ed in ultimo Triebschen, queste le sue tappe di fuoruscito. Qui inizia il rapporto con Federico Nietzsche: prima amicizia poi incomprensione; evidentemente Zarathustra non accettava gli accenti religiosi del "Parsifal". Ancora qui avviene il secondo matrimonio di Richard che sposa Cosima Liszt divorziata da Hans von Bülow. La prima moglie: Christine Wilhelmina Planer detta Minna era morta nel 1866.
Ma nel vivo di questa nostra disamina dobbiamo completare il quadro parlando di un Wagner italiano, amico del nostro paese. Affacciandosi sulla nostra penisola lo incantano il Lago Maggiore e la suggestiva quiete di Pallanza. Da Torino a Genova, a La Spezia, oziando stanco e sperduto per le pendici della riviera ligure lo stupiscono i silenzi, i suoni vicini e lontani delle bonacce, il minaccioso spumeggiare delle onde. Ritrova forse qui i toni più accesi della sua musica di paradiso e d’inferno, incontra forse qui le voci preludio all’"Oro del Reno".
Il 19 novembre del 1871 al Comunale di Bologna, sotto la direzione del M° Angelo Mariani e nella traduzione di Arrigo Boito si rappresenta "Lohengrin". Arrigo Boito diventa "l’amico italiano", Richard Wagner viene eletto cittadino onorario della Dotta.
Ma l’amore di Wagner per il Paese di Dante la cui conoscenza aveva arricchito la sua cultura letteraria, si manifesta con il soggiornare a Palermo ove quella società di notabili lo riempie di feste; dal principe Lanza di Trabia al conte Lucio Tasca d'Almerita, al principe Gangi che gli fa lasciare l’albergo per farlo abitare nella sua villa di Porrazzi che ricorda una paginetta di musica wagneriana chiamata appunto "Tempo di Porrazzi".
A Perugia partecipa alle onoranze in memoria di Francesco Giuseppe Baldassare Morlacchi che lo precedette quale Maestro di Cappella alla Corte di Dresda. Visita anche Siena, resta in Italia quasi un anno ed a Napoli assiste ad un saggio degli allievi del Conservatorio S. Pietro a Majella: siamo nel 1879. Ancora a Napoli con la sua piccola Corte ed il suo fedele pianista Joseph Rubinstein abita a Villa Angri di proprietà di Marcantonio Doria, Principe d’Angri, presa in affitto per Wagner da Malwida von Meisenburg, doviziosa mecenate. Qui sulla ridente collina di Posillipo sente Napoli come una sua città e la sua già malferma salute si giova del calore e della quiete mediterranea. Va a Ravello e nell’incanto della costa amalfitana visita e sosta a villa Rufolo ove sul libro dei visitatori illustri scrive: "ho trovato il giardino di Klingsor". Già mentre era ancora a Palermo il pittore Renoir aveva ritratto Wagner irrequieto nel posare. Sarà l'ultima effige dell’autore del "Parsifal", opera che a metà gennaio del l882 è completata e per 16 volte si rappresenta a Bayreuth.
Ma l’inverno è vicino e dove attingere forza e serenità, dove raccogliersi nel ricordo del bene e del male che ha goduto e patito, dove se non in Italia? Sceglie Venezia, la laguna lo affascina, palazzo Vendramin lo attende e lo attende una gondola più nera delle altre per trasportarlo, in corteo di morte attraverso il Canal Grande mentre lo sciabordio del remo canterà una nenia di lontane lacrime. Poi sarà sepolto nel suolo di Vahnfried, la casa di Bayreuth.
Cosima che gli fu vicina per diciotto anni, gli sopravvisse quasi mezzo secolo dedicandosi incessantemente a rinverdire le sacre e gloriose memorie del suo Richard.
Il mondo gli offrì dopo la morte volumi bibliografici di immenso interesse, il nostro Gabriele d’Annunzio nel 1893 sulla "Tribuna" - caso Wagner - auspicò che giungesse un giorno in cui "il gusto della musica si facesse più profondo" e l`azione drammatica fosse "velata ed occultata, ridotta ad un'apparenza vaga quasi retrocessa in una lontananza chimerica per modo che sui nervi dell'uditorio abbia un predominio quasi assoluto la sensazione musicale integra".
Napoli, nel suo San Carlo - unico teatro italiano che ha solennizzato il centenario - nello stesso giorno della morte di Wagner gli ha dedicato l’esecuzione della "Messa di requiem" che Verdi scrisse per un altro grande, il Manzoni. Ha diretto Aldo Ceccato (che l'estero ha allontanato dai teatri italiani) ed ha saputo ottenere dall’orchestra sancarliana e dal coro un apprezzabile risultato d`insieme per il quale hanno dato valido contributo i solisti Cesare Siepi, il tenore Savastano, Annabelle Bernard, Margarita Zimmermann.
Gaetano Rotondella
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXVI, n. 3, settembre 1983)

domenica, giugno 14, 2020

Gianfranco Zàccaro: dove va il linguaggio musicale?

Il linguaggio dei compositori più giovani (quelli definiti, con varietà d’accenti e d’intonazioni, "neo-romantici", "neo-galanti", "neo-banali", ecc.) dà luogo a due tipi di reazioni. Da una parte, una certa preoccupazione per quello che apparirebbe come una sorta di disimpegno; dall’altra, un "finalmente" sin troppo enfatico (ma val la pena di ricordare che, dinanzi a ogni sorta di soluzione, progressista o attardata, interessante o banale, capziosa o limpida - qualche personaggio servizievole che dica "finalmente", lo si trova sempre).
Entrambi gli atteggiamenti, appaiono quantomeno sfuocati. Non tengono conto, infatti, che il grafico della produzione "d’arte" esprime, ormai, un rapporto maggioritario con se stesso, col proprio "io so", col proprio "sono costretto a sapere certe cose e a ignorare ciò che, in queste cose, non sia pienamente integrabile". Non tengono conto, cioè, che il rapporto col mondo, già ipermediato all’epoca dei primi espliciti tentativi solo di sopravvivere (le avanguardie storiche), lascia passare, ormai, segnali pressoché irrilevanti. Certo, si potrebbe dire, usando l’ennesima parafrasi, che, se il mondo non risulta dalla musica ("d’arte"), tanto peggio per il mondo. Certe cose, però, è bene saperle; ed è ancor meglio tenerle costantemente presenti.
Si dice, anche, che in musica, essendo accaduto tutto, nulla può avere, di nuovo, interesse: né traumi di rottura, né, tanto meno, traumi (indotti) di ricomposizione, di reintegrazione linguistica. Non sapremmo proprio dire se, in effetti, sia accaduto tutto; sicuramente, con la "nuova musica", è accaduto molto. Solo che codesto "molto", liberato dalla dialettica col mondo voglio dire dalla ricezione e dal rendiconto a una pluralità tendente verso un che di comune, è accaduto sopra se stesso. E' accaduto da, con, per e verso se stesso. E la questione infine più valida o quantomeno più autenticamente drammatica della "nuova musica" - cioè, la sopravvivenza del singolo: teoricamente e passivamente maledetta da una sinistra istituzionale almeno contraddittoria e sospetta - è data per superata o, meglio, per non più attiva. Forse il nuovo linguaggio da cui prende l’avvio il nostro discorso, deriva proprio da questo: che vivere è meglio che sopravvivere. In pratica, la nuovissima musica ha rinunziato ai condizionamenti, e con essi anche ai dolorosi e tortili privilegi, della cultura: cioè, a un sia pur solo ideologico protagonismo.
Ovviamente, non si può colpevolizzare qualcuno o qualcosa, a causa di codesta tendenza. Soprattutto perché è errato il concetto, sia pur dilatato al massimo, di colpa. La validità di tale concerto, infatti, presupporrebbe non solo una "cultura" paleocentrica da difendere, ma anche l'esistenza di una "cultura" tout-court, sia pur solo da scagliarcisi contro. Piuttosto, l’esistenza di un linguaggio come quello usato dai compositori più giovani (ma non solo da essi, come vedremo), è il frutto più normale, persin più ovvio, dell’allentamento di tensioni autentiche (cioè non costruite su una serie infinita di presupposti) all’interno del campo significativo dei riferimenti riconducibili agli elementi del linguaggio e alle loro possibili concatenazioni. E codesto allentamento di tensioni, a sua volta, deriva (e siamo, qui, alla scoperta dell’acqua calda) dall’assoluta non incidenza sul mondo, dalla parzialità surrogante con concetti e con ideologie, del modus operandi e delle tensioni dell'eurocultura.
Sono state necessarie queste nuove esperienze linguistiche, per comprendere definitivamente che cultura e mondo sono due entità separate e, ormai, lontanissime. Del resto, che anche gli ormai anziani rappresentanti della "nuova musica" (da Nono a Donatoni, a Berio, ecc.) abbiano recuperato, con disperazione più o meno esplicita, la dimensione, se non della godibilità certo del riconoscimento immediato in zone linguistiche cariche di un passato fruibile senza fratture 0 senza altri filtri da quelli che "fanno" l’opus - anche questo fatto dimostra non che il mondo sia lontano dalla musica, ma che si è preso pienamente atto di codesta lontananza, dell’assoluta non interferenza dell’uno sull’altra. Anche qui, e non importa se poi contraddetta da dichiarazioni o da proclami, la rinunzia a ogni protagonismo (ideologico).
"Dove va il linguaggio?". Se il "va" presuppone l'esistenza del mondo, il linguaggio non "va". E, questo, da un bel pezzo. Solo che c’era, fino a ieri, la possibilità di occultare questo "non" con l’enorme carica di presupposizione ideologica che era anche, per la "nuova musica", l’impulso per una ricerca che, per tali ragioni, aveva la non insensata, anche se illusoria, pretesa di porsi come essoterica, di essere verificabile politicamente (e solo uno lo ha fatto fino in fondo: Franco Evangelisti). Con le ultime esperienze, il mondo - recuperato un po' ipocritamente e ingenuamente, a livello di proclama, attraverso la categoria del "gradevole" - ha dimostrato proprio di non esserci, di essere del tutto estraneo all'evoluzione della problematica della musica d’arte. Se venti-trent’anni fa non c’erano le condizioni perché la ricerca si svolgesse su materiali comunitari (e perché la musica fosse, detto in soldoni, "facilmente comprensibile"), non si vede come, oggi, codeste condizioni siano mutate sì da generare una "facile comprensibilità". Si tratta solo, ripeto, della conferma dell'estraneità totale del mondo dalla musica. E preoccuparsi, o rallegrarsi, di questo, vuol dire - ancora una volta - avere in mente il modello dell’antico protagonismo ideologico, cioè assecondare l’antica schizofrenia della comprensione della musica a prescindere dalla comprensione del mondo.
Il non protagonismo (o, se si vuole, la cessazione d’ogni illusione protagonistica) consente, alla musica, una più concreta possibilità di frequentazione del potere; e consente, al potere, un uso più disinvolto, molto meno imbarazzato (per via delle famose "contraddizioni sulla pelle": che non ci sono più), della musica. Le due entità - potere e musica -, probabilmente, avevano bisogno l’uno dell’altra: senza che quello fosse più obbligato a palesarsi bieco e incolto; e senza che questa vestisse panni troppo attardati e ignari. La pace, comunque, è fatta: e, questo, si può dire per il semplice fatto che, anche a guardare col microscopio, non si individua un motivo di conflitto che è uno. Anzi, il conflitto è aura: oggetto d’allusioni, in caso di necessità, o di ricordo, o di quello che volete voi. Ingombrante, in nessun caso. Ripeto: le cose, basta saperle. E il nuovo linguaggio ha questo, di bello: che non te le nasconde certo. A tal punto, che prendersi lo spazio per le condoglianze (o per le felicitazioni), è già un arbitrio.
Gianfranco Zàccaro
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXV, n. 1 - gennaio 1982)

sabato, giugno 06, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (9/14)

Non è la non-musica che forma il musicista,
bensì la Musica; la musica che rientra nell'ambito sensibile è
sempre prodotta dalla Musica che la precede.
PLOTINO, Enneadi, V, 8, 1
 
LA MUSICA AL VERTICE DEL MONDO
Nona parte.
 
La Città Nuova di Sant'Elia, 1914
Nella storia del pensiero musicale assunto in termini filosofici, Platone spicca come un caso d'emergenza, e chi lo affronta corre l'alea non senza turbamento o quasi con timorosa emozione. Parliamo d'emergenza in due significati distinti. In primo luogo, il pensiero platonico rappresenta, nei confronti della musica, un punto di altissimo e difficile equilibrio. Esso si colloca in una zona intermedia tra l'indagine propriamente scientifica ("fisica", secondo il termine usato in quell'ambito culturale) attivata dai teorici della musica, Aristotele, Archita, Aristosseno, Ctesibio, e la visione ontologica cara alla tarda filosofia pagana e alla prima filosofia cristiana. L'immagine che Platone dà della musica non è di natura ontologica, ma piuttosto d'indole metafisica. Questa formula distintiva presuppone la necessità di definire termini che spesso si confondono, generando rovinose incomprensioni. L'ontologia è la meditazione sull'essere di cui abbiamo coscienza, la metafisica è la coscienza dell'essere che a noi manca. Alla domanda "che cos'è la musica?", Platone preferisce l'altra, "dov'è e com'è la musica che non è qui e dalla quale tuttavia la musica che è qui deriva e dipende?". Sotto quest'angolo visuale, Platone, che appare spesso lo specimen e il modello riassuntivo dell'antica filosofia della musica, è invece piuttosto un'eccezione, un caso emergente, e il suo valore di assoluto termine di riferimento deriva dalla sua eccezionalità inattingibile. Infatti, malgrado l'onnipresenza di Platone nella speculazione antica e medievale sulla musica e gli innumerevoli passi testuali in cui egli è citato nel corso dei secoli, la maggior parte dei musicografi pagani e cristiani, da Aristosseno a Zarlino, da Boezio a Glareano, sceglie la via o dell'analisi tecnica o della definizione ontologica.
Parliamo di emergenza anche in un secondo significato, che ci riguarda direttamente. Addentrarsi nei testi platonici è un cammino da iniziati, è lo schiudere una porta dopo l'altra, il togliere lentamene leggeri veli sovrapposti, è finalmente l'aprire una cortina che si crede ultima, oltre la quale si spera con tremante emozione di vedere la statua ormai svelata di Iside, e l'accorgersi con sacro terrore che oltre lo schermo c'è un altro diaframma. Ci vengono meno, allora, gli istanti necessari a quel gesto che potrebbe essere ultimo, poiché il tempo ci sfugge, sottraendoci la nostra vita individuale e il nostro individuale impegno nella filosofia. Nella sua classica monografia (Platon, Presses Universitaires de France, Paris 1968, seconda edizione che amplia la prima edita da Alcan, Paris 1935; trad. it. di Francesca Calabi, Platone, Cisalpino-Goliardica, Milano 1988), Léon Robin ha descritto nella conclusione un simile stato d'animo: "Un aspetto del pensiero di Platone è l'inquietudine che incessantemente lo stimola. Sempre in cerca della verità, è veramente 'filosofo' nel senso stretto del termine, e ciò, come afferma con fiera probità il Fedro, 278 cd, perché in questo atteggiamento è la nobiltà della condizione umana. Si rinuncia cioè al postulato iniziale secondo cui vi è una dottrina platonica che certo comporta un'evoluzione ma il cui orientamento generale non è tuttavia cambiato? Rinunciarvi sarebbe ammettere che può esserci ancora filosofia là dove il pensiero fluttua capricciosamente, senza sforzo di sistematizzazione, senza aspirazione verso una intelligibilità sempre più ricca. Come dire che la ricerca delle idee chiare e distinte potrà un giorno fissarsi senza speranza di un progresso ulteriore? Sarebbe accettare per il pensiero un'inerzia mortale" (trad. cit., pp. 228-229, con mie correzioni).
Il passo di Robin illumina il carattere metafisico della ricerca platonica. Per l'oritologo, l'attività filosofica è un'osservazione che esige tranquillità: l'oggetto studiato è messo a fuoco lentamente, visto e osservato da fermo, sottoposto a una lente d'ingrandimento, fino a quando la totalità della forma e della materia si fa eloquente e sembra dire di se stessa: "Io sono così, in verità". E' un atteggiamento di natura scientifica, quasi da laboratorio. Il metafisico corre continuamente il rischio di avventure, è soggetto a drammatici traumi, affronta svolte e colpi di scena, il suo problema non è tanto di vedere meglio il visibile ma di vedere per la prima volta l'invisibile, o togliendo pericolosamente uno schermo da altri dichiarato inviolabile o addirittura intuendo all'improvviso, secondo una celebre favola narrata da Platone stesso, che finora si sono gettati sguardi dalla parte sbagliata, e che è urgente voltare le spalle al fondo della caverna guardando dalla parte opposta, verso la luce che filtra dall'apertura. Il metafisico ha una vita interiore d'indole romanzesca, e Novalis la rappresentò magicamente nel romanzo iniziatico Die Lehrlinge zu Sais, in cui Hyazinth viola i comandamenti del maestro, fugge nel deserto, entra in piena notte nel tempio sacro a Iside, accede con tremore al vestibolo, scosta dopo mille esitazioni il velo, e scopre la statua della dea che però si anima, e l'amata Rosenbliitchen gli viene incontro. Platoniè l'ammaestramento delle incantevoli forme simboliche: verità (Iside) e bellezza (Rosenblütchen) sono tutt'uno, ma la Verità ultima sfugge sempre per un soffio. Per quanto ci riguarda, lo accettiamo con sollievo.
Veli, schermi, nubi mistiche in cui la filosofia apre un varco all'estasi, limpide sfere celesti in cui gli arcani si mantengono eterni, cristalli iperuranici che racchiudono la Verità incorruttibile: nel suo nucleo, la suprema verità dei suoni. L'avventura del metafisico ha la forma di un itinerario, di una navigazione intellettuale guidata dal nous. Con questa parola ellenica, liquida come l'acqua, vibrante come la corda di una forminx, frusciante come il vento, Platone indica l'intelligenza universale e pura. La parola ha un rilievo di alta origine e di prezioso suggello in tutta la tradizione, prima del filosofo ateniese (Omero, Eraclito) e dopo di lui (gli stoici, i neoplatonici). Ma occorre distinguere, per non tradire l'eccezionalità di Platone. Il maestro dei neoplatonici e lume della tarda cultura pagana, il greco-egizio Plotino, accoglie la navigazione platonica come una religione rivelata, ma la sua rotta è diversa e solitaria. La sua verità è interiore, il suo oggetto è l'anima, e il nous è inteso da lui in senso psicologico, etico e religioso, come la guida della ascesi morale volta alla purificazione, alla sfera psichica in sé chiusa e separata dal mondo esterno. Penetrando nelle pieghe della psiche, sempre al limite dell'estasi (come narra il suo discepolo Porfirio), Plotino spingeva l'incuria della propria persona ai più repellenti estremi: orrendamente sudicio, quasi cieco per il troppo leggere e scrivere, eppure ricercato dai medici, dai letterati, dai senatori e dalle dame eleganti che affollavano il cenacolo di sodales da lui fondato a Roma. La qualità estetica del mondo esterno, materiale, sociale, gli era indifferente, così come egli non avrebbe saputo dire se l'Uno, l'ente supremo al vertice dell'architettura filosofica plotiniana, abbia in sé bellezza. La bellezza va cercata "dentro", nello spirito. E' l'idea che domina lo splendido trattato VIII della quinta Enneade, intitolato Della bellezza intelligibile (Perì toù noetoù kallous), parzialmente tradotto da Goethe che lo ammirò. Plotino, che con il disprezzo del proprio corpo e del mondo corporeo si avvicina al carattere del fachirismo induista, interpretava con quest'animo, nel suo trattato, anche la dicotomia di musica e non-musica (amousia) da noi citata in exergo: musica e non-musica sono condizioni interiori, possibilità latenti nell'animo, ed emergenti soltanto nella coscienza di un musicista ispirato. Nella visione platonica, esse sono presenti nello spazio sovramondano, ed esistono con assoluta e metafisica oggettività. La Musica-Verità è meta della navigazione intellettuale, e il mare che dev'essere solcato è al dì fuori: il problema non è tanto il sondarlo, ma il rintracciarlo. A tale luminosa oggettività corrisponde, in Platone, l'attenta cura del mondo sociale esterno, della propria persona, del decoro e dello splendore visibile: il mondo, nel pensiero platonico, è armonia imperfetta, pallida immagine di un'armonia di idee iperuraniche, e fili saldi e sottili legano le bellezze della sfera naturale alla Bellezza delle sfere celesti, laddove nei testi di Plotino la materia è accusata di degradazione irrimediabile, addirittura di nullità.
L'unicità di Platone è il suo talento nell'enunciare idee di natura radicalmente metafisica (soltanto la cultura scientifica, renitente al concetto di ontologia, potrebbe dire: "di natura visionaria") mediante immagini, racconti quasi fiabeschi, miti accesi da ciò che Vico chiamò "corposa fantasia". La teorizzazione della sublime ed eterna musica posta al vertice del mondo. Riserviamo alla prossima puntata un commentario di carattere musicologico; qui ci limitiamo ad enunciare la celebre invenzione mitica che si trova alla fine della Repubblica. Il racconto è solenne e misterioso, come il gran finale di un'ardua composizione corale e sinfonica. Il senso di mistero è ispirato da due motivi. Il primo è la stessa immensità del grande dialogo, articolato in 10 lunghi libri, ciascuno dei quali è più ampio di uno qualsiasi dei dialoghi più "vissuti" e narrativi: Critone, Fedone, Simposio. E' un'anomalia che la Repubblica (o Politeia, come suona il titolo in greco) condivide nel corpus platonico soltanto con le Leggi (o Nomoi), i cui tre lunghissimi libri quasi superano per vastità il dialogo di cui parliamo. Il fatto che Platone abbia posto la propria massima riflessione sulla musica proprio alla fine del suo maggiore monumento letterario, dopo averla promessa, suggerita, anticipata con la debita suspense in altri dialoghi, orchestrandola finalmente con la grandiosità di un inno in un testo in cui la tensione diviene massima, come avviene nell'ultimo canto del Paradiso dantesco o nel finale del goethiano Faust, non lascia dubbi sull'importanza del mito e sul significato altissimo che il filosofo gli attribuisce. Il secondo motivo di mistero è la collocazione del mito di Er nella zona più interna della sfera esoterica, lungo l'itinerario intellettuale che l'autore chiama "la seconda navigazione". La denominazione, e la successiva definizione, si trovano in un passo del Fedone (99 b-d) in cui Socrate spiega a Cebete quale causa tenga insieme tutte le forze dell'universo. Nel linguaggio dell'antica arte marinara, "prima navigazione" era quella che si compiva spinti dalla forza del vento, mentre "seconda navigazione" era quella che si intraprendeva quando, caduto il vento, si poneva mano ai remi. Nel linguaggio platonico, la prima navigazione simboleggia la ricerca da lui compiuta sulla scia dei filosofi naturalisti (Talete, Democrito), spinto cioè dal vento della filosofia applicata alla physis, che presto si fa ingannevole e sospinge fuori rotta. La seconda navigazione simboleggia l'apporto personale di Platone, ossia la ricerca compiuta con le sue sole e proprie forze: quella che, trovando la giusta rotta, porta alla scoperta del soprasensibile e delle idee. L'essenza della musica, nella filosofia di Platone, rientra in questo dominio. Si aggiunga che la meditazione sulla musica e le premesse del mito di Er traggono radice da quei testi esoterici e non scritti, da quell'insegnamento orale confidato da Platone a pochi eletti fra i discepoli, che è difficile ma non impossibile ricostruire per congettura, e su cui Giovanni Reale, in un libro pionieristico (Per una rilettura e una nuova interpretazione di Platone, CUSL, Milano 1984), ha fondato un'inedita immagine del filosofo e del suo pensiero.
Il mito di Er è esposto a conclusione del decimo libro della Repubblica, alla chiusa dell'intero dialogo e di un'intera fondamentale fase del suo lavoro intellettuale (614 a - 621 c). Conversando con Glaucone, Socrate esordisce: "Ti riferirò il racconto di un valoroso, Er figlio di Arménio, panfilo di nazionalità. Una volta accadde che costui morì in guerra. Furono raccolti, dopo dieci giormi, i corpi dei caduti tutti già disfatti. Egli invece fu raccolto intatto. Lo portarono a casa, ed erano sul punto di seppellirlo. Fu posto sulla pira. Passarono dodici giorni ed egli, che ancora giaceva sulla pira, ritornò in vita. Rianimato, riferì ciò che aveva visto di là".
"Di là", ekei, misteriosa parola che ci promette e insieme ci fa temere rivelazioni inaudite. Questo il racconto di Er. L'anima era appena uscita dal corpo, ed egli s'incamminò con le altre anime di soldati morti tra quattro voragini, due sulla terra e due opposte in cielo. In mezzo c'erano giudici che riconoscevano i giusti e gli ingiusti. Le anime sostarono in quel luogo per sette giorni, assistendo a quel Giudizio Finale. "L'ottavo giorno, tutte si levarono, poiché si doveva procedere. Dopo quattro giorni di viaggio, giunsero in un luogo dove si poteva vedere una linea di luce, diritta, attraversare il cielo e la terra. Essa proveniva dall'alto. Pareva una colonna ed era trascolorante, simile all'arcobaleno: più luminosa, tuttavia, e più pura".
Dopo un giorno di cammino, le anime raggiunsero la colonna di luce, la quale tiene avvinto insieme l'universo con catene. L'universo è un'immensa sfera che contiene tante sfere concentriche. Ai due poli sono saldate le due estremità di un fuso. E' il fuso di Necessità, per opera del quale si compiono tutti i movimenti e rivolgimenti della sfera. Al centro, tra le due estremità, è il cercine del fusaiolo, cuore della sfera universale. In realtà, si tratta di diversi fusaioli concentrici e di varia grandezza, l'uno dentro l'altro, otto in tutto. Visto il cercine dall'alto, si vedono gli orli circolari degli otto fusaioli concentrici; essi hanno uno spessore variabile. Al centro dell'ottavo fusaiolo, il più interno, s'inserisce l'asta del fuso. Ed ora, attenzione: l'intero edificio mitico-musicale si regge proprio sul diverso spessore degli orli concentrici, che offrono all'occhio le diverse superfici estese di altrettante corone circolari. Lasciamo parlare Platone.
" Il primo fusaiolo, il più esterno, presenta l'orlo circolare con la massima superficie estensiva; il sesto per collocazione interna è il secondo in ordine di estensione della superficie dell'orlo; terza per estensione è la superficie del quarto, quarta quella dell'ottavo, quinta quella del settimo, sesta quella del quinto, settima quella del terzo, ottava e quindi la meno estesa quella del secondo. L'orlo del fusaiolo più grande è di diversi colori, quello del settimo è luminosissimo, il colore dell'ottavo è il riflesso del settimo, quelli del secondo e del quinto sono molto simili, più fulvi dei precedenti, il terzo ha un colore candidissimo, il quarto un colore rossastro, il sesto è bianco ma meno luminoso del terzo.
"L'intero fuso, e quindi l'intero cercine di Necessità nel suo insieme si volge con velocità uniforme, ma i sette cerchi interni girano con moto contrario a quello del primo e più esterno, e perciò anche con moto contrario a quello dell'intero fuso e dell'intero universo. In particolare, l'ottavo cerchio, fra i sette interni, è il più veloce; seguono, in ordine di velocità, il settimo, il sesto e il quinto alla pari, poi nell'ordine il quarto, il terzo e il secondo.
Il fuso giace sulle ginocchia di necessità, e una Sirena sta su ciascuno dei cerchi, portata in giro con il moto di ciascun cerchio. Ciascuna Sirena emette un'unica voce: la sua nota. Otto esse sono, e ne risulta un unico accordo".
Er viene giudicato da Clotò, Lachesi e Atropo, le tre Parche, e ritorna in vita, recando con sé il segreto che nella prossima puntata tenteremo di decifrare.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 10, Ottobre 1990, Anno XIV)