Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 17, 2023

Trascrizioni (Sono le trascrizioni un'offesa all'arte?)


Le trascrizioni che furono elaborate da 
Bach raggiunsero un numero così alto da potersi considerare come una sua abituale attività. Anche se una composizione era destinata a cambiare aspetto e colore nella scelta dello strumento per cui era stata trascritta, il lavoro rimaneva sempre ad un livello alto trasformandosi in una nuova creazione.
Tanto per citare alcuni esempi: la Fuga della Suite in si minore, creata prima per violino senza accompagnamento, fu dopo trascritta per organo. L'enorme differenza fra le due versioni - sia di qualità che di sonorità - fa pensare che in una trascrizione si potrebbe effettuare un'espressione completamente diversa, espressione che cambia, come detto sopra, a seconda dello strumento scelto. Sarebbe come sentire un episodio orchestrale prima affidato delicatamente solo ai legni e poi sentirlo più tardi brillantemente con le risorse dell'intera orchestra. Preferite uno o l'altro sarebbe dare poca importanza a quello che ogni musica richiede e cioè contrasto e sonorità.
Bach concepì ancora un'altra versione di quella Fuga e cambiando la tonalità da si minore a mi minore, la trascrisse per liuto. Quando Segovia la suonò in concerto con la chitarra (il cui suono rassomiglia in qualche modo a quello del liuto) trovò divertente leggere nella recensione di stampa piuttosto sarcastica del giorno seguente che se il pezzo aveva proprio bisogno di una trascrizione, perché poi cambiare la tonalità? (Evidentemente il critico aveva un orecchio assoluto ed attribuì la trascrizione all'esecutore). Segovia trovò anche divertente rispondere che era rimasto fedele a Bach quanto alla Fuga suonandola esattamente come era stata scritta! Questa seconda trascrizione è un'altra rivelazione nel mistero del suono e ci troviamo ora dinanzi ad una nuova, singolare personalità sonora. Non sarebbe assurdo anche il solo accennare ad un paragone? Tutto è scolpito dalla stessa mano, però con nuove linee.
E' ben conosciuto il fatto che le trascrizioni non sono accettate nei concorsi importanti di musica per due pianoforti. I Concerti di Bach scritti per due clavicembali (incluso quello spesso eseguito in do minore) non sono naturalmente soggetti ad alcuna restrizione. Eppure, il Concerto in do minore non è che una trascrizione dello stesso, scritto prima per violino ed oboe, raramente eseguito. Bisogna anche aggiungere che eseguire al pianoforte musica scritta per clavicembalo è, in certo senso, un'altra trascrizione. La musicalità del timbro pianistico, il maggior vantaggio di poter ritenere il suono più a lungo dopo la sua produzione, l'uso dei pedali e la maggiore possibilità coloristica, assumono nell'insieme un aspetto diverso. Il solo vantaggio che il clavicembalo possa avere sul pianoforte è nell'uso dei "couplers", ma si potrebbe ciò considerare un gran vantaggio sulle grandi risorse del pianoforte? Considerando che certa musica clavicembalistica guadagna in espressione se eseguita al pianoforte (sebbene questa teoria potrebbe non essere condivisa da tutti) il Concerto in do minore sopraccennato rappresenta, secondo la nostra opinione, una doppia trascrizione dalla sua prima creazione. E' pure importante far conoscere che il Concerto per due violini in re minore fu anche trascritto per due clavicembali in do minore. Questo ultimo, credo non venga mai eseguito, mentre l'altro, molto più espressivo, e eseguito frequentemente.
Bach attinse molta ispirazione dalla musica di Vivaldi ed allo scopo di ben conoscere e studiare lo stile di quest'ultimo ne trascrisse per organo ed anche per clavicembalo un gran numero dei Concerti Grossi per orchestra d'archi con uno o più violini obbligati. Il fervore che Bach sentiva per questo genere di trascrizione culminò nell'adattare per quattro clavicembali il Concerto scritto da Vivaldi per quattro violini, cambiando la tonalità da si minore a la minore, esigenza dovuta dalla limitata estensione della tastiera. Sarà stato certo un'interessante esperienza per il pubblico sentire in uno dei concerti estivi di Capodimonte, prima l'originale per quattro violini e poi l'adattamento per quattro clavicembali suonato allora su quattro pianoforti. Naturalmente, come in tutti gli altri Concerti, l'orchestra d'archi serviva di sfondo.
La testimonianza dei fatti, qui sopraccennati, denota che una trascrizione può considerarsi un lavoro d'arte quando viene fatta da mano maestra. In tal caso dovrebbe essere rispettata ed accettata in qualunque programma di concorso e in nessun caso dovrebbe essere considerata un'offesa all'arte anche nei programmi eseguiti in Olanda dove la parola trascrizione è quasi sinonimo di delitto!
Brahms era pure incline, se anche in modo più ristretto, a trascrivere una sua composizione per un mezzo diverso. Il famoso Quintetto per pianoforte ed archi nacque in origine come Quintetto per soli archi (mai pubblicato). In seguito fu trasformato in una Sonata per due pianoforti (che è pubblicata e che si nota non poche volte in programmi di musica per due pianoforti). Finalmente fu riaggiustata nella forma che divenne più conosciuta ed eseguita dalle altre, e cioè il Quintetto per pianoforte ed archi in fa minore.
Anche le variazioni di Brahms su un tema di Haydn hanno avuto per scopo due versioni, una per due pianoforti a quattro mani e l'altra per orchestra, ambedue eseguite spesso da prominenti pianisti specializzati in musica per due pianoforti e da prominenti direttori d'orchestra. Brahms ebbe mai in mente che la versione per due pianoforti potesse far sentir la mancanza dell'orchestra. Il pianoforte possiede un'individualità tutta propria, coloristica ed altamente musicale e completa, ciò che dovrebbe senz'altro soddisfare l'orecchio. Come per le trascrizioni di Bach, è necessario adattarsi al nuovo mezzo di sonorità, eppure si legge a volte che qualche critico nel sentire questo lavoro su due pianoforti deplorò la mancanza dell'oboe in qualche variazione o del corno in un'altra!
Compositori come Saint-Saëns e Castelnuovo Tedesco per nominarne solo due, ci hanno lasciato delle importanti trascrizioni dei loro lavori, sia dall'orchestra a due pianoforti che da uno a due pianoforti e non bisogna dimenticare Busoni che ci ha lasciato grandiose trascrizioni pianistiche di musiche di Bach e Mozart come pure una brillante trascrizione per pianoforte ed orchestra della Rapsodia Spagnola di Liszt. Liszt ci ha infine lasciato gran numero di ogni sorta di trascrizioni e sebbene talune abbiano di mira uno scopo virtuosistico (come dal repertorio operistico) altre conservano la linea puramente musicale ed espressiva delle trascrizioni originali, tanto da farci ritenere che i compositori stessi non avrebbero potuto superarle.
Lavori per organo trascritti per pianoforte
In linea generale, gli organisti non accettano l'idea che la qualità percussiva del pianoforte possa prendere il posto della qualità sonora dell'organo.
Se Bach non esitava (anzi ne era appassionato) di trascrivere per diversi strumenti alcuni dei suoi lavori, come anche alcuni di Vivaldi, trasportandoci in un nuovo mondo di sonorità, perché mai debba un ascoltatore, incline ad ammirare il suono dell'organo, opporsi a sentire un lavoro per organo col suono del pianoforte se la registrazione sonora organistica è musicalmente adeguata nella trascrizione?
A questo punto bisogna far notare che una trascrizione per due pianoforti a quattro mani tratta dall'organo, offre delle maggiori possibilità organistiche dal punto di vista della registrazione di quelle che possa offrire un pianoforte che possa disporre di sole due mani. Ciò che l'organista trova da obiettare è il fatto che il pianoforte non possiede la virtù della completa durata del suono fra una nota e l'altra che l'organo possiede, né il timbro dei diversi strumenti o la grandiosità dell'organo a pieno registro.
Questo è vero, ma d'altro canto vi sono dei vantaggi nell'uso di due pianoforti che mancano nell'organo: 1) la gradazione del suono in una linea melodica che è così importante per la sua espressività; 2) il contrasto dinamico fra diverse parti anche quando si dispone, nell'organo, di diversi manuali ed anche quando si tiene conto della maestria dell'esecutore nell'uso della registrazione. Questo contrasto manca nell'organo se si consideri che un tema non può risaltare con la sua dovuta chiarezza ed eloquenza quando è accompagnato da contrappunto, armonia o da qualche figurazione meno importante, incapaci di una ridotta sonorità.
Una trascrizione per due pianoforti (o dovremmo forse chiamarla adattamento?) può essere fatta bene o male. Se realizzando la registrazione organistica con logica e buon gusto, usufruendo bene delle quattro mani ed applicando tutte le risorse coloristiche del pianoforte, si potrebbe asserire che una composizione per organo bene eseguita su due pianoforti dovrebbe risultare musicalmente espressiva ed impressionante.
Ed ora un breve ma utile ammonimento al gentile ascoltatore: non aspettarsi né pretendere dal pianoforte quello che non possiede, cioè un diverso timbro, ma godere invece pienamente le particolari qualità sonore che questo magnifico strumento può rendere. Se Bach non fu avverso ai nuovi effetti che invariabilmente risultavano dal trascrivere un pezzo da uno strumento all'altro perché li considerava come nuove creazioni sonore, tanto più l'ascoltatore dovrebbe schiudere la sua mente e la sua immaginazione ad un concetto di musicalità più largo e profondo e ad un più esperto apprezzamento.
Ed ora per finire e rispondere alla domanda posta nel sottotitolo di questo scritto: «sono le trascrizioni un'offesa all'arte?›› Si, diciamo. Sono un'offesa all'arte se risultano mal fatte e nel qual caso non sarebbero meritevoli di una qualsiasi esecuzione, ma costituirebbero invece una rivelazione artistica e sarebbero degne di venir eseguite ovunque se fatte da mano maestra.
Silvio Scionti
("Rassegna Musicale Curci", anno XIX n. 2 giugno 1965)

venerdì, giugno 02, 2023

Armando Gentilucci: Realtà e sperimentalismo

Dire che la musica del nostro tempo è 
ricca di fermenti, varia e contraddittoria nei suoi aspetti è fin troppo facile: molte e tormentate esperienze, infatti, si sono succedute, accavallate addirittura a ritmo convulso, bruciando in un breve volgere di anni, o decenni che siano, canoni tecnici ed estetici che duravano da secoli e per sino «manifesti» di abbastanza recente formulazione (vedi quello neoclassico). Ora nessuno vorrà negare che molte innovazioni formali siano autentiche, in quanto rispondenti alle esigenze di contenuti nuovi che chiedono in maniera perentoria di essere compresi ed elaborati artisticamente. Ciò nonostante lo sperimentalismo venuto di moda in questi ultimi anni, che pure è segno di fervore e curiosità intellettuale (se non proprio sempre di validità), provoca anche in menti aperte alle cose nuove, un certo stato di disagio, in quanto non è difficile accorgersi che esso contiene in sé un pericolo, appunto già da diverse parti avvertito e segnalato: quello di cadere nell'apriorismo, nella mera ricerca di laboratorio, ove la scelta, diremmo la sottile discriminazione del materiale, avviene prima dell'apparizione di autentiche immagini interiori, prima addirittura che se ne avverta il presagio.
La «ricerca di materiali nuovi» sembra essere la parola d'ordine degli sperimentatori d'oggi. Venuta in parte a cadere la convenzione del temperamento equabile con la musica concreta ed elettronica, essi cercano di combinare in un meccanismo unitario suoni e rumori inconsueti: l'entità «materiale-timbro», il fatto acustico, non è inteso qui semplicemente come un mezzo nuovo da adattare a una forma pensata, ad una immagine interiore preesistente, ma invece come struttura o frammento di struttura che, una volta assunta, mantiene intatta la sua integrità formale. E' insomma la materia in sé e per sé che interessa, è la ricerca del «mezzo» che prevale: la «scoperta» si sostituisce all'«invenzione». Il più delle volte il risultato è quello di degenerare in formule decadenti di marca surrealista o neo-dadaista (Cage e compagni) o in cincischiamenti neo-impressionistici, in cineserie la cui suggestione è da ascrivere soprattutto alla novità dei mezzi impiegati, a fatti di natura più artigianale e tecnica che veramente artistica (già un secolo fa Mussorgski ammoniva a non lasciarsi ingannare dai trabocchetti «orientalistici»).
Nel 1956 Luigi Pestalozza scriveva su Ricordiana («Post-weberniani, concreti ed elettronici»): «...è individuabile con somma chiarezza un fenomeno di alienazione dell'uomo-artista a favore di una civiltà meccanica che tende ad annientare in genere l'oggetto specifico dell'attività umana, e nel nostro caso dell'attività artistica del musicista, proiettandolo nell'illusoria verità universale del dato scientifico».
Non diversamente dai musicisti operano quei pittori e quegli scultori che, secondo l'abitudine odierna, cercano attraverso l'uso di frammenti di oggetti, di cascami, di materie eterogenee, di accostamenti inconsueti, di suscitare brillii, rutilanze imprevedibili, effetti ricchi di capacità decorativa. E non è che non ci riescano, alle volte; ma anche qui le suggestioni, seppur vive, restano pur sempre tali, nell'ambito di un gusto scaltrito e in definitiva equivoco. Altri reagiscono a questa tendenza dando la preferenza ad un gusto per le superfici piane, per le figure strettamente geometriche, per l'estrema parsimonia gestuale. Ma, reazione per reazione, siamo sempre più nella sfera della cultura che in quella dell'arte autentica, dell'invenzione poetica, vogliamo dire.
Da tutto ciò traspare il preciso intento di rompere le fila di una cultura ufficiale ritenuta ormai ammuffita con un gesto audace e anticonformista: intento più che legittimo, si badi, e in certa misura salutare, purché sia però accompagnato dal desiderio di stabilire le basi di nuovi orizzonti espressivi, di rivelare nuovi gradi della conoscenza, di evocare più sofferte esperienze umane. Insomma è il solito discorso sul mezzo con cui si deve conseguire un certo fine: se il fine viene a mancare, o non è ben chiaro, o è di natura equivoca (sia pure perché tendente a distorcere in senso formalistico un'ideologia magari accettabile sul piano dell'archetipo), il puro compiacimento del mezzo, anche se nuovissimo, si dimostra sterile, non risolve proprio nulla. Così anche certi rigorismi di moda nel dopoguerra hanno dimostrato la propria debolezza interna, la propria insostenibilità alla distanza, proprio per la mancanza di quel calore che è della vita ed a cui l'uomo non ha nessuna intenzione di rinunziare. E non è certo a caso che oggi, in taluni ambienti d'avanguardia, si torna a parlare con sempre maggior insistenza dell'importanza e dell'attualità di Alban Berg, della sua passione espressionista, delle immagini veritiere della sua musica; non sono immagini gradevoli, certamente (e come possono esserlo se nascono da un fondo di inquietudine e critica morale?), ma riconducono sinceramente al dramma degli uomini, a una profonda indagine psicologica. Rimane comunque oltremodo significativo il fatto che Berg per anni sia stato mantenuto in ombra dalla critica, a causa della ben nota tesi che definiva «chiusa» la sua esperienza; tesi che concordava perfettamente con l'indiscriminato furore «astrattista» in ogni campo dell'arte nel periodo che va, grosso modo, dal '48 al '60, e con l'incondizionata idolatria per Webern e il suo radicalismo (vera e propria Arcadia spirituale).
Ma si badi: talvolta anche l'aspetto «demoniaco», irrazionale, denunciatario di certe composizioni post-weberniane non è altro che la conseguenza di un gusto per la cultura più che un atto autenticamente rivoluzionario, cioè risolto dall'interno; è il desiderio di dare una risposta «storica» a una determinata situazione piuttosto che l'espressione di un artista che, senza soverchie preoccupazioni aprioristiche, trova da sé, strada facendo, il proprio contenuto e il proprio stile (anche se l'atto creativo, per forza di cose, è condizionato dall'ambiente, socialmente quindi). E' stato facile in questi ultimi tempi puntare sui simboli della violenza, abusare di immagini grezze e brutali per arricchire di un «contenuto» le proprie composizioni, far suonare sempre forte una materia, che per costituzione interna ed assoluta indifferenza nei confronti delle funzioni espressive degli intervalli, poteva suonare in qualsiasi modo, anche pianissimo. Gli è che la nuova materia, sia essa concreta, elettronica o anche radicalmente frantumata nel puntilismo, è estremamente delicata e va trattata con discernimento, proprio perché (e non sembri una contraddizione) svincolata da ogni rapporto o immagine preesistente, vergine, priva di storia, di quei riferimenti culturali che automaticamente si presentano al momento dell'ascolto e che, dannosi in eccedenza perché determinano la cristallizzazione del linguaggio, sono però necessari quando non bloccano l'evoluzione ma ne favoriscono l'organicità e coerenza, la comprensibilità. E' proprio perché, come dice Adorno in Dissonanze, «la tradizione scompare nell'ambito stesso della musica moderna» e viene a cadere in essa ogni implicazione psicologica che invece era presente fino a Schönberg e Berg. Ne consegue che alle volte la virulenza sonora di talune composizioni post-weberniane e la risultante di un piano generale elaborato «freddo».
Una spia in tal senso ci viene non tanto dalla molta letteratura e filosofia che si è fatta attorno all'argomento, ma dalla concreta analisi del fatto musicale: dove l'insistenza su immagini di violenza riassuntiva (la brusca aggressione della percussione, il «grappolo», il «groviglio» contrapposto alla fase di rarefazione, ai lunghi suoni-pedale, lo stridore lacerante degli ottoni disposti a intervalli di semitono per creare la macchia dissonante), l'insistenza, dicevamo, sui segni fiammeggianti corrispondenti all'intensità dello scatto, al coagularsi della tensione psicologica, al desiderio ossessionante di ribellione, diviene facilmente abuso. La ripetizione fino alla noia di formule sussultanti tutte uguali (si direbbero ritagliate e conservate in ripostiglio in attesa di essere poi ricucite addosso ad ogni situazione) non corrisponde più all'impulso originario, non esprime l'acme di intensità dello slancio: le implicite bruschezze del segno, solo saltuariamente funzionali per lo scopo da raggiungere, e il volontarismo schematico che stanno alla base di questi procedimenti fanno un pessimo servizio ai contenuti. Perché se il formalismo è insopportabile a tutti i livelli e in tutti gli stili, lo è ancor di più in un'arte che, proprio per la sincerità (non sappiamo bene se presunta o reale) della sua denuncia, per la volontà di reagire agli equivoci di accademie antiche e recenti, non può poi pretendere di forzare l'operazione mentale e spirituale del compositore verso processi che bloccano l'inventiva e che invece di rappresentare un'ampia apertura all'esperienza rappresentano invece la chiusura, il ripiegamento su una nuova, fors'anche più fastidiosa accademia. E qui saremmo all'adorniana tesi dell'angoscia come punto di partenza della musica moderna: ma il discorso si aprirebbe a troppo ampie prospettive, e sarà quindi bene abbandonarlo, in questa sede, almeno.
Ecco dunque individuato il pericolo maggiore: che si diffonda una mentalità compositiva tendente ad eludere la reale sostanza umana e a far sì che l'artista, dietro la spinta degli slogans culturali, perda 1'abitudine a guardare dentro di se ed invece di aspettare che la propria sensibilità e il proprio mondo poetico prendano consistenza, si sviluppino, con un arbitrario atteggiamento intellettuale decida «a priori» di esprimersi in un determinato modo, in determinate formule, anticipando con la sola intelligenza soluzioni che solo più tardi potrebbero essere legittime, autentiche. Le ragioni culturali e morali che stanno dentro il fenomeno artistico si identificano sempre con il suo contenuto umano: e il contenuto non è un «materiale» di cui si possa disporre arbitrariamente, rompendo il corso naturale degli eventi, del divenire interiore, delle immagini spontanee. Anche se questo divenire, se queste immagini interne sono influenzate in maniera determinante dalla forza dei rapporti con l'esterno, ne sia l'artista conscio o no.
Una volta scongiurato il pericolo dello sperimentalismo aprioristico risulterà inutile e infondata qualsiasi polemica contro la musica contemporanea, anche la più aggressiva; non è la spregiudicatezza, l'arditezza dei mezzi a frapporsi come barriera insormontabile alla comunicazione dell'artista con gli altri uomini, ma l'uso che talvolta si fa di questi mezzi degenerando nel formalismo o tutt'al più nella novità decorativa.
Naturalmente qui si accenna solo alle responsabilità dell'artista, ma si tratta di un discorso provvisorio e tutto da riprendere. Il vasto e complicato problema della comunicazione meriterebbe ben più approfondite ricerche, anche sulla scorta di una concreta analisi del contesto sociale e quindi culturale, fino a giungere alle strutture di base; e in questa direzione Adorno (pur con qualche eccesso formalistico e dogmatico tipico di non pochi studiosi tedeschi) ha dato certamente un contributo importante.
L'essenziale in ogni atto di cultura e di arte è, ancora una volta, di non perdere di vista le ragioni dell'uomo, la sua autentica natura. Insomma: la realtà.
Armando Gentilucci
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII n.2, giugno 1963)