Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 28, 2008

Caro Johannes!: epistolario Brahms/Billroth

Aussee, agosto 1882: nella villa di Ladislaus Wagner, mecenate e buon dilettante di musica, ci si appresta a eseguire una novità di Johannes Brahms, il Quintetto op. 88 in fa maggiore. E' un appuntamento tra amici al quale si sono presentati con i loro strumenti il violinista Ludwig Straus, il dottor Aloys Mayer, noto avvocato viennese che suona egregiamente la viola, e il consigliere finanziario Rudolf Lutz, che è uno stimato suonatore di violoncello. Il padrone di casa terrà la parte del secondo violino, ma i quattro amici sono preoccupati perché manca all'appuntamento colui che avrebbe dovuto tenere la parte della seconda viola. In sua vece si è presentato il capitano Moritz von Keiserfeld di Graz, un ottimo violinista che si è dichiarato pronto a imbracciare la viola e leggere a prima vista la sua parte. Ad ascoltare i cinque e a descriverci la scena c'è Max Kalbeck, noto musicologo al quale dobbiamo una prima ed estesissima monografia su Brahms. Arrivò anche Brahms e i cinque si misero a suonare, ma a questo punto possiamo cedere la parola alla cronaca di Kalbeck: «Mentre i cinque suonavano Brahms andava su e giù per la stanza e brontolava cose ora divertenti ora serie con il sigaro tra i denti. In quei passi del secondo movimento che ogni volta prima dell'entrata del tempo veloce devono suonare come lunghi sospiri, egli spiegò agli strumentisti: "Questo deve suonare pieno di nostalgia; quelli tra voi che sono sposati interpreteranno meglio questi sospiri!". E al dottor Mayer disse: "Da quando ti sei dedicato alla viola, volevo darti la possibilità di metterti in luce". La prova di lettura e quella generale aumentarono talmente la soddisfazione del Maestro che egli acconsenti all'entrata del pubblico per la matinée organizzata per il 25 agosto».
Un mondo nel quale un capitano, un consigliere finanziario, un avvocato e un possidente ungherese suonino un Quintetto di Brahms così bene da soddisfare l'autore, riuscite ancora a immaginarlo?
Che razza di persone potevano essere quei dilettanti così magnificamente agguerriti? Farebbe davvero piacere saperlo, conoscere qualcosa della loro vita privata, di quel loro riuscire a conciliare così bene le esigenze di una professione con quelle della musica. Questa possibilità ci è offerta dalla lettura di questo libro in cui si susseguono le lettere che per più di trent'anni si sono scambiati Johannes Brahms e quello che vorremmo definire l'esemplare più riuscito di quel nobile dilettantismo musicale, il dottor Theodor BilIroth.
A tutti i medici, anche a quelli che non hanno confidenza con la musica di Brahms, il nome di Theodor Billroth ancor oggi dice qualcosa. Sanno infatti che un certo numero di interventi chirurgici attinenti la resezione gastrica porta il nome di quel celebre chirurgo. Nella carriera di questo grande della medicina umanesimo e scienza si coniugano con un equilibrio mirabile che noi romperemo però a favore del lato artistico, poiché il nostro scopo è quello di conoscere più da vicino la personalità musicale di quegli straordinari dilettanti dei quali lo abbiamo scelto come campione.
Theodor Billorth era nato nel 1829 (quattro anni prima di Brahms) nell'isola di Rügen, nel nord della Germania dunque, in una famiglia di solide tradizioni culturali. Cominciò molto presto a studiare la musica e riusci a diventare un eccellente pianista. Un po' a malincuore decise di diventare medico e non musicista di professione; gli piaceva però dichiarare che sarebbe riuscito a dedicarsi con uguale successo sia alla musica sia alla medicina. Dopo studi eccellenti compiuti nelle università di Göttingen e di Berlino, approdò nel 1860 a Zurigo dove era stato chiamato a occupare la cattedra di chirurgia. Furono, quelli di Zurigo, anni straordinari in cui il nostro pose le basi della sua reputazione scientifica a livello internazionale senza per questo trascurare la musica. La coltivò anzi con uno zelo e un'intelligenza straordinari diventando il primo critico musicale ufficiale del noto quotidiano «Neue Zúrcher Zeitung».
Zurigo era in quegli anni un formidabile crocevia di personaggi della cultura e dell'arte: non si era ancora spenta l'eco sollevata dalla relazione fra Richard Wagner e la famiglia Wesendonk, Francesco De Sanctis teneva le sue lezioni all'università dove insegnava anche Jakob Burckhardt e a tutto ciò veniva ad aggiungersi la brillante personalità del nostro chirurgo, che oltre a esercitare con tanta competenza la critica musicale, era l'animatore di raffinate serate concertistiche. Brahms passò nella città svizzera nel 1863 in occasione di una esecuzione della sua Serenata in re maggiore che fu puntualmente recensita da Billroth, e due anni dopo ebbe luogo il primo incontro tra il compositore e il medico‑critico.
Lo storico dell'arte Lübke, Billroth e Wesendonk (il marito di Mathilde), fecero in quell'occasione le cose in grande, organizzando un sontuoso concerto privato per la mattina dell'undici novembre 1865, nel corso del quale, oltre alla Serenata in re maggiore, si esegui il Concerto per pianoforte e orchestra op. 15. All'indomani del concerto Billroth scrisse a Brahms la prima lettera di un epistolario che sarebbe durato fino al 1894. A quell'epoca Brahms ancora non aveva deciso di stabilirsi definitivamente a Vienna ma già era seriamente in procinto di farlo. Nel 1867 Billroth venne chiamato a Vienna, per succedere al professor Schuh sulla cattedra di chirurgia e nella capitale austriaca si trovò così bene da rifiutare l'anno successivo la prestigiosa chiamata dell'università di Berlino. Nella lettera indirizzata al professor Langenbeck per spiegare le ragioni del suo rifiuto, Billroth dichiarò anche di non voler rinunciare all'amicizia che a Vienna aveva stretto con Brahms e il musicologo Eduard Hanslick. Era dunque nato un formidabile sodalizio che aveva il principale punto di riferimento nella bella casa dei grande chirurgo. Brahms, Hanslick, Kalbeck, il quartetto Hellmesberger e, qualche volta, il grande violinista Joachim si ritrovavano in quella casa per dare vita alle prime letture delle nuove opere cameristiche di Brahms. Billroth non era soltanto un generoso anfitrione, ma prendeva attivamente parte alle esecuzioni, spesso suonando la viola. Poteva capitargli perfino di essere sopraffatto dall'emozione, come lui stesso ci riferisce in una lettera del 1866: «Come iniziai a suonare mi prese un tremito così forte e una tale ansia che non fui più in grado di proseguire».
Il rapporto più straordinario con la musica di Brahms Billroth lo viveva però privatamente, davanti al pianoforte, decifrando le opere dell'amico ancora manoscritte. Brahms gli mandava, a mano a mano che li componeva, i fogli con le parti dei nuovi lavori e questo privilegio, davvero raro, toccava a lui soltanto. Neppure ad Hanslick era concesso gettare uno sguardo sulle opere ancora in gestazione. Quelle letture solitarie trovavano un prolungamento nelle lettere che il nostro medicomusicista inviava all'autore. Erano lunghe confessioni nelle quali emozioni e riflessioni scorrevano in maniera ordinata ed estrosa al tempo stesso: «Con la penna straordinariamente mi trasformo, non riuscirei per nessuna ragione a dire a voce ciò che invece dal cuore mi fluisce così facilmente nella penna».
Brahms apprezzava, naturalmente, e avvertiva l'eccezionale intelligenza e gentilezza del suo interlocutore: «Per Lei è talmente naturale fare qualcosa di speciale che non può immaginare l'effetto delle sue azioni, anzi ne rimarrebbe meravigliato». Aveva perfettamente ragione a riporre tanta fiducia nell'intelligenza e nell'acume analitico dell'amico a cui affidava le sue primizie: Billroth aveva infatti concezioni estetiche incredibilmente profonde, capaci di scalfire con critiche implacabili l'atteggiamento di solito tanto ammirato dei Musikliebhaber viennesi: «La maggior parte delle persone viene sfiorata gradevolmente dall'arte solo quando le piacevoli sensazioni che già conosce si ripetono. Arte, serenità e inerzia della fantasia e dei pensiero diventano quasi concetti affini». E' possibile immaginare una critica più severa, più intelligente e, al tempo stesso, più attuale di questa all'atteggiamento della maggior parte degli abbonati delle stagioni concertistiche?
Con il passare degli anni la confidenza tra i due crebbe fino ad arrivare al tu, come dimostra una lettera del luglio 1873: «Stanco di pensare e affarnato di sensazioni, in questi giorni mi immergo di nuovo nei tuoi Lieder. E' molto presuntuoso da parte mia, ma credo che non ci siano molti uomini in grado di penetrare questi poemi musicali come posso farlo io».
Billroth era quanto mai orgoglioso della sua amicizia con Brahms che considerava un raro privilegio e, avendo sentito dire che la casa nella quale abitava era appartenuta a un certo dottor Johann Peter Frank del quale si diceva fosse stato amico di Beethoven, fece compiere delle ricerche catastali che potessero mettere in luce il fatto. Le ricerche confermarono le supposizioni e in quella coincidenza Billroth volle leggere un po' romanticamente un segno del destino che si affrettò a comunicare all'amico: «Ciò che mi interessa maggiormente è che Johann Peter Frank e Beethoven si sono frequentati nella mia casa e che una tale amicizia siamo presuntuosi per una volta ‑ si è ripetuta tra te e me quasi cento anni dopo». Il destino lo aveva dunque sfiorato benevolmente due volte permettendogli di diventare l'amico di un grande compositore e portandolo ad abitare nella stessa casa dove Beethoven aveva, anche lui, un amico medico. Il destino disegna i suoi cerchi con la musica e li depone su un quartiere residenziale di Vienna: come metafora di quella borghese nobiltà dello spirito tanto cara a Thomas Mann non c'è male davvero!
Brahms nelle sue risposte è molto più sobrio, piuttosto che delle lettere invia all'amico delle cartoline postali in cui può capitare che annoti anche riflessioni dall'apparenza stravagante come questa del 1876: «A Vienna si può restare celibi senza problemi, invece in una piccola città un vecchio scapolo è una caricatura». Altre volte quella sobrietà si incrina lasciando intravvedere spiragli di malinconia propri di una vita solitaria, come nella lettera del maggio 1878 in cui si fa cenno a un viaggio in Italia: «Abbiamo avuto giorni stupendi e c'è stata anche una bella gita a Fiesole. E' immensamente appagante ricordare mentre sono immerso in questa calma; solo per te il ricordo ha qualcosa di più bello, quando alla sera diventa un racconto per la tua famiglia».
Brahms usa toni dimessi e perfino ironici quando parla della musica che sta componendo, la definisce sempre una piccola cosa: sentite come annuncia a Billroth l'invio della bellissima Sonata per violino e pianoforte op. 78: «Ho una sonata, della quale [il copistal può già darti i primi due movimenti... spediscimela subito, non appena l'hai letta una volta. Di più non vale la pena e oltretutto solo una tranquilla ora di pioggia serale potrebbe darle l'atmosfera necessaria».
In altre lettere Biliroth descrive la sua attività professionale: interventi chirurgici nella clinica, lezioni all'università, stesura di appunti per lezioni e trattati, visite ai pazienti privati. Possiede una straordinaria capacità di organizzazione che gli consente di non perdere neppure un minuto, e questa strategia che lui ricorda di aver praticato fin da quando era ragazzo gli consente di accudire la musica con tanta finezza, di organizzare eleganti serate musicali alle quali invita Brahms, il rettore dell'università, Hanslick, Kalbeck e qualche altro eminente musicista di passaggio a Vienna. Si fa musica, si festeggiano compleanni e anniversari, si celebrano i successi che sempre più spesso accompagnano l'apparizione delle opere nuove, e alla musica seguono cene sontuose copiosamente annaffiate dallo champagne che Brahms predilige. A seguire il racconto che attraverso queste lettere si dipana il dottor Billroth ci appare un uomo straordinariamente fortunato e felice, dotato di intelligenza, meticolosità ed equilibrio della specie più rara. Tutto gli sorride, il successo nella carriera scientifica e l'amicizia di Brahms, che illumina musicalmente la sua vita per altro già allietata da una bella famiglia. E il Brahms che pur essendo oggetto di tante cure affettuose se ne sta un po' in disparte limitandosi a inviare con le sue cartoline postali messaggi laconici e non di rado carichi di sottintesi? Il Maestro partecipa volentieri a quelle serate, anche se gli secca un po' indossare l'abito scuro, ma si ha l'impressione che sia in fondo riluttante a uscire dal ruvido guscio della sua solitudine. Può essere cordiale e buontempone ‑ più durante i viaggi in Italia e nelle serate all'osteria che non nella raffinata dimora di Billroth ‑ ma nelle sue frasi corte e dense la confidenza non è mai espressa a chiare lettere; bisogna intuirla abituandosi a cogliere il raro peso specifico di ogni parola che esce dalla bocca di quell'uomo che, a differenza di Billroth, è tutto fuorché eloquente. Si sarebbe tentati di dire che, da quel grande musicista che era, Brahms conosceva meglio di chiunque altro il valore delle pause, e confrontando le lettere dei due amici non possiamo non ammettere che se le parole di Billroth sono d'argento, i silenzi di Brahms sono d'oro.
Non tutte le attenzioni di Billroth sono di suo gradimento e quando quest'ultimo ritaglia un frammento del manoscritto del Quartetto op. 51 che aveva ricevuto in dono per collocarlo entro una cornice d'argento accanto alla foto dell'autore, si indigna. Non glielo dice, naturalmente, ma veniamo a sapere, da una lettera indirizzata ad altri, che la cosa, a lui che era un appassionato collezionista di manoscritti musicali, sembrava inconcepibile e irritante. Qualche nube incombe su quell'amicizia così radiosa, ma non bisogna stupirsi: in fondo nei rapporti umani la perfezione non esiste. La cosa più straordinaria nella storia affidata a queste lettere è il confronto intimo tra le due personalità, il loro sfiorarsi, comprendersi e volersi bene lasciando però molte cose sospese all'orizzonte. Molte cose sono dette in questo epistolario, sincere e commoventi, ma altre ancora, forse più profonde e più vere sono taciute, e la presenza di queste ultime vibra anch'essa aggiungendo a quelli espliciti altri significati che possiamo solo intravvedere. Non v'è dubbio che tra l'eloquenza di Billroth e i silenzi di Brahms esiste una profonda complementarità: le ansie dell'uno sono anche dell'altro, ma in quest'ultimo risultano in qualche modo già assorbite, e sublimate e in questa complementarità di cose dette e taciute sta la ragione profonda di quella grande amicizia.
Passano gli anni e Billroth si sente via via più stanco: «Il mio lavoro è fonte di grande gioia per me, l'unica cosa spiacevole è che mi stanca molto più di prima... Però ho goduto di molte cose belle nella vita quindi devo esserle grato e considerarmi fortunato». Come potrebbe essere diversamente se con tono segreto Brahms gli scrive: «Caro amico, ti mando un paio di piccoli pezzi per pianoforte ma ti prego di non mostrarli a nessuno e di rimandarmeli al più presto»? Pensate che quei «piccoli pezzi» sono in realtà parti del colossale e meraviglioso Secondo Concerto per pianoforte e orchestra!
Nel 1887 Billroth si ammala seriamente: una brutta broncopolmonite che comporta anche un grave scompenso cardiaco lo riduce in fin di vita. Amici e luminari della medicina si avvicendano al capezzale di quell'uomo di 58 anni. Viene in mente il dottor Sloper, descritto da Henry James in Washington Square, che arrivato alla sessantina avverte la figlia che un giorno o l'altro potrebbe buscarsi una broncopolmonite e andarsene all'altro mondo prefigurando implacabilmente la propria diagnosi. Billroth se la cavò ma, a detta di Brahms, dopo la malattia non era più lui. Era preda di una malinconia e di un'ansia che si sentiva di confidare solo a Brahms. Ormai è un uomo vecchio e fragile e la musica, che da sempre gli sta conficcata nell'anima, non fa che accrescere le sue malinconie. Si sforza di rimembrare le ore felici e fortunate che la musica di Brahms gli ha regalato: «Ho avuto la fortuna di vivere con te una grande parte della tua maturazione, e tu con me. Questo è un legame come quello che lega i fratelli nelle buone famiglie. Ognuno va per la sua strada, ma ci si ritrova sempre insieme. Una volta ti dava molta gioia se ti dicevo questo o quello a proposito di una tua nuova composizione. Negli ultimi tempi non ti ho più detto nulla, perché non so dire altro che: musicalmente bello, meraviglioso; oppure qualcosa come: chiaro, anche al primo ascolto, chiaro come il blu del cielo», ma un'insoddisfazione profonda turba perfino lo scenario incantato della musica. Il ciclo evolutivo di Billroth è ormai concluso e quell'uomo stanco non è più in grado di dialogare positivamente con la bellezza che l'amico instancabilmente continua a produrre. Billroth è letteralmente sopraffatto dalla bellezza delle nuove opere di Brahms, può soltanto prenderne atto poiché in lui non c'è più quell'energia intellettuale che in passato lo induceva a dialogare con quelle opere cercando di carpirne i significati più profondi. Vecchio e stanco, sapiente e raffinato, il nostro campione dell'era borghese non esita a mettere a nudo la radice faustiana della sua Weltanschauung: «Come devono essere felici le persone che sono in grado di porre dei limiti agli obbiettivi che vogliono conseguire e che si sanno espandere agevolmente entro questi limiti. La felicità sta alla fine in questa loro inconscia rassegnazione. A me purtroppo ciò non è dato. Sono una persona anziana, ma non c'è frontiera che io possa tollerare. Mi turba una nostalgia, nostalgia di qualcosa che io stesso non conosco e non so godere della vita tranquilla. Forse è una cosa stupida, ma non posso cambiare... E' la giovinezza quello che io cerco! Ho nostalgia di me stesso. Questo deve suonare maledettamente arrogante, ma so che tu mi comprendi. Il mio essere, la mia forza, il mio lavoro sono andati in mille pezzi».
Brahms annuisce e risponde: «Suona sempre un po' malinconico quando scrivi della tua grande solitudine. Certo anch'io sono così. Da molto tempo, o forse da sempre: ero e sono uno che se ne sta in disparte», ma alla supposizione che certe esistenze possano sembrare più serene replica senza esitazione: «Ah, se solo la tua supposizione fosse giusta! Noi vediamo e giudichiamo solo da quelle singole cose che l'amico ci lascia vedere quando sono compiute e terminate. In questo modo, almeno occasionalmente puoi ritenere davvero felice anche il tuo Johannes Brahms che ti saluta con affetto».
Il dottor Billroth si lamenta delle forze perdute, della malinconia e della solitudine che lo incalzano mostrando così la sua stretta parentela con un personaggio come Thomas Buddenbrook. Sotto tanta intelligenza e tanta capacità di navigare nelle acque della vita c'è un'ansia esistenziale che erode tutte le certezze e che appanna perfino le pure gioie della musica, e dopo tanto travaglio Billroth si consegna riluttante al destino della solitudine con la quale sente di non riuscire a convivere. Con la solitudine Brahms aveva invece stretto un sodalizio molto più antico e più profondo ‑ «Da molto tempo, o forse da sempre: ero e sono uno che se ne sta in disparte», ‑ dal quale gli veniva una forza incrollabile. La solitudine l'aveva accettata e domata con un'operosità inesauribile, facendo nascere nel suo intimo una saggezza e uno splendore senza uguali e ora, di fronte alla solitudine e alla malinconia dell'amico, Brahms cerca di illuminare con qualche raggio della sua superiore saggezza la mesta penombra nella quale si dibatte il caro Billroth.

Enzo Restagno (prefazione a "Caro Johannes! Billroth/Brahms, Lettere 1865-1894", EDT editore Torino, 1997)

sabato, giugno 21, 2008

Beethoven: dentro e oltre la forma

Se li confrontiamo con quelli di Schubert, di Mendelssohn, di Schumann e di Brahms, i lavori cameristici di Beethoven non offrono inizialmente occasioni di fascino così vivo. Gli esordi beethoveniani in questo genere sono più legati a progetti di nobile routine, talora a destinazioni di medio o buon dilettantismo. Non si mostrano ispirati dalla forza poetica che investe la produzione cameristica dei compositori romantici. Gli esiti conclusivi rovesciano il rapporto. Le ultime opere cameristiche di Beethoven vanno invece non soltanto al di là del registro estetico medio, ma spezzano la forma, aggrediscono la tradizione, tendono ciascuno a una sua fisionomia unica e si configurano come capolavori di primissima linea, interamente esposti alle scosse destabilizzanti di una vera rivoluzione dello spirito. E' possibile che i quartetti o i quintetti o i sestetti o le sonate per duo di Schumann o di Brahms siano scritture piu' perfette che non le sinfonie o le composizioni sinfonico-corali. Ma certo, la sobrietà formale e la fedeltà alla cornice ereditata dalla tradizione, gli abilissimi mascheramenti emotivi, le dimensioni, tutto questo pone quei lavori in una zona di sicurezza, lasciando il primo fronte di combattimento alle opere di grandi dimensioni, di organico complesso e di forti e dichiarati intenti poetici. Le ultime composizioni cameristiche di Beethoven, soprattutto gli ultimi quartetti per archi, superano invece in grandezza e in audacia profetica persino la Nona Sinfonia e la Missa solemnis in re maggiore. Sono un lascito supremo e unico nel suo genere. Si aggiunga un dettaglio di second'ordine, ma non insignificante. Non tanto in Schubert quanto in Mendelssohn, Schumann e Brahms l'insieme della musica da camera costituisce, nel catalogo di ciascuno dei tre compositori, un corpo relativamente esiguo, in cui il numero ristretto dei numeri d'opera stimola una concentrazione di significati e d'intensità emotiva. Beethoven fu invece, all'interno di un catalogo non piu' ampio di quello schumanniano e brahmsiano, molto generoso autore di musica da camera. Ne deriva un ampio arco di metamorfosi e di innovazioni, lungo il quale la fisionomia muta sembianze molto rapidamente nel corso degli anni. Se nella musica da camera dei grandi romantici ammiriamo la maturità precocemente raggiunta e la fermezza con cui i primi esiti stilistici vengono scavati, sondati e accentuati senza che il linguaggio musicale abbandoni i propri tratti originari, Beethoven, in quasi tutti i generi e le forme da lui affrontati ma soprattutto nella musica da camera (in questo, la responsabilità degli ultimi quartetti per archi è decisiva), è forse il compositore moderno che più di ogni altro si è trasformato. Anzi, la trasformazione è tanto clamorosa da suscitare sgomento. Un modo superficiale ma non falso per valutare la vocazione cameristica di un compositore è il prendere atto della tempestività con cui egli, dopo lavori giovanili o addirittura infantili, quasi saggi scolastici, dedicati quasi sempre al pianoforte, affronta i diversi settori della musica da camera. Beethoven non sfugge alla consuetudine: il suo primo lavoro di cui si abbia notizia è appunto una semplice composizione pianistica, le Nove variazioni su una marcia di Ernst Christoph Dressler, scritte nel 1782 a dodici anni d'età . Ma già nel 1783 egli tentò di scrivere una Sonata in la maggiore per violino e pianoforte, di cui restano frammenti, e un Allegretto in mi bemolle maggiore per pianoforte, violino evioloncello. Nel 1785, a quindici anni, egli compose in maniera compiuta tre quartetti per pianoforte, violino, viola e violoncello. Il quartetto per archi fu una conquista piu' difficile e tardiva. Soltanto intorno ai ventiquattro anni d'età , Beethoven affrontò questo organico, ma non nella forma canonica in quattro tempi: si tratta di brevi pezzi: un Minuetto, un Preludio, due Preludi e fughe.
La conquista di una scrittura formalmente compiuta avviene soltanto con i sei quartetti op.18, opere già mature, con segni inequivocabili di fantasia inventiva e di grandezza ideale. Li scrisse quando aveva dai ventotto ai trent'anni (1798-1800). Ma la vocazione comeristica si valuta meglio alla fine di un'esperienza creativa. Schubert concluse la propria operosità con tre grandissime sonate pianistiche, Mendelssohn con il progetto di un'opera teatrale, Loreley, rimasta incompiuta, Schumann, con il genere del concerto per strumento solista e orchestra, Brahms con i Preludi corali per organo. Ciascuno secondo la sua indole morale e poetica, secondo i suoi sogni. Beethoven affidò agli ultimi quartetti per archi le sue idee supreme. Da questi esordi prese forma lo straordinario flusso di lavori, disuguali tra loro per valore e forza, in cui Beethoven s'impegnò certamente per tutta la vita, ma in misura non omogenea. A grandi linee, è possibile tracciare una mappa cronologica. E' consuetudine parlare, per Beethoven come per altri compositori, di tre periodi e di tre stili. La terna significa in questo caso tre respiri, tre fasi naturali, e corrisponde a una realtà fisiologica e psicologica. E' stato il filosofo Alain a formulare l'inevitabilità dei tre stili in maniera icastica, nel suo Sistema delle arti, riprendendo, del resto,un pensiero di Goethe. In un artista, il primo stile è quello attraverso il quale egli fa apprendistato, assorbe la lezione dei maestri e si fa conoscere al pubblico. Il secondo stile è quello mediante il quale l'artista conferma e rafforza la propria immagine, conquistando prestigio. Il terzo e ultimo stile è quello dell'artista vecchio, non più desideroso di affermazione o di potere, che non aspira più a conquistare il pubblico e lavora quasi esclusivamente per sè, inseguendo il proprio ideale artistico distillato e ricondotto allo stato puro. Beethoven si concentrò sulla musica da camera, o almeno produsse lavori davvero grandi e significativi nel genere cameristico, soprattutto nel primo e nel terzo periodo, fatta eccezione per i quartetti, in cui s'impegnò sia pure con minore intensità anche nel periodo centrale. Una sua caratteristica, piaccia o no, è un dato di fatto: i massimi capolavori si collocano tutti in certi settori della musica da camera piuttosto che in altri. Esistono così zone deboli nella cameristica beethoveniana: scritture eleganti, magari ricche di fantasia, che però si mantengono sempre in un'aura media, tra l'intrattenimento di alto livello e il lavoro su commissione. Tali sono i quattro quintetti per archi, scritti tra il 1795 e il 1817, o le composizioni per strumenti a fiato, fra le quali è difficile scorgere qualcosa di memorabile. Il Settimino in mi bemolle maggiore op.20, per clarinetto, fagotto, corno, violino, viola, violoncello e contrabbasso (1800), è di queste composizioni minori il capofila, il centro d'interesse. Ma da esso, come dagli altri lavori affini, risulta l'immagine di un Beethoven a due sole dimensioni, la dottrina contrappuntistica e strumentale e la capacità di comunicare con il pubblico. Altra cosa è il Beethoven demònico e visionario. In questa fisionomia, che costituisce la sua singolarità e la sua atemporalità non condizionata dal gusto di un'epoca ma anticipatrice di tutto ciò che la musica più traumatica e rivoluzionaria dirà nei due secoli venturi, si collocano le sonate per violino e pianoforte, la più celebre delle quali, la Sonata in la maggiore op.47 "a Kreutzer" (1803), costituì un esempio addirittura peccaminoso di destabilizzazione dell'animo nel celebre romanzo di Tolstoj. Le sonate per violino e pianoforte sono tuttavia espressione di un demònico incline all'immaginazione pittorica, alla sperimentazione armonica e timbrica, e consumano la propria carica visionaria all'interno dei grandi problemi della forma e dell'invenzione. I trii per pianoforte, violino e violoncello rappresentano un grado superiore di fantasia, con suggestioni extramusicali ottenute con mezzi rigorosamente musicali. Questo miracolo dell'arte avviene soprattuto nel Trio in re maggiore op.70 "degli spettri" (1808) e nel Trio in si bemolle maggiore op.97 "Arciduca" (1811). A un grado ancora superiore di originalità sono le due tenebrose Sonate per violoncello e pianoforte op.102 (1805). I sedici quartetti per archi sono il vertice della produzione cameristica e, forse, di tutta la musica composta da Beethoven: opere che si liberano progressivamente da ogni norma che non sia l'invenzione di mondi sempre nuovi e inesprimibili con parole, dove due forme supreme, la variazione e la fuga, suggellano conclusivamente una compiuta visione del mondo manifestata che, forse, nessuno in quell'epoca poteva comprendere nella sua vera essenza.

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 1993)

sabato, giugno 14, 2008

Morricone: il compositore dell'empireo

La pittura, la letteratura, il cinema, la musica sono forme artistiche che illuminano la vita degli uomini facendo in modo che la dea della fantasia accompagni l'umanità, in letizia, sul cammino dei propri giorni. Tanto deve l'umanità a coloro che dedicano la vita all'arte perché, grazie a loro, la storia possa ricordarsi del passaggio dell'uomo non solo per le battaglie, i condottieri e le armi usate nelle guerre ma, soprattutto, per la capacità di una frase oppure di una melodia capace di congelare il tempo, di fermare il mondo. Fosse solo il nostro mondo interiore e null'altro. Per questo ringraziamo Ennio Morricone. Per essere stato uno di coloro che hanno fermato il tempo. A lui avremmo voluto chiedere tante cose, fargli mille domande ma, purtroppo, non ci è stato possibile. Così abbiamo pensato di costruire un'intervista fatta di domande e di risposte "inesistenti". Abbiamo cercato di costruire il nostro film e la nostra colonna sonora, senza irriverenza ma con grande passione e stima per questo Maestro che il mondo ci invidia...

L'appuntamento è per il primo pomeriggio, il Maestro non è solito fare il riposino romano ma, al contrario, è sempre un vulcano di idee ed iniziative. Entrare in casa sua è come immergersi in una sacrario ed, al contempo, nella storia della cultura del nostro Paese. Diciamo cultura a ragion veduta perchè il cinema, la musica, le arti figurative sono cultura di alto livello, sono il mezzo più immediato per arrivare ad avvicinarsi ai giovani (e non solo).
Ennio Morricone ha raggiunto l'apice della sua carriera con l'Oscar che è stato assegnato quest'anno, ma da molti anni, ormai, l'Oscar se l'era già guadagnato grazie alla sua capacità di entrare negli animi degli appassionati di cinema che, anche grazie alle sue musiche, hanno saputo e potuto apprezzare tanti e tanti film che, nel corso di quasi cinquanta anni hanno attraversato la cinematografia nazionale ed internazionale rendendo Morricone un'icona della musica internazionale accanto a Nino Rota (solo per citare il primo compositore di colonne sonore che ci viene alla mente). Romano fino al midollo, ma del mondo altrettanto profondamente, Ennio Morricone è un musicista che ha saputo penetrare nelle storie cinematografiche che ha musicato con la consapevolezza che la musica è un medium formidabile per rendere migliore un film già bello, per rendere accettabile un film così-e-così, per non affossare completamente un film palesemente brutto...

È quasi una premonizione, ma il primo film per il quale venne composta una colonna sonora parla dell’America (“Alla conquista dell’America”, di Sergio Giordani, film TV del 1961). Come mai?
Non è semplice dare una risposta. Io allora ero un giovane compositore che non aveva esperienza in questo settore. Avevo lavorato in altri ambiti ma quello della composizione di una colonna sonora mi era sconosciuto. Fui contattato dalla segreteria della Rai e mi chiesero di preparare una colonna sonora a tema. Il film lo vidi molto di corsa ma avevo nella mente delle idee che potevano accompagnare le immagini, un bel bianco e nero che rivedrei volentieri, e le note mi scivolarono leggere dalla mente al pentagramma. Fu un compito facile da portare a termine ed, al contempo, un’esperienza forte ed indelebile. Poi l’America, con le sue tematiche e le dinamiche assolute la incontrai ancora…

Subito dopo, o quasi in contemporanea, il primo vero, grande impegno artistico a seguire le immagini; “Il federale”, di Luciano Salce.
Non fu un impegno facile. La guerra era finita da soli quindici anni e quello di Giuliano Salce era uno dei primi film sul periodo bellico, sul fascismo messo un po’ alla berlina, sui vizi ed i difetti del popolo italiano. Era un film politico ma anche ricco di sberleffi nei confronti del potere politico che aveva cercato di plasmare un certo modello di italiano ma che, inevitabilmente, per chi sapeva cogliere le sfumature, si rifletteva sul mondo politico dell’epoca. Era importante, quindi, lavorare utilizzare melodie che enfatizzassero la dimensione dell’attivismo e della speranza fascista ma, all’insieme, che ne ridicolizzasse, quali fossero macchiette, le attitudini più ridondanti dell’epica del ventennio. Quella fu una buona esperienza, che mi aiutò a mettere a fuoco un metodo di lavoro. Ricordo, per altro, che quando uscì il film andai a vederlo in un cinema del centro e dai commenti durante e dopo la proiezione ne trassi il convincimento che sarebbe stato un film dalla vita lunga. Ed al regista, che ne era certo fin da subito, bisogna rendere ancora oggi merito.

Già, Luciano Salce, per il quale nei due anni successivi Lei compose altre tre colonne sonore.
Si, ma non solo con Salce, che ricordo con grande simpatia, perché l’altrettanto bravo Camillo Mastrocinque mi commissionò due colonne sonore per altrettanti suoi film. Erano due straordinari animali da regia. Entrambi consci delle proprie capacità, ma anche disillusi dal fatto che non sempre i produttori riuscivano a comprendere le motivazioni ideali o solo di costume che si celavano dietro i loro progetti. Basti pensare alla vena ironica e satirica che vi era dietro la concezione artistica di Salce, la sua corrosività e come invece Mastrocinque riuscisse spesso a mascherare con la farsa e la commedia tematiche di particolare spessore. La mia musica doveva assecondare lo spirito che il film nascondeva nelle sue pieghe, con i suoni doveva enfatizzare quegli aspetti che la parola non doveva/poteva manifestare in maniera chiara ed inequivocabile. Ero un po’ un ventriloquo e mi piaceva questo ruolo. Con grande piacere e passione mi immergevo nel lavoro con la speranza di riuscire a trasmettere la giusta sintassi sonora a quella che le immagini diffondevano allo spettatore.

Consolidato quindi il ruolo di compositore di colonne sonore, arriva il momento del grande salto con Sergio Leone...
No, non è così facile ed immediato il ragionamento perché se è vero che il 1964 è l’anno dell’incontro con Sergio Leone ed il ritorno, se così si può dire, al tema dell’America, della frontiera, dei suoi limiti ed eccessi è anche opportuno ricordare che quello è l’anno di una colonna sonora particolare come particolare fu il film di Bernardo Bertolucci, “Prima della rivoluzione”, con un travaglio interiore, umano e politico che doveva emergere anche grazie alle musiche della colonna sonora. Ricordo quel lavoro come molto faticoso, non tanto per il tempo speso a produrre idee e suoni ma per l’impegno intellettuale che dovetti porre. Bertolucci non è mai stato facile da assecondare perché troppo ricco è il suo bagaglio culturale e quando lavori con per personaggi simili non devi mai accontentarti della prima idea o delle prime stesure. Ma quello è anche l’anno di un film leggero ed allegro come “In ginocchio da te” (con Gianni Morandi) che mi fece entrare in un mondo cinematografico-musicale ricco di immediatezza, frizzante, allegro e pieno di speranze. Ma tornando a Sergio Leone, mi piace ricordare la sua grande capacità di comunicazione; mi rese consapevole che con “Per un pugno di dollari” intendeva sovvertire le regole stilistiche ed ideologiche del film western. A me del concetto ideologico non importava un granché, ma quando vidi le immagini del film, il taglio delle inquadrature, i primi piani invadenti e non formali, compresi che era in atto una rivoluzione stilistica forte, piena, matura; e quell’americano, alto e con gli occhi penetranti, Clint Eastwood, sarebbe stata la testa d’ariete per sfondare nell’immaginario cinematografico degli spettatori del nostro Paese. All’epoca le sale cinematografiche erano strapiene ed un film che andava bene era il viatico per una carriera. Io mi misi davvero d’impegno per creare una colonna sonora che fosse il giusto compendio per le immagini e che le accompagnasse in una sorta di viaggio iniziatico verso un futuro magari ignoto ma, certamente artisticamente degno d’essere sfidato. Nacque così quel piccolo gioiello, ancora oggi credo attendibile, che fu la colonna sonora di "Per un pugno di dollari". Un film cui sono, ovviamente, straordinariamente affezionato e dal quale faccio fatica a staccarmi anche per ragioni elettive nei confronti del compianto Sergio Leone.

Ma questo film non divenne una sorta di caratterizzazione del suo stile, una piccola-grande gabbia artistica?
Certamente mi resi conto del rischio perché quando il successo bussa alla tua porta hai solo la possibilità di chiedere a te stesso se, perseguendo un filone, un criterio, stai facendo la cosa migliore oppure stai creando le premesse per un tran tran artistico. L’anno successivo, infatti, questo dubbio mi colse quando accettati di scrivere il commento sonoro a due film western, di matrice italiana e girati da Duccio Tessari: “Il ritorno di Ringo” e “Una pistola per Ringo”. Questi due film, che prendevano spunto dal precedente modello leoniano, mi fecero riflettere circa il mio coinvolgimento in quel genere di struttura filmica. E sulle tracce di questa riflessione mi portai nuovamente sulle piste di Sergio Leone che con “Per qualche dollaro in più” proseguiva il ‘suo’ discorso western ed, insieme, seguivo percorsi sonori più “cerebrali” lavorando alla colonna sonora di un grande film quale è, ancora oggi, “I pugni in tasca”, di Marco Bellocchio. Un film che mi esaurì dal punto di vista concettuale ma che ringrazio ancora oggi perché mi dette l’opportunità di esplorare il mondo interiore di una realtà assolutamente sconosciuta qual’era il mondo giovanile della metà degli anni ’60. Questo impegno, comunque, non riuscì a distogliermi dal comporre la colonna sonora di un altro film scanzonato come “Non son degno di te”, sempre con Gianni Morandi.

Certo non deve essere stato facile saltare da una tematica all’altra, cercando di non perdere il filo del metodo e del messaggio che è sotteso in ogni film, tanto che mi rimane difficile pensare a come Lei abbia potuto affrontare il lavoro che l’ha caratterizzata nel 1966.
Lei ha toccato un punto davvero delicato ed ancora oggi oggetto di mie profonde riflessioni perché non è stato davvero facile lavorare alla conclusione della trilogia western di Leone qual è stato il film “Il buono, il brutto, il cattivo”, un film che ricordo con grande affetto soprattutto per quanto riguarda la faccia truce di un buono quel’era Ely Walach. Per quel film avevo tutto pronto, ogni idea era collocata al posto giusto, tutto era perfettamente in linea con il tema del film. Ma quando vidi le immagini scorrere sullo schermo per la verifica delle mie idee musicali, mi accorsi che avevo sbagliato tutto e che Leone aveva dato altri indirizzi, orientamenti, versatilità alle idee che mi aveva precedentemente espresso. Quindi mi rimisi all’opera e composi d’un fiato tutta la colonna sonora. Un’impresa epica oggi che ci sono tutti gli ausili tecnologici che ben conosciamo, figuratevi quarant’anni fa…! Ma quello fu anche l’anno di due film, a mio parere, memorabili. Il primo è “La Battaglia di Algeri”, di Gillo Pontecorvo. Un film straordinario, sotto tutti gli aspetti e la cui musica mi venne di getto quasi fosse accompagnata da una sorta di daimon interiore che me la suggeriva. E come dimenticare quando vidi, per la prima volta, le immagini di quel bianco e nero ricco di sfumature, colmo di solarità e di antri bui e pieni di tensione. Fu un lavoro intenso che ricordo ancora oggi come uno dei momenti più importanti della mia vita artistica. Quasi a fare da contraltare a questo film colmo di epica, lavorai ad “Uccellacci e uccellini”, di Pier Paolo Pasolini. Un film complesso, che mi impegnò in maniera particolare anche perché venni come bloccato dalla presenza di Totò, inaspettato attore di un film che, a mio avviso, non rendeva merito alle sue caratteristiche. Fu, comunque, anch’essa un’esperienza importante e formativa nei confronti di temi magari ostici ma, ugualmente, parte attiva del cinema di quegli anni, militante, come qualcuno lo chiamava.

Tanto che l’anno successivo si trovò nuovamente a lavorare con Bellocchio…
È vero, fu in occasione del film “La Cina è vicina”, un film estremamente politicizzato che parlava al mondo studentesco ed operaio delle grandi città cercando di trovare similitudini tra il mondo arcaico-contadino cinese e la realtà proletaria italiana, quasi a volere cercare e trovare le radici comuni al fine di riprodurre in Italia lo stile ideologico della rivoluzione culturale. Anche in questo caso non fu un lavoro facile da svolgere e per calarmi all’interno della struttura ideologica dell’argomento decisi di partecipare ad alcune manifestazioni di quello che era il Partito Comunista marxista-leninista, sezione italiana che a Milano e Roma aveva parecchi aderenti. A ripensare oggi tutti quei ragazzi sicuri e decisi verso la rivoluzione proletaria, sotto la guida degli insegnamenti del Presidente Mao, come gridavano nei cortei mi viene da sorridere circa la caducità delle cose e su come sia possibile credere in un ideale e farsi strumentalizzare. E ve lo dice uno nato in piena era fascista…il 1967, comunque, fu anche il tempo per un film di transizione ma molto particolare per i tempi. La trascrizione cinematografica di “Diabolik”, del capace Mario Bava, un autore poco apprezzato ma dal grande talento purtroppo non sfruttato nella maniera adeguata per le sue capacità di regista.

Sergio Leone aveva in mente un film epico sul west e la mandò a chiamare. Correva l’anno 1968…
Era proprio il 1968 ed eravamo tutti un po’ scossi per quello che stava avvenendo, per questo rimasi un po’ perplesso quando Sergio mi chiese di comporre la colonna sonora di un ennesimo film western. Ma il mio fu, e me ne accorsi subito, un giudizio viziato dalla conoscenza parziale di Leone che, invece, in “C’era una volta il west”, aveva posto indicazioni nette e chiare circa la direzione verso cui la società si stava incamminando. In questo film, infatti, era racchiusa la nostalgia per un tempo andato ed, al contempo, la difficoltà ad incamminarsi verso un percorso che sostituisse gli orizzonti precedenti. Era il ’68 di Leone, quello, con l’idea di cancellare il patrimonio precedente per rimescolare tutte le carte presenti sul tavolo della società. Una volta afferrato il concetto e lo spirito principe del film fu semplice comporre la colonna sonora perché ogni immagine ed ogni passaggio sonoro erano figli di un medesimo presupposto. Così come lo era anche un film come “Teorema” che Pasolini mi sottopose ancora in versione abbozzata e che mi colpì per la sua essenzialità, per il suo andare diretto verso l’obbiettivo. Molto ideologico, forse, come quasi tutto il cinema pasoliniano ma esercizio importante per la mia crescita artistica.

Abbiamo citato spesso Leone, Pasolini, Bellocchio. Ma ricordo che lei ha lavorato molto anche con Giuliano Montaldo.
Con Montaldo abbiamo creato un ottimo sodalizio artistico perché lui, come me, è uno che va diretto sull’obbiettivo. Inquadra bene il problema e ne persegue la soluzione con metrica attenzione, con teutonica applicazione. Con lui ricordo di avere lavorato a film di grande spessore artistico-culturale quali, ad esempio, “Gli intoccabili”, “Sacco e Vanzetti”, “Giordano Bruno”, “Gli occhiali d’oro”, “L’Agnese va a morire”, per citare i più importanti. Ed il ricordo si poggia anche sugli aspetti di difficoltà che ho incontrato nel portare la musica al livello ottimale delle immagini affinché la passione e l’emozione delle storie raccontate venisse amplificata delle melodie. Basti pensare all’epica racchiusa in una storia come quella di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti oppure il dramma interiore di uno scrittore come Maselli, protagonista de “Gli occhiali d’oro”. E come interpretare gli ardori di Giordano Bruno, il suo tormento interiore diviso tra fede e ragione? Non da ultimo ricordo con grande emozione la storia di questa ragazza partigiana, Agnese, dei suoi dubbi, delle sue angosce, delle sue paure, delle sue intime speranze per un mondo migliore, del suo sacrificio. Non è facile, non è per niente facile interpretare, attraverso la musica, storie così diversificate ed emotivamente coinvolgenti. Questa è la difficoltà più grande per un musicista di colonne sonore. Indagare l’animo umano, entrare nei personaggi, scandagliarne le personalità, farle entrare nel corpo emotivo dello spettatore. Una cosa è musicare la natura, l’alba, un tramonto, altro, ben altro è musicare un silenzio, il pianto, la speranza, la paura, il sorriso, la morte. Come fai a musicare il dramma e la paura che pervade l’animo di due immigrati, anarchici, se non ti immergi nel loro mondo, se non pensi alla vergogna dell’essere additati al mondo come spregevoli assassini pur sapendo, in cuor proprio, d’essere innocenti?

Queimada” è un altro grande film per il quale lei ha dato il suo contributo musicale. Che cosa ricorda di quel lavoro?
Fondamentalmente il periodo in cui è stato girato. Era il 1969 ed in Italia eravamo in pieno autunno caldo ed anche la cinematografia risentiva di quanto accadeva nel mondo circostante. Marlon Brando era una sfinge impenetrabile, carismatico, eccentrico. Un monumento di incredibile coinvolgimento emotivo. Gillo Pontecorvo assemblò un film molto originale e, per certi versi, strano nello scandire la storia. Ma, alla fine il risultato fu qualcosa che sta a metà tra l’epica, la politica ed l’indagine del profondo. Nel comporre la colonna sonora del film ho potuto immergermi in territori precedentemente inesplorati e la morale più importante l’ho ottenuta dal caos che si fa ordine, nelle immagini che raccontano accompagnate della musica che ne regola e scandisce i tempi.

Un salto veloce alla scrittura cinematografica di Dario Argento ed ai suoi film più famosi, “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”.
Dario Argento è stato per un certo periodo assistente di regia di Sergio Leone ed è in quella veste che l’ho conosciuto, poi decise di mettersi in proprio a dirigere film ma, onestamente, non avrei mai creduto che diventasse il re del film thriller made in Italy, prima e dell’orrore poi. Ma lui aveva talento e quando mi propose di musicare le immagini del suo primo film lo ringraziai perché mi dava l’occasione di potere dimostrare a me stesso che ero in grado di produrre una colonna sonora di particolare tensione, di riuscire a “far paura” con le note musicali. Ci sono riuscito? Beh, reclami non ne ho mai ricevuti e, quindi, immagino che il risultato sia stato ottenuto. Anche se non mi fa piacere pensare che la mia musica sia stata fonte di inquietudine, ma l’arte chiede anche questo.

L’ultimo film di natura western che ha girato con Sergio Leone è del 1971, ed è “Giù la testa”. Cosa ricorda di questo film?
Sergio mi raccontava che si sentiva ormai stanco per girare film lunghi ed all’aperto. Aveva bisogno di maggiore riflessione, di luoghi chiusi in cui poter esprimere una scrittura maggiormente densa, intensa, potente. Non più epica ma ragionamento, lentezza al posto di immagini rapide ed annichilenti. “Giù la testa” rappresenta la fine del mito della frontiera e, davvero, ogni punto di riferimento è saltato. Allora l’idea di fondo era quella di creare una sorta di musica epica, una sinfonia in chiave western che raccogliesse la malinconia, il dolore per il tempo che è trascorso, la difficoltà di incontrare il futuro senza un adeguato supporto che indirizzasse la visione verso un tempo ed un mondo nuovo. Questo era il ragionamento che mi guidò nel musicare le immagini di quel grande film che prendeva lo spunto ideale dalla lezione che andava impartendo, sul tema western, Sam Peckimpha.

Vorrei tornare un momento a parlare di Pasolini perché Lei ha musicato anche altri suoi film quali, ad esempio “Il Decamerone”, “I racconti di Canterbury”, “Il fiore delle mille e una notte”, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.
Temi differenti, quasi antitetici verrebbe da dire, che lasciano un po’ straniati…me ne rendo conto ed infatti non credo di dire nulla di strano quando affermo che ho fatto molta fatica a conciliare musiche aperte, piene di sensualità e gioia per il godimento del corpo come la trilogia delle storie tratte dai romanzieri con quella durissima, nera, necrofila di “Salò”, liberamente tratta dalle storie del Marchese De Sade. “Salò” è stato un film in cui ho davvero fatto fatica a trattenere la repulsione, non tanto per le immagini del film in sé ma per la violenza di cui era intriso e, di riflesso, di cui è intrisa la nostra società. Pasolini, lo sappiamo, era un poeta obliquo, che vedeva il reale ed il futuro in una maniera specialissima e non sempre accettabile. Ma le sue visioni, purtroppo, erano centrate e la storia di questi anni, con il degrado della civile convivenza, ci ha insegnato che la visione che aveva era, purtroppo, corretta.

C’è stato anche il periodo, negli anni ’70, del film di denuncia che film come “La proprietà non è più un furto”, “Todo modo” e “La classe operaia va in paradiso”, di Petri, “L’istruttoria è chiusa, dimentichi”, di Damiano Damiani, “Ogro”, di Pontecorvo, “Corleone”, di Squittieri, “Forza Italia”, di Faenza.
L’attraversamento degli anni ’70 è stato un periodo complicato per il nostro Paese e, come dicevamo, il cinema ha cercato di raccogliere le istanze che la società mostrava. In Italia abbiamo avuto la fortuna di avere registi acuti, accorti, intelligenti, colti, che hanno fotografato l’attimo cercando di invitare il pubblico alla riflessione. Qualche volta con gli occhiali dell’ideologia, altre volte utilizzando l’arma dell’ironia, altre volte ancora usando il metodo storiografico. Qualunque sia stato il risultato, è da apprezzare il tentativo. La musica per questi film, quindi, si è sviluppata tenendo conto sia della trama specifica che del contesto socio-politico in cui ci trovavamo. In “Todo modo” il clima era cupo, in “La classe operaia…” era necessario trovare ambiti di speranza mentre in “Corleone” dovevano convivere sia la parte viva del territorio, l’ambito naturale e selvaggio che la parte aspra, dura, violenta del metodo mafioso. In ogni caso in questi film era necessario porre la giusta enfasi alla realtà che veniva raccontata. Una realtà dura che mostrava delle fotografie relative a quel preciso momento storico. Erano lavori “istantanei” che raccontavano ciò che era possibile verificare nel proprio quotidiano, andando a lavorare, leggendo il giornale. Anni, duri, anzi durissimi, le cui ripercussioni si sono dilatate nel tempo.

Però, al contempo, era il 1976, Lei lavorava con Bertolucci per quel grande affresco sociale e politico che è “Novecento”.
Quel film è stato un parto doloroso, non tanto per la difficoltà nella scrittura, nella composizione, nell’orchestrazione ma in quanto rappresentava il tempo passato della cultura contadina, delle lotte dei lavoratori mal pagati ed affamati, della durezza dello scontro sociale, del prologo del fascismo, della fine del sogno socialista. Per me “Novecento” ha rappresentato un’immersione nella memoria, un ritornare a pensare la nostra Storia non come una serie di eventi senza connessione, quasi un puzzle da mettere insieme in maniera coerente, bensì un percorso unitario ben preciso, un itinerario storico che tanto bene hanno saputo raccontarci gli scrittori di fine Ottocento e del Novecento. In questo film Bertolucci ha creato il suo personale percorso storico ed il mio contributo è stato quello di assecondarne la coerenza storiografica e la visionarietà sociale. Sono contento di questo film e del mio lavoro e quanto vedo il quadro Quarto Stato, di Pellizza da Volpedo, mi ritrovo idealmente all’interno di quel gruppo di popolani desiderosi di raggiungere il futuro in piena dignità.

Bertolucci è stato uno dei registi più prestigiosi con i quali ha lavorato e che Le hanno dato la possibilità di lavorare su temi molto differenti tra loro.
Non posso che condividere questa osservazione perché questa è una parte della genialità dei grandi registi che non si accontentano di incassare il frutto di un filone o di un tema che ha dato riconoscimenti artistici ed, ovviamente, economici. Partendo dal ragionamento sull’epica presente in “Novecento” non posso non ricordare l’evidente dissonanza/lontananza da un film come questo presente nella tematica di fondo di un film come “La luna”. Un lavoro, questo, a mio avviso molto claustrofobico che mi costrinse ad un lavoro molto intenso, poco epico ma, e mi scuso per il gioco di parole, molto edipico...

Storia e storie si intersecano, si connettono, si avvicinano, si allontanano senza sosta in questo film. Ma ve ne sono altri che vivono la medesima realtà e mi riferisco a lavori come “C’era una volta in America” (1984), di Leone, “The Mission” (1986) di Joffè, “Gli intoccabili” (1987) di De Palma, “The Days of heaven” (1978) di Malick.
Certamente c’è la Storia, quella grande di “Novecento” e di “The Mission”, ad esempio, ma anche le piccole storie che creano la Storia. “C’era una volta in America” è l’affresco finale su un mondo ormai trasformato che, e mi spiace dirlo, è ancora insuperato e nonostante “Gangs” di Scorsese abbia cercato di comprendere il momento storico precedente, la visione di Leone sull’America del secolo scorso è stata straordinanriamente intensa e poetica, malinconia ed aspra, struggente e dolorosa. Sergio Leone ha creato un affresco memorabile e malinconico di un mondo in via di estinzione ed ora estinto, La mia musica era al completo servizio della storia, delle immagini, della cromaticità degli esterni e degli interni. Ogni nota doveva essere ascoltata come un compendio alle parole ed alla fotografia e sono contento che la colonna sonora sia apprezzata anche da artisti del mondo del rock. Questo mi rende felice perchè significa che questa musica è stata capace di superare barriera di età e di fruibilità dell’ascolto musicale. “The Mission”, invece, l’ho vissuto molto più di istinto nel senso che la musica era non compendio ma protagonista ed il suo compito era, ed è, quello di indirizzare lo spirito dello spettatore verso lidi emotivi che lo facessero parteggiare, subito, per i più deboli. Dovevo creare un suono che si legasse fortemente e decisamente alla storia perchè attraverso il ricordo della melodia ritornasse alla mente la tematica del film. “Gli intoccabili” era una storia nera che però aveva una morale da fare risaltare alla fine del film. E questa morale l’ho costruita musicalmente grazie al ricordo delle emozioni provate quando vidi per la prima volta film come “Piccolo Cesare” oppure “Scarface”. Musica diretta, forte ed efficace che arrivava spedita al cuore. Per “The days of heaven” mi sono ritrovato immerso nella natura, come per “The Mission”, ma in un contesto nuovo pur essendo un film western. Terence Malick ha fatto solo tre film in oltre 30 anni di carriera ma la sua scrittura cinematografica è difficile, complessa, interiore, di varie letture. Mentre credi di avere capito il film, una nuova visione ti spiazza e ti riporta al principio della storia e da lì ricomincia ad immaginare una nuova filosofia di accompagnamento musicale, nuove possibilità sonore. Anche con lui l’impegno è stato duro ma non dimenticherò il suo saper guardare verso il cielo raccogliendo nel suo viso la luminosità di una giornata senza nuvole, quando il cielo è color cobalto. Irripetibile...

Dopo tutti questi film importanti dal punto di vista del messaggio e della produzione arrivano due film leggeri come “Un sacco bello” (1980) e “Bianco, rosso e Verdone” (1981) diretti da Carlo Verdone..
...per i quali posso dire di essermi davvero divertito. Carlo Verdone era agli esordi cinematografici e proponeva le sue macchiette, i suoi personaggi, le sue gags legate da un filo conduttore. Certo non è stato facile passare dalle immagini di straordinaria luminosità ed immensità stilistica di “The Mission” con gli esterni di una Roma caciarona. Ma alla fine il risultato è stato apprezzato, gradito ed assolutamente in linea con le tematiche, leggere, dei due film. E dopo tanto impegno una serena immersione nel non sense verdoniano è stato davvero un toccasana anche per la mia creatività.

Ci piacerebbe restare insieme a Lei per altre ore ancora ma non vorremmo abusare della Sua pazienza e cortesia. Vorremmo però sentire qualche Sua considerazione su "Jona che visse nella balena", di Roberto Faenza, un regista con il quale ha collaborato in varie occasioni.
Ah, ricordo “Jona che visse nella balena” come un film di grande spessore morale ed etico e non fu impresa semplice trarre le giuste note per accompagnarne le immagini. Intendiamoci, il problema non era quello di comporre una colonna sonora adeguata al film ma di fare giungere allo spettatore tutto l’orrore perpetrato dal nazismo, tutta la ferocia subita dal mondo dell’infanzia, il lutto indelebile delle famiglie distrutte, disarticolate, dissolte. Fare parlare gli adolescenti, attraverso le immagini e le musiche, del loro indelebile dolore è stata la scommessa che, insieme con Roberto, abbiamo messo in campo. Il mio compito era quello di costruire una musica che permettesse allo spettatore di entrare nella balena, nel cuore del dolore e del delirio e che, al contempo, indicasse una via d’uscita una volta che, scampati dallo sterminio, la vita potesse nuovamente essere accolta ed accettata come un dono e non come una sciagura.

Una domanda sul Suo lavoro con Giuseppe Tornatore, per il quale ha prodotto le colonne sonore di tre interessanti film quali il poetico “Nuovo Cinema Paradiso” (1988), il sognante “L’uomo delle stelle” (1995) ed il malinconico “La leggenda del pianista sull’oceano” (1998). Come giudica la nuova cinematografia italiana, Lei che ha accompagnato quaranta anni di cinema?
Non la giudico: la osservo e cerco di coglierne i più profondi mutamenti, di stile, di recitazione, di tematiche, di metodo, di forma, di esperienze, di contaminazioni. Il cinema che ho conosciuto io è finito da lungo tempo. Ora è tempo dei poeti e dei businessman, non ci sono mediazioni. Ogni tanto sorge una mosca bianca che si esprime con un bel film e poi scompare. Quello che latita è la continuità nei progetti, il senso di una cinematografia compiuta, i sogni che diventano realtà. O, almeno, la speranza che lo diventino. Il lavoro che ho avuto il piacere di esprimere con Giuseppe Tornatore è stato illuminante per dare più significato al discorso che sto facendo. In ”Nuovo Cinema Paradiso” ho cercato di esprimere un mondo perduto ed i sogni che il cinema ha posto nel cuore di un bambino, che rappresenta tutti gli adulti prima di conoscere il baco della disillusione. “L’uomo delle stelle” mi ha impegnato nel cercare di esprimere l’imbroglio che è nascosto nei sogni, che spesso non percepiamo, nonostante le apparenze. Ho colorato immagini interiormente in bianco e nero che, con la musica, prendeva vita e colori. Invece “La leggenda del pianista sull’oceano” è stata l’occasione di esprimere ciò che sentivo nel profondo: la tensione interiore del musicista che si apre al pubblico ma, al contempo, rimane prigioniero di se stesso. E non sempre l’immagine, il concetto di prigionia ha un’accezione negativa...

Maestro, un’ultima domanda prima di salutarla. Quali i suoi progetti futuri?
Innanzitutto dirò di ciò che non farò. Certamente il secondo atto de ”Gli intoccabili” che De Palma avrebbe voluto affidarmi. L’impegno è però troppo gravoso e non me la sono sentita. Credo che, dato il rapporto che ci lega, il buon Brian capirà…Lavorerò, invece, ancora con l’amico Montaldo ad un film che dal titolo “San Pietroburgo”, che racconterà degli ultimi giorni della vita di Dostoevskji. Mi intrigava la possibilità di mettere la poesia della musica al servizio di chi ha utilizzato la poesia nelle parole e per poter descrivere il mondo russo in un periodo cruciale per la storia di quel Paese e dell’Europa intera. E poi vorrei riposarmi un po’… Forse.

Guardiamo l’orologio. Ci rendiamo conto d’avere perso il senso del tempo e ci congediamo non senza avere avuto un capogiro nello scorgere una parete piena di foto che lo vedono insieme a tutti i possibili Vip della terra, attuali e passati. Quante domande vorremmo ancora fargli, quante sensazioni che ci giungono da quelle immagini...Ci immergiamo nell’anti-crepuscolo romano: l’aria è tiepida ed i pensieri si accavallano tra loro. Abbiamo ascoltato la storia di uno scorcio di tempo e d’Italia che abbiamo vissuto ma, forse, mai capito fino in fondo. Abbiamo cominciato questa storia con la citazione di un film TV; la concludiamo con la citazione di un altro film TV: “Cefalonia” del 2005, dove le immagini dell’epica sono avvolte in una musica che trasuda sangue e dolore, ma anche pietà e speranza...

di Rosario Pantaleo ("L'isola che non c'era", anno XII, n.40, maggio/luglio 2007)

sabato, giugno 07, 2008

Rognoni: Selva de varij passaggi

Con il termine "Diminuire" s'intende il comporre più note di valore minore al posto di una sola nota di valore maggiore. Quest'arte inizia nel quindicesimo secolo con l'intento di ottenere con gli strumenti (liuto, organo, flauto, viola, etc ... ) la stessa espressività della nota cantata. E' l'arte di improvvisare sopra un brano polifonico, che seguirà il progressivo cambiamento di stile da quello intellettuale, puro, integro e sintetico del rinascimento a quello abbondante, ricco e complesso del primo barocco. Questa pratica viene documentata in tanti trattati di importanti compositori come Ortiz, Dalla Casa, Bassano, Bassani, Bonizzi, Virgiliano. Ma è proprio in Riccardo e Francesco Rognoni che il "passeggiare" sopra brani polifonici tocca il suo apice nella complessità. Il diminuire come normale pratica strumentale continuerà fino a Bach, quindi in pieno periodo barocco.
Il termine "Suonare o Cantare alla Bastarda" significa toccare più voci della polifonia, dal soprano al basso saltando da una frase all'altra: « ... qual professione si va toccando tutte le parti» (Girolamo dalla Casa: "Il vero modo di diminuir", Venezia 1584). Rognoni lo dimostra nella sua versione più semplice (praticamente senza diminuzioni) del suo "Ung Gay Bergier -modo facile". Quasi sempre però questo termine viene collegato con l'arte della diminuzione. Lo conferma Dalla Casa quando scrive: « ... si come fanno gli intelligenti, ... io ho diminuito dai Canti tutti le Crome».
Il Diminuire Alla Bastarda lo si può fare con la voce (Rognoni dedica un suo brano all'Illustre cantante Ottavio Valera) o con uno strumento come l'organo, il clavicembalo, l'arpa, il liuto. Essendo la viola da gamba dotata sia di espressività melodica che di una grande estensione, era frequentemente impiegata nel diminuire alla bastarda, da qui la dicitura "Viola Bastarda". Vennero anche costruiti strumenti che potessero suonare più agevolmente in questo modo.
Monteverdi la cita quando descrive come mostrava, suonando la viola, i suoi nuovi madrigali ai mecenati : «Vidi ... io affissare ella il purgato senso al debil moto della mia mano, sopra della viola, et compiacersene ... » e «... mio fratello.. si trova occupato nel concertar le due Viole bastarde» (prefazione al Secondo libro de madrigali, Venezia 1590).
Leggiamo in Francesco Rognoni: «La viola bastarda, qual è Regina delli altri instromenti, per paseggiare, è un instrumento, qual non è, ne tenore, ne basso de Viola, ma è tra l'uno, e l'altro di grandezza, si chiama Bastarda, perche hora và nell'acuto, hora nel grave, hora nel sopra acuta, hora fa una parte, hora un'altra, hora con nuovi contraponti, hora con pasaggi d'imitationi, ma bisogna avertire, che le imitationi non habbino più di sei, o sette risposte al piu, perche farebbe poi tedioso, e di disgusto, il medesimo s'intende ancora de tutte le sorti d'instrumenti, perche le scole de valenti suonatori, non lo permettono, prohibiscono ancora nei pasaggi, far due ottave, e due quinte, con alcuna de l'altri parti, se non s' è più che sforzato, per seguitar qualche imitationi; si vedon' hoggidí molti che suonano ò il Cometto, à Violino, ò altro instromento, che non fanno altro che paseggiare, ò sia buono, ò cativo, pur che sempre faccino pasaggi, rompendo la testa a chi sà del mestiero, ruvinando tutto il canto, pensando che nei concerti, non sapendo che val più saper tener una nota con gratia, over un'arcata dolce e soave; che far tanti pasaggi fuori del suo dove» (Selva de varij passaggi secondo l'uso moderno per cantar e sonar con ogni sorte de strumenti, Milano, 1620).
E a proposito della viola da gamba lo stesso afferma: «La viola da gamba è instrumento delicato, in particolar se vien suonata con bella arcata accentata con i suoi tremoli, con passaggi regolati che siano ben compartiti, con arco ben serrato alla viola, discernendo ben le corde. [ ... ] Al violino da gamba il diminuir con gratia e sopra al tutto bell' arcata».
Fino al sedicesimo secolo la musica vocale era il modello di riferimento per ogni tipo di composizione ed anche quando si assiste ad un autonomo sviluppo della musica strumentale (Rognoni è tra i primi a ideare una sorta di ensemble solo "orchestrale") la vediamo ancora debitrice dei propri criteri stilistici ed esecutivi alla voce (= la parola) e alla vocalità.
A proposito del rapporto tra testo e musica è interessante citare una prima testimonianza in Don Nicola Vicentino: «[ ... ] a voler fare che gli uditori restino satisfatti, si dè cantare le parole conformi all'oppinione del Compositore, e con la voce esprimere quelle intonazioni accompagnate dalle parole, con quelle passioni, ora allegre, ora meste, e quando soavi, e quando crudeli e con gli accenti aderire alla pronuntia delle parole e delle note, e qualche volta si usa un certo ordine di procedere nelle compositioni che non si può scrivere, come sono il dir piano e forte e il dir presto e tardo e, secondo le parole, muovere la misura per dimostrare gli effetti delle passioni e dell'armonia» (L'antica musica, Libro Quarto, cap.42, pp 89» Roma 1555). Zarlino, Dalla Casa, Caccini e Zacconi riprenderanno e approfondiranno questo argomento.
Proprio per quanto documentato nei trattati del rinascimento e del primo barocco sull'importanza di esprimere con "le passioni dell'anima" il contenuto del testo, si è scelto di eseguire le diminuzioni dei Rognoni avvalendosi anche di un gruppo vocale: in questo modo è possibile valorizzare meglio lo stretto legame tra le diminuzioni eseguite dalla viola e la relativa frase poetica nonché la struttura contrappuntistica del madrigale o del mottetto originario e, soprattutto, gli «affetti» contenuti nel testo poetico. Ogni diminuzione vocale o strumentale descrive e sottolinea l'idea di ogni parola della poesia. Lo chiarisce lo stesso Girolamo Dalla Casa: "nella diminuzione gli strumenti devono suonare in maniera articolata, imitando la voce".
Ed anche Francesco Rognoni: «Avertimenti a cantanti: Sendo che la vaghezza del canto principalmente consiste nell'esprimere bene e distintemente la parola che si canta, ho perciò voluto in questo luogo a cantanti desiderosi di seguir le pedate [i passi] degli elletti e periti ricordarlo; perciò che non essendo altro la voce articolato che l'instrumento d'esplicare il concetto dell'anima che la parola, vedano loro sii in maggior consideratione l'instrumento con che si fa una cosa o pure l'istessa cosa che si fa e a nostro proposito se più s'abbia far sentire la voce con che si canta la parola che l'istessa parola che si canta».

a cura di Nanneke Schaap (dal cd Symphonia SY 00176 "Francesco & Riccardo ROGNONI - Selva de Varij Passaggi, 1620")