Elvis Costello & Brodsky Quartet (Foto by Amelia Stein) |
Adesso la parola d’ordine è contaminazione. I mass media, la cui velocità nel leggere il reale sta diventando il corollario della loro incapacità a capirlo, hanno subodorato che la nuova frontiera, per il mondo della musica, è quella. E ripetono la magica parola, come uno slogan da detersivo, non appena fiutano qualche intrigante confusione di generi. Pavarotti canta con Zucchero, Renato Zero fa un concerto al Regio di Parma: tanto basta per macinare idiozie sulla contaminazione. Solo ieri era ancora una parolaccia: adesso ci pasteggiano tutti con una confidenza che lascia di stucco.
Naturale che anche chi nella contaminazione ci crede da anni inizi a prendere la cosa con le molle e a tirar su imponenti barriere di scetticismo. La contaminazione è una porta stretta, adatta solo alla sottile e tagliente silhouette del genio. Farne un’autostrada per furbi e opportunisti non serve a niente. Mai come adesso, capire dove finisce il maquillage commerciale e inizia il Nuovo è un compito difficile ma necessario.
Tutto questo per dire che quando ho sentito che Elvis Costello aveva inciso un disco con il Brodsky Quartet, la prima cosa che ho pensato aveva a che fare piu col sospetto che con l’entusiasmo. Aveva tutta l’aria della furbata ben confezionata. Anche il pretesto era astuto: Costello ha scoperto che da anni la gente più strana si prende la briga di scrivere lettere a Giulietta Capuleti, a Verona, e che un professore del luogo si è preso la briga di raccoglierle. Va da sé, sono lettere d’amore, sull’amore, per amore, dall’amore. Costello ne ha prese alcune, le ha in qualche modo riscritte, ha pensato di farne dei songs, ha scelto il Quartetto Brodsky, e con i suoi quattro strumentisti ha scritto la musica. Titolo del cd: The Juliet Letters. Sapore d’Europa, sonorità da musica classica, storie d’amore. Non c'è che dire, la ricetta suona perfetta.
Troppo perfetta, pensavo, e il disco non l’ho comprato. Però un mese dopo mi son trovato in una sala piena di tremila americani, con trentasette dollari in meno e, in mano, un biglietto del concerto di Elvis Costello & Brodsky Quartet. Los Angeles, Royce Hall alla mitica Ucla. Bisogna capirmi: quella sera i Lakers non giocavano e la Los Angeles Philharmonia suonava, sì, ma il Bolero di Ravel. Non restava che andare a spiare cosa fanno gli americani quando decidono di fare gli europei.
Nel teatro, un’umanità che, per la strada, in California non esiste. Per dire: erano vestiti. La gente, di fuori, non si veste, propriamente: sta in divisa: t-shirt, jeans, cappellino da baseball in testa, Nike nei piedi, e hot-dog in bocca. Per sentire Costello avevano invece le scarpe, i pantaloni, le giacche, qualche cravatta, perfino qualche indovinato abbinamento di colori calza-maglione. Giuro che non avevano nemmeno il cappellino in testa. Intellettuali, insomma. Gente che magari sa chi è Brahms, saprebbe disegnare la forma dell’Italia, ha sentito da qualche parte parlare di Goethe e sa chi, tra De Gaulle e Mitterrand, è quello ancora vivo. Gente rara, da quelle parti.
Annoto tutto questo non solo per fare colore. Una delle cose da capire, della nuova musica che nasce dall’incontro della tradizione colta con quella popolare, è che razza di pubblico ha nel mirino. Per chi sta nascendo. Guardarli in faccia, quelli che riempiono una sala di tremila posti per sentire Costello e un quartetto d’archi, è un modo per farsi un’idea. E l’idea, alla fine, è: quella è musica per una enorme minoranza. Il grande pubblico è un’altra cosa. Ma anche un'élite intellettuale è un’altra cosa. Il pubblico di quella musica sta forse a metà. Una minoranza potenzialmente enorme.
Il concerto, per la cronaca, è stato un trionfo. Ci sa fare, Costello, e quando parla, tra una canzone e l’altra, non dice cose qualunque e se vuole riesce a far sbellicare il pubblico dal ridere. Insomma, sa fare spettacolo. Il Brodsky Quartet sta al gioco, abbandona l’aplomb da sala di concerto e si esibisce in gags varie cui, probabilmente, il Quartetto Amadeus non si sarebbe concesso con la stessa levità.
Musicalmente, un grande e intrigante serraglio di materiali musicali. Non credo che, nel suo complesso, lo spettacolo (e dunque il disco) vada scambiato per un capolavoro. Ma la qualità dell‘operazione è alta, tecnicamente impeccabile e non esente da rapide sortite in una divertita genialità. Si impara una cosa: che la contaminazione, quando lavora con una certa serietà, si muove sempre in due direzioni: una verticale e una orizzontale. In verticale oscilla tra la musica popolare e quella colta. In orizzontale vagabonda tra reperti più diversi di quelle due tradizioni. Così, il Quartetto Brodsky porta in scena spezzoni di Bartok, echi di Shostakovic, refoli di Schubert, scivolate impudiche nella più lacrimevole palude romantica, svarioni zigani, e fogli d’album per signorine. Tutto mescolato insieme. Contemporaneamente Costello colleziona un po’ di musical, stralci di blues, passi di tango, spolverate energiche di Kurt Weill (è una mania ormai, vedi l’ultimo Tom Waits), sbandate jazz, ritornelli da jingle pubblicitario e domestiche commozioni stile Walt Disney. Un gran casino, detto così, ma se c'è dietro una consapevolezza formale e un certo rigore stilistico, quella Babele di spezzoni produce canzoni che stanno in piedi, che hanno una loro fisionomia coerente, che sono iperboli percorribili, messaggi comprensibili, frasi concluse. A Costello e al Brodsky Quartet la cosa riesce, e questo induce a prendere sul serio il loro lavoro, soprassedendo su qualche scivolata nel banale, e finendo per convincersi che, se una nuova musica sta nascendo, quelle lettere a Giulietta ne sanno qualcosa.
Alessandro Baricco
("Musica Viva", n.5, maggio 1993)
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