Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, luglio 28, 2022

Puccini buongustaio a Roma

Dopo le 473 lettere da me raccolte e pub
blicate, sul finire del 1973, nel volume "Puccini com'era", quante e quante altre ne sono già saltate fuori! Da pensare che il popolare autore di "Bohème" abbia scritto più lettere che note. Spuntano come i funghi dopo la pioggia e puoi rintracciarle nei luoghi più strani ed impensati. Quella che sto per rendere nota, andai a pescarla, durante il mio ultimo soggiorno romano, in un'"hostaria"› trasteverina: dal "Pastarellaro", meta prediletta di attori e cantanti dal palato fine, come attestano le numerose fotografie con dedica appese alle pareti.
La dirige dal 1951 Severino Graziosi, un abruzzese dalla faccia aperta e gioviale, che si fa in quattro per contentare i clienti. Li accoglie al loro ingresso, li accompagna ai tavoli e per tutti ha una parola cortese a ben disporre stomaco e spirito alla squisitezza delle vivande.
Per me n'ebbe molte e così, di palo in frasca, venni a sapere che tanti anni fa, quando lui era ancora nella mente di Dio, capitava spesso in quel ristorante Giacomo Puccini, durante i suoi frequenti soggiorni romani, apprezzandone superlativamente la cucina: quel Puccini che, in fatto di cucina, non era meno esigente di quanto lo fosse nella scelta dei libretti da musicare. E a dimostrarmi che non parlava per sentito dire, corse a prendere la lettera cui sopra ho accennato. Lettera, mi disse, donatagli anni fa da Giovacchino Forzano al quale Puccini l'aveva inviata nel 1918, quando ferveva tra loro la collaborazione per "Suor Angelica" e "Gianni Schicchi". Eccola.

Domenica [13 gennaio 1918]
Caro Forzano,
Iersera 2a bellissimo teatro e idem successo. C'entrano - non è difficile ma è musica che deve risentirsi. L'esecuzione è buona - un po' fredda, ma non nuoce alla commedia. - A Roma si sta bene e si mangia divinamente specie al Pastarellaro - Capolavoro.
Pensi che per avere qualche spartito di Rondine ho dovuto ricorrere a Ricordi e pagare! Il rappresentante di Sonzogno non ne aveva.
Gunsbourg m'aveva telegrafato da Milano che veniva ma all'ultimo momento mi dispaccia che, non trovando posto buono in treno riparte per Paris. Credevo che venisse per trattare Tabarro, così dicevano i giornali. E si vede che son dicerie. Meglio così.
Partiremo mercoledì. Grazie del telegramma di Giacomino. Mi si offrono libretti ma niente. E la guerra? Lunga, lunga, ancora. Iersera vidi De Flers (l'autore di Parigi) in teatro, gentilissimo, entusiasta (almeno pareva).
Io sto molto a me e cerco di soddisfare lo stomaco meglio che si può girando le molteplici bettole e i vari ristoranti di Roma.
Oggi andrò all'Augusteo per un po' poi all'elevazione colla Borelli.
Piove! ... Si dovrebbe andare al Castello di Costantino con Mocchi ma con questo tempo! Non ho altro a dire, mi alzo ora - ore 10. Mi saluti la signora che sorride così benino (la Terè) la garbata, e la prole garrula e in specie il neofilosofo Giacomino, la signora madre etc, etc. anche da Elvira. Suo aff.
G. Puccini

Ed ecco alcuni schiarimenti. La sera precedente era andata in scena al "Costanzi" la seconda rappresentazione della "Rondine", inizialmente operetta, trasformata poi in opera e varata pochi mesi innanzi a Montecarlo. L'edizione romana, cui Puccini assisteva in quei giorni, era diretta da Ettore Panizza e aveva come protagonisti due autentici assi della lirica, Gilda Dalla Rizza e Beniamino Gigli, all'alba, si può dire, della loro folgorante carriera. "Successo" dice Puccini. Sì, ma appena di stima, da parte d'un pubblico che pareva più disorientato che convinto. La critica, poi, era stata tutt'altro che tenera. "Il Messaggero", per esempio, aveva definito quella fragile commedia musicale una parentesi, un intermezzo, un capriccio bizzarro del fecondissimo maestro lucchese. Parole grosse che, nell'animo ipersensibile di Puccini, ingigantivano i tanti dubbi che già nutriva sul valore di quella musica. Ci rimuginava sopra scrivendone a Forzano: "C'entrano... non è difficile... ma è musica che deve risentirsi", come per dire che, a differenza di quella già scritta, questa non scendeva direttamente al cuore, ma voleva dall'ascoltatore uno sforzo per "entrarci", cioè per penetrarla e sentirla. Parole grosse che lo spingevano perfino ad evitare incontri imbarazzanti. Per questo preferiva "stare molto a sé" e consolarsi sia abbandonandosi a lauti pranzi sia frequentando con insolita assiduità teatri e concerti.
Quanto al fatto che, per avere alcuni spartiti della "Rondine" - da regalare probabilmente - fosse dovuto ricorrere a Ricordi (e...  pagarli!), occorre sapere che quest'opera, a differenza delle altre undici, era stata acquistata dall'editore Sonzogno, dato che Tito Ricordi non aveva voluto saperne. "Io non voglio del cattivo Lehar!" andava dicendo in giro.
Raoul Gunsbourg era il factotum del Teatro del Casinò di Montecarlo dove, pochi mesi innanzi, l'ho accennato sopra, era andata in scena, in prima assoluta, la "Rondine".
Il "Tabarro", per il quale Puccini aveva atteso invano e con vivo disappunto (altro che "meglio così", come dice lui) la visita di Gunsbourg, era già stato composto e aspettava solo di potersi accompagnare a "Suor Angelica" e a "Gianni Schicchi" ormai agli ultimi ritocchi, per approdare in "Trittico" al Metropolitan, nel dicembre successivo.
I due spettacoli, ai quali il maestro si proponeva di assistere in quella piovosa domenica di gennaio, erano: all'Augusteo (da tempo scomparso) un concerto diretto dal trentaduenne Vittorio Gui, reduce dal fronte in breve licenza, e al Teatro Valle, il dramma "Elevazione" di Henry Bernstein, da parte della compagnia diretta da Lyda Borelli e Ugo Piperno. Per concludere il "Castello di Costantino", dove il maestro voleva recarsi con Mocchi, cioè con Walter Mocchi, sovrintendente, insieme con la moglie Emma Carelli, del Teatro Costanzi, era un noto ristorante sull'Aventino, divenuto in seguito famoso col nome di "Castello dei Cesari".
La lettera, ondeggiante tra musica, prosa e gastronomia, riflette bene lo stato d'animo di Puccini in quel delicato momento: un Puccini scontento, in cerca di distrazioni per distogliere il pensiero sia da un nuovo libretto che non riusciva a trovare, sia dagli stanchi voli della "Rondine", sia dalla forzata rinuncia ad una giovane donna particolarmente a lui cara, sia, infine, da quell'atmosfera di scetticismo che gravava su tutto e su tutti in seguito alla recente disfatta di Caporetto.
Arnaldo Marchetti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXX,  n. 1 aprile 1977)

martedì, luglio 12, 2022

Bayreuth: musica, rito e mondanità

Di italiani a Bayreuth e al suo festival wagneriano ce ne vanno pochi: qualche noto critico sporadico di tanto in tanto; qualche amatore, e basta. Ma hanno torto; perché l'apertura annuale dei Bayreuther Festspiele è uno degli avvenimenti più importanti d'Europa. Esso ha anche, per riflesso del valore sacro e di quello artistico, un valore mondano non trascurabile; all'apertura si recano le autorità più alte della Germania; quest'anno mancava la Begum, trattenuta improvvisamente in Francia dalla malattia della sua più intima accompagnatrice; ma Wolfgang Wagner, il nipote del Maestro, e la signora Winifred Wagner, sua madre, ne avevano di Prominenzen da accogliere nel foyer del Festspielhaus, e poi, a notte, insieme con il borgomastro della città, nelle sontuose antiche sale accese a lume di candela del Neues Schloss della granduchessa Guglielmina (la cui sala maggiore fu ideata da un architetto italiano). V'erano il ministro delle Comunicazioni Georg Leber, il ministro dell'Economia Josef Ertl, il ministro della Sanità signora Kate Strobel, il vicepresidente del Bundestag Carlo Schmid, Franz Josef Strauss e numerosi membri del governo federale bavarese, fra cui il presidente Dr. Goppel che con la signora faceva gli onori di casa.
Inutile dire che nei giardini del Festspielhaus, verso la foresta che copre delle sue selvose fronde il colle sacro a Parsifal e a Tristano si vedono scorrere talune fra le più splendide donne della Germania, i magnati dell'industria e del commercio, che regolarmente portano all'occhie1lo l'Anel1o, cioè il cerchietto d'oro che, simbolo dell'Anello del Nibelungo, testimonia la loro appartenenza al gruppo degli Amici di Bayreuth, che è il grande Verein internazionale dei sostenitori morali e finanziari dell'impresa wagneriana. Membri della famiglia Wagner oltre il dinamico Wolfgang, autore quest'anno di una messa in scena e regia eccezionale dell'Anello - ove, riportando i simboli, che furono la scoperta delle ormai classiche interpretazioni del fratello Wieland, alla natura e alle sue fenomenali apparizioni ha mostrato a quale potenza sappia fare assurgere il gioco della scena, una volta liberatosi da influssi estranei, di cui rimangono ancora solo alcune tracce essenziali quali il famoso 'disco' - compaiono essi pure nel giardino; uno di loro il più tradizionale, che sembra ormai quasi il personaggio di una favola, il conte Gilberto Gravina, italiano, anzi siciliano di nascita, reca in giro nell'asciuttissima figura tipicamente wagneriana i suoi quasi ottant'anni; è figlio della contessa Blandine von Bülow, che sposò, ancora vivente Richard Wagner, il conte Biagio Gravina, e fratello di Manfredi che fu, fra l'altro, alto commissario della Libera Città di Danzica; e maestro e direttore d'orchestra; la madre scomparve nel 1942 a Firenze, dove, quantunque non sembra che sia vero, continuava a dire di essere figlia di Wagner: comunque era figlia del grande pianista e direttore d'orchestra Hans von Bülow e di Cosima, e non meno che nipote di Liszt.
Se qualche italiano in più, oltre i fedelissimi amici Guido (critico del Piccolo di Trieste, grande intenditore di Wagner) e Rina Janni, e taluni nobili amici affezionati - purtroppo non c'è più Enzo Borrelli  si degnasse di mettere piede a Bayreuth, rimarrebbe colpito e stupito dell'immenso prestigio e dell'enorme tradizione che si riflette ancora in quella piccola città e su quel colle sacro ai più sublimi - a nostro parere - spettacoli del mondo. Tanto è ciò vero - ma in Italia chi se ne accorge? - che a partire dal mese di novembre di ogni anno non esiste più possibilità alcuna di acquistare, cioè prenotare, un posto di qualunque settore del Festspielhaus per nessuno dei due o tre cicli, che vanno, più o meno, dal 23 luglio al 28 agosto. Segno che nell'ambito di questi giorni una gran parte degli appassionati dell'arte di tutto il mondo, e della musica e dell'elemento sacrale che svela i suoi simboli con la massima purezza in quel Festspielhaus, si riversa a Bayreuth, ad ascoltare spettacoli preparati con la maggiore perfezione possibile da molti mesi anzi da anni, sotto la guida di alcuni fra i più grandi maestri del mondo, che nel passato furono Toscanini, Walter, Furtwängler e Knappertsbusch, ed oggi sono, per quest'anno ancora, il grande Karl Böhm per l'ultimo Tristano wielandiano con Wolfgang Windgassen, che dà con ciò l'addio al teatro, e la inconsuntibile prodigiosa Birigt Nillson; Pierre Boulez, che per l'ultima volta dirige quasi debussynianamente il Parsifal con criteri particolari da lui esposti implicitamente in un magnifico saggio sui Programmhefte, che compila ogni anno Herbert Barth; Horst Stein, una rivelazione come grande direttore wagneriano dell'Anello nella nuova potente regia e messinscena di Wolfgang Wagner; Hans Wallat, direttore di una finalmene perfetta edizione de I Maestri Cantori con artisti quali Norman Bailey per Sashs, la svedese Sylvia Anderson per Magdalene e Janis Martin per Eva; Silvio Varviso, oriundo ticinese, che anche questo anno ha diretto con grande energia la romanticamente potente edizione dell'Olandese Volante. Né è da dimenticare, a questo punto, la rivelazione di una potente Walkiria, degna della tradizione della Nillson, nello svedese Berit Lindholm.
Sanno gli italiani che un confronto con Bayreuth, ma senza la sublimità sacrale del sacro colle, può tenerlo soltanto Salisburgo? Certo un'interpretazione come quella del Parsifal di Knappertsbusch, che è stata consegnata parzialmente dalla Decca ai critici intervenuti alla conferenza stampa, non si risentirà più forse per molti anni; a noi, ascoltandola, è sembrato che mai sul pianeta sia esistita cosa più grande del Parsifal di Richard Wagner, la cui potenza di universale commozione, in questa edizione discografica, nell'epilogo finale della consacrazione nel tempio è cosa oltre la quale non è possibile andare.
Intanto la città non rimane inoperosa; organizzati da Herbert Barth, il dinamico direttore dell'Ufficio Stampa del Festspielhaus, si svolgono nel mese di agosto a Bayreuth splendidi corsi di musica e d'arte in generale, con nomi di docenti di risonanza mondiale, dedicati alla gioventù di tutto il mondo, che vi affluisce sempre più numerosa, allettata anche dalle condizioni ottimali di soggiorno che le vengono offerte. Mostre d'arte eccellenti degli artisti bavaresi al castello dell'Heremitage, che l'anno passato accolse una squisita mostra di acqueforti tristaniane di Salvator Dalì, ed altre mostre più raccolte quale quella postuma della pittura incisiva ed esistenzialmente disperata di Hanna Barth nella Biblioteca Comunale, riempiono, per chi vuole, tutte le ore di chi soggiorna a Bayreuth. Che poi è città che si va sempre più sviluppando; sta per avere una Università; ha molte industrie che tuttavia non ne turbano l'incanto antico; ha, oltre tutto, la più grande e bella piscina estiva della Germania.
La notizia rimbalzata in questi mesi su tutti i giornali del mondo è - com'è noto - la vendita prevista della proprietà, rimasta finora soltanto familiare, degli edifici e beni wagneriani; la Villa Wahnfried e il Festpielhaus; mentre la Wagner-Gedenkstätte è già di proprietà pubblica, e talune zone, nuovamente costruite, del complesso del Festspilhaus lo sono egualmente. Com'è noto, Festspielhaus e Villa Wahnfried (che, un tempo residenza di Wagner e della sua famiglia, contiene oggi un prezioso archivio, ove sono raccolti fra l'altro, accanto alla adiacente biblioteca privata di Wagner che si trova nella casa della signora Winifred, i maggiori epistolari e manoscritti wagneriani) sono tuttora di proprietà della famiglia, e per essa della grande ed energica signora, che per tanti anni dopo la scomparsa del marito tenne con alta intelligenza e diritto carattere la direzione dell'enorme impresa in tempi fra i più controversi e fortunosi. Ora, dopo che già da molti anni l'impresa viene sorretta in massima parte dalla città e dallo Stato, i Wagner sono giunti alla decisione di vendere tutto, anche perché i discendenti giovani divengono sempre più divergenti e numerosi. Una volta accertato che il progetto, annunciato già dalla stampa mondiale, della vendita dei beni wagneriani a capitalisti americani, che offrivano diversi miliardi, sarebbe illegale, è stato deciso che 1'acquisto sarà fatto, sia pure per una cifra minore del previsto, dallo Stato che, in accordo con la città di Bayreuth, trasformerà tutto in una Fondazione (Stiftung) ed aprirà finalmente agli studiosi quella parte degli archivi che è rimasta per testamento di Cosima inaccessibile fino al 1972. Nulla di definitivo è ancora stato compiuto; ma la decisione è chiara. La cura dell'impresa artistica di Bayreuth resterà comunque affidata, presumibilmente ancora per molti anni - cioè finché vi sarà chi potrà assumersi degnamente l'impegno come è accaduto fino ad oggi - alla famiglia Wagner, i cui discendenti - esempio unico al mondo - si sono mostrati fino ad ora così altamente degni del genio del loro antenato. Winifred Wagner, Wolfgang Wagner, come già Wieland Wagner, suo padre Siegfried Wagner e Cosima sono stati fino ad ora esempi, che non hanno parallelo, di come discendenti di un grande possano continuare a guidarne l'impresa e a curare il prestigio della sua opera. Esempi di tal genere si sono avuti soltanto nelle grandi dinastie della politica e dell'industria; ma questa è una dinastia dell'arte; uno dei lati più singolari del destino eccezionale della vita di Richard Wagner.
Giulio Cogni
("Rassegna Musicale Curci", anno XIII n.3 settembre 1970)