Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, dicembre 30, 2007

Armando Torno: Vernon Lee e Charles Burney

La figura di Vernon Lee non è particolarmente considerata ai nostri giorni. Eppure questa scrittrice inglese (il cui vero nome era Violet Paget) ha legato la sua storia indissolubilmente all'Italia, non fosse altro per gli Studies of the Eighteenth Century in Italy del 1880. Allora fecero un certo baccano e per un buon mezzo secolo si ammirò in queste pagine la finezza con cui si tratteggiava l'atmosfera spirituale del Settecento e il garbo capace di interpretare le opere di Metastasio e di Goldoni.
Vernon Lee amava l'Italia e lo spirito italiano. Lei, inglese, nata in Francia a Saint-Léonard nell'ottobre 1856, finì con lo stabilirsi in Toscana, a Maiano, nei pressi di Firenze. E lì, nella sua villa denominata «Il Palmerino», chiuse i suoi giorni nel 1935. Probabilmente questo amore che abbiamo evocato fu di quel genere che sbrigativamente chiamiamo «vittoriano», con mille pudori mescolati a qualche forte irruenza. Chi avesse voglia di togliere il velo a simili sentimenti, non ha che da riaprire un suo dramma del 1903, Ariadne in Mantua, un'opera in versi che vorrebbe penetrare negli incidenti dell'anima italiana. Certo, la sua penna corse altrove, si occupò di tutto. Se negli Essays manifestò il completo amore per l'Italia del Rinascimento - ricordo, tra i molti, Belcaro del 1881, The spirit of Rome del 1905, The spiritual traveller del 1907 -, la Lee si esercitò anche nel saggio filosofico, in opere di impegno politico pacifista, in romanzi e novelle. I titoli sono tanti. Contro la guerra scrisse la trilogia Satan the Waster, che reca la data 1920; rimane anche da ricordare la sempre interessante «scorribanda nel pensiero» Gospels of anarcky del 1908; Miss Brown del 1884 - e qui siamo nell'ambito della narrativa - ebbe qualche riconoscimento.
A ben guardare nell'opera di Vernon Lee si trovano pure le rivendicazioni per i diritti delle donne. Per capire tali orientamenti occorre ricordare che le sue pagine subirono quasi ininterrottamente l'influsso duplice di John Ruskin e di Walter Pater. Come quest'ultimo, la Lee amava addentrarsi nelle questioni filosofiche per uscirne con personaggi da prosa; inoltre si sentiva attratta dal fatale meccanismo che si riassumeva nel motto «l'arte per l'arte». Come Pater ella amava misurare l'arte attraverso l'intensità delle sensazioni che essa sa trasmettere, come Ruskin ella vedeva in ogni molecola della creazione artistica l'aspetto etico.
E' con questi riferimenti che occorre accostarsi al saggio qui riproposto, La vita musicale nell'Italia del Settecento, che viene licenziato da Maiano nel 1906, e che è un'opera scritta sulle tracce di Charles Burney, è cioè sfogliando «il volume, assai malandato, che contiene la cronaca del viaggio» del Burney in Italia. Che cosa significa questa precisazione nella penna della Lee?
Innanzitutto significa che la Lee si è messa sulla scia di uno dei più grandi viaggiatori musicali di tutti i tempi e ne ha rivissuto le sensazioni. Non fu cosa da poco. Charles Burney (1726-1814) suonò il violino e la viola nell'orchestra di Händel e dopo il 1770 compì numerosi viaggi «nel continente» per raccogliere notizie utili alla stesura di una storia della musica. Conobbe i più grandi musicisti del tempo: da Galuppi ad Hasse, da Jommelli a Gluck, da Mozart a Piccinni al leggendario padre Martini. Viaggiò in Francia, in Germania, in Austria, nei Paesi Bassi, soprattutto in Italia. Il frutto di tanto lavoro si legge nella A general History of Music, pubblicata in quattro volumi a Londra tra il 1776 e il 1789. Senza mezzi termini, quest'opera si può considerare la prima storia della musica concepita con criteri moderni, dove trovano felice sintesi i concetti degli enciclopedisti francesi, e in particolare di Rousseau, con il metodo empiristico, del quale erano maestri gli inglesi.
Burney, comunque, tenne anche un diario dei suoi viaggi, del «periodo itinerante». Pensò alla sua pubblicazione molto presto, così almeno si legge in una lettera dell'ottobre 1770 spedita da Napoli all'amico Garrick: «Se la mia storia universale della musica sarà un'opera del tempo, vorrei invece pubblicare, non appena tornerò a casa, un resoconto sulle condizioni attuali della musica in Francia e in Italia, in cui descriverò, secondo il mio giudizio e il mio modo di sentire, il valore di molte composizioni e di molti esecutori che ho ascoltato viaggiando attraverso questi paesi». Va aggiunto a precisazione di queste parole che Burney preparò il viaggio in Italia studiandolo nei dettagli. Organizzò minutamente le visite e gli incontri; a tutti spiegò quel che cercava di realizzare per ottenere le migliori informazioni possibili. Ed ancora non si deve dimenticare che nella sua concezione - si leggono le seguenti parole all'inizio della sua History - la musica «è un lusso innocente non indispensabile alla nostra esistenza, anche se porta piacere e progresso al senso dell'udito».
Dunque la musica è un lusso, ma non si può considerarla al pari di altri orpelli che utilizziamo per attraversare la vita. Essa, ricorda lo storico e musicista inglese, è talmente integrata al vivere civile che non è possibile separarla nettamente da altre attività dell'uomo quali la religione, la filosofia o la politica. E' indispensabile all'umanità per capire e per capirsi, anche se prima di ogni cosa c'è l'essere umano da rispettare. Non a caso l'illuminista ed empirista Burney si lascia scappare una frase che sintetizza bene il suo spirito e il suo secolo, una frase che si legge alla fine del suo diario di viaggio in Germania: «Amo la musica ma ancor più amo l'umanítà».
Fu proprio questo progetto estetico che ruotava attorno all'uomo che Vernon Lee seguì per il suo saggio. La sua Vita musicale è appunto un'odissea completa intorno e dentro lo studioso settecentesco. Convinta che «i compositori italiani e tedeschi del Settecento erano fratelli, o tutt'al più cugini» e che la musica tedesca di quel secolo «non è un semplice adattamento dell'italiana della stessa epoca, ma è un adattamento molto migliorato», la Lee si avventura nello spirito latino mettendone in luce le grandi qualità e il carattere eternamente fecondo. Ella ritiene che i tedeschi presero a prestito dall'Italia «quelle forme melodiche, e anche diverse altre cosette» e ricorda non senza un pizzico di civetteria - che «la nazione che fornisce la materia prima d'una grande arte non è inferiore a quella che, lavorandola, la porta a una perfezione duratura».
Questi problemi, occorre ricordarlo senza mezzi termini, avevano senso nel 1906, tempo in cui era ancora ben viva la polemica risorgimentale contro l'arte tedesca, che la Lee fa sua. Oggi di tutto ciò ha valore il viaggio, le cose mostrate, le notizie. Gli altri vecchi problemi non interessano più alcun studioso. Il viaggio è vivo per le sue tappe, per i giudizi e gli eventuali spropositi di valutazione, per le scoperte, valide ancor oggi. Burney fa, da guida, ma è anche vero che lo storico inglese non ha mai cessato di essere un mèntore di prím'ordine. Infine occorre ricordare la grande utilità che questo saggio recò alla cultura italiana del tempo. La Lee usa una fonte che pochi o nessuno conosce nella stesura originale. La prima traduzione del Viaggio musicale in Italia di Burney si deve a Virginia Attanasio e viene pubblicata a Milano nel 1921, ma è una versione inattendibile perché basata su un testo non originale (fu ricavata da un'altra traduzione francese). Del dottor Burney la Lee dovette anche sondare la vita privata, o almeno quegli aspetti indispensabili per cogliere nel migliore dei modi la sua opera: «... non sono affatto pentita d'aver rivestito i miei personaggi settecenteschi di virtù e di bellezze di mia fabbricazione ... ». Parole che non sono rivolte soltanto ai musicisti del libro, ma anche alla guida. Si ha dunque motivo di credere che oltre la grande History, oltre il Viaggio musicale in Italia, la Lee avesse sottomano l'ampia biografia che sul viaggiatore inglese scrisse la figlia romanziera, quella Fanny Burney d'Arblay che amava molto gli arrangiamenti. La sua opera Memoirs of Doctor Burney, pubblicata in tre volumi nel 1832, va presa sempre con beneficio d'inventario.
In ogni caso il diario di Burney ha offerto del materiale prezioso alla Lee, lontano dalle fonti della nostra storiografia, ricco di dati e di suggestioni. Negli otto giorni trascorsi a Milano, tra il 16 e il 24 luglio 1770, per fare un esempio tra i molti offerti dal Viaggio, il gentiluomo inglese parla sì della musica sacra nella capitale lombarda, dei tesori musicali custoditi all'Ambrosiana, delle meraviglie dell'eco a Milano, dei concerti, ma anche dell'incontro con l'astronomo Boscovich, della città in generale, dei quadri e dei libri del conte Portusali, di un banchetto offerto dal celebre conte di Firmian. Il lettore rivede un mondo, non riascolta semplicemente delle musiche.
Del resto, il saggio della Lee riscopre sistematicamente ciò che il Burney segnala. Nelle due settimane a Venezia - dal 3 al 18 agosto di quel 1770 l'incontro con Benedetto Marcello dà origine a un capitoletto; si spiega in questo modo la particolare attenzione della Lee nei confronti del compositore veneziano. Il tutto è poi arricchito dalla sensibilità di questa scrittrice, che non dimentica i sapori, il paesaggio, le contingenze, qualche civetteria. A questo proposito, basta ricordare quanto la Lee scrive delle fonti da cui attinge notizie: «... Sono principalmente scrittori inglesi e tedeschi, e anche gli stessi francesi, che spesso riconoscevano i singoli difetti della loro musica, senza però ammetterne mai l'inferiorità generale».
Quello che ne risulta è ancor oggi un libro piacevole, lontano dalle mode e dai rigori della ricerca scientifica, però sempre stimolante, informato, attento. E', per dirla in parole semplici, il Settecento di Vernon Lee, con tutti gli aromi che una scrittrice vittoriana sapeva trovare nell'arte italiana. O almeno, qualche aroma ella aggiunse al materiale predisposto da Burney. La prova - una tra le moltissime - la leggiamo ancora nel capitolo dedicato a Marcello. Burney scrive nel suo Viaggio che avrebbe voluto recarsi agli Incurabili per ascoltare il Buranello, ma poi scelse di assistere a un'esecuzione dei Salmi di Marcello. Con puntualità, egli osserva in calce al concerto: «... Il compositore ha completamente sacrificato la musica alla poesia, mutando tempo e stile ad ogni nuova idea espressa dalle parole». Perciò lo trova "flemmatico, del tutto privo di quell'entusiasmo tipico del genio musicale creatore". La Lee con un paragone efficace scrive: «Il Marcello scrisse molta musica da chiesa e da camera, i cui resti ora si disfanno negli archivi e nelle stanze di sgombro, come gli affreschi del Giorgione si son disfatti, chiazza per chiazza, sulle mura dei palazzi veneziani». E, neanche a farlo apposta, ricorda «i suoi Salmi» di cui ammira la grandezza. Tuttavia, quel «flemmatico» di Burney non lo lascia cadere, ma non se la sente più di condividere il duro giudizio: lo rivolge, allora, alla situazione italiana. In tal modo, quei Salmi «bastano a mostrare quale grande e originale compositore si debba a quell'aristocrazia veneziana che, malgrado la sua corruzione, la sua indolenza, era l'unica istituzione rimasta dai tempi più nobili dell'Italia».

Armando Torno (introduzione a "La vita musicale nell'Italia del Settecento" di Vernon Lee, Passigli Editor1, 1999)

mercoledì, dicembre 26, 2007

Glenn Gould: Schoenberg ed il fatale numero 13

Spero che la foto del carro funebre abbandonato non sia profetica. Negli ultimi anni della sua vita il compositore Arnold Schoenberg si era persuaso che i destini dell'uomo fossero governati dai numeri e credeva moltissimo alle predizioni di un suo amico astrologo. Quando arrivò a sessantacinque anni, gli scrisse per chiedergli se quello fosse l'ultimo anno della sua esistenza, dato che 65 era divisibile per il fatale numero 13. L'astrologo gli rispose: «No, questa volta non morirete. Ma la prossima volta che un numero vi sarà sfavorevole, allora sarà giunta la vostra ora».
Schoenberg suppose che sarebbe accaduto tredici anni più tardi, quando avesse raggiunto i settantotto anni. Due anni prima di arrivare a questa data, all'età di settantasei, ricevette un biglietto dal suo amico: «Attenzione Arnold, gli anni pericolosi non sono solo quelli divisibili per 13, ma anche quelli in cui la somma delle cifre dà 13». Era precisamente il caso del 76. Rendendosene conto, Schoenberg rimase molto scosso. Morì quello stesso anno. Era il 1951, il 13 luglio.
Sono anch'io abbastanza convinto dell'esistenza di fenomeni soprannaturali. A nove anni feci uno strano sogno in cui mi vedevo cosparso di chiazze rosse. Quando, l'indomani, raccontai il sogno a mia madre, essa ne fu stupefatta; quella notte aveva sognato esattamente la stessa cosa. Ora, a quell'epoca non v'era alcuna epidemia di morbillo che potesse autorizzarci a classificare quel sogno tra le "semplici suggestioni". Quattro giorni più tardi, presi il morbillo.

Glenn Gould

martedì, dicembre 25, 2007

György Ligeti: Convenzione e originalità. La "dissonanza" nel Quartetto K.465 di Mozart

Sebbene l'Adagio cominci con un do al violoncello, la tonalità di do maggiore sarà raggiunta solo all'inizio dell'Allegro principale. Nel linguaggio formale del classicismo viennese, queste introduzioni lente servono da digressione modulante: si giunge "al dunque" solo attraverso vie indirette, e queste ultime conducono lungo le aree profonde della sottodominante. Generalmente l'introduzione consiste in una cadenza perfetta, estesa e ornata, dove la dominante viene differita attraverso delle modulazioni che precedono nella regione della sottodominante (nel nostro esempio, la triade di dominante di do maggiore appare a battuta 16). La stessa dominante posticipata sarà inoltre prolungata (qui dalla battuta 16 alla battuta 22), accumulando così, conformemente alle convenzioni armoniche dell'epoca, un campo di tensione che si risolverà solo con l'attacco del tema principale sulla tonica (qui con l'inizio dell'Allegro, battuta 23). Nella forma-sonata dell'epoca, l'architettura dei passaggi di transizione che conducono alla ripresa è analoga.
La connotazione "dominante uguale tensione, tonica uguale risoluzione» si è sviluppata gradualmente nella tradizione musicale europea nel corso dei secoli, allorché due abitudini differenti si congiungevano e si rafforzavano reciprocamente: l'aspirazione della sensibile a salire verso la tonica, conseguente alla formazione delle clausole fin dal XIII secolo, e, di riflesso, la discesa per gradi congiunti della settima di dominante, come nota di passaggio, dalla dominante alla terza della tonica (dalla fine del XVI secolo circa). Protraendo il campo della dominante, se ne può aumentare il contenuto di tensione. Nel nostro esempio, la tensione della dominante è mantenuta costantemente da battuta 16 a battuta 22, ornando l'accordo di dominante con accordi di dominanti secondarie: inizialmente grazie al solo fa3# , appoggiatura inferiore del sol3 al violoncello (battuta 16), poi subito completato dall'accordo di settima diminuita fa#-la-do-mib nei restanti tre archi (il la che manca a battuta 16 compare in luogo analogo a battuta 17).
La tensione è ulteriormente rafforzata a battuta 19: la dominante secondaria della dominante secondaria è abbozzata con la sensibile do# che risolve sulla dominante della dominante re (al violoncello). Si tratta certo solo di un'allusione, poiché l'accordo di doppia dominante secondaria do#-mi-sol-si non risolve sulla dominante secondaria re-fa#-la, bensì viene collegato direttamente al secondo rivolto dell'accordo di dominante re-fa-sol-si (cfr. la seconda metà della battuta 19). La tensione della dominante subisce un ulteriore incremento a battuta 20, in quanto alla figura di sensibile do3# -re3 (primo violino) viene ad aggiungersi un'appoggiatura posta sulla terza dell'accordo di dominante, con funzione di sensibile: la2#-si2 (secondo violino). Grazie al consequenziale perfezionamento di questa sensibile ornamentale, a battuta 21 Mozart introduce (al primo violino) la settima di dominante, in un modo particolarmente elegante. Presentata a mo' di contrappeso, la vera e propria sensibile si3 è dunque posposta a battuta 22 - sempre al primo violino - tramite il ritardo do4.
Questa tattica di prolungamento della tensione della dominante era comune nella sintassi musicale del VIII secolo, e sebbene Mozart abbia elaborato magistralmente questo passaggio, esso non si discosta minimamente dalle convenzioni dell'epoca. Totalmente originale, per non dire fuori dalla norma e impressionante - in rapporto alle consuetudini dell'armonia dell'epoca - è la parte precedente dell'Adagio introduttivo, preparazione della dominante che indugia nell'area della sottodominante.
Bisogna prima di tutto notare che, seppur di passaggio, sia la dominante sia la tonica sono già state sfiorate in precedenza. La dominante appare una prima volta a battuta 3 sotto forma di accordo di sesta: si1 al violoncello, sol2 alla viola, poi - ritardato - re3 al secondo violino, con il raddoppio del sol4 due ottave sopra, al primo violino. Ma la funzione di dominante dell'accordo di sol maggiore non è qui ancora palese, poiché nelle immediate vicinanze non vi è alcuna tonica di do maggiore con funzione di riferimento: il do di apertura del violoncello, a battuta 1, si rivela quale presentimento della tonica solo a posteriori, dopo il compimento della vasta e prolungata cadenza perfetta.
Benché ancora in maniera provvisoria e velata, la dominante e la tonica si manifestano in modo relativamente più forte alle battute 13 e 14. Dopo che, a battuta 12, la possibilità di una tonica do è tratteggiata sotto forma di un accordo di sesta di do minore, l'accordo di settima a battuta 13 (fondamentale sol1 al violoncello, si3 terza, posticipato con un ritardo al secondo violino, re3 quinta, alla viola e fa4, settima, al primo violino) appare chiaramente come dominante della tonica do minore, che si risolve quindi a battuta 14 sulla tonica di do maggiore (fondamentale do2 al violoncello, raddoppiata due ottave sopra, dopo un ritardo, al secondo violino; mi4, terza, al primo violino; sol3, quinta, alla viola).
Se la dominante e la tonica non fossero attenuate da figurazioni che le occultano, la cadenza perfetta avrebbe già in questa sede un effetto conclusivo, poiché sia la dominante sia la tonica si presentano su un tempo forte, a inizio battuta (il fatto che, a battuta 13, la fondamentale al violoncello entri solo dopo una pausa di croma non cambia granché, poiché la settima al primo violino assicura il peso dell'accordo). In realtà, la vera dominante, quella che supporta la grande cadenza, appare pienamente solo a battuta 16 e, inizialmente, senza settima; cosicché l'aggiunta della settima agirà in modo molto più significativo, dapprima incidentalmente, a battuta 19 alla viola, quindi apertamente a battuta 21, al primo violino.
Il camouflage della cadenza perfetta alle battute 13 e 14 avviene in questo modo: dapprima il sol, fondamentale della dominante, è abbandonato dal violoncello, tramite note di passaggio cromatiche (figurazione completata, due ottave sopra, da quella per terze parallele del secondo violino). Nella successivabattuta 14, quindi, l'accordo di tonica è sì fermamente impiantato sulla sua fondamentale do al violoncello, ma l'inversione della figurazione cromatica al secondo violino (completata nella seconda metà della battuta dalle seste parallele del violoncello) acquisisce un peso tale che - così come abbiamo percepito la doppia figurazione cromatica a battuta 13 quale disegno melodico dominante - la nostra attenzione è ora distolta dal fatto che la tonica sia già stata momentaneamente raggiunta. Questo relativo indebolimento è ulteriormente accentuato dall'andamento cromatico più lento del primo violino: dapprima risuona la terza maggiore mi4, che sembra condurci alla mèta del do maggiore; ciò si rivela essere però solo un inganno poiché immediatamente dopo segue un mi4, che ci riporta al do minore di battuta 12. Ma anche la stessa tonalità di do minore non è più davvero tale, poiché il raddoppio della tonica, il do4 al secondo violino, procede nello stesso momento verso la settima minore si3b e, di seguito, tutte le altre voci abbandonano la tonica per moto discendente.
Quanto qui succede sul piano armonico e nella condotta delle voci si può sempre spiegare nel quadro delle convenzioni dell'epoca e non è affatto estraneo al coevo linguaggio musicale. Come in altre composizioni cromatiche di Mozart - si pensi al Quintetto per archi in sol minore (K 516) o al Concerto per pianoforte in do minore (K 491) -, si tratta qui della continuazione di una tradizione che fin dal tardo XIV secolo, quindi a partire da Solage, passava per un fenomeno marginale e stravagante se paragonato al preponderante diatonismo e alla tendenza della tonalità ad affermarsi grazie a clausole fisse. Naturalmente, Mozart non conosceva né Solage né Gesualdo, però conosceva la formula del basso continuo detta del Lamento, impiegata correntemente da Monteverdi in poi.
Gli influssi diretti erano esercitati dal cromatismo di Buxtehude e di J.S. Bach, poi da quello di C.Ph.E. Bach; stesso valore di modello avevano la Fantasia cromatica, l'Invenzione a tre voci in fa minore e il "Crucifixus" della Messa in si minore (o, ancora, la Cantata "Weinen, Klagen") di J.S. Bach.
Ma la falsa relazione osata da Mozart alla battuta 2 - e ripresa come conseguente a battuta 6 - va ben al di là dei più audaci passaggi cromatici di J.S.Bach. Certo, nei movimenti cromatici di Bach si trovano false relazioni ardite e, spesso, anche la condotta delle voci è ristabilita con violenza al fine di realizzare una modulazione cromatica. Nondimeno, in questo piccolo esempio di Mozart la falsa relazione colpisce intensamente, perché l'anomalia affiora, inattesa, in un contesto "più dolce" rispetto alla musica di Bach, e avviene nel quadro di uno stile ben più indirizzato alla stabilità e all'equilibrio di quanto non lo fosse convenzionalmente nella prima metà del secolo. (Mozart e Haydn stanno a Buxtehude e Bach pressappoco come Dufay e Ockeghem stanno a Solage e Senleches: i fondamenti della sintassi sono identici, ma le asprezze sono state addolcite, i disequilibri controbilanciati e la complessità trasformata in eleganza.)
A battuta 1, il la2b della viola, posto una sesta minore sopra il do2 del violoncello, appare inizialmente come qualche cosa di vago, di equivoco, poiché né il lab né il do sono la fondamentale di un accordo. Con l'attacco del secondo violino sul mi3b a battuta 21 il lab assume a posteriori un carattere di fondamentale e noi percepiamo un accordo di sesta di lab maggiore. In seguito si evidenzia che questo accordo, al pari di una porta, permette l'accesso alle regioni più lontane della sottodominante (retrospettivamente, più lontane dalla dominante sol); nel circolo delle quinte esso si trova quattro piani al di sotto della tonica do e corrisponde al sesto grado abbassato di do maggiore e, nello stesso tempo, funge da sesta napoletana in rapporto a sol maggiore. Nelle convenzioni armoniche del XVIII secolo, l'appoggiatura superiore a distanza di semitono dalla dominante (quindi lab in rapporto a sol) giocava un ruolo principale nell'architettura interna del tracciato formale. Che essa sia la terza della sottodominante minore o il basso dei tre possibili accordi eccedenti - accordo di sesta eccedente lab-do-(do-)fa#, accordo di secondo rivolto lab-do-re-fa# e, più frequentemente, terzo rivolto lab-do-mib-fa# spesso dato enarmonicamente come lab-do-re# -fa# -, questa nota è portatrice di forti tensioni nella concatenazione degli accordi, relativamente meno tese se essa è usata come sottodominante minore o come VI grado abbassato, di forza estrema se impiegata come suono eccedente, a causa della doppia direzionalità: ascendente per la sensibile fa# e (simmetricamente) discendente per l'appoggiatura lab verso il sol.
Nel presente esempio, a battuta 2, il la2b della viola è effettivamente impiegato come appoggiatura superiore del sol, il mi3b al secondo violino resta fermo, mentre al primo violino entra improvvisamente un la4 che provoca un vero choc. Ciò che impressiona nell'improvvisa falsa relazione con il lab (fondamentale dell'accordo) che si è appena udito nella parte della viola, non è solo la brusca rottura armonica che esula dal contesto stilistico, bensì anche il registro nel quale la nota estranea è disposta. Certo, le voci dei tre archi inferiori sono disposte in posizione lata, pur se nella loro tessitura abituale. E anche il loro timbro è omogeneo: le corde sol del violoncello, do della viola e sol del secondo violino donano il loro colore scuro e intenso all'accordo di sesta. Ma l'improvviso attacco del la4 al primo violino apre il baratro di un'ottava più un tritono e - a prescindere che sia eseguito sulla corda mi o su quella la - il la4 risuona solitario nel suo registro, del tutto isolato nell'acuto, con un timbro reso estraneo dalla sua luminosità.
In maniera meramente scolastica, l'accordo che ne risulta si può classificare perfettamente: do al basso, con sopra mib, sol e la formano in sol maggiore una sottodominante minore con sesta aggiunta. Di conseguenza, il precedente accordo di sesta di lab maggiore era una sesta napoletana in sol maggiore, mentre quello che segue immediatamente alla sottodominante minore è l'ultimo rivolto della settima di dominante, do-re-fa#-la (sul terzo quarto della seconda battuta), ossia quello che ci si aspetta convenzionalmente. Anche la risoluzione di questo accordo in rivolto sull'accordo di sesta della tonica sol maggiore segue secondo le aspettative (battuta 3). Il basso si al violoncello e la fondamentale sol alla viola corrispondono alla convenzione. Anche il raddoppio della fondamentale al primo violino, sol4, è conforme alle regole in uso, benché giunga dopo un ritardo dissonante. Ciò che accresce invece in maniera insolita la dissonanza del ritardo è la nota d03#, eseguita dal secondo violino contemporaneamente alla risoluzione dell'accordo a mo' di appoggiatura inferiore (con caratteristica di sensibile) della quinta re3 . Non si tratta certo qui di una anomalia armonica, come era il caso della falsa relazione la2b-la4, bensì di una struttura dissonante in doppio ritardo non troppo comune, che può essere interpretata come con trappeso alla falsa relazione.
Come attesta la flessibile eleganza della sua scrittura armonica, melodica e ritmica, riscontrabile anche nelle sue opere minori, il pensiero compositivo di Mozart tende essenzialmente verso l'equilibrio. L'anomalia della falsa relazione - accettabile solo in un contesto scritturale molto denso - necessita però, come contrappeso, non soltanto di dissonanze insolitamente tese (come già detto, anche se possiamo "ufficialmente" classificare l'accordo come sottodominante minore, la sesta aggiunta dopo una sesta napoletana è, in questo stile, una mostruosità): per apparire plausibile, essa deve essere saldamente costretta in un tessuto contrappuntistico, legata e fissata solidamente. Se noi osserviamo le prime tre battute del nostro esempio, possiamo riscontrare una struttura imitativa: la formula della viola "appoggiatura superiore di sottodominante minore - tonica - appoggiatura inferiore con carattere di sensibile tonica", è imitata, una quinta sopra, dal secondo violino e, due ottave sopra, dal primo violino, proprio con l'aberrazione del la4. Questa formula, che oscilla attorno a una nota centrale, è propria alle curve melodiche impiegate frequentemente da Mozart nei suoi movimenti in tono minore.
La convenzionalità della formula e il suo incrocio in una doppia imitazione permettono di perdonare l'audacia della falsa relazione. Malgrado ciò, molti rinomati musicologi del XIX secolo hanno pensato che Mozart fosse incappato in un errore: François J. Fétis voleva persino correggere il la4. Ma, in primo luogo, un la4b nello stesso luogo sarebbe di una banalità insopportabile, e d'altronde la falsa relazione si ripete in sequenza a battuta 6; non si può dunque trattare né di un errore di scrittura né di uno sbaglio concettuale di Mozart.
La ripetizione dell'intera situazione armonica una seconda maggiore sotto (dopo che Mozart, a battuta 4, ha incurvato il sol maggiore dapprima verso sol minore, quindi, all'inizio di battuta 5, per allusioni, verso sù minore) conduce, con la sesta napoletana di fa maggiore (fondamentale solb alla viola, battuta 6), a regioni ancora più profonde della sottodominante: nel circolo delle quinte, l'accordo di solb maggiore si trova sei piani al di sotto della tonica do. Questo accordo di solb maggiore - a distanza di tritono da do, dunque al polo opposto dello spazio modulante - è nello stesso tempo l'insenatura più profonda dell'abisso della sottodominante.
Segue, di conseguenza, la risoluzione a fa maggiore (battuta 8), quindi la flessione verso fa minore; ma la catena verrà interrotta, poiché invece che sul lab minore, Mozart porta la doppia figurazione del primo violino e del violoncello verso il lab maggiore, in seguito interpretato come sottodominante di mib maggiore. Con l'approdo della tonica di mib maggiore (battuta 10), noi ci troviamo solo tre piani sotto il do1. Il disegno generale di questo "peregrinare della sottodominante" conduce quindi dapprima nelle profondità di entrambi gli accordi di sesta napoletana per risalire in seguito verso la tonalità della mediante mib maggiore (che appartiene ancora alla sfera della sottodominante); a sua volta, il mib maggiore è trasportato nel suo tono relativo, do minore (battuta 12), in modo che noi raggiungiamo il già citato punto dove dominante e tonica si sfiorano di passaggio. A partire da questo punto si dipana un'abile catena cromatica di note di passaggio che porta dall'accordo eccedente "doppiamente teso" in secondo rivolto (la2b al violoncello, do3 al secondo violino, re4 al primo violino e la sensibile fa3# alla viola, sull'ultima croma della battuta 15) verso le alture della dominante, a un piano dalla tonica e due, tre piani sopra rispetto alle dominanti secondarie ornamentali.
Ancora un'osservazione sull'ambivalenza delle funzioni armoniche. All'inizio ho menzionato l'accordo di sesta di sol maggiore a battuta 3 come prima allusione alla dominante. Nel contesto generale dell'Adagio introduttivo questo accordo ha certamente una funzione globale di dominante (in rapporto con la tonica do maggiore), ma localmente, nell'ambiente armonico delle prime quattro battute, l'accordo di sesta di sol maggiore ha una funzione di tonica, a causa della citata cadenza "sottodominante minore con sesta aggiunta - accordo di dominante secondaria - accordo di sesta della tonica sol maggiore", e infine perché la tonalità principale di do maggiore non è ancora apparsa. Ciò significa che, inizialmente, anche il do di apertura del violoncello non è la tonica di do maggiore, bensì la sottodominante della tonica locale sol.
Credo che, dopo queste esposizioni concrete, si renda superfluo un elogio della suprema raffinatezza della tecnica compositiva di Mozart. Questa celebre falsa relazione ci mostra come la sottigliezza e l'eleganza si possano ottenere (talvolta!) anche tramite mezzi ordinari. Una tale analisi delle strategie di modulazione e dell'oscillazione tra squilibrio ed equilibrio ci indica che è possibile giudicare il valore artistico di una composizione a partire esclusivamente dall'artigianato e dalle procedure tecniche del compositore, sempre a patto che una convenzione del linguaggio musicale, così come sviluppato in un dato momento, sia stata stabilita univocamente. A parte Mozart, solo Haydn e Beethoven erano in grado di creare, ognuno a proprio modo, una introduzione in un movimento di sonata di tale ricchezza sul piano delle modulazioni e di tale complessità per la condotta delle voci, impiegando ciascuno il medesimo linguaggio ma trasformandolo in maniera diversa. Nessun altro contemporaneo ha padroneggiato l'artigianato a questo livello. Schubert, certo, ma egli ha spinto l'arte della modulazione verso tutt'altri lidi: l'architettura armonica di Haydn, Mozart e Beethoven era fondata sulla stabilità delle relazioni di quinta e dell'aspirazione ascendente della sensibile; Schubert amplia tutto ciò con una mentalità basata sulle relazioni di terza, che introducono una vaga condizione di incertezza in seno alla dinamica direzionale delle forme classiche. Superare la perfezione delle strutture di Haydn, Mozart e Beethoven era impossibile, poiché il linguaggio tonale aveva raggiunto nelle loro opere il più alto grado di equilibrio. Schubert, in quanto compositore dello stesso rango degli altri tre, ha dissolto la solidità dell'architettura musicale, così come, nella stessa epoca, William Turner ha dissolto la precisione dei contorni in pittura. Entrambi aprivano una nuova epoca.

György Ligeti

giovedì, dicembre 13, 2007

Paola Erdas: la musica in Spagna vista dall'uomo di fiducia del Cardinale di Toledo

Le notizie biografiche relative a Luys Venegas de Henestrosa in nostro possesso sono assai scarse. Nato intorno al 1510 e morto presumibilmente dopo il 1577, di lui si sa solo che per molti anni svolse servizio presso il Cardinale di Toledo e che dopo aver preso i voti lavorò a Hontova, in provincia di Toledo.
La suo vita abbraccia buono parte di quel magnifico Siglo de Oro che vide la Spagna all'avanguardia in Europa non solo nella vita politica ed economica ma anche in quella culturale.
Nel XVI secolo i possedimenti spagnoli riunivano la Spagna , le colonie dell'America del Sud, le Fiandre, l'Ungheria, il Regno di Napoli, il Regno di Sicilia, la Sardegna: un impero enorme e potentissimo alla cui guida nel 1516 salì Carlo V d'Asburgo,
Dopo aver passato la giovinezza nelle Fiandre, dove ricevette l'educazione musicale dal rinomato maestro e organista Henri Bredemers, Carlo V si trasferi in Spagna portando con sé anche una capilla flomenca, composta da musicisti fiamminghi di cui sembra facesse parte tra gli altri Nicolas Gombert. Alla corte spagnola risiedeva inoltre una regolare capilla musical che poteva vantare i più grandi nomi della musica iberica come Antonio de Cabezón, il famosissimo musicista cieco, Francisco de Soto, Mateo Flecha e altri musici, principalmente spagnoli, che godevano di grande stima nonché di un cospicuo salario. L'interazione delle due scuole favorì l'innesto della grande tradizione fiamminga sul corpo della musica spagnola, dando
origine alla produzione stroordinariamente vasta e variegata che caratterizza il Siglo de Or0.
Carlo V trasmise la sua grande sensibilità per la musica al figlio Filippo II, che mantenne sempre vivacissima la vita musicale a corte. Anche durante i suoi viaggi quest'ultimo era spesso seguito dalla sua capilla musical, in gran parte ereditata da quella di suo padre, offrendo così ai suoi musicisti la possibilità di venire a contatto diretto con le realtà musicali del resto d'Europa.
In Spagna nel XVI secolo vediamo il fiorire di nuove forme musicali e il prosperare della preesistente tradizione musicale spagnola. Le Diferencias, variazioni, apparse in Spagna per la prima volta nel 1530 ma chiaramente frutto di una antecedente tradizione popolare; il Tiento, corrispondente all'italiano ricercare; il Romance: una ballata spesso glosada (rielaborata) dal musicista: il Villancico: anche questa una sorta di ballata popolare; il Fabordon: una melodia piana (fabordon llano) armonizzata e spesso accompagnota dalla versione glosada; la Canción di origine popoòare o colta, ecc..
Musicisti quali Luys de Narvaez, Luis de Milán, Alonso Mudarra, Cristóbol de Morales, Antonio de Cabezón, Francisco de Soto, Tomas Luys de Victoria fecero sì che all'egemonia politica spagnola si affiancasse una profondo influenza sulla vita musicale europea e il suo patrimonio artistico ebbe senza dubbio una grande diffusione nel resto dell'Europa.
In questo panorama di estrema vivacità intellettuale e artistica l'opera di Luys Venegas de Henestrosa si colloca come una preziosa fonte di informazioni. Il Libro de Cifra Nueva para Tecla, Arpa y Vihuela pubblicato ad Alcalà de Henarés nel 1557, si propone innanzitutto di diffondere il nuovo metodo di notazione musicale inventato da Venegas, che consiste nell'avere una riga per ogni voce (dall'alto: soprano, contrarto, tenore e basso) e segnare l'altezza dei suoni con dei numeri mentre il valore era segnato sopra il rigo. Un tipo di scrittura visivamente simile a quello utilizzato dai vihuelisti spagnoli e seimile anche nell'intento in immediatezza e facilità di lettura. Questo sistema ebbe molto successo in Spagna - per esempio la cifra utilizzata da Hernando de Cabezón nelle sue Obras de musica para Tecla, Arpa y Vihuela è la stessa di Venegas con qualche piccola modifica.

Dopo aver ampiamente spiegato nella sua prefazione della cifra di tutti i principii di composizione, di accordatura nei tre strumenti, Venegas ci lascia preziose informazioni riguardo alla diteggiatura da utilizzare suonando la tecla ovverosia qualsiasi tipo di tastiera.

La musica contenuta nel Libro de Cifra Nueva è una raccolta delle musiche più famose all'epoca, un panorama completo ed esauriente che ci fornisce una idea precisa sui gusti musicali correnti: musica sacra, naturalmente, ma anche melodie popolari come Guardame las Vacas, nobili Tientos, musica vocale a una o più voci, un gran numero di Fantasias per vihuela, opere composte dai nomi più rappresentativi della società musicale dell'epoca, spagnola ed europea. Nomi alle volte a noi semisconosciuti come Francisco de Soto, che era assai stimato da Carlo V e grande amico di Cabezón, come Francisco Fernandez Palero, organista della cappella di Granada, musicisti di cui la raccolta di Venegas rappresenta l'unica fonte rimastaci. Altre curiosità sono contenute nel Libro: un Hymno di Gracia Baptista, monaca, uno dei rari esempi di musicista donna, tre Tientos di Julius da Modena e cioè Giulio Segni, il musicista amico di Pietro Aretino, una Pavana glosada de Antonio (de Cabezón) che è il primo esempio di variazioni sulla Follia realizzata per tastiera, il Romance "Para quien cries yo cobellos", una bellissima versione vocale della Follia.
Un fatto strano è rappresentato dalla omissione del nome dei compositori per vilhuela: Venegas segna come anonime le composizioni per vilhuela che noi sappiamo essere di Narváz, Mudarra, Valderrábano, Fiorentino, Pisador, Francesco da Milano anche se il materiale originale è talvolta rimaneggiato, presumibilmente da Venegas stesso.
Il Libro completo consta di 138 brani e doveva essere il primo di un'opera in sette volumi, i cui successivi non furono purtroppo mai realizzati. Per questa incisione ho operato una selezione in modo da ben rappresentare tutto il contenuto del Libro, scegliendo anche in base all'utilizzo del clavicembalo. Come gran parte del repertorio spagnolo della fine del XVI secolo l'intestazione è per i tre strumenti polifonici: la Tecla (termine generico per indicare le tastiere), l'Arpa e la Vihuela. Esistono quindi diverse e legittime possibilità nella scelta degli strumenti e anche nell'ambito delle teclas possiamo optare per l'organo, il clavicordo o il clavicembalo, magari a seconda del tipo di composizione prescelta.
E' stato di straordinario interesse per me approfondire questo repertorio così ricco e stimolante, che si accompagna anche a un'ampia documentazione trattratistica che ci permette di indagare a fondo sulla prassi esecutiva dell'epoca: attraverso le opere teoriche di fray Juan Bermudo, Diego Ortiz, Tomás de Santa Maria e lo stesso Venegas de Henestrosa abbiamo ancora oggi delle testimonianze dettagliate e precise sullo stile esecutivo della Spagna tra il 1500 e il 1600.
L'aspetto ingannevolmente sobrio ed essenziale delle partiture in cui nulla è segnato fa sì che già ad una prima lettura "letterale" questa musica ci incanti per la bellezza delle armonie tardo-rinascimentali e per la maestria di composizione, ma è solo dopo aver applicato le antiche regole dei teorici che il tutto prende vita in maniera ancor più sorprendente. La bellezza severa che ci aveva colpiti si colora di nuove possibilità ritmiche e di ornamentazione: avviene quel miracolo che già conosciamo per la musica francese, che permette di colmare l'enorme differenza tra la scrittura e l'esecuzione.
La triplice intestazione del Libro: Tecla, Arpa e Vihuela ci permette anche di desumere che non solo il repertorio ma anche la prassi esecutiva fosse sotto qualche aspetto in comune ai tre strumenti, concedendo naturalmente le differenze insite nella diversa natura degli stessi. In alcuni brani ho infatti trovato estremamente naturale inserire degli arpeggi tipicamente vlhuelistici: naturalmente nelle fantasie per vihuela, nei Romances che strutturalmente sono chiaramente delle melodie accompagnate, nelle Diferencias che hanno una fortissima valenza popolare.
I Tientos, i Versos, gli Hymnos, i Romances e le Fantesias sono in forma monopartita; i Fabordones, i Villancicos contengono delle ripetizioni scritte per esteso come anche i temi delle Diferencias: l'unico brano con dei segni di ritornello scritti è la Pavana glosada de Antonio. Ho comunque ritenuto opportuno ritornellare lcuni dei brani più brevi utilizzando la secondo volta gli stilemi delle glosas o diferencias come suggerito dai trattatisti dell'epoca. Questo studio mi ha anche portato alla constatazione che ritmi e stilemi compositivi di questa fonte tardo rinascimentale sono incredibilmente simili a certa musica popolare che tuttora si pratica in Spagna in una continultività di stile molto interessante da rilevare.
E questo filo che unisce la musica spagnola di ieri e di oggi non è riconducibile alla sola arte sonora: l'affresco musicale che emerge dal Libro de Cifra ci riporta direttamente all'opera pittorica di El Greco col suo strordinarlo e delirante uso del colore, alle liriche dolci
e passionali di Lope de Vega, alla precisione ossessiva delle nature morte di Fray Juan Sanchez Cotan, sino ad arrivare agli artisti dei nostro secolo, che hanno dato un apporto straordinario alla cultura europea nei più svariati campi artistici, dalla letteratura alla pittura alla cinematografia.

di Paola Erdas, 1997 (note al CD Lluys Venegas de Henestrosa "Libro de cifra nueva" - Stradivarius STR 33483)