Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 19, 2022

Elogio dello svarione, ossia la marcia Verdi-Mahler (non Mahler)


Forse non è serio citare uno scritto (e 
uno scritto importante) non perché ci sia un nesso tra il suo contenuto e il discorso che si vuol fare, ma semplicemente perché quel libro intende far l'elogio di qualcosa che per solito non si elogia affatto. Ecco che cosa c'entra, qui, l'Encomium Morìas o, traducendo, l'Elogio della Pazzia di quella gran mente che fu Erasmo Gerrit da Rotterdam.
Ma c'entra anche perché, sebbene tutti si sappia o si creda di sapere che libro sia, Erasmo lo cominciò scrivendo al suo amico Tomaso Moro la frase che è stata citata lassù, in occhiello.
Ed ecco perché, di seguito, viene quell'altra citazione, di firma ritenuta seria, serissima. Se non era serio Kant, chi mai lo potrebbe essere?
Eppure, in quel suo libretto simpaticissimo che è I sogni di un visionario etcetera (vedi sopra), Kant, si concede partenze come quella citata.
Ebbene, oggi mi va di far l'elogio dell'inesattezza. Se poi, invece che un elogio, ne risulterà tutt'altro, sarà pur sempre un risultato in carattere con le illustri, poco serie premesse.
Adesso si ricomincia a parlar di musica. E di qual musicista si farà il nome per primo? Di Mahler, che è sulla cresta dell'onda? Sì e no. Perché prima nomineremo Verdi. Verdi come autore dell'Aida, e in codesta Aida anche di quella marcia trionfale che conoscono anche i sassi: quelli italiani, soprattutto ad orecchio, perché essendo italiani, quasi tutti non sanno legger la musica, come gli abitanti non minerali della penisola appunto per questa ed altre ragioni detta (lucus a non lucendo, anzi canis a non canendo, e badate che i cantanti non c'entrano) "Paese della musica".
Dicevamo. Verdi. L'Aida. La marcia trionfale. L'Arena di Verona. No, quella non l'avevamo ancora nominata, ma non era possibile lasciarla da parte. Difatti, c'entra, e non soltanto perché le stagioni d'opera in Arena vennero inventate nel 1913 da Zenatello e compagni per darvi l'Aida, o meglio le inventò l'Aida medesima. C'entra per via di un centenario e di una medaglia. Il centenario, correndo l'anno 1971, è appunto quello dell'Aida di Verdi. La medaglia è quella che l'Ente autonomo lirico dell'Arena di Verona pensò di far coniare appunto per celebrare il centenario in forma più resistente ai topi, alle alluvioni e allo smog di quanto non siano gli oggetti cartacei. Una medaglia di metallo dura certamente di più, ed è sempre un ricordino simpatico.
Così, venne incaricato lo scultore Marcello Mascherini di preparare il bozzetto. E lui lo preparò: sul recto, una bella Arena entro la quale si infila e si estolle un obelisco egizio; sul verso, l'incipit della marcia trionfale, vale a dire del motivo più famoso dell'opera più popolare del mondo; quello che, si diceva, lo conoscono anche i sassi.
A giudicare da quel che si vede fotografato e stampato sull'ultima pagina del "numero unico" areniano di quest'anno, Mascherini fece tutto per benino; sul verso sistemò un pentagramma, con due battute e mezza di melodia, appunto quelle che iniziano il cosiddetto motivo della marcia trionfale.
A voler fare un pochino di quella che in conservatorio e luoghi affini si chiama "analisi della forma", si scoprirebbe che quel motivo lì, il più famoso, non andrebbe definito come "il tema principale" del trionfo. Verdi attacca il quadro in mi bemolle maggiore (tre bemolli in chiave) con una specie di introduzione; poi il coro, sempre in mi bemolle maggiore, entra con il tema principale; e il motivo arcifamoso è, in realtà, una specie di "seconda idea", tant'è vero che non è in mi bemolle, ma in la bemolle maggiore, cioè in un rapporto tonale simile (anche se inverso) a quello del sonatismo classico. Dunque, il motivo celebre non è quello "principale", ma una "seconda idea": senonché Verdi l'adopera là dove c'è la didascalia "le truppe Egizie precedute dalle fanfare sfilano dinanzi al Re", fatto che talvolta succede davvero in scena, ancora adesso. Perciò quello è il "motivo della marcia trionfale". Le persone serie obietteranno che, non essendo un "motivo principale", non è giusto che sia considerato e riverito più del suo antecedente che invece lo è. Ma la musica, come tanti altri fatti di questo mondo, spesso fa l'elogio dello sbaglio (apparente, magari); e, a proposito di "seconde idee" prevaricatrici e prepotenti, c'è sempre il caso di quella che Schubert colloca nel primo tempo della Sinfonia in si minore detta Incompiuta sebbene sia compiutissima, e che è il motivo più celebre (dunque, in certo senso, il più importante) di tutta la Sinfonia e forse (Ave Maria a parte) di tutto Schubert. Ma questo l'ho già raccontato altre volte, anche in un articoletto del quale sento che finirò per riparlare.
Verdi, nell'impiantare in la bemolle maggiore la marcia trionfale, non aggiunse un quarto bemolle in chiave; gli bastavano i tre che c'erano. Forse, se avesse immaginato che scherzaccio gli avrebbero giocato quei bemolli cent'anni dopo, avrebbe fatto un rapido e ardito giro modulante e sarebbe finito in do maggiore, senza accidenti in chiave. Ma, poveraccio, non immaginava.
Così, per colpa di quei bemolli cent'anni dopo, quando si passò dal bozzetto di Mascherini alla medaglia fusa in metallo, la marcia trionfale da la bemolle maggiore finì trasportata in do minore, esibendosi come uno spunto di marcia funebre, anzi come una specie di parodia funebre della marcia trionfale aidiana, quale avrebbe potuto idearla Gustav Mahler se soltanto gli fosse venuto in mente, lui che quanto a marce funebri corrosive e grottesche, a citazioni ironiche della musica propria e altrui e ad altre trovate perfidamente geniali, ci ha saputo fare. Perché l'incipit della marcia, camuflato in do minore (o comunque nel modo minore di qualunque tonalità) suona già alquanto caricaturale; ma provate a suonare il resto, sempre in minore; e tra la terza e la quarta battuta diverrà così debolmente piagnucoloso da far ridere chiunque.
In quest'affare ci potrebbe essere una utilità pedagogica: sappiamo quanto sia difficile spiegare ai profani la differenza tra modo "maggiore" e modo "minore" (vedi equivoci sul primo tempo nel Primo Concerto di Ciaikovski); far ascoltare la marcia "giusta" il suo "minore sbagliato" sarebbe efficacissimo.
Che cosa sarà successo fra bozzetto e medaglia? Che necessità ci fosse di "trasportare" in do la marcia non si capisce, tanto più che Verdi, nei vari mutamenti di tonalità cui la sottopone durante il trionfo, la presenta in si maggiore e poi in mi bemolle (sempre maggiore, si capisce); mai in do. Influssi del Dizionario dei temi musicali di Barlow e Morgenstern? Poco probabile: là i motivi sono "trasportati" quando sono citati "in lettere", ma su pentagramma sono riprodotti come sono stati scritti.
Forse vollero centrare meglio le note sul pentagramma tirandole in su di una riga? E' stata suggerita un'altra spiegazione, più "tecnica": qualcuno avrebbe visto la parte delle trombe, segnata sulla partitura d'orchestra o sulle parti come "in do" per quelle benedette questioni delle trasposizioni e del taglio degli strumenti: le trombe "egizie" volute da Verdi sono "in la bemolle"; perciò qui leggono come se la tonalità fosse do (maggiore, si capisce) appunto perché invece è la bemolle. L'ignoto "correttore" avrebbe badato soltanto a quel rigo apparentemente in do, e avrebbe avvertito esser quella la tonalità "giusta", e non quella notata sullo spartito per canto e pianoforte (una riduzione, andiamo!). Comunque sia, il guaio fu che, portato il motivo in do, si dimenticarono di togliere i bemolli in chiave; e col mi bemolle, spiacenti, siamo in do minore. Da marcia funebre, Verdi-Mahler e magari Gino Negri.
Avevo detto che sarebbe tornato in ballo l'articolo del numero scorso, il Mahler, non Mahler. E ci torna. A Verona qualcuno, nel darsi troppo da fare, travestì in do minore la marcia dell'Aida. A Milano, per non voler aver l'aria di strafare, qualcun altro è riuscito a trasformare uno scrittore francese in un altro tutto diverso. A quel tizio, che si firma qui come si firmò allora, è sempre piaciuta l'idea della "postillazione infinita", che permette di seguire collegamenti complessi molto vari senza perder di vista l'idea che li ha suggeriti. Idea non realizzabile fino in fondo, come tutto (se no, il senso del relativo che cosa ci insegnerebbe?); però fino a un piccolo numero di passaggi si può arrivare. L'idea mi era stata messa in corpo, a suo tempo, da ciò che disse in Du dandysme et de George Brummel Jules Barbey d'Aurevilly, quando, dopo aver fatto una nota a piè di pagina, ci infila dentro una nuova "chiamata" e, a pie di nota, scrive: "Ho tanta voglia d'esser chiaro e compreso, che rischierò una cosa ridicola: farò una nota alla nota". E prosegue; non immaginando, fra l'altro, che nell'edizione italiana del volumetto sarebbe apparsa, nella "nota alla nota", una nuova "chiamata", che rinvia alle note in fondo al libro, e che spiega chi fosse il principe di Kaunitz del quale Barbey si era messo a discorrere nella "nota alla nota ". (N.B. Lui stesso già ci aveva ficcato anche una frase tra parentesi, altro equivalente di una "sottonota"›...).
Bene. Il volumetto era lì, dietro la mia schiena; e stavo già per voltarmi, sfilarlo e rilegger la pagina amata perché stavo citando la faccenda della «nota alla nota» appunto in una nota del Mahler, non Mahler e intendevo riferire la pagina esatta di Barbey. Ma mi sembrò di esagerare, di fare il pignolo e il sopracciò, e lasciai il libro nello scaffale. Così andò a finire che l'articolo uscì col nome di Alfred de Vigny al posto di Jules Barbey d'Aurevilly. Che potrebbe essere un invito a leggere, di Vigny, e nella stessa collana dell'Astrolabio, Servitù e grandezza militare tra il saggio e il romanzo, con quella scena stupenda di papa Pio VII che, prigioniero di Napoleone I, alle scenate isteriche del Bonaparte risponde con due sole flebili apostrofi: «Commediante» e «Tragediante».
Ma questo ci svia alquanto; e non avendo l'abilità di Camilla Cederna e del suo vorticoso Lato debole finirei per fare confusione. Già s'è fatta una certa insalata tra Verdi, Mahler, Negri, Erasmo, Kant. Se poi ci viene in mente di aver udito, in una trasmissione del «Terzo programma», che il Glockenspiel è uno strumento «meccanico» (tipo pianola), e se per giunta ci torna in mente un addetto ai musicali lavori che, tutto entusiasta per una certa interpretazione, andava cantando e ricantando il tema che ne era la pezza d'appoggio, però sbagliandolo in modo elementare per cui non significava più niente; se tiriamo in ballo anche questa roba, qui finisce a botte; diametralmente opposta a quelle che stava per buscare Ries da Beethoven alla prima prova della Terza sinfonia; il fido allievo voleva rimproverare il corno che, leggendo inappuntabilmente e avendo contato giusto, era entrato con il tema «alla tonica» sopra un accordo di «dominante» degli archi: come aveva scritto appunto Beethoven. Ma questo è uno «sbaglio» sublime. Non va bene (o va troppo bene) per tessere l'elogio dello svarione, come si diceva di voler fare in principio.
Postscriptum, per consolare gli italiani: nel 1956, la Germania Orientale emise un francobollo da 20 pfennig per il centenario della morte di Schumann, sul quale si vedevano un ritratto di Schumann e della musica di Schubert.
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIV n. 3-4, dicembre 1971)

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