Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, settembre 29, 2010

Il silenzio ritrovato: la "sciarpa sordina"

Questo, che vi preghiamo di leggere pazientemente, è un messaggio amabile ed un cortese invito rivolto a tutti coloro che amano veramente la musica

ma...

...indirizzato in particolare a quelli di noi, tutti, presenti all'evento che sta per iniziare, che fossero colpiti da qualsiasi tipo di irritazione tracheo-bronchiale con esito in tosse e lo starnuto di qualsiasi natura.
Prerequisito dell'ascolto è il silenzio. La tosse appartiene al gruppo dei suoni "sgradevoli" e tanto più è intollerabile quanto più è in grado di cancellare, coprendolo, il suono di uno strumento o di una voce, nelle più delicate, flebili, dolci, sublimi ed irripetibili fasi della esibizione.
Non si può demonizzare chi tossisce: ognuno di noi può esserne vittima; né pretendiamo che alcuno rinunci allo spettacolo per il quale ha debitamente pagato l'ingresso o che ricorra a farmaci sedativi spesso inutili o dannosi Ciò che chiediamo con molta, moltissima gentilezza è di seguire le nostre istruzioni per ridurre al minimo l'emissione fragorosa.
Dopo una lunga serie di prove pratiche, abbiamo concluso che un accessorio molto elegante dell'abbigliamento di Signore e Signori, molto usato durante le stagioni inclementi, può servire al caso nostro. Ci riferiamo alla sciarpa.
Sì, una sciarpa, ma con caratteristiche particolari. Deve essere di lana, eseguita e prodotta con una tessitura molto spessa, tenace e tale da rappresentare una barriera insonorizzante che assorba e catturi ogni "espirazione rumorosa".
Tenuta a portata di mano, ripiegata una o più volte per ispessirla, esaltandone il risultato, si porta a coprire naso e bocca, premendola vigorosamente con le due mani su bocca e naso.
Tutto qui. Per questa sua incredibile dote naturale l'abbiamo battezzata "Sciarpa sordina".
Sorridete pure ma provate tutti. Nessun costo, nessuna controindicazione sulle patologie in corso, l'espirazione avverrà, ma ... silenziosamente, o quasi. Ci auguriamo che tutti adottino il metodo, invero molto semplice, in attesa che altri propongano di meglio.
Aggiungiamo che restare in silenzio è rispetto per chi ci offre il meglio della sua arte, per chi ascolta come spettatore e per le Direzioni Artistiche degli Enti Teatrali che hanno scelto i programmi.

Un allievo della Scuola Musicale A.Peri (1937-1942)
Una giovane impegnata in allestimenti musicali
Un tenore di successo
Un grande musicista reggiano
Tanti amici del Teatro

venerdì, settembre 24, 2010

Trio di Trieste: le pelli dei dinosauri

Dopo la seconda guerra mondiale, dall'Italia, paese completamente privo di alte tradizioni nel campo della musica da camera, uscirono alcuni complessi che si imposero rapidamente sulla scena intemazionale: nel medesimo panorama cui appartennero oltre al Quartetto Italiano, ai Musici ed al Collegium Musicum Italicum anche il Quintetto Chigiano ed il Quintetto Boccherini, rientra, vorrei dir geneticamente, il Trio di Trieste.
Nel 1992 la EDT pubblicò un volume di Fedra Florit, Il Trio di Trieste. Sessant'anni di musica insieme. Un volume di centocinquantasette pagine, ricco di notizie, di estratti di critiche, di statistiche e di fotografie. La prima fotografia è del 1933, e ritrae i tre ai rispettivi strumenti, De Rosa e Zanettovich in calzoncini corti, Lama, vestito da marinaretto, in calzoni lunghi; sulle pareti campeggiano i ritratti di Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini, l'arredamento è quello di una scuola di musica. Nel dicembre del 1993 nasceva il Trio, e la fotografia-ricordo diventava il simbolo di un lungo sodalizio. Ma sulla copia pubblicata nel volume, della Florit si trova, datata "aprile 1943", una dedica autografa di Umberto Nigri ad una signora di Trieste.
Questa dedica mi ha richiamato alla memoria il suo autore, Umberto Nigri, maestro di violino di Zanettovich e, come dire?, amorosa balia musicale del Trio. Ora, Umberto Nigri era una degnissima persona ma non era un luminare come quelli che negli anni tra le due guerre insegnavano all'Accademia di Vienna o alla Hochschule di Berlino o al Conservatorio di Parigi o alla Juilliard School di New York. Il Trio di Trieste, formatosi nel 1933 e che nel 1940 vinse il Concorso nazionale del Sindacato Musicisti, non approdò neppure ai corsi estivi dell'Accademia Chigiana di Siena. E sì che a Siena insegnava Alfredo Casella, pianista della prima esecuzione assoluta dei Trio di Ravel e membro del Trio Italiano, unico complesso nostrano che si fosse conquistato una certa reputazione internazionale. Per motivi fors'anche contingenti - la guerra, ad esempio - il Trio di Trieste crebbe cosi in un ambiente di provincia, sia pure di ottima provincia di tradizioni musicali austriache, e, absit iniuria verbis, con una balia asciutta a fargli da mentore. Tra le premesse e la realtà c'è, senza dubbio, un considerevole iato.
Quando si cerca di capire il Trio di Trieste bisogna considerare il fatto che l'eccellenza dei risultati venne raggiunta attraverso un rapporto assolutamente prevalente con il testo, un colloquio fatto di analisi, di intuizioni, di verifiche, di lenta scoperta delle strutture profonde della musica. Una critica apparsa in un giornale di Graz il 7 febbraio 1942 spiega molto bene lo stupore che accompagnò le prime importanti uscite del Trio sulla scena internazionale:
"Noi tedeschi cadiamo spesso nel pericolo di rendere la musica cerebrale, ciò che non avviene per gli italiani, che hanno la musica nel sangue, che fanno vibrare ogni fibra del loro essere. Ma questi ragazzi sono italiani del Nord e così si spiega come il senso atavico latino e quello germanico si sublimino in un insieme perfetto [...]. Cultura del suono; precisione ritmica, sensibilità dinamica. Insuperabile la sicurezza da sonnambuli che consente loro di suonare a memoria, straordinario il dominio e il controllo degli stili".
Unione, o sublimazione di sensi atavici, latino e germanico, in tre ragazzi nati in una terra di confine? Il giomalista stiriano se la cavava con una garbata banalità. Ma le sue osservazioni analitiche erano più acute del suo giudizio sintetico.
L'esecuzione a memoria, che impressionava tutti, in sé non rappresentava, in realtà, un dato essenziale. Suonava a memoria il Quartetto Kolisch, suonava a memoria il Duo Busch-Serkin, avrebbe suonato a memoria il Quartetto Italiano e il Quartetto Smetana, suonavano a memoria tutti i pianisti, in provincia suonavano a memoria l'Aida o la Tosca, con gran divertimento del pubblico, non pochi strumentisti d'orchestra. Certo, c'era una bella differenza tra l'eseguire a memoria una Sonata per pianoforte di Beethoven e l'eseguire a memoria la parte di violoncello in un Trio di Haydn. Però i pianisti mandavano a memoria anche le sezioni dei concerti in cui il pianoforte è integrato nell'orchestra e - oggi, non ieri - suonano a memoria nei tutti dei Concerti di Mozart. L'esecuzione a memoria del Trio di Trieste non valeva dunque tanto in assoluto, quanto per il fatto che i trii più noti erano allora formati da solisti, i quali "mettevano su" il repertorio del trio con poche prove. Con ciò non voglio dire - basti pensare a Cortot, Thibaud e Casals - che i trii formati da solisti fossero approssimativi o che non raggiungessero risultati di elevato valore. Voglio invece far notare come la somma di tre personalità che trovano tra di loro dei punti di equilibrio sia cosa diversa dalla personalità di un trio. E l'esecuzione a memoria era appunto un segno di un lavoro di gruppo e di una simbiosi, la dimostrazione di una entità artistica che non s'affidava alla genialità e all'estro dei singoli componenti ma ad una ascetica disciplina comune.
Il critico di Graz lodava poi la "cultura del suono", la "precisione ritmica", la "sensibilità dinamica".
La cultura del suono è un qualcosa di radicalmente diverso dalla bellezza del suono. La seconda tende a coprire con il suo manto stellato ogni musica, la prima tende a vestire ogni musica con un manto diverso, la seconda è edonistica e mira ad ammaliare, la prima è intellettuale e mira al coinvolgimento dell'ascoltatore. Il paragone fra il Trio di Beethoven e il Trio di Brahms è a questo proposito molto illuminante. La qualità timbrica e la densità del suono sono diverse, diverso è il tipo di "vibrato" degli archi, diverso è il modo in cui il suono del pianoforte raggiunge la sua massima espansione, diverso è il "legato", diversi sono i vari tipi di "staccato", diverse, in una parola, sono le tecniche del suono, con una maggiore pressione degli archi sulle corde e con un maggior impiego del peso del braccio del pianista in Bralmas, con una condotta dell'arco più rapida e con una maggiore mobilità del polso del pianista in Beethoven. E questa è la cultura del suono, il fare del suono non un dato precostituito ma un linguaggio.
La precisione ritmica è un altro carattere essenziale. Il Trio di Trieste risente in questo caso della svolta impressa, nella concezione del ritmo, da Toscanini. Le variazioni del tactus sono minime, il rapporto fra ritmo e misura è molto ravvicinato. Ci si può ben rendere conto di ciò ascoltando lo Scherzo del Trio op. 97 di Beethoven, l'Arciduca, dal Trio di Trieste e dal Trio Cortot-Thibaud-Casals. I primi mantengono un unico tactus per tutta la composizione, i secondi adottano due tactus diversi, collegati da zone di, potrei dire, impressionismo ritmico. Se da questo livello macroscopico scendiamo all'organizzazione delle frasi notiamo che la preparazione dei punti culminanti e la successiva distensione non sono quasi mai ottenute mediante modificazioni agogiche, e le modificazioni agogiche, quando ci sono, hanno il carattere non di allargamento ma di compressione del tempo.
La declamazione del Trio di Trieste, che è ricca, articolatissima, spesso "parlante", punta invece sulla sensibilità dinamica di cui parlava già nel 1942 il critico di Graz. L'accentuazione, sempre molto pastosa, è l'elemento portante della declamazione, che risulta perciò, rapportata alla particolare ritmica, molto fluente e, come dicevo prima, coinvolgente.
Da tutti questi elementi stilistici nascono "il controllo e il dominio degli stili". Il compito dei complessi da camera è a questo proposito molto più difficile di quanto non sia per i pianisti. Il trio con pianoforte, il quartetto d'archi, i duo violino-pianoforte e violoncello-pianoforte non posseggono un repertorio talmente ricco da potersi concentrare soprattutto su un autore o su un periodo storico. Il trio e il quartetto devono partire da Haydn e arrivare fino ai contemporanei, e devono imparare a differenziare gli stili, a diventare degli arlecchini degli stili. Ora, per chi negli anni Trenta studiava a Vienna o a Berlino o a Parigi o a New York, le occasioni di ascoltare grandi interpreti in tutto il repertorio sinfonico e cameristico erano frequenti e numerose. A Trieste si potevano ascoltare concerti cameristici di rilievo, se andava bene, una volta alla settimana o ogni dieci gionrni, e non c'era un'orchestra sinfonica stabile ma solo una programmazione sinfonica stagionale. La ricerca stilistica, per i "provinciali" di Trieste, non nasceva allora dalla conoscenza e dalla imitazione di modelli, ma dalla cultura del suono.
Un certo tipo di suono, scelto per un certo tipo di musica, ha proiezione nell'ambiente solo se viene articolato in un certo modo e non in un altro. Il testo diventa così una specie di fossile che deve esser rivestito di muscoli e di pelle in modo coerente perché possa rivivere e muoversi con naturalezza. Non come pittori che disegnano il rinoceronte avendolo visto, ma come archeologi che il dinosauro lo disegnano avendolo immaginato a partire dal suo scheletro, operavano i ragazzi del Trio di Trieste. Fin dalle loro prime apparizioni in Europa fu chiaro a tutti che le pelli dei dinosauri erano giuste, o per lo meno verosimili, e comunque convincenti. Da Mozart a Mendelssohn, da Beetboven a Schumann, da Schubert a Brahms, da Dvorak a Ravel, la galleria dei dinosauri diventava il parco dei dinosauri, con le pelli chiare e scure, lucide e opache, grigie e brune e verdoline e rosate Fu un miracolo, il primo di quella stagione in cui i complessi italiani di musica da camera conquistarono le platee di tutto il mondo. Poi fu la presa di coscienza di una poetica che venne lucidamente perseguita per mezzo secolo e che viene spiegata con una rara nitidezza di pensiero da De Rosa, in un'intervista pubblicata nel volume della Florit.
Il miracolo, purtroppo, non si è più ripetuto, perché oggi abbiamo vari complessi di valore, ma non un nuovo Trio di Trieste o un nuovo Quartetto Italiano. E non dobbiamo chiederci che cosa è successo adesso, ma che cosa successe allora.

di Piero Rattalino (1994)

sabato, settembre 11, 2010

Vladimir Delman: Arte lunga e vita errante...

Maestro, Le piace il Barbiere di Siviglia?
Oh' sì! Che grande tragedia!
Sebbene credessi di conoscere benissimo Vladimir Delman, la sua risposta mi lasciò senza fiato. Passeggiavamo sotto i portici di via Po' a Torino. Mi fermai. Delman si fermò.
Tragedia? Forse di Bartolo? O di Berta?
Oh' no. Bartolo mi ispira molta simpatia, e anche Berta. Ma loro sono soltanto gli sconfitti. La tragedia di Rosina.
Beh, proprio tragedia non direi. E' innamorata, vince, si sposa...
E che matrimonio sarà il suo? Senza figli, il Conte che rincorre tutte le gonnelle, lei che soffre. La tragedia comincia nel Barbiere di Siviglia, nelle Nozze di Figaro si sviluppa, e poi...
Lei, scusi l'interruzione, ha diretto il Barbiere di Siviglia?
No, mai.
E se l'avesse diretto, come l'avrebbe impostato, per far capire che è una tragedia? Sebbene non si direbbe...
Avrei certamente avuto dei problemi. Come li ebbi con le Nozze di Figaro, quando le diressi a Roma.
Come li risolse?
Li risolsi quando capii chi è il protagonista delle Nozze. Lei ci ha mai pensato?
Non ci ho mai pensato. O forse mi è sempre sembrato così evidente che non c'era bisogno di pensarci.
In un'opera, badi bene, ci vuole sempre un protagonista. C'è anche quando non sembra. L'opera ci racconta un uomo (o una donna), circondato da altri: quel che importa è ciò che succede dentro quel/quella protagonista. Vediamo, Lei chi crede sia il protagonista delle Nozze di Figaro?
Mi ci lasci pensare.
Delman lo sapevo, era nello stesso tempo serio e giocherellone. Alla storia del protagonista delle Nozze ci credeva davvero, ma si divertiva a farmi rosolare un po', invece di dirmi qual'era la sua idea. Mi concentrai, parlando ad alta voce per cogliere nella sua mimica il riflesso delle sue reazioni.
Dunque, Figaro no, sarebbe troppo banale, e di conseguenza nemmeno Susanna. Il Conte viene menato per il naso dal principio alla fine, e la Contessa lo perdona. Nessuno dei due è il protagonista.
Capivo che stavo andando bene; Delman mi guardava fisso, approvando. Dovevo continuare.
Ci sarebbero Bartolo e Marcellina. Ma si sposano: può essere questa una tragedia, sicuro...
Non si metta a scherzare. Non mi piace. Non mi piace nemmeno che Lei vada per esclusione, invece di puntare subito alla verità. Ma so che prende sempre la via più lunga. Pazienza: l'importante è arrivarci.
Ci sarebbe ancora...
Non mi dica che ci sarebbe Basilio!
Non pensavo a Basilio. Dicevo che ci sarebbe ancora...
...c'è, non ci sarebbe...
...Cherubino.
Cherubino: "Voi che sapete" è il centro dell'opera. Che fatica ho fatto a metterne a punto il colore!
C'è riuscito?
Idealmente sì. E certe sere, non tutte, anche concretamente. Di lì si capiva il senso di tutta la trilogia.
Addirittura di tutta la trilogia? Allora Lei non pensa che Cherubino sia un po' come il giovane Conte!
Assolutamente no. No. E nemmeno come un giovane Don Giovanni. Assurdità. Cherubino cerca l'amore, l'Amore. Lo troverà quando la Contessa si innamorerà di lui. Avranno un figlio, e Cherubino morirà, giovare, in battaglia. Legga la Mère coupable.
L'ho letta.
Allora dovrebbe esserle chiara. La tragedia di Rosina, La Contessa. Peccato che la Mère coupable l'abbia musicata Milhaud. Se l'avesse musicata Verdi, invece del Falstaff...
Che è una grande tragedia.
Immensa.

Vladimir Delman era fatto così. Adorava le opere comiche, anche le opere buffe, ma perché ci vedeva la vita con le sue tragedie, la vita come tragedia e come dispensatrice di saggezza e di morale. Una volta che stavo conversando con lui, a Genova, arrivò il mio assistente, arrabbiatissimo perché aveva ricevuto la cartella delle tasse, perché Pannella lo aveva deluso in non so più che, perché c'era uno sciopero degli autoferrotranvieri.
"In questo paese non funziona niente", fu la sua conclusione.
"Sì", disse serafico Delman, "Però tutte le mattine c'è il pane". Il mio assistente tacque, fulminato. "Lo so che qui non funziona niente", riprese Delman. "Delle volte mi ci arrabbio pure io. Ma io amo questo paese anarchico. Appena possibile chiederò la cittadinanza italiana".
La chiese, e l'ottenne, di lì a qualche anno... dopo essersi messo in regola con le tasse. Perché Delman non conosceva l'imposta sul reddito, e credeva che le tasse consistessero nelle trattenute sugli onorari. "L'avvocato a cui mi sono rivolto mi ha sgridato perché non ho la cartella delle tasse e perché non ho documentato le spese", lui disse. "Come se non avessi pagato abbastanza. Ho pagato somme enormi". "E che cosa Le ha detto l'avvocato?". Divenne, da irato che era, subitamente funereo. "Dovrò racimolare, se bastano, quaranta milioni. E spero che questo non danneggi la pratica per la naturalizzazione. A proposito, avrei già dovuto chiederLe da tempo la dichiarazione che ho lavorato con Lei e che Lei pensa di scritturarmi ancora. Serve per la pratica". "Io, che pago tutte le tasse, non scritturo volentieri quelli che le evadono". "Beh, adesso mi metto in regola. E' che l'Italia mi piace maledettamente, malgrado tutto".
Delman era venuto in Italia da turista, con un viaggio organizzato da un'agenzia, negli anni sessanta. Era venuto, e l'Italia gli si era conficcata nel cuore, e aveva subito desiderato di tornarci.
Ci tornò per caso, o perché così aveva voluto il destino. Delman, come tutti i sovietici della sua generazione, aveva lavorato molto in patria e pochissimo all'estero. Un giorno l'agenzia musicale di stato, il Gaskoncert, lo mandò a Londra, a dirigere la Bella addormentata che una compagnia di balletto sovietica doveva rappresentarvi. Delman chiese molte prove, le ottenne, e fece un'esecuzione che lasciò esterrefatti i londinesi.
Subito un'orchestra sinfonica gli chiese di dirigere dei concerti. Ma le scritture degli artisti sovietici dovevano passare attraverso il Goskoncert, e il Goskoncert, ricevuta ufficialmente la richiesta,... propose un altro direttore, per la buona ragione che l'altro direttore non era mai stato in Occidente e Delman sì. Delman si infuriò, ma non ci fu verso di far cambiare idea al Gaskoncert (né all'orchestra di Londra, che scritturò l'altro direttore). Mentre combatteva l'inutile battaglia con il Gaskoncert Delman ricevette una lettera da una sua sorellastra che era emigrata in Israele prima della guerra. La donna gli diceva di aver letto nei giornali inglesi del successo del fratello, si complimentava, gli chiedeva se non avesse intenzione di stabilirsi a sua volta in Israele. Ci fu un breve scambio di lettere, e Delman, ancora infuriatissimo con il Goskoncert, chiese un visto per l'emigrazione. Gli venne concesso dopo molto tempo, venne portato in aereo a Vienna, fu accompagnato al centro di raccolta israeliano degli emigranti, gli venne ritirato il passaporto. Dal centro telefonò alla sorella. Gli rispose un funzionario, da cui seppe che la sorella era morta anni prima e che le lettere le aveva scritte lui, il funzionario, per aiutarlo ad uscire dall'Unione Sovietica.
Delman troncò la telefonata, andò all'ambasciata sovietica e chiese di rientrane in patria. Gli dissero che non era possibile. Per parecchie settimane Delman rimase al centro di raccolta, senza saper che fare e rifiutandosi comunque di andare in Israele. Ma un dirigente dei centro, amante della musica, ebbe occasione di parlare di Delman ad un grosso personaggio della musica italiana incontrato ad un concerto. Di lì a qualche giorno un direttore, scritturato per l'Eugenio Oneghin in un teatro italiano, si ammalò. Il direttore artistico del teatro chiese aiuto al grosso personaggio, che si ricordò di Delman. Superati di slancio - il grosso personaggio era davvero grosso - i problemi del permesso di soggiorno, Delman arrivò a ***, salì sul podio, cominciò a lavorare con l'orchestra, sentendosi miracolato perché il suo antico sogno si avverava.
Sentendosi miracolato. Il chè non gli impedì, a metà della seconda prova, di raccogliere tutte le sue conoscenze di italiano, puntare il dito contro il primo contrabbasso e gridare con quanto fiato aveva in corpo: "Tu, assassino della musica!".
La prova venne interrotta, l'orchestra si riunì in assemblea... e assolse Delman. Non perché gli desse ragione, ma perché la sua concertazione piaceva, perché non volevano perderlo, perché trovarono la scusante della sua scarsissima conoscenza della lingua. E da quell'Oneghin ebbe inizio la carriera italiana di Delman.
Se l'incidente fosse avvenuto al termine delle prove l'orchestra sarebbe forse stata meno compatta. Delman, che era un grandissimo musicista, non era, almeno all'inizio, un grande educatore. Spiegava la musica, cercava, metteva a punto i colori, e conquistava tutti. Poi si comportava da perfezionista e pretendeva che ogni particolare fosse a posto senza far capire all'orchestra la linea generale che lui aveva in mente, e se qualcosa non andava si fermava con la faccia cupa e faceva ripetere e ripetere e ripetere. Una volta, già vicino all'esecuzione pubblica, si soffermò ossessivamente su un passo dei sassofoni, e alla fine cadde di botto in ginocchio gridando: "Ma quando, quando, signori sassofoni, mi farete la grazia di intonare come si deve questi accordi?". In realtà, due dei tre sassofonisti erano insufficienti. Lui avrebbe dovuto "protestarli" dopo tre prove. Ma Delman non avrebbe mai mandato via nessuno. Si accaniva a lavorare, convinto di poter cavare il sangue anche dalle rape. E quasi sempre ci riusciva. Solo che invece di lavorare a parte con gli elementi claudicanti, lavorava lasciando in attesa l'orchestra: le orchestre, perciò, lo adoravano sempre come musicista e spesso lo sopportavano con fatica come direttore.
Della metodologia di lavoro discussi con lui più volte, ma lo trovai sempre fermo come una roccia. Gli facevo notare che spesso si riduceva con l'acqua alla gola e che purtroppo doveva chiedere prolungamenti e prove straordinarie. Riuscivo a colpevolizzarlo, ma non a smuoverlo. "Io devo pensare all'Arte". diceva. "Sono disposto a rimborsare al teatro il costo dello straordinario, però non posso lasciar correre una bruttura".
"Non è solo questione di costi", ribattevo, "ma di rendimento. L'orchestra si stanca, perde concentrazione, gli sbagli si moltiplicano, il cane si morde la coda". "Se gli orchestrali sono artisti la bruttura spiace a loro come a me". "Sarà", dicevo, "sarà vero. Però i risultati li sente anche Lei". "Li sento", commentava mestamente, "Ma io non posso fare diversamente".
Negli ultimi anni, in cui non ebbi più occasione di vederlo al lavoro, era cambiato, mi si disse. Non so come fosse cambiato. Ma mentre prima avevo sempre sentito delle esecuzioni inferiori alle concertazioni, molte delle ultime esecuzioni che ascoltai da lui erano superbe, senza residui di intenzioni non realizzate. E mentre prima si notava un certo squilibrio di risultati fra le forme semplici e le forme complesse (fra i tempi intermedi e i tempi estremi delle sinfonie, ad esempio) alla fine anche il dominio delle forme molto articolate, e strutturalmente e drammaturgicamente, era completo.
Oggi io ricordo Delman, prima di tutto, come grandissimo interprete di Berlioz, di Mussorgski, di Ciaikovsky, di Bruckner, di Mahler, di Honegger, di Prokofiev, di Shostakovic, e mi auguro che le sue esecuzioni di questi autori vengano un poco alla volta pubblicate in disco. Ricordo però anche interpretazioni di Verdi (l'Otello) e di Puccini (la Manon Lescaut) che mi erano sembrate folgoranti, sebbene mi lasciassero dei dubbi. Ricordo un Le sette parole di Cristo sulla croce di Haydn che mi ossessionò per giorni e giorni. E persino quell'Italiana in Algeri dello scandalo non era affatto "sbagliata", ma solo inattuale.
Forse varrebbe la pena di riascoltarla, di studiarla, di vedere se sia proprio illegittimo spezzare un concertato o esporre cantando, prima della ouverture, la morale dell'opera. Delman usciva dalle quinte con due chitarristi e un flautista, e con voce da taverna intonava come una cantastorie "Le femmine d'Italia". Veniva sommerso dai fischi Eppure quell'Italiana in Algeri era teatro sul serio, elettrizzante teatro. Delman avrebbe detto che era arte, anzi, Arte. Un altro avrebbe saputo volgere a suo vantaggio i fischi, perché lo scandalo può essere importante quanto il successo; lui si bruciò il teatro che per quella produzione lo aveva scritturato. E nello stesso modo aveva bruciato dietro di sé, e continuò a bruciare molti ponti. Era fatto casi, l'ho già detto. E posso aggiungere che la sua vita non fa testo, ma la sua arte sì.
Piero Rattalino
(1995, Ermitage, Bologna)

sabato, settembre 04, 2010

Giorgio Gaslini: respirare musica

Musicalità, energia e vita nella musica totale di Giorgio Gaslini

Giorgio Gaslini è una figura di musicista unica nel panorama contemporaneo. Autore, pianista, leader riconosciuto e invitato in tutto il mondo, quale concertista e innovatore del linguaggio del jazz di stampo europeo, ha al suo attivo tournees in oltre 30 nazioni, 80 dischi con 9 premi della critica e numerosissimi allievi prestigiosi.
Personalissime le sue opere composte, i suoi balletti, la musica sinfonica e da camera, i songs e la musica da film (con la celebre colonna sonora per La Notte di Michelangelo Antonioni).
Le sue esperienze di musicista attivo nel rapporto quotidiano con il pubblico e quelle di compositore colto, già dalla fine degli anni Cinquanta premono verso una sintesi che lo stesso Gaslini indica come "musica totale" sia nel suo Manifesto del 1954 sia nel libro omonimo edito da Feltrinelli nel 1976.
Caso straordinario è che in questi ultimi decenni la musica, apparsa in campi diversi e in tutto il mondo, si sia orientata a grandi linee nella direzione auspicata da Gastini e da lui per primo percorsa. Tutto ciò fa del Maestro un vero antesignano della musica d'oggi. Questo CD raccoglie alcune sue composizioni cameristiche, tra il 1955 ed il 1995.
Logar, per flauto con interventi pianistici, è un inedito del 1955, caratterizzato da una scrittura ad ampi intervalli, con scatti nervosi, in linea con gli stilemi di quegli anni, ma con più elasticità e merbidezza.
Chorus, per flauto, dedicato a Severino Gazzelloni che lo ha eseguito in tutto il mondo, è stato composto nel 1965 ed è edito dall'Universal di Vienna. E' un brano originalissimo, dal carattere lirico-epico, impostato su materiali seriali e non, con l'intervento libero dell'esecutore nel finale, su una sequenza di suoni tratti da Palestrina. Al centro della composizione l'autore fa ricorso ad un'esplicita gestualità, richiedendo al flautista di battere sui tasti e di segnare il tempo con i piedi.
L'inedito brano Chants-Songs, per flauto e pianoforte, dedicato a Roberto Fabbriciani, è del 1995. E' articolato in cinque sezioni che scaturiscomo l'una dall'altra, come scatole cinesi, e s'intitolano: Lyric Song, Rock Song, Epic Song, Blues Song, Muical Song.
Gaslini è l'unico, oggi in Italia, a compiere felicemente un'operazione di sintesi fra linguaggi differenti, non solo grazie alla sua vasta esperienza internazionale, ma soprattutto per la sua mente aperta e disponibile ad accogliere, per quella sua umanità con la quale sa partecipare alle più diverse culture, rispettandole.
Di ritorno da una sua tournee in Asia, Gaslini compone, nel 1994, una suite di ispirazione birmana, Myanmar Suite. Ne trae poi una versione per quartetto di arpe, che vede la sua prima esecuzione proprio con questo CD. Il brano s'inserisce nel filone etnico coltivato da Gaslini. Il fascino sonoro è straordinario, fresco, divertito, asciutto, senza facili effetti. Su un ritmo tippettato con le dita sulla cassa di un'arpa, si svolge una delicata melodia orientaleggiante, dai toni tenui e dai profumi delicati. Domande e risposte fra gli strumenti creano antifone suggestive. Le movenze sono leggere e libere come farfalle.
Il senso di libertà è una delle sensazioni più belle che la musica di Gaslini sa regalarci.
L'aspetto ludico, abbinato agli stimoli visivi, al runorismo e alla gestualità, sta alla base di Open Music, per due pianofoti, brano che utilizza sei carte da gioco, dipinte dal Maestro, dove in ognuna vi sono due note sulle quali i pianisti devono improvvisare, realizzando una serie cromatica completa. Si realizza una stratificazione di due piani sonori, con polimetrie, poliritmie, poliarmonie ad opera dei due interpreti che danno vita anche a una sorta di teatro musicale. La composizione è del 1993 ed è inedita.
Battiti, per violino solo e coro da camera (1994), è diviso in tre movimenti: Lento, Moderato, Mosso e contiene testi scriti dallo stesso Gaslini. Il primo movimento s'intitola "Silenzio" e iruzia con il violino solista, seguito dal coro che sussurra le parole "Silenzio, fare il silenzio / in silenzio sto e sento / il silenzio nella mente". Suoni flautati intensificano la sorpresa della seconda lirica "Esco da me" nella quale Gaslini tratta il tema del viaggio e del gioco. La terza sezione s'intitola 'Le nuvole" ed incomincia dopo una rapida cadenza del violino: è una sezione positiva che si conclude sulla frase "Il bimbo sorrise, negli occhi la gioia".
Le sei composizioni raccolte in questo piacevole CD costituiscono una piccola antologia dell'arte musicale di Giorgio Gaslini, l'unico compositore che ai nostri giorni meriti un posto singolare nel panorama della grande musica del nostro tempo.

Renzo Cresti (note al CD "Gaslini chamber music", 1996, Discantica 10)