Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, settembre 26, 2019

Los Angeles, Elvis Costello e il Brodsky Quartet

Elvis Costello & Brodsky Quartet (Foto by Amelia Stein)
Adesso la parola d’ordine è contaminazione. I mass media, la cui velocità nel leggere il reale sta diventando il corollario della loro incapacità a capirlo, hanno subodorato che la nuova frontiera, per il mondo della musica, è quella. E ripetono la magica parola, come uno slogan da detersivo, non appena fiutano qualche intrigante confusione di generi. Pavarotti canta con Zucchero, Renato Zero fa un concerto al Regio di Parma: tanto basta per macinare idiozie sulla contaminazione. Solo ieri era ancora una parolaccia: adesso ci pasteggiano tutti con una confidenza che lascia di stucco.
Naturale che anche chi nella contaminazione ci crede da anni inizi a prendere la cosa con le molle e a tirar su imponenti barriere di scetticismo. La contaminazione è una porta stretta, adatta solo alla sottile e tagliente silhouette del genio. Farne un’autostrada per furbi e opportunisti non serve a niente. Mai come adesso, capire dove finisce il maquillage commerciale e inizia il Nuovo è un compito difficile ma necessario.
Tutto questo per dire che quando ho sentito che Elvis Costello aveva inciso un disco con il Brodsky Quartet, la prima cosa che ho pensato aveva a che fare piu col sospetto che con l’entusiasmo. Aveva tutta l’aria della furbata ben confezionata. Anche il pretesto era astuto: Costello ha scoperto che da anni la gente più strana si prende la briga di scrivere lettere a Giulietta Capuleti, a Verona, e che un professore del luogo si è preso la briga di raccoglierle. Va da sé, sono lettere d’amore, sull’amore, per amore, dall’amore. Costello ne ha prese alcune, le ha in qualche modo riscritte, ha pensato di farne dei songs, ha scelto il Quartetto Brodsky, e con i suoi quattro strumentisti ha scritto la musica. Titolo del cd: The Juliet Letters. Sapore d’Europa, sonorità da musica classica, storie d’amore. Non c'è che dire, la ricetta suona perfetta.
Troppo perfetta, pensavo, e il disco non l’ho comprato. Però un mese dopo mi son trovato in una sala piena di tremila americani, con trentasette dollari in meno e, in mano, un biglietto del concerto di Elvis Costello & Brodsky Quartet. Los Angeles, Royce Hall alla mitica Ucla. Bisogna capirmi: quella sera i Lakers non giocavano e la Los Angeles Philharmonia suonava, sì, ma il Bolero di Ravel. Non restava che andare a spiare cosa fanno gli americani quando decidono di fare gli europei.
Nel teatro, un’umanità che, per la strada, in California non esiste. Per dire: erano vestiti. La gente, di fuori, non si veste, propriamente: sta in divisa: t-shirt, jeans, cappellino da baseball in testa, Nike nei piedi, e hot-dog in bocca. Per sentire Costello avevano invece le scarpe, i pantaloni, le giacche, qualche cravatta, perfino qualche indovinato abbinamento di colori calza-maglione. Giuro che non avevano nemmeno il cappellino in testa. Intellettuali, insomma. Gente che magari sa chi è Brahms, saprebbe disegnare la forma dell’Italia, ha sentito da qualche parte parlare di Goethe e sa chi, tra De Gaulle e Mitterrand, è quello ancora vivo. Gente rara, da quelle parti.
Annoto tutto questo non solo per fare colore. Una delle cose da capire, della nuova musica che nasce dall’incontro della tradizione colta con quella popolare, è che razza di pubblico ha nel mirino. Per chi sta nascendo. Guardarli in faccia, quelli che riempiono una sala di tremila posti per sentire Costello e un quartetto d’archi, è un modo per farsi un’idea. E l’idea, alla fine, è: quella è musica per una enorme minoranza. Il grande pubblico è un’altra cosa. Ma anche un'élite intellettuale è un’altra cosa. Il pubblico di quella musica sta forse a metà. Una minoranza potenzialmente enorme.
Il concerto, per la cronaca, è stato un trionfo. Ci sa fare, Costello, e quando parla, tra una canzone e l’altra, non dice cose qualunque e se vuole riesce a far sbellicare il pubblico dal ridere. Insomma, sa fare spettacolo. Il Brodsky Quartet sta al gioco, abbandona l’aplomb da sala di concerto e si esibisce in gags varie cui, probabilmente, il Quartetto Amadeus non si sarebbe concesso con la stessa levità.
Musicalmente, un grande e intrigante serraglio di materiali musicali. Non credo che, nel suo complesso, lo spettacolo (e dunque il disco) vada scambiato per un capolavoro. Ma la qualità dell‘operazione è alta, tecnicamente impeccabile e non esente da rapide sortite in una divertita genialità. Si impara una cosa: che la contaminazione, quando lavora con una certa serietà, si muove sempre in due direzioni: una verticale e una orizzontale. In verticale oscilla tra la musica popolare e quella colta. In orizzontale vagabonda tra reperti più diversi di quelle due tradizioni. Così, il Quartetto Brodsky porta in scena spezzoni di Bartok, echi di Shostakovic, refoli di Schubert, scivolate impudiche nella più lacrimevole palude romantica, svarioni zigani, e fogli d’album per signorine. Tutto mescolato insieme. Contemporaneamente Costello colleziona un po’ di musical, stralci di blues, passi di tango, spolverate energiche di Kurt Weill (è una mania ormai, vedi l’ultimo Tom Waits), sbandate jazz, ritornelli da jingle pubblicitario e domestiche commozioni stile Walt Disney. Un gran casino, detto così, ma se c'è dietro una consapevolezza formale e un certo rigore stilistico, quella Babele di spezzoni produce canzoni che stanno in piedi, che hanno una loro fisionomia coerente, che sono iperboli percorribili, messaggi comprensibili, frasi concluse. A Costello e al Brodsky Quartet la cosa riesce, e questo induce a prendere sul serio il loro lavoro, soprassedendo su qualche scivolata nel banale, e finendo per convincersi che, se una nuova musica sta nascendo, quelle lettere a Giulietta ne sanno qualcosa.
Alessandro Baricco
("Musica Viva", n.5, maggio 1993)

lunedì, settembre 16, 2019

Spigolature sui direttori d'orchestra

Si raccontano molte storie sui direttori d’orchestra. Alcune vere, alcune finte. Quelle finte vengono normalmente attribuite via via a personaggi da bersagliare.
 
Questa è finta, ma viene attribuita a molti direttori di orchestra a cui a dire il vero sta benissimo. "Ragazzi!" grida un direttore d’orchestra, appunto, ai professori che non gli danno retta nelle prove; "adesso basta! Io sono uno che viene dalla gavetta, mi son fatto da me, non ho impresari famosi, non ho mai chiesto favori ai giornalisti, ma non è il caso di sottovalutarmi! Ho più orecchio di tanti colleghi famosi! Voi disturbate la mia arte! Io sono teso ad ascoltare ogni sfumatura e per questo vi correggo, per il bene di tutti e della musica!". Si fa un istante di silenzio; ma il timpanista, sullo slancio delle parole, non resiste e batte un grande colpo sul suo strumento. Il direttore impallidisce, inghiotte; poi, deciso, guarda tutti coll’occhio offeso e duro di chi deve punire. "Ragazzi!", esclama infine. "Chi e stato?".
 
E questa è vera, ma non si sa il nome dell’insegnante. Comunque è al conservatorio di Mosca, non troppo tempo fa. Gli allievi del corso di direzione d’orchestra sono fuori dall’aula: dentro, il docente si ferma a parlare col primo corno. "Attento, per favore, adesso alla trentaquattresima battuta al posto di mi naturale suoni mi bemolle" Entrano gli allievi, il primo sale sul podio. Incomincia a dirigere. Alla quarantottesima battuta il docente lo ferma: "E allora, tutto bene? Non ti sei accorto di qualcosa?..." "No", risponde l’allievo, "mi pareva che tutto andasse bene." "Ecco, vedi", spiega allora il docente, "in questa professione non bisogna mai fidarsi abbastanza del proprio istinto. L’esperienza ti permetterà di farti un orecchio più fine, la sapienza del mestiere ti farà sentire tutto più chiaro, l’umiltà ed il lavoro correggeranno le tue impressioni di ragazzo inesperto. Alla battuta trentaquattro, il primo corno ha suonato mi anziché mi bemolle". Allora il primo corno alza lo sguardo, si batte una mano sulla testa e si rivolge tutto dispiaciuto al docente: "Acc.. mi scusi: me n’ero dimenticato".
 
Questa viene data per vera, attribuita al maestro Vittorio Gui, ma qualcheduno la conosce come aneddoto di Kussewiskij, e c'è da dire che sta bene sia al grande direttore russo di tanti anni fa che al nostro grande maestro recentemente scomparso; perché è un momento tipico di quegli artisti candidi che credono in se stessi e non lo negano... Dunque, dal Maestro che ha appena terminato il concerto con la Sesta di Beethoven si precipita in camerino una signora appassionata di musica e con l’aria rapita dice: "Maestro, come dirige Beethoven lei non lo dirige nessuno!". Il Maestro le sorride: "Ma signora, che dice? Si figuri: c'è...", e incomincia a contare sulle dita d’una mano. "C'è... no, per la verità no... C'è..., dunque, c'è..." Si ferma. "Ma sa, signora, che forse ha ragione lei?".
 
Quest’altra è finta, ed è famosa. Karl Böhm passeggia insieme a Leonard Bernstein ed a Herbert von Karajan. "Sono il più bravo direttore del mondo", dice ad un tratto Böhm, "difatti sono il più pagato". "No, guarda, mi dispiace smentirti", replica deciso Bernstein; "ma il più bravo sono io. Me l’ha detto direttamente Dio". Karajan che era un passo più in là sovrappensiero si riscuote, e si rivolge a Bernstein: "Scusa: che cosa ti ho detto, io?".

Nino Sanzogno è un direttore non soltanto fra i più dotati di natura, ma fra i più ricchi di aneddoti. Quand’era violinista, per esempio, provocava situazioni curiose. Una volta, il direttore in una cittadina di provincia voleva il famoso attacco degli archi nel quarto atto della Traviata piano, pianissimo, sempre più piano, e s’arrabbiava molto perché i violini dell’orchestra, tra cui era Sanzogno, suonavano sempre con troppo suono. Alla recita, all’attacco del quart’atto s’udì come soltanto un pallido "swsccc", si vide il direttore agitarsi paonazzo, e poi l’esecuzione fu interrotta per alcuni minuti. Nell'intervallo, i violinisti avevano spalmato il sapone sulle corde dei loro strumenti. In altra circostanza, volle mettere alla prova De Sabata, famoso per il suo orecchio, e suonò una nota mezzo tono sopra per vedere se il maestro sentiva la piccola stonatura in mezzo agli altri violini che suonavano intonati. Ma De Sabata continuò tranquillissimo. Dopo un po’ disse: "Intervallo. Fra dieci minuti ci ritroviamo. E se quel disgraziato là", continuò, puntando l’indice su Sanzogno, "fa di nuovo apposta a suonare do diesis invece di do, gli rompo la testa".
 
Esistono anche direttori che ironizzano su loro stessi. Il grande maestro inglese Thomas Beecham lo faceva con uno squisito humour assurdo. Dopo un concerto con il famoso pianista Alfred Cortot gli domandarono com’era andata: "Vedete?", rispose, "lavoravamo tutti e due a memoria, ma ne avevamo poca. Abbiamo incominciato col concerto dell’Imperatore di Beethoven, poi siamo passati a Cajkovskij, poi credo proprio a Schumann; certamente abbiamo finito con Grieg ".
 
E poi esistono le orchestre dove si lavora con qualche disorganizzazione. A Napoli, si dice, non molto tempo fa, un famoso direttore udì che nel settore dei clarinetti qualche cosa non andava. "Clarinetti soli", impose; e loro eseguirono. "Solo lei", chiese allora ad un clarinettista. Questi, calmo, gli sorrise: "Ecco, Maestro, veramente, ’o clarinettista vero è mio fratello. Ma siccome oggi sta impedito, ha mandato me dicendo: va e fa come se suonassi, chissà che non sia meglio che niente". Sara vero? I napoletani sono gente di grande fantasia. Quattro anni fa, Riccardo Muti, che provava in un caldo pomeriggio una sinfonia giovanile di Bellini, provò a vincere l’inerzia dell’ora, spiegando: "Pensate, questa sinfonia fu scritta da Vincenzo Bellini quando aveva solo diciassette anni...". Dall’orchestra gli arrivò allora una voce, stancamente: "Per questo stava scarso". Naturalmente, all'esecuzione tutti suonarono al meglio dell'entusiasmo.
 
Infine. C’era un famoso direttore che aveva fama ed aria di bell’uomo, ma era un po’ complessato da un grandissimo naso. Tutta l’orchestra e tutto il personale del teatro sapevano di dover evitare ogni allusione. Proibite anche le frasi che alludessero: non si parlava di fiuto, non si doveva dire per esempio "a lume di naso". Durante tutto il tempo delle prove, tutti si controllarono benissimo, l’ossessione era un poco nell’aria, ma alla fine stava ormai per svanire. Dopo l’ultima prova, il maestro ringraziò i professori d’orchestra e posò come era solito la bacchetta sul leggio, e lasciò il podio, attraversando l'orchestra. Allora l’inserviente ebbe un dubbio: avrebbe dovuto, per il concerto della sera, fargli trovare la bacchetta in camerino o sul leggio? Rapido, fermò gentilmente il direttore: "Maestro, mi scusi, la bacchetta questa sera, la vuol portare lei, o gliela faccio trovare io sotto il naso?".
("Musica Viva", n.2, Anno I, novembre/dicembre 1978)

domenica, settembre 08, 2019

"Musica Viva" e la polemica sul Quartetto Italiano...

Davide Mosconi
Egregio direttore,
nell'articolo sul Quartetto Italiano apparso sull'ultimo numero della rivista da Lei diretta sono state riportate in modo inesatto alcune mie risposte, così da alterarne, in alcuni punti dell'intervista, il significato. Tralascio altre inesattezze che pur mi sono dispiaciute, anche perché non in sintonia con la felice impostazione dell'articolo. Non posso però ignorare un punto in particolare: rispondendo alla domanda dell'intervistatore sulla "defezione" di Piero Farulli, nostro violista per 30 anni, ho inteso chiarire un nostro comportamento che da molte persone del mondo musicale è stato, per ignoranza dei fatti, e per mala fede, ingiustamente giudicato. Non era mia intenzione rinfocolare polemiche che da noi mai erano partite, né volevo, al contrario di quanto risulta dall'intervista, assumere atteggiamenti di ostilità verso una persona il cui comportamento mi ha più addolorato che offeso. Ella, come musicista, sa - per quanto banale e approssimativa sia la frase - che è il tono che fa la musica.
Nego di aver dichiarato che il nostro collega "ci fece rinunciare a un'importante serie di concerti a Parigi". Due concerti furono rinviati per la sua malattia, ma poi regolarmente tenuti. Nego di aver detto che il nostro collega "impedì il concerto previsto alla Scala". Il concerto ebbe regolarmente luogo e fu, nonostante i gravi travagli, un successo meritato da noi e dal nostro nuovo violista.
E' vero che avvocati amici di Farulli contattarono per primi me e gli altri componenti e fondatori del Quartetto Italiano. Ma, anche se ciò significò per noi avere per interlocutori persone meno gradite di un nostro amico, e intenzionate a bloccare la nostra attività, non ho mai configurato una "pesante azione legale".
Spero vivamente che non sia stata cancellata la registrazione dell'intervista; ciò Ella potrebbe considerare la prova inconfutabile delle mie asserzioni. Penso tuttavia che non abbia dubbi su quanto Le scrivo, e che La prego di pubblicare integralmente, a titolo di rettifica, nel prossimo numero della Sua rivista.
Con i più cordiali saluti.
Paolo Borciani (13.3.1980)
 
Gentile Direttore,
ritengo doveroso smentire quanto dichiarato da Paolo Borciani nella intervista riportata nel servizio "Personaggio" del n. 3 della rivista "Musica Viva". Intervista tutta da contestare nel suo spirito ma della quale a me interessa precisare soprattutto un punto.
Borciani, che parla anche a nome dei suoi colleghi, fa suo un concetto che suo non è: (...) "siamo esseri umani, non crociati. Suonare va bene, ma è giusto pensare anche un po' a se stessi".
La dichiarazione è completamente smentita dalla realtà poiché i tre del quartetto, nei loro preventivi, antepongono a tutto sempre la quantità. Proprio per aver sostenuto io quanto invece dichiarato nell'intervista, sono stato irreparabilmente scacciato dal Quartetto.
Quella del Borciani è dunque una evidente dichiarazione a futura difesa, ché all'epoca dell'intervista - e, da come sono poi andate le cose, posso affermarlo senza ombra di dubbio - i tre avevano già deciso di eseguire ciò che chiamerei una vera e propria sentenza a mio danno.
Quanto poi l'intervistato esprime a mio "favore" ha il chiaro significato delle onoranze ad un futuro condannato.
Al di là dell'osservazione che forma oggetto della presente lettera ci sarebbe molto da dire sulla vicenda, ma è compito arduo illustrare a dovere il procedere dei tre personaggi in questione ai quali, in questi ultimi due anni, ho dato tutto me stesso; da quando cioè, in buona fede, cedetti alla loro richiesta di collaborazione per la continuità del Quartetto Italiano.
Ringrazio l'autore per il simpatico profilo che mi riguarda anche se prelude purtroppo ad una intervista che non mostra il vero volto dell'intervistato.
Nella speranza che Lei voglia pubblicare la presente lettera invio distinti saluti.
Dino Asciolla (24.3.1980)
 
Gentile Direttore,
ho molto apprezzato l'intervista al Quartetto Italiano, anzi al primo violino del Quartetto medesimo. Mi fa molto piacere vedere che, col passare dei mesi, il suo tono nei confronti del violista Piero Farulli si sia addolcito, che le polemiche di quei giorni infuocati lascino il posto ad un dolore imbarazzante. Io non credo affatto che nel mondo dell'arte, e soprattutto nel teatro e nella musica, in sede cioè di esecuzione, sia difficile litigare: accade nell'amore, accade coi nervi tesi, accade quando esiste qualcosa di importante e si tende tutti ad uno scopo, e le circostanze di interessi pratici mescolati a vive spinte ideali portano a incomprensioni e valutazioni diverse, in buona fede.
Io non credo che il Quartetto Italiano con Dino Asciolla abbia perso in qualità. Egli è certamente uno stupendo strumentista; se ha portato un certo squilibrio, del che però non posso dire, perché i concerti che ho sentito erano stupendi, è stato perché suona, se possibile, meglio degli altri, ha cioè la qualità del solista assoluto, con un suono meraviglioso. Non credo nemmeno che manchi l'intesa, adesso, e la concentrazione, e quel suonare in qualche modo incantati che si trasmette tanto: alla Scala nel concerto con Pollini, in un quintetto di Brahms, si è staccato il puntone del violoncello, il maestro Rossi per non farlo scivolare ha fatto cenno che doveva interrompere, hanno ricominciato il tempo da capo e nessuno ha commentato o chiacchierato per non rovinare la tensione: che meraviglia!
Però mi sembra che il Quartetto Italiano, non sia quello di prima, e devo Dirle che mi ha fatto una certa tristezza, proprio quello che si dice un brivido al cuore, vedere in copertina quella formazione che non è... quella vera.
Io non so chi avesse torto, chi ragione. Mi pare che sarebbe stato molto bello accordarsi per un ciclo di concerti senza il maestro Farulli perché lui era malato, e poi ritornare all'origine... Ma forse il dispiacere nasce anche dal fatto che chi fa musica perfetta e poetica non è detto poi che riesca ad essere perfetto e poetico sempre nell'esistenza. Seneca, mi pare, diceva a quelli che se la prendevano contro chi scriveva cose bellissime e sagge e viveva meno bene, che in fondo era già tanto che scrivessero cose bellissime e sagge. Vorrei aggiungere che le tensioni e le generosità e gli egoismi sono a mio avviso proprio una delle componenti necessarie per fare scattare quello che all'arte dà un peso di umanità.
Mi scusi questo piccolo sfogo, anzi questa mia voglia di dirLe le mie impressioni di fronte a una vicenda che lascia perplessi, e le mie speranze che il fatto umano di rapporti torni a prendere proporzioni giuste, dopo le azioni pubblicitarie sui giornali, pesanti proprio come lo sono ahimè sempre quelle legali, che vorrei venissero considerate sfoghi di momenti difficili, da proporzionarsi invece con tutto quello di bello che Farulli e Asciolla, Borciani e la signora Pegreffi e Rossi ci hanno dato.
Giovanna Luzzoni (Milano, 5 aprile 1980)
Lettere, "Musica Viva", n.5 - anno IV - maggio 1980