Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 19, 2022

Elogio dello svarione, ossia la marcia Verdi-Mahler (non Mahler)


Forse non è serio citare uno scritto (e 
uno scritto importante) non perché ci sia un nesso tra il suo contenuto e il discorso che si vuol fare, ma semplicemente perché quel libro intende far l'elogio di qualcosa che per solito non si elogia affatto. Ecco che cosa c'entra, qui, l'Encomium Morìas o, traducendo, l'Elogio della Pazzia di quella gran mente che fu Erasmo Gerrit da Rotterdam.
Ma c'entra anche perché, sebbene tutti si sappia o si creda di sapere che libro sia, Erasmo lo cominciò scrivendo al suo amico Tomaso Moro la frase che è stata citata lassù, in occhiello.
Ed ecco perché, di seguito, viene quell'altra citazione, di firma ritenuta seria, serissima. Se non era serio Kant, chi mai lo potrebbe essere?
Eppure, in quel suo libretto simpaticissimo che è I sogni di un visionario etcetera (vedi sopra), Kant, si concede partenze come quella citata.
Ebbene, oggi mi va di far l'elogio dell'inesattezza. Se poi, invece che un elogio, ne risulterà tutt'altro, sarà pur sempre un risultato in carattere con le illustri, poco serie premesse.
Adesso si ricomincia a parlar di musica. E di qual musicista si farà il nome per primo? Di Mahler, che è sulla cresta dell'onda? Sì e no. Perché prima nomineremo Verdi. Verdi come autore dell'Aida, e in codesta Aida anche di quella marcia trionfale che conoscono anche i sassi: quelli italiani, soprattutto ad orecchio, perché essendo italiani, quasi tutti non sanno legger la musica, come gli abitanti non minerali della penisola appunto per questa ed altre ragioni detta (lucus a non lucendo, anzi canis a non canendo, e badate che i cantanti non c'entrano) "Paese della musica".
Dicevamo. Verdi. L'Aida. La marcia trionfale. L'Arena di Verona. No, quella non l'avevamo ancora nominata, ma non era possibile lasciarla da parte. Difatti, c'entra, e non soltanto perché le stagioni d'opera in Arena vennero inventate nel 1913 da Zenatello e compagni per darvi l'Aida, o meglio le inventò l'Aida medesima. C'entra per via di un centenario e di una medaglia. Il centenario, correndo l'anno 1971, è appunto quello dell'Aida di Verdi. La medaglia è quella che l'Ente autonomo lirico dell'Arena di Verona pensò di far coniare appunto per celebrare il centenario in forma più resistente ai topi, alle alluvioni e allo smog di quanto non siano gli oggetti cartacei. Una medaglia di metallo dura certamente di più, ed è sempre un ricordino simpatico.
Così, venne incaricato lo scultore Marcello Mascherini di preparare il bozzetto. E lui lo preparò: sul recto, una bella Arena entro la quale si infila e si estolle un obelisco egizio; sul verso, l'incipit della marcia trionfale, vale a dire del motivo più famoso dell'opera più popolare del mondo; quello che, si diceva, lo conoscono anche i sassi.
A giudicare da quel che si vede fotografato e stampato sull'ultima pagina del "numero unico" areniano di quest'anno, Mascherini fece tutto per benino; sul verso sistemò un pentagramma, con due battute e mezza di melodia, appunto quelle che iniziano il cosiddetto motivo della marcia trionfale.
A voler fare un pochino di quella che in conservatorio e luoghi affini si chiama "analisi della forma", si scoprirebbe che quel motivo lì, il più famoso, non andrebbe definito come "il tema principale" del trionfo. Verdi attacca il quadro in mi bemolle maggiore (tre bemolli in chiave) con una specie di introduzione; poi il coro, sempre in mi bemolle maggiore, entra con il tema principale; e il motivo arcifamoso è, in realtà, una specie di "seconda idea", tant'è vero che non è in mi bemolle, ma in la bemolle maggiore, cioè in un rapporto tonale simile (anche se inverso) a quello del sonatismo classico. Dunque, il motivo celebre non è quello "principale", ma una "seconda idea": senonché Verdi l'adopera là dove c'è la didascalia "le truppe Egizie precedute dalle fanfare sfilano dinanzi al Re", fatto che talvolta succede davvero in scena, ancora adesso. Perciò quello è il "motivo della marcia trionfale". Le persone serie obietteranno che, non essendo un "motivo principale", non è giusto che sia considerato e riverito più del suo antecedente che invece lo è. Ma la musica, come tanti altri fatti di questo mondo, spesso fa l'elogio dello sbaglio (apparente, magari); e, a proposito di "seconde idee" prevaricatrici e prepotenti, c'è sempre il caso di quella che Schubert colloca nel primo tempo della Sinfonia in si minore detta Incompiuta sebbene sia compiutissima, e che è il motivo più celebre (dunque, in certo senso, il più importante) di tutta la Sinfonia e forse (Ave Maria a parte) di tutto Schubert. Ma questo l'ho già raccontato altre volte, anche in un articoletto del quale sento che finirò per riparlare.
Verdi, nell'impiantare in la bemolle maggiore la marcia trionfale, non aggiunse un quarto bemolle in chiave; gli bastavano i tre che c'erano. Forse, se avesse immaginato che scherzaccio gli avrebbero giocato quei bemolli cent'anni dopo, avrebbe fatto un rapido e ardito giro modulante e sarebbe finito in do maggiore, senza accidenti in chiave. Ma, poveraccio, non immaginava.
Così, per colpa di quei bemolli cent'anni dopo, quando si passò dal bozzetto di Mascherini alla medaglia fusa in metallo, la marcia trionfale da la bemolle maggiore finì trasportata in do minore, esibendosi come uno spunto di marcia funebre, anzi come una specie di parodia funebre della marcia trionfale aidiana, quale avrebbe potuto idearla Gustav Mahler se soltanto gli fosse venuto in mente, lui che quanto a marce funebri corrosive e grottesche, a citazioni ironiche della musica propria e altrui e ad altre trovate perfidamente geniali, ci ha saputo fare. Perché l'incipit della marcia, camuflato in do minore (o comunque nel modo minore di qualunque tonalità) suona già alquanto caricaturale; ma provate a suonare il resto, sempre in minore; e tra la terza e la quarta battuta diverrà così debolmente piagnucoloso da far ridere chiunque.
In quest'affare ci potrebbe essere una utilità pedagogica: sappiamo quanto sia difficile spiegare ai profani la differenza tra modo "maggiore" e modo "minore" (vedi equivoci sul primo tempo nel Primo Concerto di Ciaikovski); far ascoltare la marcia "giusta" il suo "minore sbagliato" sarebbe efficacissimo.
Che cosa sarà successo fra bozzetto e medaglia? Che necessità ci fosse di "trasportare" in do la marcia non si capisce, tanto più che Verdi, nei vari mutamenti di tonalità cui la sottopone durante il trionfo, la presenta in si maggiore e poi in mi bemolle (sempre maggiore, si capisce); mai in do. Influssi del Dizionario dei temi musicali di Barlow e Morgenstern? Poco probabile: là i motivi sono "trasportati" quando sono citati "in lettere", ma su pentagramma sono riprodotti come sono stati scritti.
Forse vollero centrare meglio le note sul pentagramma tirandole in su di una riga? E' stata suggerita un'altra spiegazione, più "tecnica": qualcuno avrebbe visto la parte delle trombe, segnata sulla partitura d'orchestra o sulle parti come "in do" per quelle benedette questioni delle trasposizioni e del taglio degli strumenti: le trombe "egizie" volute da Verdi sono "in la bemolle"; perciò qui leggono come se la tonalità fosse do (maggiore, si capisce) appunto perché invece è la bemolle. L'ignoto "correttore" avrebbe badato soltanto a quel rigo apparentemente in do, e avrebbe avvertito esser quella la tonalità "giusta", e non quella notata sullo spartito per canto e pianoforte (una riduzione, andiamo!). Comunque sia, il guaio fu che, portato il motivo in do, si dimenticarono di togliere i bemolli in chiave; e col mi bemolle, spiacenti, siamo in do minore. Da marcia funebre, Verdi-Mahler e magari Gino Negri.
Avevo detto che sarebbe tornato in ballo l'articolo del numero scorso, il Mahler, non Mahler. E ci torna. A Verona qualcuno, nel darsi troppo da fare, travestì in do minore la marcia dell'Aida. A Milano, per non voler aver l'aria di strafare, qualcun altro è riuscito a trasformare uno scrittore francese in un altro tutto diverso. A quel tizio, che si firma qui come si firmò allora, è sempre piaciuta l'idea della "postillazione infinita", che permette di seguire collegamenti complessi molto vari senza perder di vista l'idea che li ha suggeriti. Idea non realizzabile fino in fondo, come tutto (se no, il senso del relativo che cosa ci insegnerebbe?); però fino a un piccolo numero di passaggi si può arrivare. L'idea mi era stata messa in corpo, a suo tempo, da ciò che disse in Du dandysme et de George Brummel Jules Barbey d'Aurevilly, quando, dopo aver fatto una nota a piè di pagina, ci infila dentro una nuova "chiamata" e, a pie di nota, scrive: "Ho tanta voglia d'esser chiaro e compreso, che rischierò una cosa ridicola: farò una nota alla nota". E prosegue; non immaginando, fra l'altro, che nell'edizione italiana del volumetto sarebbe apparsa, nella "nota alla nota", una nuova "chiamata", che rinvia alle note in fondo al libro, e che spiega chi fosse il principe di Kaunitz del quale Barbey si era messo a discorrere nella "nota alla nota ". (N.B. Lui stesso già ci aveva ficcato anche una frase tra parentesi, altro equivalente di una "sottonota"›...).
Bene. Il volumetto era lì, dietro la mia schiena; e stavo già per voltarmi, sfilarlo e rilegger la pagina amata perché stavo citando la faccenda della «nota alla nota» appunto in una nota del Mahler, non Mahler e intendevo riferire la pagina esatta di Barbey. Ma mi sembrò di esagerare, di fare il pignolo e il sopracciò, e lasciai il libro nello scaffale. Così andò a finire che l'articolo uscì col nome di Alfred de Vigny al posto di Jules Barbey d'Aurevilly. Che potrebbe essere un invito a leggere, di Vigny, e nella stessa collana dell'Astrolabio, Servitù e grandezza militare tra il saggio e il romanzo, con quella scena stupenda di papa Pio VII che, prigioniero di Napoleone I, alle scenate isteriche del Bonaparte risponde con due sole flebili apostrofi: «Commediante» e «Tragediante».
Ma questo ci svia alquanto; e non avendo l'abilità di Camilla Cederna e del suo vorticoso Lato debole finirei per fare confusione. Già s'è fatta una certa insalata tra Verdi, Mahler, Negri, Erasmo, Kant. Se poi ci viene in mente di aver udito, in una trasmissione del «Terzo programma», che il Glockenspiel è uno strumento «meccanico» (tipo pianola), e se per giunta ci torna in mente un addetto ai musicali lavori che, tutto entusiasta per una certa interpretazione, andava cantando e ricantando il tema che ne era la pezza d'appoggio, però sbagliandolo in modo elementare per cui non significava più niente; se tiriamo in ballo anche questa roba, qui finisce a botte; diametralmente opposta a quelle che stava per buscare Ries da Beethoven alla prima prova della Terza sinfonia; il fido allievo voleva rimproverare il corno che, leggendo inappuntabilmente e avendo contato giusto, era entrato con il tema «alla tonica» sopra un accordo di «dominante» degli archi: come aveva scritto appunto Beethoven. Ma questo è uno «sbaglio» sublime. Non va bene (o va troppo bene) per tessere l'elogio dello svarione, come si diceva di voler fare in principio.
Postscriptum, per consolare gli italiani: nel 1956, la Germania Orientale emise un francobollo da 20 pfennig per il centenario della morte di Schumann, sul quale si vedevano un ritratto di Schumann e della musica di Schubert.
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIV n. 3-4, dicembre 1971)

martedì, novembre 01, 2022

Sulla Messa in si minore di J. S. Bach

La Messa in si minore è l'unica missa tota 
di Bach, una composizione che contiene, dunque, tutte le parti dell'ordinarium missae: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus con Benedictus e Osanna, e l'Agnus Dei. Unica è anche la storia della sua creazione, che prende il via nel 1724, il secondo anno dell'incarico ufficiale di Bach a Lipsia, e si protrae fino agli ultimi giorni di vita del compositore. E' stata la Messa in si minore e non l'Arte della fuga, come finora creduto, l`opera di cui si occupò Bach prima della sua morte (secondo le ultime indagini di Yoshitake Konbayshi, Gottinga).
Bach aveva scritto il Sanctus a sei voci (senza Benedictus e Osanna) già per la festa di Natale dell'anno 1724. Si tratta di quel brano de1l'ordinarium, che nella Chiesa luterana veniva cantato o musicato, a una o più voci, soltanto nelle festività più solenni. Nel 1733 seguirono Kyrie e Gloria, che Bach denominò Missa, come era usanza ai suoi tempi, poiché soltanto queste due parti ricorrevano in ogni messa domenicale. Bach fece pervenire la partitura della Missa, accompagnata da una lettera del 27 luglio dello stesso anno, all'elettore di Sassonia: era da poco salito al trono il cattolico Federico Augusto II, nominato pure Augusto III, in quanto anche re di Polonia. Nella lettera di accompagnamento Bach aspirava al titolo di compositore di corte, che però ottenne soltanto nel 1736. E' incerto se la Missa sia stata eseguita il 21 aprile 1733 nella chiesa di san Nicola a Lipsia, in occasione della messa celebrata in onore del nuovo principe regnante. A differenza di quanto finora creduto, Hans-Joachim Schulze, autore di un'edizione della partitura in fac-simile con commento (Stoccarda 1983), ha sollevato dubbi in proposito, poiché l`opera fu scritta probabilmente a Dresda nella speranza di una esecuzione in quella città. Tuttavia, di questo evento non sono state finora rintracciate prove. Soltanto verso la fine della sua vita, Bach ha completato in una missa tota il Sanctus del 1724 e la Missa del 1733, componendo il Credo, il cosiddetto Symbolurn Nicenum, e gli ultimi movimenti dell'ordinarium, dall'Osanna fino al Dona nobis pacemNon sappiamo quale ragione lo abbia spinto a questo e non si ha neppure notizia di un'eventuale esecuzione dell`intera opera. Certa è soltanto l'esecuzione del Sanctus nel 1724 a cui seguirono probabilmente una seconda per la Pasqua del 1727 e forse anche una terza, voluta dal conte boemo Sporck, che aveva preso in prestito da Bach la partitura originale di questo brano (e, in quest'occasione, è andata perduta).
La particolare storia di composizione della Messa in si minore ha indotto l'autorevole studioso bachiano, Friedrich Smend, pubblicatore dell'opera nella Nuova edizione di Bach (1953), alla conclusione che essa non fu affatto considerata dal suo autore un`opera intera. Bach, nella sua vecchiaia, avrebbe, più o meno casualmente, riunito i singoli brani in due tomi, ma con quattro frontespizi e senza un titolo unico: il primo contiene la Missail secondo il Symbolum Nicenum; seguono il Sanctus in una nuova copia e, alla fine, dopo l'ultimo frontespizio, i brani rimanenti dall'Osanna fino al Dona nobis pacem, che Smend e Philipp Spitta interpretano come musica eseguita durante la comunione. Non si può d`altra parte misconoscere che Bach, completando la Messa in si minore, abbia mirato ad un'opera unitaria. Ciò si palesa soprattutto nella ripresa del Gratias agimus del Gloria come parodia nel Dona nobis pacem alla fine della messa (la parodia è una tecnica usata volentieri nelle messe barocche) e nelle correlazioni tematiche fra OsannaPleni sunt coeli del Sanctus. Inoltre si possono constatare principi strutturali, sempre ricorrenti nell`intera messa, cosicché non sussistono dubbi sull`unità della missa tota. Ancora alcune annotazioni sulle parodie, il cui numero nella Messa in si minore è altrettanto grande che nell'Oratorio di Natale! Secondo lo stadio attuale della ricerca, sono considerate con certezza composizioni originali soltanto i seguenti otto dei complessivi venticinque movimenti, cioè appena un terzo: il primo Kyrie, la seconda parte del Gloria in excelsis (dalla misura 100), la fine del ciclo del Gloria, cioè il Cum sancto spiritu, inoltre i movimenti Credo in unum Deum, Et incamatus est, Confiteor e Et expecto dal Symbolum Nicenum, e poi infine il Sanctus. Il Gloria in excelsis ed il Et in terra pax si contano come un movimento e cosi pure l'Osanna, che si ripete. E` vero che dei rimanenti 17 movimenti soltanto sette sono tramandati in manoscritti: Gratias agimus, Qui tollis peccata rnundi, Patrem omnipotentem, CrucifixusOsanna, Agnus Dei e Dona nobis pacemnon per questo, però, è da escludere che fra le supposte parodie si nasconda qualche composizione originale. Ciò non toglie che la Messa in si minore consista per lo più di parodie. Tuttavia l'opera non è da svalutare: in Bach la riutilizzazione di una composizione si accompagna spesso ad un'ampia rielaborazione, quasi una nuova creazione. Questo vale per esempio per il particolarmente espressivo Agnus Dei, il cui modello originario è costituito dall`aria ”Ach bleibe doch, mein liebstes Leben” dell'Oratorio dell'Ascensione, BWV 11. Un`altra antica composizione si impone per un nuovo adattamento nel caso del coro introduttivo della cantata ”Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen”, BWV 12, rielaborato nel Crucifixus. Questo coro, fra l'altro, è già di per sé una parodia e, di conseguenza, il Crucifixus una rielaborazione di secondo grado: i due brani trovano il loro modello comune in una composizione di Vivaldi, che inizia con le parole Piango, gemo, sospiro e peno, "il canto d'amore di un'anima infelice”, secondo Bernard Paumgartner, scopritore di questa somiglianza.
Le parodie della Messa in si minore rivelano entro quale ampio orizzonte musicale si sia sviluppata l'opera. In essa non solo trovano riflesso le varie tappe degli anni di Lipsia, ma influisce anche il periodo creativo di Weimar, che diede alla luce BWV 12; elementi caratteristici degli anni di Cöthen si rintracciano nei movimenti di concerto del Gloria in excelsis e del coro Et resurrexit. Così la Messa in si minore riflette, fino ad un certo grado, tutti i periodi artistici di Bach. Se si aggiunge che l`autore, soprattutto nel Credo, si ispira allo stile antico, l'antico stile di chiesa, e che, al contrario, nel Christe eleison, si avvicina al moderno stile galante, l'immagine della sua missa tota si espande in un'ampiezza universale, che comprende passato e presente e anticipa il futuro.
D'altra parte la storia di composizione, gli elementi formali e stilistici non sono essenziali di per sé, ma costituiscono la veste trasparente di un contenuto spirituale. In particolare per la Messa in si minore si pone la domanda dei principi, in base a cui Bach ha ordinato i suoi mezzi stilistici e i suoi elementi formali. Chi ascolti l'opera con attenzione, si chiederà secondo quali schemi Bach abbia usato cori, arie e duetti, soprattutto nel Gloria ad otto movimenti e nel ciclo a nove movimenti del Credo. L'interruzione, apparentemente immotivata, del regolare alternarsi di coro e solo nel ciclo del Gloria, potrebbe suscitare l`impressione di una scelta non ponderata. Se invece si ordina, non arbitrariamente, la sequenza dei movimenti come nello schema seguente, si ottiene una struttura artistica ben meditata dell'intero ciclo.

E' collocata all'inizio la lode degli angeli 
nella notte di Natale (Luca 2,14), a cui segue il cosiddetto Laudamus, da sempre un tradizionale testo liturgico. Quest'ultimo e suddiviso nella Messa in si minore al modo seguente: inizio e fine formano ciascuno un'aria con immediatamente seguente dossologia. I testi delle arie sono imparentati attraverso la parola te, ripetuta quattro volte nella prima dossologia. e attraverso l'espressione tu solus, che ricorre tre volte nella seconda. Bach sceglie l'aria in corrispondenza al contenuto del testo: la voce singola interpreta Dio eterno, a cui è rivolta la seguente lode del tutti di coro ed orchestra. Nel punto centrale del ciclo del Gloria segue una preghiera in tre movimenti alla trinità divina, nel cui mezzo - e quindi al centro dell'intero ciclo - sta il coro Qui tollis peccata mundi, cioè l'immagine del Cristo crocifisso. Esso è affiancato dal duetto, che si riferisce all`umiliazione di Dio in Gesù Cristo, e dall'aria Qui sedes ad dextram patris. Il duetto simboleggia l'incarnazione di Dio, la seconda persona della trinità (così come il Christe eleison del Kyrie tripartito), e questo giustifica anche la tonalità della sottodominante in sol maggiore rispetto alla cornice dossologica in re maggiore. L'aria simboleggia l'unità di Cristo con Dio Padre. Una costruzione ancora più rigida presenta il Symbolum Nicenumstrettamente legato alla struttura del Gloria, come risulta dal seguente schema:

Balza subito agli occhi che questo ciclo contiene soltanto due movimenti solistici, che stanno all'inizio del secondo e terzo articolo di fede. A sua volta la forma del duetto simboleggia, anche qui nella sottodominante in sol maggiore, la dichiarazione dell'incarnazione di Dio. Il messaggio sullo Spirito Santo all`interno dell'unità divina viene introdotto da un'aria, che questa volta sta persino nella sopradominante in la maggiore. Anche questo ciclo è circondato da una cornice, fatta da un coro a cappella con seguente dossologia corale. Vengono utilizzati ”per necessità" due violini nel movimento
Credo in unum Deum, una fuga a sette voci dalle intenzioni altamente simboliche, su un tema a sette entrate. Nei due cori a cappella Bach ha usato un corale gregoriano medievale, rimasto vivo in entrambe le Chiese cristiane: nel primo coro come tema della fuga, nel secondo inizialmente come canone e poi come cantus firmus tenor - il tutto scritto nella maniera, volutamente arcaica, dello Stile antico. Anche in questo caso si tratta di un collegamento linguistico: alla coppia di parole unum Deum nel primo coro corrisponde nel Confiteor la coppia unum baptisma. Ed anche in questo ciclo l`attenzione viene rivolta, nel punto centrale, al Crocifisso nella sequenza dei movimenti Et incamatus es - Crucifíxus - Et resurrexit. Bach sottolinea l'importanza della sequenza tramite le tonalità: al si minore del coro Et incarnatus est segue nel Crucifixus il mi minore, la parallela della sottodominante come indice di profondissima umiliazione, dopo di che attacca il coro con Et resurrexit in re maggiore - un fortissimo contrasto. Questa simmetria assiale era coscientemente voluta da Bach, visto che il ciclo ha ottenuto la sua forma definitiva solo nella seconda elaborazione. Desidero ricordare che tale forma appartiene allo stile caratteristico del barocco.
Della personalità artistica di Bach fa parte il sempre vivo interesse per l'arte in sé, per la musica come ars, cioè per la sua capacità di realizzare tutte le possibili combinazioni in riguardo ai movimenti, all'organico strumentale, alla tecnica raffinata, alla strumentazione ecc. Così accade, per esempio, quando egli introduce nei movimenti solistici del ciclo del Gloria sempre un altro strumento concertante, per dimostrare l'immensità delle possibilità musicali, Mai però questo succede a piacere, bensì sempre con un senso preciso, o perfino con significato simbolico, per esempio quando usa un ottone nell'aria di basso Tu solus sanctus; gli ottoni rappresentano infatti il mondo divino. Un altro esempio è costituito dal coro del Crucifíxus, il cui modello contiene già una figura di lamento, ripetuta 12 volte, in una quarta cromaticamente discendente. Bach vi aggiunge un 13° periodo, che passa al sol maggiore con solo accompagnamento di continuo sulle parole Et sepultus est - un singolare modo di richiamare alla mente il silenzio sepolcrale sul Golgotha, dietro al quale si può udire la tacita parola della croce è compiuto. Così massima virtuosità diviene espressione della fede.
Benché i due cicli della Messa in si minore abbiano una evidente correlazione tra loro nella forma, il Symbolum Nicenum non rappresenta una mera continuazione del Gloria, ma un concentrato e spirituale incremento nel completamento dell'opera. Anche se ci fu un avvenimento esterno a dare il via, Bach ha progettato con la sua unica missa tota, che contemporaneamente è una missa concertata usufruente di tutte le possibilità dell'epoca, più del mero compimento d'un incarico: il pensiero di tralasciare ai posteri un'opera d'arte d'idee - da una parte per rappresentare l'umanamente possibile nel campo della composizione, e dall`altra come immagine simbolica dell'idea universale dell'ufficio divino, al di là del tempo e delle varie confessioni. Senza prendere in considerazione la Messa in si minore, l'opera strumentale tarda di Bach non può apparire all'osservatore dei nostri giorni sotto quell'aspetto, che è caratteristico per la produzione degli ultimi dieci anni della sua vita. La messa impedisce di supporre un distacco dal suo lavoro di Cantor e dal suo ufficio religioso; infatti anche il rapporto di Bach con la musica come arte si svolse in una rivelazione teologica, cioè nell'interpretazione del basso continuo come il più completo fondamento della musica, il cui fine trova ragione in niente altro che `nell'esistere perla gloria di Dio e la ricreazione dello spirito (secondo Fr.E. Niedt, Gründlicher Unterricht des General-Basses, che Bach ha fatto proprio). Questo significò per lui contemporaneamente libertà e vincolo. Il suo 'opus ultimum', il completamento della Messa in si minore, deve essere compreso come summa della sua vita. Dopo il 1750 la partitura autografa dell'opera giunse nelle mani del secondo figlio di Bach, Carl Philipp Emanuel, che nel 1786 eseguì il Credo in un "Concert für das medizinische Armeninstitut” (Concerto per l'istituto medico dei poveri): è questo un indice che egli vedeva nel brano la parte più significativa della messa. Nel suo testamento del 1790 l`opera è chiamata "la grande messa cattolica”, non si sa se sussistesse una ragione vera e propria. Dapprima nessuno si interessò ad acquistare il prezioso manoscritto; solo nel 1805 lo comperò il musicologo svizzero Hans Georg Nägeli, che in seguito lo giudicò "la più grande opera d'arte musicale di tutti i tempi e tutti i popoli”. Un'edizione della messa, già da lui iniziata, venne portata a termine tuttavia solo nel 1845, grazie a suo figlio Hermann. In questa edizione compare per la prima volta il nome Die hohe Messe in h-moll..., certamente al fine di metterla sullo stesso piano della Missa solemnis di Beethoven. Più tardi, il biografo di Händel, Friedrich Chrysander, acquistò la partitura autografa per la Società di Bach, fondata nel 1850, che, da parte sua, la rivendette nel 1861 alla Königliche Preußische Bibliothek di Berlino. Perciò essa appartiene oggi alla Staatsbibliothek Preußischer Kulturbesitz di Berlino (ovest).
Indipendentemente dalla sorte della partitura autografa, già dall'inizio del XIX secolo ci si dedica allo studio della messa, poiché ne esistono copie antiche. Anche in questo caso fu Carl Friedrich Zelter il primo ad interessarsene, già dal 1811 nella Berliner Singakademie. E qui essa fu anche cantata interamente per la prima volta, tuttavia non davanti ad un pubblico, poiché apparve troppo difficile. Nel 1834 il successore di Zelter, Carl Friedrich Rungenhagen, presentò l'intera opera per la prima volta pubblicamente (divisa in due serate), dopo che dal 1828 avevano già avuto luogo esecuzioni parziali in diverse città tedesche. La Messa in si minore comparve nel 1856 in una edizione incompleta, dato che la partitura autografa non poté essere consultata, nel 1857 poi in un'edizione rivista ed infine nella prima edizione integrale di Bach: erano così date le premesse per includere l'opera nel repertorio dei cori di oratorio più virtuosi. La sola Berliner Singakademie ha dato la messa ben 57 volte fino all`inizio della seconda guerra mondiale. Le esecuzioni della messa erano però sempre degli avvenimenti straordinari e tali rimangono fino ai nostri giorni, anche se il loro numero negli ultimi tempi è molto aumentato; e in verità ogni direttore vede nell'esecuzione della Messa in si minore l`apice del suo operare. A quest'evoluzione hanno contribuito sia la Chiesa cattolica che i paesi esteri. La Messa in si minore appartiene oggi all'intera umanità, al di la delle confessioni e delle frontiere geografiche: essa viene considerata l'acme della cultura musicale. Ci si può soltanto augurare che, insieme alla sua singolare forma sonora, venga compreso sempre meglio anche il suo senso.
Walter Blankenburg
Traduzione: Wigand & Wigand
(Note al doppio CD Deutsche Harmonia Mundi (Editio Classica) GD 77040 - (c) 1990)