Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, luglio 31, 2010

Goffredo Petrassi

Goffredo Petrassi è nato a Zagarolo il 16 luglio 1904. Nel 1911 la famiglia si trasferì, a Roma. Nel 1913 il ragazzo entrò a far parte della Schola Cantorum di San Salvatore in Lauro: e fu la prima preziosa esperienza di una vita di musicista scientificamente formata sulla conoscenza diretta, sulla "pratica" della propria arte, ancor prima che sulla applicazione "astratta" della teoria. Nel 1919 la muta della voce impone l'abbandono della Schola Cantorum. Petrassi si impiega come commesso in un negozio di musica: e ciò gli consente di continuare da lettore quel che aveva fin'allora fatto da cantore, un "commercio" diretto, non più soltanto con gli antichi, ma con i moderni, ed anche con i contemporanei. Un immaginoso esegeta descriverà "il giovane che divora montagne di partiture" nel retrobottega. Lo scopre Alessandro Bustini, vengono gli studi regolari, dapprima privati, poi pubblici. Nel 1932 Petrassi si diploma in composizione, nel 1933 in organo, presso il Conservatorio di Santa Cecilia.
Ma il "curriculum" ufficiale dice poco sul giovane curioso e avido di cultura, un musicista del tutto anomalo nel consuetudinario panorama del tempo, visto che legge romanzi, poesie e saggi e guarda pitture, sculture e architetture, un giovane che si lega d'amicizia con Casella, con Salviucci, con Fedele D'Amico. E che già scrive musica, ancor prima della ufficiale consacrazione accademica. Della quale è molto più probante e decisiva quella della più avanzata cultura italiana del tempo, che viene soprattutto con la Partita per orchestra del 1932, che porta il nome del ventottenne musicista romano in tutta Europa.
Da allora la vita di Goffredo Petrassi è un incessante allargamento di interessi e di orizzonti, dell'uomo e del musicista. Compie esperienze di organizzatore musicale (dal 1937 al 1940 è sovrintendente del teatro "La Fenice" di Venezia, dal 1988 è direttore artistico della Società Aquilana dei Concerti) e di direttore d'orchestra (soprattutto tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta, con tournées che gli fanno fare praticamente il giro del mondo). Si rivela didatta straordinario: dal 1939 al 1959 presso il Concervatorio e dal 1959 al 1978 presso l'Accademia di Santa Cecilia. Cattedra di composizione, naturalmente. Nella quale sono passati molti dei maggiori autori di musica delle generazioni successive: e mi basterà citare fra gli italiani Aldo Clementi e fra gli stranieri Peter Maxwell Davies. Ma ancor più che i nomi contano le testimonianze orali e scritte (e tra queste preziosa è quella lasciata dal compianto Domenico Guaccero): un far lezione che mai nulla imponeva dall'esterno, ma tutto sempre badava ad esplicitare dall'interno, perché l'allievo imparasse ad esprimere sè stesso, mettendo ordine alle proprie idee, organizzandole secondo principi coerenti, ma autonomi, autoctoni, "indigeni" se è lecito mutuare d'altronde un termine cosi estraneo all'esegesi musicologica. I quaranta anni ceciliani sono quelli fondamentali della storia didattica di Goffredo Petrassi, che pur ha conosciuto ulteriori e prestigiosi anelli di una collana preziosa, in Italia (a Siena) e fuori d'Italia (al "Mozarteum" di Salisburgo e a Tanglewood negli Stati Uniti).
La ragione per soffermarsi su Goffredo Petrassi maestro di composizione prima che su Goffredo Petrassi compositore sta nel fatto che il metodo del didatta è il metodo dell'autore. Nel modo in cui Petrassi procede ad organizzare la propria musica è la stessa libertà che il maestro usa quando insegna ai propri allievi ad essere sè stessi.
Nessuna costrizione esteriore, nessuna adozione preconcetta di modelli e di forme, nessuna gabbia stilistica. Anche quando esperimenta metodi, forme, procedimenti tipici delle principali correnti della musica contemporanea, Petrassi lo fa con la massima libertà, vorrei dire con la stessa curiosità con cui da giovane leggeva le "montagne di partiture" di cui parlava Fedele D'Amico, con quella curiosità attenta e partecipe che ha sempre conservato nei confronti delle cose della cultura e del mondo e che ne ha fatto un sottile critico letterario (ignoto al pubblico e noto soltanto agli amici più intimi, anche se è membro della giuria del "Premio Viareggio") e un fine estimatore della pittura e della scultura contemporanee (abbastanza nota è la sua "quadreria" del Novecento italiano e non italiano, dagli anni Trenta ad oggi).
Goffredo Petrassi è uno dei rari musicisti che si incontrano frequentemente ai concerti di musiche non proprie: ma è ancora più frequente incontrarlo a una mostra di pittura o di scultura o trovarlo intento a curiosare in una libreria.
Le scelte letterarie compiute per i testi da lui messi in musica sono scandite periodicamente dalle Sacre Scritture, con una progressiva e sempre più assorbente prevalenza del Nuovo sul Vecchio Testamento. Sono ovviamente individuabili aree cronologiche d'interesse (gli italiani, i classici, gli spagnoli), ma si nota una straordinaria indipendenza da tutte le "mode" letterarie che hanno afflitto il nostro secolo: ed anzi, man mano che avanza il tempo, si afferma sempre più la personalità di una "lettura" totalmente autonoma da condizionamenti esterni.
Più intimo ancora, più segreto e raccolto, e radicato nel profondo, è il rapporto di Petrassi con la pittura e con la scultura: e non è solo questione di personali amicizie, è questione che v'è una nascosta e sottile affinità di tecniche di "scrittura" e di procedimenti di "composizione", che forse può spiegare in parte l'originalità, e vorrei dire unicità, di Goffredo Petrassi nel panorama della musica del Novecento.
Una originalità che si manifesta anche nella pratica impossibilità di tracciare un quadro evolutivo della personalità di Petrassi nel tempo. Petrassi non evolve, in senso stilistico, bensì muta, ma mutando resta sempre sè medesimo. V'è una sigla inconfondibile, un qualcosa che ci fa dire: questo è Petrassi. Eppure ciascuna opera è diversa dall'altra. E non necessariamente la precedente è, inferiore alla successiva. Ed il mio non vuole essere un banale discorso di qualità. Mi riferisco alla tecnica, alla scrittura, alla organizzazione dell'opera. Che ogni volta sono riferite strettamente alle necessità interne di essa singola opera, indipendentemente dalle connessioni (che possono esservi e possono non esservi) con le opere che l'hanno preceduta o la seguiranno. Si può dire che non v'è lavoro del maestro romano che non sia importante per una sua caratteristica tutta particolare, di esso proprià e singolare.
In un momento o nell'altro della sua attività Goffredo Petrassi ha praticamente toccato tutti i "generi": teatro e concerto, sacro e profano, sinfonico e corale, vocale e strumentale. Nel corso del tempo due filoni sembrano tuttavia sempre più emergere come quelli che lo interessano in modo peculiare: un filone religioso, legato all'interpretazione di testi di particolare valore spirituale, e un filone strumentale, nel quale possono farsi rientrare così le musiche solistiche come quelle orchestrali.
Goffredo Petrassi è stato educato nella religione cattolico-romana. Di questa egli ha colto l'universalità dell'umano messaggio.
La religiosità delle sue opere corali e vocali è cristianamente laica, in quanto si rivolge all'uomo; ha anzi l'uomo per suo centro. Fin dal Coro di morti, attraverso Noche oscura, e poi Beatitudines, "testimonianza per Martin, Luther King", Orariones Christi e Laudes Creaturarum, Petrassi sommessamente ma fermamente esprime la condizione sbigottita dell'uomo che è cosciente e consapevole della vita, "testimonia" appunto la propria umanità come individualità nella solidarietà, con asciutta dignità, ma senza remore, senza esitazioni, senza reticenze. La religiosità di Petrassi può dirsi preghiera, ove s'intenda la preghiera come parola, azione del dire che non si esaurisce in invocazione, ma si svolge pacata in ragionamento, da uomo a uomo, sofferente dell'incomprensione ma fiduciosa nella comprensione, il tono mai alzato a gridare e a proclamare, sempre tranquillo, ma fermo, deciso, sicuro, consapevole, un ragionare senza delusioni e senza illusioni, un ragionare senza utopie, né positive né negative. O se si vuole, con una sola utopia, che è poi la sostanza stessa dell'essere uomo, l'utopia della ragione. Voce corale, voce solista (che nelle Laudes Creaturarum si fa addirittura voce recitante), nella maggior parte dei casi connessa a un supporto strumentale, che ne è parte costitutivamente integrante.
Se infatti già nel modo di trattare i testi è possibile rilevare la singolarità della musica di Goffredo Petrassi nell'ambito della musica del Novecento (nessuna spezzatura o frantumazione o violentazione ma anche nessuna enfatizzazione o sottolineazione od esasperazione: l'apparenza può indurre a volte addirittura a pensare a un commento; poi ci si rende conto di quanto il testo sia da Petrassi fatto interno al tessuto musicale che lo circonda, in esso totalmente immerso, in esso e con esso reso significante), questa singolarità risalta con evidenza insuscettibile di dubbi nella sua musica strumentale ed orchestrale. E va tenuto conto del fatto che la sua stessa scrittura orchestrale è sempre più soggetta, col passare del tempo, a una concezione "concertante" che dà rilievo solistico alle singole famiglie o addirittura ai singoli strumenti, e comunque rifiuta la tradizione, non solo ottocentesca, ma in buona parte anche novecentesca, dell'orchestra come massa.
Ed è questo un dato estremamente significativo. L'avvento dell'orchestra è storicamente legato all'adozione di una filosofia della musica che impone a questa, come a tutte le altre arti, di farsi portatrice di messaggi, la cui origine non è sonora, ma letteraria o visiva o plastica: l'opera musicale diviene la dimostrazione di un qualcosa di predeterminato, di precostituito. E' il grado di traducibilità in immagini letterarie o visive che determina le possibilità di ricezione (e quindi di comunicazione e di diffusione) di un'opera musicale. Proprio per il suo carattere di nucleo ideativo destinato a una dimostrazione, per lo più attraverso un procedimento dialettico, il tema nasce come un tutto unico, inscindibile nei suoi singoli elementi componenti, La musica adotta un vocabolario fatto di nessi e di locuzioni, abbandona quello tradizionale, ed usato fino al Settecento, fatto di singole parole dotate di una autonornia significativa di partenza , che viene trasformata nella composizione delle proposizioni e dei periodi, che ne muta ogni volta il significato di arrivo. Uscendo dall'analogia verbale, alle parole in musica corrispondono le figure: nella musica barocca il periodo nasce dalla connessione delle figure, l'abilità creativa del musicista è nel connettere le figure in modo sempre diverso, l'arte consiste nel "come", è un'arte del fare; nella musica romantica invece l'abilità creativa del musicista si manifesta nel trovare "terni" (cioè periodi) sempre nuovi, l'arte consiste nel "cosa", è un'arte dell'inventare. Il grande problema della musica del Novecento è stato quello di ritrovare l'abilità creatrice del "fare", una volta che si era perduta del tutto la base di partenza, cioè la figura musicale elementare partecipe di una lingua convenzionale comune.
Senza manifesti estetici, senza proclami, senza benedizioni e senza scomuniche, ma con tutta semplicità, è proprio Goffredo Petrassi che a questo problema ha offerto una proposta di soluzione che non mi perito di affermare essere ad oggi la più valida ed interessante. Essa consiste nel recupero della figura musicale, ovviamente nel solo modo possibile, cioè dall'interno dell'opera, visto che non esiste più un vocabolario comune che consenta di prenderla dall'esterno. Sempre più in Petrassi la figura acquista un'importanza centrale, diviene la sostanza stessa della composizione. E' una figura che contiene germinalmente in sé tutti i parametri compositivi, non è quindi un elemento esclusivamente melodico o ritmico o timbrico. E' in uno tutto ciò, ed anche gesto, durata, materia, e così via. Ogni composizione ha il proprio lessico figurativo, un vocabolario di parole che sono sue proprie, cellule elementari che si compongono in significati connettendosi e che la caratterizzano non in quanto elementi statici (cioè tessere di mosaico), bensì in quanto elementi dinamici, in continuo divenire, senza blocchi, impedimenti od impacci, libere nella loro aggregazione, secondo un procedimento di organizzazione costruttiva che tiene continuamente presente l'insieme dell'opera, vista contemporaneamente da tutti i lati; come in un quadro la cornice, così nell'opera musicale la durata complessiva costituisce il limite entro il quale essa si raccoglie interamente, senza nulla prendere dall'esterno (né immagini visive né spunti letterari) e senza nulla proiettare verso l'esterno (messaggi filosofici o sociali); ma dentro la cornice della sua durata la rappresentazione ha una totalità onnicomprensiva, la cui articolazione è proprio costituita dalle singole figure che essa viene via via generando.
Così è che, già nel modo stesso di scrivere e di comporre, al di là dello stesso valore elevatissimo d'arte delle sue opere, Goffredo Petrassi ha dato un contributo decisivo e fondamentale alla storia della cultura del Novecento, e non soltanto di quella italiana.

di Carlo Marinelli (Professore di Storia della Musica nell'Università dell'Aquila - Presidente dell'I.R.TE.M.)

sabato, luglio 24, 2010

Glenn Gould: lontano dal pianoforte, vicino alla musica

"Anni fa stavo suonando per la prima volta la Sonata n. 30 op. 109 di Beethoven. Avevo circa diciannove anni e avevo l'abitudine di provare in cittadine canadesi relativamente piccole i pezzi mai suonati prima in pubblico; questa sonata capitò nel programma di un concerto che dovevo tenere in una città universitaria di nome Kingston, a centoventi miglia da Toronto.
Non mi sono mai preso la briga di esercitarmi a lungo - ora quasi non lo faccio più - ma già allora non ero affatto schiavo dello strumento. Tendevo a imparare lo spartito lontano dal pianoforte. Lo imparavo prima tutto a memoria, e solo dopo andavo al pianoforte - e questo rappresentava, naturalmente, un altro stadio del divorzio fra componente tattile e altre manifestazioni espressive.
No, non mi sono espresso accuratamente perché, ovviamente, certe manifestazioni espressive facevano parte del processo di analisi, ma questo non era vero di quel che il pezzo presupponeva dal punto di vista tattile.
Ora, l'op. 109 non è un pezzo particolarmente difficile né faticoso, ma c'è un momento che è un vero spauracchio e si trova nella quinta variazione nell'ultimo movimento - una volata diatonica di seste ascendenti. Le difficoltà nascono non soltanto da problemi di diteggiatura di note sui tasti bianchi contro note sui tasti neri, ma anche a causa di quella zona della tastiera intorno alle due ottave sopra il do centrale, dove la ripetizione delle note spesso presenta dei problemi. Perché a quel punto si deve cambiare da un disegno di seste a un disegno di terze, e lo si deve fare in una frazione di secondo. Avevo sempre visto pianisti che, arrivati a quel punto sembravano cavalli dentro una stalla in fiamme, con il terrore dipinto sul volto, e mi ero sempre chiesto cosa mai ci fosse di così terribile in quel passaggio.
Ad ogni modo, due o tre settimane prima di suonare il pezzo per la prima volta, incominciai a studiare lo spartito e, una settimana prima, a provarlo al pianoforte (può sembrare un suicidio, ma è così che ho sempre lavorato). E la prima cosa che feci, stupidamente - un vero e proprio errore psicologico - fu di pensare: bene, prima proviamo la variazione, giusto per essere sicuri che non c'è alcun problema; non mi era mai sembrato che ce ne fossero quando da ragazzo avevo letto lo spartito... ma meglio provare, meglio mettere a punto un piccolo sistema di diteggiatura, non si sa mai.
Non appena cominciai a pensare al mio sistema, le cose cominciarono ad andare per il verso sbagliato, una dopo l'altra. Nel giro di pochi minuti scoprii di avere sviluppato un autentico blocco intorno a quel passaggio. Tre giorni prima del concerto, il blocco, di cui avevo cercato di sbarazzarmi con ogni genere di sotterfugi - per esempio non suonando affatto - era tanto cresciuto da rendermi letteralmente impossibile arrivare a quel punto senza cominciare a tremare e fermarmi. Quel passaggio mi faceva davvero venire i sudori freddi. Pensai che bisognasse fare qualcosa: o cambiare programma, o cancellare la variazione, o fingere di sapere qualcosa dell'autografo originale che nessun altro sapeva.
Decisi così di ricorrere al metodo Estremi Rimedi, che consisteva nel piazzare accanto al pianoforte un paio di radio o, meglio ancora, una radio e una televisione e accenderle a tutto volume (è proprio lo stesso esperimento di cui venni a conoscenza qualche anno dopo nel campo dell'odontoiatria anti-anestetica), a un volume così alto che, mentre potevo avere la percezione di ciò che stavo facendo al pianoforte, quel che riuscivo a sentire erano più che altro i rumori della radio e della televisione o, meglio ancora, di entrambe.
In quella fase lavoravo per separare le mie aree di concentrazione, ed ero arrivato a un punto tale che mi resi conto che quella cosa di per sé non avrebbe spezzato la catena delle mie reazioni (l'espediente aveva già cominciato ad avere effetto, il problema cominciava a sparire; il fatto di non potersi ascoltare, di non avere alcun riscontro uditivo dei propri errori era già un passo nella direzione giusta). Ma mi convinsi di dover fare qualcosa di più.
Ora, nel punto cruciale di questa variazione, la mano sinistra esegue una sequenza non particolarmente ispirata di quattro note, la terza delle quali è legata a cavallo di due battute. Con queste note non si può fare un granché, tuttavia pensai - va bene, ci sono diciamo almeno una mezza dozzina di permutazioni che io posso fare cambiando accenti e altre cosette simili [ne canticchia alcune], e provai a suonarle nel modo meno musicale possibile. Infatti, meno musicali erano, meglio era, dato che ci vuole moltissima concentrazione a produrre suoni non musicali: devo dire che questo mio sforzo ebbe pieno successo. In ogni caso, in quegli istanti la mia attenzione era esclusivamente concentrata sulla mano sinistra - la destra l'avevo praticamente dimenticata - e continuavo a fare questa cosa variando i tempi e lasciando la radio a tutto volume, e poi arrivò... il momento.
Spensi la radio e mi dissi: non penso di essere ancora pronto... ho bisogno di una tazza di caffè, trovai qualche altra scusa, e poi finalmente mi sedetti al pianoforte e suonai. Il blocco era scomparso. Ed ancora oggi talvolta, così per gioco, provo quel passaggio per vedere se quel blocco se ne è andato per sempre. Non c'è più e quello è diventato uno dei miei pezzi da concerto preferiti.
Ora, a me pare che il punto sia questo: all'inizio bisogna trovare per ogni strumento un modo che ci consenta di sbarazzarci completamente dell'idea che quel dato strumento comporti problemi tattili; ovviamente i problemi ci sono, ma bisogna ridurli alla loro radice quadrata e, avendolo fatto, adattare ogni tipo di situazione al risultato di quella operazione. Il problema è allora di avere abbastanza esperienza pregressa e/o extratattile della musica da impedire a qualsiasi cosa faccia il pianoforte di esserci di intralcio. Nel mio caso cerco di ottenere questo risultato stando lontano dal pianoforte la maggior parte del tempo, sebbene sia un po' difficile visto che ogni tanto si ha voglia di sentire come suona una certa cosa. Ma un certo ideale analitico (che è in qualche modo una contraddizione, non riesco a capire perché - oggi mi sento un po' stupido, ma andiamo avanti...), una completezza analitica è teoricamente possibile solo finché si sta lontani dal pianoforte.
Nel momento stesso in cui ci si siede al piano questa completezza viene alterata da compromessi tattili. Fino ad un certo punto il compromesso è inevitabile, ma la misura in cui è possibile minimizzarne gli effetti è esattamente la misura che si può raggiungere seguendo quell'ideale di cui stiamo parlando".

di Jonathan Cott (tratto da "Conversazioni con Glenn Gould", edt, 2009)

sabato, luglio 17, 2010

David Ojstrach: il prodigio di Odessa

Nell'ultimo periodo della sua carriera si avvicinò anche alla direzione d'orchestra, sognando prima o poi di dirigere la Pikovaja Dama di Ciakowsky, progetto che non vedrà la luce per la morte improvvisa, nel 1974

Vi è persino l'asteroide 42516 Ojstrach a ricordare il prodigioso violinista ucraino nato nel 1908 a Odessa sul Mar Nero, come segno della notorietà internazionale e delle prodigiose qualità musicali e artistiche. David è ebreo e cresce nella città di origine, in una famiglia, dove il padre, un ufficiale che vende semi di girasole per sbarcare il lunario, è musicista dilettante e la madre una cantante nel coro del teatro d'opera locale. Il bambino viene condotto all'opera quando la madre lavora e assiste così alle prove dell'orchestra rimanendone affascinato. Egli stesso racconta del primo violino - un giocattolo - che riceve a tre anni e mezzo. «Era un giocattolo. E io mi immaginavo di essere un suonatore di strada. Non mi sentivo mai così felice come quando andavo in cortile con il mio violino». Le lezioni vere e proprie hanno inizio quando il bambino ha cinque anni, nonostante il parere contrario del primo flautista dell'Opera di Odessa che aveva sconsigliato la madre: «Non insistete, Isabella Stapanova, il piccolo non ha alcun dono.... e non sarà mai un solista!».
Mai previsione fu meno azzeccata. Con Petr Stoljarskij che rimarrà il suo primo e unico insegnante (ma non solo suo, tra gli altri Stoljarskij formò Nathan Milstein che fu poi amico di Ojstrach) David cresce a, tal punto, da essere pronto al suo primo debutto a sei anni e mezzo, ancor prima di entrare al Conservatorio di Odessa, ingresso che avviene nel 1923, quando il ragazzo è quindicenne. Tre anni dopo, all'esame di diploma esegue la Ciaccona di Bach, la sonata Il trillo del diavolo di Tartini, la Sonata per viola di Rubinstein e il Concerto in re maggiore di Prokof'ev, composizione difficilissima e fresca di stampa, un rischio. Quando Prokof'ev durante la fortunata tournée del 1927 si reca a Odessa per un concerto, nascosto tra il pubblico vi è anche questo giovane diplomato seduto vicino ad altre due giovani leve che lasceranno il segno nella storia della musica: Emil Gilels e Svjatoslav Richter: quest'ultimo ha dodici anni.
Ma è nel 1928, con il suo trasferimento a Mosca, che si aprono le porte a una carriera brillante che non conosce battute d'arresto, se non negli anni tremendi della Seconda Guerra Mondiale, dove va a suonare al fronte per tenere alto il morale delle truppe, in mezzo a privazioni inimmaginabili. Le tappe della vita moscovita sono, segnate dall'incontro, durante il suo primo recital, con la pianista Tamara Rotareva, che sposa nel 1930, dalla quale avrà l'unico figlio - Igor - anche'egli destinato a seguire le orme paterne. Nel 1934 comincia a insegnare presso il Conservatorio della capitale, dove nel 1938 diviene professore ordinario formando una rosa di allievi, di grande talento, basti ricordare Oleg Kagan, Gidon Kremer, Stefan Georghiu, tra gli altri. Sono gli anni bui del terrore staliniano, cui Ojstrach farà cenno molti anni dopo a Galina Vignevskaja, a proposito dell'ospitalità che insieme a Rostropovic i coniugi offrirono a Solzenicyn, quando lo scrittore era divenuto bersaglio della dittatura: «Non farò l'ipocrita: io non l'avrei mai ospitato. A dire il vero, ho paura. Mia moglie ed io siamo sopravvissuti al '37, quando notte dopo notte ogni moscovita si aspettava l'arresto. Nel nostro edificio, solo il nostro appartamento e quello di fronte al nostro sullo stesso piano evitarono gli arresti. Tutti gli altri inquilini furono portati Dio sa dove. Ogni notte aspettavo il peggio e avevo preparato biancheria e un po' di cibo per il momento inevitabile. Non può immaginare che cosa abbiamo passato, attendendo in ascolto dei colpi fatali alla porta o del rumore di un'auto che si avvicinava. Una notte una Marusija (auto nere usate dai servizi segreti per eseguire gli arresti notturni) si fermò di fronte. Per chi era venuta? Per noi o per i nostri, vicini? La porta di sotto sbatté e l'ascensore cominciò a salire. Alla fine si fermò sul nostro pianerottolo. Sentimmo i passi e le forze ci abbandonarono. A quale porta si dirigevano? Passò un'eternità. Poi li sentimmo suonare all'appartamento di fronte al nostro. Da quel momento ho capito che non sono un lottatore...».
A Mosca le frequentazioni di Ojstrach si ampliano fino, a includere i due pilastri della musica sovietica: Sergej Prokof'ev e Dmitrij Sostakovic, con i quali negli anni costruisce non soltanto un proficuo rapporto di collaborazione, ma soprattutto, di amicizia. Entrambi gli dedicheranno alcune composizioni per lo strumento: il primo scrive proprio dietro sollecitazione del violinista e insieme a lui la Seconda Sonata per violino e pianoforte e in seguito una Prima Sonata, sempre per violino e pianoforte e il secondo due concerti per violino e una Sonata. «Per ciò che riguarda la Sonata per flauto - ricorderà Prokof'ev in seguito questa suscitò interesse nei violinisti e non molto tempo fa insieme a David Ojstrach, uno dei nostri violinisti migliori, ne ho realizzato una variante per violino». Ojstrach esegue la Sonata (che nel catalogo del compositore risulta come Seconda) accompagnato dal pianista Lev Oborin il 17 giugno 1944 a Mosca.
Ma è la Prima Sonata, composta nel 1938-1946, che sconvolge del tutto il violinista, il quale in seguito ricorderà: «L'impressione suscitata dalla musica fu enorme: la sensazione di essere di fronte a qualcosa di grandioso e significativo, e davvero, per bellezza e profondità della musica qualcosa che nella letteratura cameristica mondiale per violino non era mai apparso in decenni... Più tardi, mentre studiavamo la Sonata io e il mio partner Lev Oborin, ci recammo spesso da Sergej Prokof'ev per far e tesoro dei suoi consigli eccezionalmente preziosi». L'esecuzione ebbe luogo a Mosca nel 1946. Fu proprio Ojstrach che ne eseguì due movimenti al funerale del compositore - non avendo trovato niente di altrettanto cupo e doloroso - quei movimenti che Prokof'ev aveva definito «vento che soffia su un sepolcro». Sostakovic, invece, non si cimentò nel genere del concerto se non dopo la guerra. E' proprio dietro insistenza del violinista e per l'ammirazione che il compositore provava per Ojstrach (che lo sostenne sempre anche negli anni della censura della Lady Macbeth e del decreto Zdanov che nel 1948 colpì anche Prokof'ev, Mjaskovskij, Kachaturjan) che nacquero il Primo Concerto per violino, eseguito per la prima volta nel 1955 a Leningrado, sotto la bacchetta di Mravisnkij e il Secondo Concerto, che vede la luce nel 1967.
E risaputo che le autorità sovietiche non amavano far uscire dai confini del Paese i propri cervelli migliori e comunque quando essi si trovavano all'estero li sottoponevano a strettissimi controlli. E' solo negli anni '50 che Ojstrach riceve il premesso per effettuare numerose tournée in Europa e in America che lo consacrano come "Re David" del violino. Nell'ultimo periodo della sua carriera si avvicina anche alla direzione d'orchestra, sognando prima o poi di dirigere Pikovaja Dama di Cajkovskij, progetto che non vedrà la luce per la morte improvvisa del musicista.
Si è scritto di tutto su Ojstrach. Sulle sue caratteristiche tecnico-musicali, sui suoi successi, sull'uomo Ojstrach. Ma forse la più bella definizione la si deve al violinista ceco Aleksandr Plocek, il quale ha scritto che «con il violino in mano egli era assolutamente infaticabile, traendo la propria forza dal proprio strumento come Anteo un giorno fece dalla Madre Terra». David Ojstrach muore ad Amsterdam il 24 ottobre 1974 per un attacco di cuore.

Maria Rosaria Boccuni ("ilgiornaledellamusica", Anno XXIV, n.251, settembre 2008)

sabato, luglio 10, 2010

Igor Stravinskij: l'esecuzione

Della musica è importante distinguere due momenti o piuttosto due modi di essere: la musica in potenza e la musica in atto. Scritta sulla carta o ricordata con la memoria, essa preesiste alla sua esecuzione e si differenzia in questo da tutte le arti, e si distingue inoltre, come abbiamo visto, per le modalità che presiedono alla sua percezione. L'entità musicale presenta quindi questa strana singolarità di assumere due aspetti, di esistere, di volta in volta e distintamente, sotto due forme, separate l'una dall'altra dal silenzio del nulla. Questa particolare natura della musica ne determina le modalità di esistenza e le risonanze nell'ordine sociale, presupponendo due tipi di musicisti: il creatore e l'esecutore.
Notiamo, per inciso, che l'arte del teatro, che comprende la composizione di un testo e la sua traduzione verbale e visiva, pone un problema analogo, se non simile; ma è necessaria una distinzione: il teatro si rivolge al nostro intelletto appellandosi nello stesso tempo alla vista e all'udito. Orbene, fra tutti i nostri sensi, la vista è quello più legato all'intelletto, e l'udito è sollecitato nella fattispecie dal linguaggio articolato, veicolo di immagini e di concetti. In tal modo, il lettore di un'opera drammatica può immaginare quella che sarà la rappresentazione più facilmente di quanto il lettore di uno spartito non possa immaginare il risultato di una esecuzione. E questo spiega facilmente come i lettori di spartiti di orchestra siano meno numerosi rispetto ai lettori di libri di musica. D'altronde il linguaggio musicale è strettamente limitato alla sua scrittura. Analogamente l'attore drammatico si trova molto più libero nei confronti del chronos e dell'intonazione che non il cantante, il quale è strettamente condizionato dal "tempo" e dal "melos". Questa dipendenza, che spazientisce molto spesso l'istrionismo di certi solisti, è il nucleo della questione che ora ci proponiamo di trattare; quella dell'esecutore e dell'interprete.
La nozione di interpretazione sottintende i limiti che sono imposti all'esecutore oppure che quest'ultimo impone a se stesso nell'esercizio della propria funzione che consiste nel trasmettere la musica all'uditorio. La nozione di esecuzione implica la stretta realizzazione di una volontà esplicita che si esaurisce in quello che ordina. Il conflitto fra questi due principi, esecuzione e interpretazione, è alla radice di tutti gli errori, di tutti i peccati, di tutti i malintesi che si frappongono fra l'opera e l'uditorio, e che alterano la buona trasmissione del messaggio. Ogni interprete è necessariamente al tempo stesso un esecutore, non è vero il contrario. Procedendo per ordine di successione e non di precedenza, parleremo anzitutto dell'esecutore.
Resta inteso che pongo l'esecutore davanti ad una musica scritta in cui la volontà dell'autore sia esplicita e dipenda da un testo correttamente stabilito. Ma, per quanto una musica sia scritta con scrupolo e sia garantita contro qualsiasi equivoco con l'indicazione dei "tempi", sfumature, legature, accentuazioni, ecc., essa contiene sempre elementi segreti che si rifiutano di essere definiti in quanto la dialettica verbale è impotente a definire interamente la dialettica musicale. Questi elementi dipendono quindi dall'esperienza, dall'intuito, in una parola, dal talento di chi è chiamato a presentare la musica. Cosicché, a differenza dell'artista delle arti figurative, la cui opera compiuta si presenta sempre uguale a se stessa anche agli occhi dei pubblico, il compositore corre una rischiosa avventura ogni qualvolta fa ascoltare la sua musica perché la buona presentazione della sua opera dipende ogni volta da quei fattori imprevedibili, imponderabili, che entrano a far parte della composizione, delle virtù di fedeltà e di simpatia, senza le quali l'opera sarà a volte irriconoscibile, a volte inerte, comunque in ogni caso tradita.
Tra l'esecutore puro e semplice e l'interprete propriamente detto, esiste una differenza di natura che è di ordine etico piuttosto che estetico e che pone un caso di coscienza: in teoria si può pretendere all'esecutore soltanto la traduzione materiale della sua parte che egli garantirà di buon grado oppure controvoglia, mentre si è in diritto di ottenere dall'interprete, oltre alla perfezione di questa traduzione materiale, anche un'amorevole compiacenza, il che non significa collaborazione, sia essa furtiva oppure deliberatamente affermata.
Il peccato contro lo spirito dell'opera inizia sempre con un peccato contro la lettera e conduce a quegli eterni errori che una letteratura della peggior specie e sempre fiorente si ingegna ad autorizzare. Così il crescendo genera sempre, come sappiamo, l'accelerazione del movimento mentre un rallentamento accompagna sempre il diminuendo. Si studiano sfumature superflue, si ricerca con delicatezza il piano, piano, piano pianissimo; ci si gloria di ottenere la perfezione di sfumature inutili, preoccupazione che va generalmente di pari passo con un movimento sbagliato. Questi sono modi di agire cari agli spiriti superficiali, sempre avidi e sempre soddisfatti da un successo immediato, e facile che lusinga la vanità di colui che lo ottiene e corrompe il gusto di coloro che applaudono. Quante fruttuose carriere si sono costruite su tali modi di agire! Quante volte sono stato vittima di queste attenzioni fuori luogo da parte di sottili ragionatori che perdono tempo a sottilizzare su un pianissimo senza nemmeno accorgersi di grossolani errori di esecuzione! Eccezioni, si dirà. I cattivi interpreti non devono farci dimenticare i buoni. Sono d'accordo, tuttavia devo far rilevare che i cattivi sono la maggioranza mentre i virtuosi che servono veramente e lealmente la musica sono molto più rari di quelli che si servono della musica per stabilirsi nella comodità di una carriera. I principi così diffusi che guidano soprattutto l'interpretazione dei maestri romantici fanno di questi musicisti le vittime designate degli attentati di cui parliamo. L'interpretazione delle loro opere è impostata su considerazioni extramusicali tratte dagli amori o dalle disgrazie della vittima. Si fanno commenti gratuiti sul titolo del pezzo; se occorre, gli si impone un titolo, per ragioni di alta fantasia. Penso alla sonata di Beethoven che non è mai stata indicata altrimenti che con il titolo Al chiaro di luna senza che se ne sappia il perché, e al valzer in cui, si vogliono assolutamente raccogliere gli Addii di Federico Chopin.
Evidentemente c'è una ragione per cui i peggiori interpreti affrontano di preferenza i romantici. Gli elementi estrinseci alla musica che vi sono diffusi si prestano facilmente al tradimento, mentre una pagina in cui la musica non pretende di esprimere null'altro che se stessa, resiste meglio alle imprese di deformazione letteraria. Non si vede bene come un pianista potrebbe costruire la sua reputazione prendendo Haydn come cavallo di battaglia. Ecco probabilmente spiegata la ragione per cui questo grande musicista non gode presso i nostri interpreti di una fama pari al suo valore.
Per quanto riguarda l'interpretazione, il secolo scorso ci ha lasciato, nella sua pesante eredità, una specie curiosa e particolare di solisti, senza precedenti nel lontano passato e che chiamiamo direttori d'orchestra. E' stata la musica romantica a gonfiare a dismisura la personalità del kapellmeister, al punto da conferirgli, con il prestigio di cui gode ai giorni nostri sul podium che di per sé lo indica allo sguardo, un potere discrezionale che esercita sulla musica affidata alle sue cure.
Appollaiato sul suo treppiede sibillino egli impone alle composizioni che dirige i suoi movimenti, le sue particolari sfumature e si trova indotto a parlare con una ingenua impudenza delle sue specialità, della "sua" quinta, della "sua" settima, come un cuoco decanta un piatto di sua invenzione. Sentendolo parlare, vien fatto di pensare ai cartelli che raccomandano un locale gastronomico: «Da Tizio», la sua cantina, i suoi piatti speciali. Questo non succedeva nemmeno in epoche che pure conoscevano già, come la nostra, l'arrivismo e la tirannia di virtuosi, strumentisti o "prime donne", ma che non subivano ancora questa concorrenza e questa pletora di direttori d'orchestra che aspirano quasi tutti alla dittatura della musica.
Non crediate che esageri: anni fa mi è stato raccontato un aneddoto che ben illustra l'importanza che il direttore d'orchestra ha finito per assumere nelle preoccupazioni del mondo della musica. Si raccontava un giorno a un tale, che presiedeva ai destini di un'importante agenzia di concerti, il successo ottenuto nella Russia sovietica dalla famosa orchestra senza direttore, Persimfans (primo complesso sinfonico): «Ma non ha senso» dichiarò il tale, «né m'interessa. Quello che mi interessa non è l'orchestra senza direttore ma un direttore senza orchestra ... ».
Chi dice interprete dice traduttore, e non è del tutto assurdo quel celebre detto italiano che, sotto forma di gioco di parole, dice: "traduttore-traditore".
I direttori d'orchestra, i cantanti, i pianisti, tutti i virtuosi dovrebbero sapere o ricordare che la prima condizione che deve assolvere colui che aspira al prestigioso titolo di interprete è di essere prima di tutto un infallibile esecutore. Il segreto della perfezione sta dapprima nella consapevolezza della legge che gli impone l'opera che esegue. Ed eccoci ritornati al grande tema della sottomissione che abbiamo così spesso evocato durante le nostre lezioni: questa sottomissione esige un'agilità che richiede, oltre alla padronanza tecnica, un senso della tradizione e una cultura aristocratica che non sempre può essere completamente raggiunta. Questa sottomissione, e questa cultura che esigiamo dal creatore, è pur giusto e naturale esigerla anche dall'interprete. L'uno e l'altro vi troveranno, d'altronde, la massima libertà e, in ultima analisi, se non in prima istanza, il successo, il vero successo, legittima ricompensa degli interpreti che, nell'espressione della più brillante virtuosità, conservano quella modestia del gesto e quella sobrietà di espressione che è il marchio egli artisti di razza.
Ho già detto che non basta ascoltare la musica, ma che bisogna vederla. Cosa dire allora della pessima educazione di quegli interpreti smorfiosi che si assumono troppo spesso il compito di liberare il messaggio della musica travisandola con le loro moine? Perché, lo ripeto, la musica si vede. Un occhio esperto segue e giudica, qualche volta a sua insaputa, il minimo gesto dell'esecutore. Da questo punto di vista si può concepire l'esecuzione come una creazione di valori nuovi che postulano la soluzione di questioni analoghe a quelle che si pongono nel campo della coreografia; in ambedue i casi si sta attenti alla misura del gesto: il danzatore è un oratore che parla un linguaggio muto, lo strumentista è un oratore che parla un linguaggio inarticolato; all'uno, come all'altro la musica impone un atteggiamento rigoroso, perché la musica non si muove nell'astratto. La sua traduzione plastica esige esattezza e bellezza; gli esibizionisti lo capiscono fin troppo bene.
Una bella presentazione che fa coincidere l'armonia di uno spettacolo con la perfezione dell'esecuzione sonora richiede all'esecutore non soltanto una buona cultura musicale ma una grande familiarità dell'esecutore stesso, sia esso cantante, strumentista o direttore d'orchestra, con lo stile delle opere che gli sono affidate, un gusto molto sicuro dei valori espressivi e dei loro limiti, un senso certo delle cose ovvie; in una parola, una educazione non soltanto dell'orecchio ma dello spirito. Questa educazione non può essere acquisita nelle scuole di musica o nei conservatori che non hanno come scopo quello di insegnare le buone maniere: difficilmente un maestro di violino farà notare ai suoi allievi che mentre si suona è sconveniente tenere le gambe troppo divaricate. E' altrettanto strano che questo tipo di educazione non venga impartito in nessun luogo al mondo. Mentre tutte le attività sono regolate da un codice delle buone maniere e dal saper vivere, gli esecutori, molto spesso, ignorano ancora i precetti elementari della buona creanza per quanto riguarda la musica.
La Passione secondo San Matteo di J.S. Bach è scritta per un complesso di musica da camera. E' risaputo che la sua prima esecuzione, al tempo di Bach, fu fatta da un effettivo di trentaquattro musicisti, solisti e coristi compresi. Ciò nonostante ai giorni nostri non esitiamo a presentare la stessa opera, a dispetto della volontà dell'autore, facendo ricorso a centinaia di esecutori che si avvicinano talvolta al migliaio. Questo disconoscimento degli obblighi dell'interprete, questo orgoglio del numero, questa concupiscenza del multiplo tradiscono una completa mancanza di educazione musicale. L'assurdità di un tale modo di agire è, infatti, palese da ogni punto di vista e prima di tutto da quello acustico, giacché non basta che il suono arrivi all'orecchio del pubblico: bisogna considerare in quale condizione, in quale stato vi arriva. Quando la musica non è stata concepita per una grande massa di esecutori, quando il suo autore non ha voluto produrre effetti dinamici massicci, quando la cornice è sproporzionata alle dimensioni dell'opera, la moltiplicazione degli effettivi può solo produrre effetti disastrosi.
Il suono, come la luce, si percepisce in modo diverso a seconda della distanza che separa il luogo di emissione da quello di ricezione. Una massa di esecutori posta su un palco occupa una superficie tanto più estesa quanto più grande è la massa. Aumentando il numero dei punti di emissione, si aumentano le distanze che separano gli uni dagli altri e dall'uditorio stesso di modo che, più vengono moltiplicati questi punti di emissione, più la ricezione sarà confusa. In ogni caso il raddoppio delle parti appesantisce la musica e costituisce un pericolo che può essere evitato solo procedendo con un tatto infinito. Tali aggiunte richiedono un dosaggio sottile e delicato che presuppone un gusto del più sicuri e una cultura profonda. Spesso si crede di poter accrescere indefinitamente la potenza, moltiplicando i raddoppi, il che è completamente sbagliato: appesantire non significa rinforzare. In una certa misura e fino a un certo punto, il raddoppio può dare l'illusíone della forza, determinando una reazione di ordine psicologico sull'udítorio. La sensazione di shock simula l'effetto di potenza e contribuisce a stabilire un equilibrio relativo fra le masse. Ci sarebbe molto da dire a proposito dell'equilibrio delle forze dell'orchestra moderna che si regge più sulle abitudini del nostro orecchio che non sull'esattezza delle proporzioni. Quello che è sicuro è che oltre un certo grado di estensione, l'impressione di intensità diminuisce invece di crescere e ne risulta soltanto una sensazione smorzata. I musicisti dovrebbero capire, come i tecnici della pubblicità, che nella loro arte avviene come per i cartelloni: non è l'esagerazione del suono a trattenere l'orecchio, come non sono le lettere troppo grandi a trattenere lo sguardo.
Ogni creazione tende a diffondersi. Ad opera compiuta, il creatore prova necessariamente l'impulso di dividere la sua gioia. Naturalmente cerca di comunicare con il suo prossimo che diventa qui il suo ascoltatore; quest'ultimo reagisce e diventa il compagno del gioco istituito dal creatore: questo è tutto. Il fatto che il compagno sia libero di dare o di negare la sua partecipazione al gioco non lo investe, per questo, di una facoltà di giudizio. Questa facoltà di giudizio presuppone un apparato di sanzioni che non può essere a disposizione dell'opinione pubblica: anzi, a mio parere, è illegale che si eriga il pubblico a giuria dandogli il compito di pronunciarsi sul valore di un'opera; è già molto che sia chiamato a decidere del suo destino. La sorte dell'opera dipende probabilmente, in ultima analisi, dal gusto del pubblico, dalle variazioni del suo umore, delle sue abitudini, in una parola dalle sue preferenze, ma non dal suo giudizio come da una sentenza senza appello. Richiamo la vostra attenzione su questo punto tanto importante: da una parte considerate lo sforzo cosciente e la paziente organizzazione che esige la composizione di un'opera d'arte, e dall'altra parte il carattere per lo meno frettoloso del giudizio, necessariamente improvvisato, che segue la sua presentazione. Tra i doveri di colui che compone e i diritti di coloro che lo giudicano, la sproporzione è palese, visto che l'opera presentata al pubblico, qualsiasi ne sia il valore, è sempre frutto di studi, di ragionamenti e di calcoli che sono l'opposto dell'improvvisazione.
Se mi sono dilungato su questo tema è per farví meglio individuare i veri rapporti che intercorrono tra autore e pubblico tramite l'esecutore. In tal modo vi renderete conto della responsabilità morale di quest'ultimo, giacché è solo tramite l'esecutore che l'uditorio è messo in contatto con l'opera musicale. Perché possa rendersi conto di ciò che è e di ciò che vale quest'opera, il pubblico dev'essere assicurato sul valore di colui che la presenta e sulla rispondenza di questa presentazione alla volontà del compositore. Il compito dell'uditorio diventa particolarmente angoscioso quando si tratta di una prima udizione poiché, in tal caso, non si ha nessun punto di riferimento, non si dispone di nessun elemento dì confronto. Pertanto la prima impressione, così importante, il primo contatto dell'opera neonata con il pubblico, dipende totalmente dal valore di una presentazione che sfugge ad ogni controllo. Tale è quindi la nostra situazione di fronte a un'opera inedita, se la qualità degli esecutori che ce la presentano non ci garantisce che l'autore non sarà tradito e che non saremo ingannati.
Da sempre, la formazione di "élite" ha assicurato nei rapporti sociali quella garanzia preliminare che ci permette di dar credito agli sconosciuti che si presentano a noi sotto la copertura di quel perfetto contegno che conferisce l'educazione. In mancanza di un'analoga garanzia, i nostri rapporti con la musica sarebbero sempre deludenti. Si capirà, in queste condizioni, perché abbiamo tanto insistito sull'importanza dell'educazione in materia musicale.
Abbiamo detto prima che l'uditorio è chiamato a diventare, in qualche modo, il complice del compositore: ciò presuppone che la sua istruzione e la sua educazione musicale siano abbastanza sviluppate perché possa non soltanto cogliere i lineamenti dell'opera nella loro successione, ma anche partecipare in qualche modo alle peripezie del suo svolgimento. In realtà questa partecipazione attiva è incontestabilmente rara, come è raro il creatore rispetto alla moltitudine. Questa partecipazione eccezionale dà al complice un godimento così vivo da unirlo fino ad un certo punto allo spirito che ha concepito e realizzato l'opera che sta ascoltando, dandogli l'illusione di identificarsi col creatore. Tale è il senso del famoso adagio di Raffaello: "capire è uguagliare". Ma questa è, l'eccezione: la maggior parte, degli ascoltatori, per quanto la si supponga attenta al processo musicale, ne gode solo in modo passivo.
Purtroppo esiste un altro modo di porsi di fronte alla musica oltre a quello dell'uditorio che si accorda, si fonde col gioco musicale e lo accompagna, e a quello che si sforza docilmente di seguirlo: ci riferiamo all'indifferenza e all'apatia. E' il mondo degli snob, dei falsi intenditori che vedono soltanto in un concerto o in una rappresentazione l'occasione di applaudire un grande direttore d'orchestra o una cantante rinomata. Basta guardare per un istante quelle «facce grigie di noia» secondo l'espressione di Claude Debussy, per misurare la capacità della musica di istupidire quei poverettí che l'ascoltano senza sentirla. Quelli fra voi che mi hanno fatto l'onore di leggere Cronache della mia vita si ricorderanno, forse, quanto mi soffermi sulla musica meccanica. La propagazione della musica con tutti i mezzi è di per sé cosa eccellente, ma a diffonderla senza precauzioni, proponendola sconsideratamente al grande pubblico che non è preparato a sentirla, si espone questo stesso pubblico alla più temibile saturazione.
E' passato il tempo in cui J.S. Bach faceva allegramente, a piedi, un lungo viaggio per andare ad ascoltare Buxtehude. Oggi, la radio porta la musica a domicilio ad ogni ora del giorno e della notte, esonerando l'uditorio da qualsiasi sforzo che non sia quello di girare un bottone. Ora, il senso musicale non può essere acquisito né sviluppato senza esercizio. Nella musica come in tutte le cose l'inattività porta poco a poco all'anchilosi, all'atrofia delle facoltà. Così ascoltata, la musica diventa una specie di stupefacente che, lungi dallo stimolare lo spirito, lo paralizza e l'abbruttisce, di modo che la stessa iniziativa che tende a far amare la musica diffondendola sempre più, ottiene spesso soltanto il risultato di far perdere l'appetito a coloro di cui voleva risvegliare l'interesse e sviluppare il gusto.

Igor Stravinskij (da "Poetica della musica", Edizioni Studio Tesi, 1995)

sabato, luglio 03, 2010

Quartetto Italiano: un esordio folgorante

"Ci siamo incontrati a Siena, abbiamo suonato insieme e il Quartetto Italiano è venuto fuori da lì, come cosa naturale, come si nasce, si cammina".

Con queste semplici parole, affidate a un'intervista ad Amadeus di molti anni fa, Elisa Pegreffi ha ricordato la nascita dell'unica formazione da camera italiana - a parte forse il Trio di Trieste - ad avere raggiunto un prestigio internazionale mai scalfito dal tempo.
Nel corso dei trentacinque anni di attività il Quartetto Italiano ha tenuto oltre 3.000 concerti in tutto il mondo, con una media di ottantacinque serate l'anno e una stabilità d'organico seconda solo a quella dell'Amadeus Quartet: dal 1945 al 1980, infatti, la formazione non ha mai subito mutamenti, se escludiamo la presenza di Lionello Forzanti nei due anni iniziali e di Dino Asciolla negli ultimi due, entrambi alla viola. Un'altra caratteristica di non poco conto riguarda gli strumenti impiegati, tutti con corde di metallo e nessuno proveniente da liuterie famose, come Stradivari, Amati, Guarneri del Gesù: Borciani aveva un Vuillaume del secondo Ottocento, la Pegreffi un De Comble di metà Settecento, Farulli e Rossi una viola e un violoncello italiani del Novecento, rispettivamente uno Sderci e un Capicchioni. L'eccezione è avvenuta solo quando, nel corso di una tournée negli Stati Uniti, il Vuillaume di Borciani si è improvvisamente "ammalato" ed è stato giocoforza sostituirlo; ma, rientrato in Italia dopo adeguate "cure", è ritornato ben presto tra le mani del primo violino.
Il repertorio del Quartetto ha percorso la direttrice Haydn-Brahms lungo la quale si è disposta la tradizione classico-romantica, sia pure con una presenza Haydniana limitata - si fa per dire - a una decina di lavori e aggirando Mendelssohn. Oltre i due punti estremi non sono mancate incursioni da una parte nel periodo barocco e preclassico - Boccherini, Cambini, Corelli, Tartini ecc. - e dall'altra nella grande letteratura del XX secolo di Debussy, Ravel, Stravinskij, Webern, ai quali sono da aggiungere appena due Bartók (nn. 1 e 6), solo pagine isolate di Schönberg (op. 10), Prokof'ev (op. 92), Sostakovic (op. 108) e poco altro. Da segnalare la presenza di contemporanei italiani come Bucchi, Bussotti e Ghedini con lavori espressamente dedicati al Quartetto. Quanto alla cronologia delle scelte, nella sua preziosa storia del Quartetto Italiano Guido Alberto Borciani fa giustamente notare come alcune potrebbero stupire perché «adatte a esecutori che hanno già raggiunto la piena maturità, quali il K. 465 di Mozart e soprattutto l'op. 130 di Beethoven, opere affrontate prestissimo [rispettivamente nel 1946 e nel 1947] se non si pensasse che alle esigenze normali di programmazione si è aggiunta in tali casi una precisa coscienza dei propri mezzi, magari condita da un pizzico di giovanile baldanza». Ma nello stesso tempo, osserva ancora l'autore, «l'Op. 59 n. 2 di Beethoven viene affrontata [ ... ] solo dopo che la serie degli ultimi Quartetti è stata superata [nel 1972]». Il motivo, come ha rivelato la stessa Pegreffi, è da cercarsi nella «soggezione che sempre ci ha fatto specialmente quell'indecifrabile primo tempo, ricco di tanti interrogativi». Soggezione che in verità il Quartetto Italiano ha provato nei confronti di tutto Beethoven, come un giorno ha ammesso lo stesso Paolo Borciani: «c'è voluta una vita per presentare degnamente le opere di Beethoven» (in G.A. Borciani, Il Quartetto italiano, una vita in musica, p. 55, Aliberti Editore, Reggio Emilia 2002).
L'attività concertistica della formazione italiana è proceduta, di pari passi con quella discografica, ma non tutti i titoli della prima sono stati riversati nella seconda. In compenso, alcuni sono stati incisi più volte - del Quartetto di Debussy e delle opere D. 703 e 804 di Schubert esistono tre versioni ciascuno - e ben sei integrali sono state eseguite e sono passate dalla sala da concerto allo studio di registrazione: Mozart, Beethoven, Schumann, Brahms, Stravinskij e Webern. Schubert costituisce un caso a parte, perché a fronte dell'esecuzione in concerto di tutti i quindici Quartetti, quelli incisi risultano essere purtroppo solo sette; e uno di questi, il D. 810 «Der Tod und das Mädchen», nell'esecuzione del nostro Quartetto avrebbe dovuto essere la colonna sonora del film Il nipote di Beethoven che Luchino Visconti ha pensato di ricavare dal libro omonimo di Luigi Magnani. Ma il progetto è rimasto tale.
La naturalezza alla quale ha fatto riferimento la Pegreffi in apertura per la nascita del Quartetto Italiano si trasferisce nella qualità altissima già delle sue prime esibizioni, dalle quali si leva un'eccellenza che, ascoltando le registrazioni inedite del 1946-1952, appare sgorgare con facilità, laddove è invece frutto di una ricerca quasi maniacale del "giusto" suono condotta attraverso uno studio meticoloso della partitura non di rado segnato da momenti di aspro confronto tra i quattro artisti, sui quali però alla fine l'amore e il rispetto per la Musica hanno finito sempre per prevalere. Scorrendo i titoli di questo cofanetto emerge anche come il Quartetto sin dall'inizio abbia trovato la "sua" strada, perché a fianco di presenze destinate a restare eccezioni - Vinci, Boccherini, Verdi, Tartini - ci sono molte di quelle sulle quali costruirà la propria fama. A cominciare da Debussy, perché è attorno all'op. 10 che tre dei suoi componenti si sono ritrovati per la prima volta in occasione dell'annuale saggio di musica da camera dell'Accademia Musicale Chigiana di Siena, previsto per il 7 settembre 1942 e con un programma misto al centro del quale veniva inserita l'esibizione di Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi violini, Lionello Forzanti viola e Franco Rossi violoncello. Quando all'inizio del 1947 Piero Farulli sostituirà Forzanti, il Quartetto Italiano avrà trovato l'assetto definitivo.
«Frequentavamo tutti, sempre, la classe di [Arturo] Bonucci, che faceva anche musica da camera. E lì nel 1942 Bonucci decise di portare al saggio il Quartetto di Debussy. Aveva scelto come secondo violino un'altra ragazza e c'erano Paolo, Forzanti e Rossi. Ma c'è un destino. Da poco avevano cominciato a provare quando, in una delle sale di Palazzo Chigi, incontro Bonucci: Ciao Pegreffina, ti devo chiedere una cosa. Tu lo faresti il secondo violino nel Quartetto di Debussy?. «Altroché!' Ma il secondo violino...». «Certo!». Eravamo alla casa dello studente, si studiava di sera». Nel rievocare come siano andate le cose in quell'estate del 1942, la Pegreffi aggiungerà una circostanza che sin dall'esordio avrebbe colpito tutti e contribuito non poco a fare dell'ensemble una leggenda: «Ricordo che provavamo prima di entrare e lo sapevamo a memoria. Non so chi di noi abbia detto: "Potremmo fare a memoria". Al momento no, perché non l'avevamo mai provato. Ma da lì verrà [prima ancora dell'esordio ufficiale] il suonare a memoria del Quartetto Italiano», prassi esecutiva che ancora oggi pochi ensemble rischiano e sino ad allora praticata solo dal Quartetto Kolisch, ritiratosi però nel 1939. «Non per presunzione», chiarirà Rossi, «ma senza l'obbligo di girare le pagine ci sentivamo più liberi, comunicavamo meglio tra di noi». Il Quartetto Italiano sarà però il primo ad avere una donna a uno dei quattro leggii. Per vederne un'altra bisognerà aspettare il 1969, con il Quartetto di Tokio.
Il saggio del 1942 ha il merito di rafforzare nei quattro l'idea di "fare quartetto", come più volte si erano detti dopo essersi conosciuti nelle aule della Chigiana o quando si incontravano a qualche concorso; Borciani (Reggio Emilia, 1922), la Pegreffi (Genova, 1922) e Rossi (Venezia, 1921), per esempio, nel 1940 avevano partecipato insieme al Concorso Nazionale di La Spezia dove erano arrivati, rispettivamente, primo e seconda nella classe di violino e primo in quella di violoncello. Inoltre, lei aveva anche un'esperienza solistica, perché dopo la vittoria nel 1939 a Trieste dei Littoriali della cultura e dell'arte in rappresentanza del GUF di Genova, aveva suonato il Concerto di Brahms a Roma sotto la bacchetta di un venticinquenne violista: Carlo Maria Giulini. Ad assistere al concerto, seduto in prima fila, c'era Benito Mussolini, del quale, lei confesserà in un'intervista video, «non mi importava niente, m'importava invece di suonare dinanzi al mio Maestro». Il programma del saggio della Chigiana al centro del quale spicca il Quartetto di Debussy è molto composito: Pupazzetti per pianoforte a 4 mani di Casella, Scherzo in si minore di Chopin, musica vocale da camera, un tempo della Sonata per violino e pianoforte di Pizzetti e un tempo del Concerto in re maggiore di Paganini con il pianoforte al posto dell'orchestra.
Ma gli eventi bellici precipitano: a El Alamein e Stalingrado si stanno combattendo due tra le più sanguinose battaglie del conflitto mondiale e in Italia la vita quotidiana è sempre più dura, perché da marzo il razionamento alimentare ha subito una stretta, fissando a 800 grammi al mese la quantità di carne disponibile a testa e a 150 al giorno quella del pane. Così, il progetto di "fare quartetto" naufraga, tanto più che Farulli (Firenze, 1920), al quale si era pensato in un primo tempo per la parte della viola e anche lui chigiano, dopo essere partito per la Sicilia è bloccato a Bari dove è arrivato con la viola a tracolla e ha trovato lavoro in un'orchestra. La sua sostituzione nel saggio con la "magnifica viola" di Forzanti (Venezia, 1913) non è però un ripiego, come dimostra l'esito artistico dell'esibizione alla quale, come sempre, ha assistito entusiasta anche il Conte Ghigi. Ma non c'era stato nemmeno il tempo di festeggiare ed ecco che i quattro si sono dispersi: la Pegreffi si è rifugiata a Novellara, nella bassa reggiana, Rossi e Forzanti sono a Venezia dove sono entrati nell'Orchestra della Fenice, Borciani è militare prima a Verona poi a Pescara, da dove dopo l'8 settembre del 1943 riesce a tornare a Reggio. Qui si nasconde in casa e riprende a studiare i Quartetti di Mozart e Beethoven con il padre come secondo violino e il fratello Guido Alberto al pianoforte per le parti della viola e del violoncello. «Finché a un certo
punto
- racconterà quest'ultimo - decidiamo di entrare nella Resistenza e un giorno una ragazza-staffetta dopo un lungo giro ci porta a Quara, sugli Appenini del reggiano, dove sono di stanza la brigata cristiana Santa Barbara e Giuseppe Dossetti, che lo prende in simpatia: prima lo fa entrare nella commissione giustizia, quindi lo nomina segretario provinciale del CLN. A liberazione avvenuta Dossetti pensa a lui addirittura come questore di Reggio, ma Paolo non ha mai abbandonato l'idea del Quartetto e appena può si mette alla ricerca degli altri. A cominciare dalla Pegreffl che è in campagna a pochi chilometri di distanza; poi mi manda a Venezia per recuperare Rossi e Forzanti, che non cipensano un attimo e vengono con me a Reggio, dove li aspettano gli altri due lasciandosi alle spalle un presente sicuro per un futuro pieno di incognite».
In casa Borciani i quattro passano giornate intere a studiare, dalle nove alle tredici e dalle quindici sino a sera; è uno studio meticoloso, severo, contrassegnato non di rado da liti anche feroci sull'esecuzione di una frase, uno staccato, un crescendo. Ma poi tutto si ricompone nel nome della musica. Per portare a casa un po' di soldi formano un'orchestra di una trentina di musicisti con i quali su camion militari scoperti "battono" tutta la provincia: Guastalla, Gualtieri, Castelnuovo Sotto, Castelnuovo Monte. La presenza di un paio di cantanti consente di allestire programmi molto vari, come questo: nella prima parte, ouverture delle Nozze di Figaro e de L'Italiana in Algeri, arie da Cavalleria rusticana e da L'amico Fritz, Mattinata di Leoncavallo; nella seconda pagine orchestrali di Catalani, Schubert, Verdi, arie di Arditi e Donizetti, un duetto da Bohème e in chiusura Il bel Danubio blu di Strauss, spesso riproposto come bis.
Intanto anche nella vicina Carpi, come in tutto il Paese, c'è una voglia irresistibile di riprendersi in mano la propria vita; e così, mentre l'amministrazione comunale riapre già a giugno il Teatro cittadino (con Il barbiere di Siviglia), contemporaneamente un gruppo di appassionati di musica da camera fonda la Società degli Amici della Musica. Per il concerto inaugurale una socia, pianista, si ricorda di avere sentito un paio di anni prima a Siena quattro giovani musicisti che l'avevano colpita e riesce a contattarli; nel frattempo, questi si sono dati il nome di Nuovo Quartetto Italiano, per distinguersi dal Quartetto Italiano di Remy Principe ancora attivo, denominazione che loro acquisiranno qualche anno dopo. il concerto, fissato per il 12 novembre 1945 nel Castello comunale di Carpi, segna il debutto ufficiale della formazione con questo programma: Sarabanda, Giga e Badinerie di Casella, Quartetto di Debussy, Concertino di Stravinskij (pagine queste ultime sconosciute in Italia), Quartetto op. 59 n. 1 di Beethoven. Come bis una Gavotta di Leonardo Vinci. La critica è unanime nel parlare di «perfetta fusione e impeccabile maestria», due rilievi che d'ora in poi, sia pure con parole diverse, contrassegneranno tutta la straordinaria avventura artistica del Quartetto in un terreno dominato sino ad allora da formazioni straniere Rosé, Capet, Léner, Budapest, Busch - a parte forse il Quartetto Fiorentino, attivo per altro nel lontano secondo Ottocento e per di più guidato da un primo violino tedesco (Jean Becker). La sera dopo Carpi, il programma è ripetuto con lo stesso successo nella Sala della Società del Casino di Reggio Emilia, dove un Romolo Valli alle prime armi ne sta guidando la rinascita culturale con la proiezione di film di particolare pregio come Lampi sul Messico di Sergej Eisenstein, sulla scia di quanto stanno facendo a Parma Cesare Zavattini e Attilio Bertolucci; nello stesso tempo legge in pubblico testi teatrali, a cominciare dalla Piccola città di Torton Wilder.
I quattro si sentono ormai pronti per il debutto in una grande città e così una notte di dicembre del '45 salgono su un vagone postale diretti a Milano, dove arrivano la mattina presto del giorno dopo e sono ricevuti da Ada Finzi, da loro contattata telefonicamente e destinata a diventare la più importante agente italiana. L'audizione presso la Camerata Musicale ha un esito positivo e il pomeriggio del 13 dicembre il Nuovo Quartetto Italiano si esibisce per la prima volta lontano da casa, in una freddissima sala del Castello Sforzesco, sul quale i segni della guerra sono evidenti, anche se non così devastanti come quelli lasciati sulla Scala, centrata in pieno da una bomba nella notte tra il 15 e il 16 agosto dei 1943. Quello stesso giorno di dicembre, alle 20,30, s'inaugura la stagione scaligera 1945-1946 per l'ultima volta ospitata al Teatro Lirico (il teatro del Piermarini riaprirà ufficialmente l'11 maggio dell'anno successivo con un memorabile concerto diretto da Toscanini, per l'occasione rientrato dagli U.S.A.); l'opera prescelta è Francesca da Rimini diretta da Antonio Guarnieri. Ma l'evento non impedisce a Franco Abbiati di tessere gli elogi del Nuovo Quartetto sull'unico foglio del Corriere d'Informazione - il Corriere della Sera era stato chiuso per epurazione - scrivendo di «tecnica pulitissima, intonazione sicura, ottimo grado di fusione [ ... ] al servizio di un nobile temperamento». L'esito artistico è tale che la sera successiva il concerto è ripetuto in una casa privata milanese alla presenza di ospiti illustri quali Massimo Bontempelli, Riccardo Bacchelli, Arthur Honegger; e c'è anche Giulio Confalonieri, presente anche al concerto al Castello, che il 1° 'gennaio 1946 su Oggi firma un lungo e poetico articolo nel quale profetizza ai «quattro ragazzi una giusta gloria».
Alla consacrazione locale segue quella nazionale con la vittoria al II concorso dell'Accademia di S. Cecilia, bandito in pieno referendum istituzionale Monarchia-Repubblica; a sancirla è una giuria formata, tra gli altri, da Franco Ferrara, Goffredo Petrassi e Alfredo Casella. E' questo il primo degli unici due concorsi ai quali il Nuovo Quartetto parteciperà; l'altro, pochi mesi dopo, è a Ginevra, dove nel 1939 aveva trionfato il diciannovenne Arturo Benedetti Míchelangeli. Sino all'ultimo è un testa a testa con gli ungheresi del Quartetto Végh, ma la notte precedente la finale Forzanti sta male e la formazione italiana è costretta al ritiro. Tuttavia, quell'anno riserva grandi soddisfazioni: le prime scritture all'estero (Svizzera) in aggiunta a quelle italiane sempre più numerose e l'esordio in campo discografico con la Durium-Telefunken in formato 78 giri, con l'unica registrazione di Forzanti come viola (Debussy e Vinci). Poco dopo, infatti, questi lascia il Quartetto per tentare la carriera di Direttore d'orchestra in Argentina; subito contattato a Firenze, dove suona nell'Orchestra del Teatro Comunale, Farulli ne prende il posto, dietro un leggio al quale solo le circostanze belliche avevano impedito di sedersi sin dai tempi di Siena.
Per due mesi Farulli è sottoposto a un durissimo training da parte degli altri tre, che danno il via libera all'esordio della nuova, e definitiva, formazione solo l'8 febbraio 1947, a Mantova, con un programma per l'occasione "alleggerito": l'op. 59 n. 3 di Beethoven, l'op. 64 n. 6 di Haydn e l'Oraciòn del Torero di Turina.
L'"addestramento" comprende naturalmente anche la memorizzazione, resa più ardua dal costante ampliamento del repertorio, nel quale entrano, fra gli altri, Schumann (op. 41 n. 1) e Mozart (K. 465) ecc.. A proposito di quest'ultimo, dirà un giorno Borciani: «Per eseguire bene Beethoven, Schubert, Brahms, bisogna essere musicisti sensibili, intelligenti, colti. Per eseguire Mozart bisogna essere soprattutto musicisti». Ma ci vuole anche la «giovanile baldanza» - e l'incoscienza - di cui parla Guido Alberto Borciani per affrontare così presto partiture come l'op. 130 di Beethoven, eseguita per la prima volta nel 1947 nientemeno che nella mitica Mozart Saal della Wiener Konzerthaus-Gesellchaft, o il Quintetto K. 581 di Mozart presentato poco dopo con il clarinettista De Bavier alle Engadiner Konzertwochen in una delle rare escursioni del complesso fuori dal repertorio quartettistico.
Il biennio 1946-1947 occupa dunque un posto importante, forse decisivo, nella storia del Nuovo Quartetto, chiamato con crescente frequenza a esibirsi sia in Italia che - soprattutto - all'estero: 58 concerti nel 1947, 63 nel 1948, 105 nel 1949, uno standard quest'ultimo destinato a restare di fatto uguale almeno per un paio di decenni prima che la stanchezza, fisica e mentale cominci ad affiorare. Ma tanto impegno non impedisce esperienze particolari, come la partecipazione nel 1947 al Festival di Musica Contemporanea di Venezia con un programma tutto novecentesco (Bloch, Malipiero, Milhaud, Villa Lobos) o l'anno dopo un recital mozartiano di Borciani con Clara Haskil ad Aix-En-Provence. Ma di tutte le esperienze a latere quella destinata a conferire al Nuovo Quartetto una definitiva e indimenticabile definizione interpretatíva avviene nell'agosto del 1951 con l'incontro a Salisburgo con Wilhelm Furtwängler impegnato a dirigere Otello e desideroso di sentire questi quattro giovani italiani dei quali si dice un gran bene nel Quartetto dello stesso Verdi; al termine del concerto li invita nel suo albergo per trascorrere una serata musicale nel corso della quale esegue insieme a loro, e per due volte, il Quintetto di Brahms tenendo per sé la parte del pianoforte. Nel contempo, spalanca dinanzi agli occhi del Nuovo Quartetto un altro mondo musicale ed esecutivo, lontano da quello nel quale era vissuto sino ad allora, che si reggeva sulla regola toscaniniana della scansione precisa del tempo. Il direttore tedesco ha un altro credo, che loro da quel momento faranno proprio e riassumibile nell'espressione "libertà nella battuta": in questo modo, dirà Borcíani, il ritmo è «sempre scandito con i battiti del cuore di un cuore sano, e non col metronomo» (in G. A. Borciani, op. cit., p. 27).
Nel 1977 la NASA lancerà oltre il sistema solare la navicella Voyager con a bordo un Golden Record sul quale saranno incise una ventina di musiche provenienti da tutto il mondo: così, se tra 40.000 anni ci sarà un impatto con una stella abitata da un'altra civiltà quei brani saranno testimonianze sonore dell'ingegno dell'Uomo. Tra di essi c'è la Cavatina dell'op. 130 di Beethoven nell'esecuzione del Quartetto Italiano.

di Ettore Napoli