Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 26, 2007

La Clemenza di Tito di Mozart secondo Harnoncourt

"Tutta l'opera parla in realtà degli errori d'amore" - Con Nikolaus Harnoncourt parla Margarete Zander.
Si dice sempre che Mozart nella sua ultima opera sia tornato di nuovo alla forma dell'"opera seria", cosa che gli ha causato almeno da parte della ricerca musicale pesanti critiche.

Io non direi che Mozart con La Clemenza di Tito sia ritornato di nuovo all'opera seria. Le sue opere giovanili Lucio Silla e Mitridate re di Ponto rappresentano lo stadio di allora dell'opera seria. Ma La Clemenza di Tito non si riallaccia affatto a quello, né musicalmente né a livello di contenuto. Mozart non aveva nemmeno l'intenzione di comporre sul libretto di Metastasio così come era, che allora era già alla quarantesima trasposizione in musica. Il libretto se lo è invece fatto riscrivere da Caterino Mazzolà, ottenendo quello che lui stesso definisce nell'elenco delle sue opere un lavoro «ridotta à vera opera». In ogni caso l'occasione stessa per cui fu composta l'opera, l'incoronazione a re di Boemia dell'Imperatore Leopoldo II, costituiva un tipico avvenimento barocco, laddove le altre opere erano state scritte per il grande pubblico.
Negli ultimi 60/70 anni vi sono stati nella musicologia giudizi decisamente negativi a riguardo dell'opera seria. Essa viene vista come una rigida forma barocca, come una forma schematica di venerazione dei regnanti.

Secondo me tali giudizi sulla storia, a distanza di secoli, sono sempre un po' arroganti, L'opera seria è stata de facto per lungo lungo tempo la forma del teatro musicale. Lo stesso identico giudizio potrebbe essere emesso sull'architettura e sull'arte figurativa del barocco, sulle costruzioni rappresentative delle chiese e dei palazzi, sulle opere di Bernini e Borromini. Se le si volessero osservare con occhi incrostati di pregiudizi, si tirerebbero fuori gli stessi criteri, ma al contrario in queste ultime vi si riconoscono grandi qualità artistiche. Penso piuttosto che si tratti di una crisi dell'osservatore odierno, non del genere. Per me la vecchia opera seria è una forma estremamente interessante, poichè lì i caratteri umani vengono ripartiti in diverse figure. Per esempio in un'aria di vendetta si parla solo di vendetta. Ogni opera aveva un'aria irosa, un'aria di vendetta, un duetto amoroso e così via; erano cose prestabilite. Il librettista era nel contesto certamente importante, ma non doveva essere originale, dipendeva solamente da come il compositore si sapesse esprimere all'interno di questi parametri prestabiliti. Per questo l'opera seria poteva sempre rifarsi ai medesimi libretti, perchè vi si rappresentavano i grandi sentimenti umani in tutte le sfumature di emozioni e di affetti. E questi non mutano di certo! Quando un libretto descriveva tutto questo in una buona maniera - ed evidentemente i libretti di Metastasio avevano questo requisito - allora lo si trasponeca in musica.
Mozart non si fa comprimere in una forma. Oltre a pochissime eccezioni, che però possiedono un intenso e profondo significato musicale, egli ha preso anche con La Clemenza di Tito vie del tutto nuove. Non si può dire che in quest'opera si rifaccia alle sue opere precedenti; al contrario, quando mi occupo della Clemenza di Tito ho l'impressione che Mozart abbia trovato qui un nuovo e semplice linguaggio musicale, simile a quello del Flauto magico. E questo sarebbe stato il suo linguaggio musicale del futuro. Entrambe le opere costituiscono per me una visione di come Mozart avrebbe continuato il cammino nell'ambito del melodramma del XIX secolo.

Potrebbe accennare ad alcuni di questi momenti che sembrano accennare il futuro?

Si trova una enorme semplificazione per quanto riguarda la lunghezza dei brani, la strumentazione ed il movimento delle parti. Vi sono pochi insiemi vocali. La strumentazione e la complicatezza del procedere dell'orchestra vengono estremamente ridotte. Ciò si ritrova anche nel Flauto magico e nel Concerto per Clarinetto, ed è sicuramente la via che Mozart aveva davanti a sé. In qualche modo è come un addio al XVIII secolo. D'altro canto si trovano alcuni effetti drammatici che ritroveremo solo nel primo Verdi.

Dunque si potrebbero introdurre un paio di capitoli sulla teoria degli affetti?

Un capitolo sulla teoria degli affetti si rivelerebbe necessario. Il vocabolario della teoria degli affetti, che Mozart ha arricchito non poco nelle sue opere su libretti di Da Ponte, viene in realta posto in disparte nel Flauto magico e nella Clemenza di Tito.

Sono rinvenibili un gran numero di affetti, come per esempio vendetta e gelosia. Sono riconoscibili come momenti singoli, anche dal punto di vista musciale?

Sì, certo. Si trovano moltissimi affetti di questo tipo: vendetta o gelosia, ad esempio. Nell'opera barocca ciò è molto chiaro ed unidimensionale. Solo tutti gli affetti delle figure prese insieme formano per così dire una personalità completa: ogni figura presa da sola rappresenta solamente una parte dell'essere umano. Nella Clemenza di Tito si ha la sensazione però che ad esempio la gelosia non debba essere rappresentata a sé stante, ma che in realtà la figura gelosa possieda ancora uno spettro molto variegato di sentimenti. La vendetta è una necessità proveniente dall'amore, dalla disperazione e così un'aria di vendetta può sfociare subito per mezzo di una minima variazione delle premesse in un'aria amorosa.
Questa enorme labilità dei sentimenti è ciò che, secondo me, caratterizza questo pezzo. L'opera tratta della fragilità delle relazioni tra i personaggi. Ciò che un'amicizia - ora penso a Tito e Sesto - deve sopportare e tollerare lo mostra il grande recitativo tra Tito e Sesto, sembra quasi uno psicodramma. Si sente che tra i due vi è un infinito amore, e che nello stesso tempo ogni offesa a quest'amore si trasforma in patimento.

Come si sente Tito alla fine?

Tito si sente miserabilmente alla fine. Perchè tutto quanto gli è riuscito male. Nell'ultimo brano lui canta solo contro tutti gli altri, non prende parte al giubilo generale, allora possiamo sentire la sua grande rassegnazione. Questo già lo conosciamo in Mozart; le sue opere finiscono tutte in tristezza. Sarebbe da stupirsi se avesse dato a quest'opera un finale felice. Sebbene ciò avrebbe corrisposto meglio all'intenzione di mostrare un regnante buono e mite, la cui bontà alla fine viene ricompensata.

Anche con le donne Tito non ha una relazione univoca.

Si ha l'impressione che non ama nessuna delle donne in scena, ma che sa che si deve sposare, per adempiere alle aspettative del popolo.

E lui si trova quella sbagliata.

In verità si era trovato quella giusta. Lui aveva amato Berenice, che però era una orientale.

Appunto, non riconosciuta. E quindi per il suo popolo quella sbagliata, dico bene?

I suoi sentimenti appartenevano a Berenice, ma lui si lascia sopraffare e manda via Berenice. Ciò è contemporaneamente un'ingiustizia verso il suo amore e verso Berenice, e questo lo si capiva anche allora. Dovendo agire secondo un criterio di legittimità sceglie Servilia, perchè è la sorella del suo amico. Quando lei rifiuta prende allora Vitellia.
Vitellia lo vede sotto due aspetti: in primo luogo quello di colui che è ingiustamente sul trono, poichè la famiglia di Tito ha scacciato via la sua ingiustamente. Ma d'altro canto sarebbe disposta a rinunciare a tutto pur di averlo, dato che lo ama. Lei rappresenta un carattere assai complesso, il suo amore vero e forte è mischiato con l'odio tra le due famiglie a causa degli avvenimenti storici.

Quindi il tipico problema di relazioni sentimentali del XVIII secolo?

Così si potrebbe dire. La relazione tra Vitellia e Sesto però al contrario sembra più uscir fuori dal XX secolo. Vitellia gode nell'avere uno schiavo per il sesso, che può costringere ogni volta, grazie al suo fascino ed incanto femminile, a fare tutto ciò che lei vuole. Questa è la classica immagine della dipendenza. La sicurezza con la quale lei usa Sesto è sollecitata dal suo odio amore per Tito, ma la sua relazione con Sesto è una fredda relazione mossa da uno scopo.
Poi vi è il rapporto puro tra Annio e Servilia e la profondissima amicizia tra Annio e Sesto, che è sicuramente meno problematica ma anche meno minacciata di quella tra Tito e Sesto. Tutta l'opera parla in realtà degli errori d'amore e di sesso, dato che non si può chiamare amore la relazione tra Vitellia e Sesto, che è la relazione alla base di tutta l'opera.
In questa ragnatela emozionale tra i personaggi si pone come individuo completamente al di fuori Publio, del quale si ha l'impressione che provi piacere nel distruggere, nel rovinare la gioia di qualcuno. Publio mi fa pensare ai servizi segreti ed al capo della polizia segreta di una dittatura. Quando lascia trapelare la sua malvagità così lentamente, si ha proprio l'impressione che sogghigni, che goda della crudeltà. Fa molto riflettere il fatto che un regnante così moderato e benevolo, come Tito, si tenga vicino un tale esecutore.

Si può trovare qui un riferimento nascosto alla figura storica di Tito?

Qualsiasi uomo che allora ascoltava La clemenza di Tito sapeva che Tito realmente non fu quel gran moderato, ma chea veva messo a fuoco Gerusalemme ed aveva disperso ed ucciso centinaia di migliaia di ebrei. Egli fu uno dei più sanguinari imperatori romani in assoluto. Le figure degli imperatori romani erano senza dubbio note all'epoca.

Si depreca talvola l'interruzione della serie di arie attraverso i recitativi musicalmente insignificanti.

I recitativi mozartiani sono geniali interpretazioni del testo: purtroppo i recitativi della Clemenza di Tito sono di Süssmayr (a Mozart mancò il tempo), e la loro qualità non è certo alta; per questo noi li abbiamo notevolmente accorciati.

Vi è poi la leggenda secondo la quale Mozart abbia scritto l'opera in soli diciotto giorni.

Io ritengo che Mozart si sia dedicato a questo lavoro già in precdenza, ma credo anche che Mozart fosse capace di tutto. Del resto è tutt'uno. Un'opera che esce dall'officina mozartiana porta i suoi segni magistrali. Non avrebbe accettato quest'incarico, se non avesse anche saputo di poterlo portare a termine.

Nelle Sue interpretazioni i caratteri fissati nei tratti fondamentali della musica diventano personaggi, diventano figure umane. Mi piacerebbe che rivelasse i segreti del Suo lavoro per poterLa comprendere meglio. Vorrei cominciare col pezzo che Mozart compose alla fine dell'opera: l'ouverture.

L'Ouverture è una preparazione all'opera intera. Nella Clemenza di Tito non sussistono collegamenti tematici. Non si tratta di un'ouverture a programma, come ad esempio nel Don Giovanni. Si tratta soprattutto del repertorio degli affetti, che viene rappresentato in maniera abbastanza ampia, e si sente che si ha di fronte un pezzo di corte, dato che inizia con un marcia. Il no. 1, il duetto tra Vitellia e Sesto, è praticamente l'accordo caratterizzante di tutta l'opera. Con l'entrata di Vitellia nella battuta 14 di questo duetto si ha subito l'idea della sua freddezza e durezza, attraverso il particolare martellare dell'orchestra.

Come realizza Mozart questo martellare?

Primo violino, violoncello e contrabbasso hanno una configurazione simmetrica e velocissima e il secondo violino e la viola eseguono il martellìo. Sesto invece viene qui dipinto come una figura ancora malleabile. Questo perchè deve ancora accadere qualcosa, prima che acquisti la propria spina dorsale, in modo che lo si possa capire come una figura chiave. Già dalla sua prima apparizione si comprende che è completamente nelle mani di Vitellia.

Nell'aria no. 2 si vede una Vitellia totalmente differente.

E vi è anche una sonorità orchestale del tutto diversa: non vi sono ora gli oboi, ma al loro posto due flauti, mediante i quali il suono degli archi viene reso più tenero, morbido, carezzevole. Vitellia assume ora il suo successivo registro, offrendo il suo amore se lui, Sesto, esegue i suoi ordini. In quest'aria vi sono innumerevoli finezze, come quando lei gli dice di non infastidirla con i suoi dubbi eterni. A questo punto vi sono figurazioni così pressanti che si ha di nuovo l'idea della durezza di Vitellia. Nel momento successivo, quando Vitellia pensa che Sesto possa comprendere le sue intenzioni, diviene nuovamente molto lusinghiera.

Il carattere di Tito viene invece stbilito già nella sua prima aria.

Esattamente. Normalmente un'aria nell'opera seria, ed anche nelle opere mozartiane, è preceduta da una introduzione strumentale. Qui avviene il contrario, il cantante comincia prima dell'orchestra. Questa entrata ritardata dell'orchestra, questa indecisione, che rappresenta un notevole ed importante lato del carattere di Tito, viene molto evidenziata dal fatto che questo inizio non avviene contemporaneamente. Nella battiua 5 si stabilisce una spece di energia, che è però un continuo ondeggiare tra insicurezza e forza. La conclusione è una figura di consolazione: "Tutto è tormento e servitù", dove il tutto si sintetizza in qualche modo in una personalità completa.

E perchè servitù?

Servitù, incatenamento, che sono imposti ai regnanti. Con servitù si intende appunto la catena, il laccio che lega anche il regnante ai suoi obblighi.

Ora finalmente segue un vero duetto d'amore, il duetto tra Servilia e Annio.

Questo è un grande amore romantico. L'unica coppia che è unita da un vero sentimento deve cantare un duetto d'amore, affinchè anche tale sentimento possa esprimersi. Qui Mozart utilizza anche una interessante strumentazione, fa accompagnare Annio da un fagotto in modo da incupirgli la voce, e Servilia da un flauto attraverso il quale la voce viene resa più chiara. Ciò era un usuale modo di Strumentare i duetti d'amore.

La seconda aria di Tito comincia con una movimentata figurazione al basso, che ritengo debba esprimere gioia. Appena poco prima Servilia lo ha respinto. Tito dovrebbe essere ora triste od adirato, invece è felice.

La sua ammirazione per Servilia è più grande del suo amore per lei. E si trasforma quasi in gaudio. Qui si trova la parola "felicità" che dà quasi l'impressione di volersi ubriacare di ciò. Come se lui volesse convincersi con impeto che una tale sconfitta sarebbe alla fin fine una gioia.

Nella prima aria di Sesto "Parto, ma tu ben mio" si nota che Mozart ha composto una grossa parte solistica per clarinetto, o più precisamente per il clarinetto d bassetto.

Quest'aria è una totale esplicazione di servitù. Vitellia manda via Sesto, dicendogli di andare a fare quello che gli ha detto. Lui le risponde che se ne va. pregandola di essere buona con lui. Questo esprime il testo, che riceve però mediante l'assolo di clarinetto un significato più profondo. La voce ed il clarinetto sono strettamente intrecciati l'una con l'altro. Il clarinetto suona qualcosa e la voce lo segue. Secondo me il clarinetto rappresenta l'idealizzazione di Vitellia che Sesto segue continuamente. Lo conduce sù in alto e poi giù nel profondo. E' quasi come il programma di un ipnotizzatore, che ora nella forma del clarinetto fissa nella mente di Sesto l'idea di Vitellia. L'ipnosi totale mediante il clarinetto.

Quindi Vitellia è qui indirettamente il punto centrale?

Anche il terzetto no. 10 "Vengo... aspettate ..." in realtà appartiene a Vitellia, non è un vero terzetto. La sua reazione di spavento alla notizia di dover diventare la sposa di Tito - mentre lei ha già messo in moto il suo marchingenio di distruzione - non viene riconosciuta come tale dagli altri due, che la scambiano per contentezza; in realtà lei è sull'orlo del suicidio. Non sa assolutamente cosa deve fare, perchè la miccia ormai è innescata e lei non può più farci nulla. Questo terzetto è uno di quei pezzi che per la strumentazione e la ripartizione musicale non appartengono più alla musica del XVIII secolo - queste figurazioni spezzettate del primo violino che svolazzano attorno al disperato ondeggiare di Vitellia, mentre il resto dell'orchestra quasi si irrigidisce.

Il primo atto si chiude con un "Quintetto con coro", quindi non con un vero e proprio finale.

Questo quintetto è determinato dal pentimento di Sesto e sfocia in una marcia funebre per la presunta morte di Tito. Questa è una delle più grandiose musiche funebri che siano mai state scritte. Il turbamento, il lutto, il pianto, e poi di nuovo grida e improvvisi sforzati. E' come se si volesse dire qualcosa, ma si fosse sopraffatti dal olore che spinge a lanciare un grido.

Urlano dal dolore o dalla disperazione: questo si dovrebbe aspettare anche da Sesto quando viene condotto via per mano da Publio, ma il "terzetto dell'addio" "Se al volto mai ti senti" comincia con un suono molto lirico dei fiati.

Le prime battute dei fiati rappresentano i pensieri della disperazione più profonda di Sesto, che giungono alla compagna attraverso l'aria. E' un'immagine molto antica secondo la quale gli amanti separati l'uno dall'altra affidano i loro baci, le loro parole, le loro lettere spirituali all'aria, e il compagno riceve ciò con un bacio del vento. Si trova questa immagine in Monteverdi nei suoi episodi dell'addio e nel "Lamento d'Arianna". Anche nelle arie da concerto di Mozart questa situazione si ritrova spesso. Con l'entrata in scena di Vitellia si stabilisce una ripartizione del tutto diversa nell'orchestra, strettamente omofonica. E lei fa una incredibile asserzione, diretta più o meno a se tssa: in brevissimo tempo il mondo verrà a conoscenza del suo crimine. Il suo problema principale è il suo proprio destio, le importa poco che a causa sua Sesto cadrà nell'infaia. Quando appare Publio c'è di nuovo u cambiamento di coloritura nell'orchestra: figurazioni involute l'una nell'altra, sfalsate di un'ottava tra di loro, primo violino, secondo violino e viola, in modo da avere l'impressione che venga strofinato qualcosa tra due superfici. Qui Publio altro non dice che «Vieni». Arresta Sesto e lo disarma. Anche questo in sé nn è un ver e proprio.

Mi ero chiesta perchè l'aria "Tu fosti tradito" per contralto e mezzosoprano fosse scritta fa Mozart in un registro così alto.

Mozart si districava molto bene con le voci, e questa scelta corrisponde esattamente ad un affetto, perchè qui Annio esce fuori dal suo equilibrio. Deve esigere da se stesso l'impossibile, affinchè Tito lasci libero Sesto. E così Mozart lo invia in una regione in cui la voce deve essere forzata. Il cantare continuato nel registro alto produce una infinita commozione e durezza.

A proposito della commozione, non della durezza, si potrebbe fare qui un parallelo con l'aria di Sesto "Deh per questo istante solo"?

Questo è uno dei pezzi più profondi che Mozart abbia mai scritto. L'aspetto della loro passata amicizia e amore è eseguito musicalmente in modo semplicemente incredibile. Penso per esempio al punto in cui Sesto dice: «Se vedessi questo cor». Il testo intende: qui c'è qualcosa che io non posso esternare, e quindi vi è nelle battute 25 e 26 uno sviluppo cromatico di grandissima intensità che è estremamente scioccante. Questo è lo sguardo all'interno dell'animo di Sesto, finora ignoto a Tito, ma che in questo momento deve vedere la disperazione e la compassione profonda.

Dunque questo sarebbe il momento del riconoscimento per Tito?

Non ancora. Il vero e proprio riconoscimento si trova nel finale. La sua aria successiva è un'aria di trionfo, anche dal punto di vista formale. Egli è soddisfatto della sua decisione di non far uccidere Sesto. In quest'aria eroica i corni in si bemolle esprimono la vittoria contro se stesso. Non si tratta ancora di un riconoscimento, ma Tito percepisce felice e trionfante che è rimasto fedele a se stesso. Ciò viene espresso per lo più a livello musicale e non così intensamente nel testo.

Tra tutte queste arie e scene altamente drammatiche appare improvvisamente un pezzo molto grazioso, l'aria di Servilia "S'altro che lacrime", come si spiega ciò?

Io ho gia ascoltato molte volte quest'opera e mi sono sempre meravigliato di quest'aria. Questo minuetto ha una melodia meravigliosa, è la graziosità in persona. Il suo testo dice però: "Ora fa' qualcosa, il tuo pianto non serve a nulla". Vi è una contraddizione tra testo e melodia e nel tipo di dinamica. Mozart scrive nel punto in cui nel minuetto classico una certa figurazione avrebbe dovuto dissiparsi in lentamente un crescendo o un subito piano. Questa dinamica è appunto la chiave del brano. Estraniando in tal modo il pezzo, in sé così delicato, si creano nel suo interno dei riagganci che fanno sentire che una persona gentile e amabile viene totalmente scossa nel suo equilibrio.

Anche nel caso di un altro brano ho l'impressione che ci si trovi di fronte ad un corpo estraneo musicale, ilcoro n. 24.

Questa è l'unica volta che nella Clemenza di Tito Mozart utilizza una vera e propria musica barocca. Il ritmo puntato del Maestoso, l'introduzione con trombe, tromboni e corni, e il coro Maestoso. Questo è un pomposo inizio del Settecento, rivisto attraverso gli occhi di Mozart. Con questo coro da cerimonia ossequia il passato, i tempi antichi.

C'è dell'ironia in questo pezzo o si tratta di vera e propria ammirazione?

Musicalmente l'ironia è sempre difficile da riconoscere. Mozart si è occupato moltissimo di musica barocca, basta ricordare solamente i numerosi adattamenti delle opere di Händel che ha anche fortemente trasposto nella sua epoca. Qui fa esattamente il contrario e compone con la sua brillantezza di idee e di strumentazione un pezzo di primo settecento. Per me è il pezzo con cui Mozart prende conuniato dal barocco e dal passato.

Dunque una reminiscenza dei "bei vecchi tempi" come si direbbe oggi?

No, è troppo grandioso per questo. Io penso le cose stiano all'incirca così: durante il barocco, specialmente in quello austriaco, si è costruito il palazzo di un principe quasi come una chiesa, e una chiesa come un palazzo, per così dire la dimora di Dio. Se si osservano le imponenti porte, le stanze e le finestre, si ha l'impressione che da lì debba passare un uomo alto tre metri e mezzo. Perchè si è fatto questo? Iddio viene trasfigurato in un regnante barocco, e il regnante innalzato a Dio. Qui si esprime esattamente questo concetto, testualmente nel coro e musicalmente nel brano. Potrei ben pensare che ciò abbia una intenzione ironica. Se si osserva la profondità delle intenzioni che Mozart ha avuto scrivendo questo pezzo, colpisce davvero questa grandiosa antichità stilistica all'interno di un pezzo assai progressista.

Dopo questa "grandiosa antchità" del coro omaggio, l'azione precipita bruscamente verso la fine.

Prima del suo ultimo accompagnato, no. 25, Tito ha scoperto che Vitellia è colpevole dell'attentato. «Quale il motivo?» le chiede, e lei risponde: «La tua bontà. Credei che questa fosse amor». Ed a questo punto si ode un vero e proprio grido da parte di Tito. I primi tre accordi sono come un tendersi della spina dorsale. Deve decidere a questo punto tra vendetta e giustizia, e sceglie la giustizia. Ed ora (battuta 29) dopo "e vita, e libertà" appaiono improvvisamente questi accordi del potere. Nel linguaggio musicale dell'epoca, e successivamente fino al secolo XIX, questa configurazione simboleggiava appunto il potere. Tito allora prende nuovamente in mano le redini della situazione e decide di graziare tutti gli esecutori dell'attentato.
Si potrebbe quasi dire che lui ritrova in se stesso la causa di tutte le azioni. Il vero motivo del comportamento di Vitellia è proprio lui, come anche di quello della rivolta. I congiurati hanno tramato contro di lui perchè non ha esercitato il suo potere leggittimamente, perchè i suoi predecessori si sono impadroniti del trono con la violenza. E perchè lui è così penetrantemente buono.

Il riconoscimento gli viene allora perchè Vitellia glielo dice?

Questa è l'ultimo dispositivo di scatto. In un altro punto dell'opra Tito dice: "Ad un regnante non si dice mai la verità". Un subordinato, è ancora oggi così, non dirà mai la verità al suo superiore, perchè ciò avrà ripercussioni sulla sua carriera. Tutto quello che si è accumulato nel corso dell'opera esplode ora in questo ultimo recitativo. Tito si sente colpevole del comportamento degli altri. Questa colpa propria è quello contro cui urta sempre. Non può far uccidere qualcuno, se in fondo è lui stesso il colpevole. Questo è il motivo er cui nel finale echeggia un suono così triste.

Redazione dell'intervista: Ingrid-H. Verch (traduzione di Giuseppe Trezza) - Warner (p) 1994

sabato, maggio 19, 2007

Buscaroli: La morte di Mozart (avviso per la II edizione)

La sera del 23 Maggio 1824 nella Gran Sala del Ridotto della Hofburg di Vienna fu replicata la Nona Sinfonia di Beethoven, eseguita per la prima volta il 7 Maggio. Al pubblico fu distribuito un foglio con su stampata un'Ode a Lodovico van Beethoven. Né biografie, né storie, né saggi fecero mai cenno dell'Ode che fu sequestrata e poi sepolta negli armadi dei segreti e veleni della k.k. Polizei dove rimase nascosta anche dopo la fine della Monarchia con tutte le carte che avessero a che vedere con la morte di Mozart, una storia che, dopo duecento e ventun anni, resta più che mai misteriosa. Più che mai dico, perché le memorie si vanno cancellando, le nuove generazioni nulla più sanno, né imparano, e non c'è revisionismo che riesca a scrostare strati e strati di menzogne consolidate. La menzogna dapprima imposta, poi ripetuta, poi difesa, e infine dimenticata, diventa la Storia. Come vediamo, da cinquant'anni.
L'Ode, che l'autore chiamò «alcaica» perché imitata su quelle d'Orazio, cantava le lodi di Beethoven, ma passò negl'incarti mozartiani perché su venti strofe di cui era composta, ben quattro contenevano allusioni alla fine di Mozart per un veleno che gli avrebbe propinato Antonio Salieri (1750-1825), leggenda che conobbe in tempi vicini un lurido risveglio.
Questo autore, che lungo trent'anni raccolse libri documenti e notizie, dalla cui elaborazione uscì il libro presente, mai ebbe notizia dell'Ode di Bassi e delle conseguenze che la seguirono. Il caso ha voluto che, mentr'era intento negli ultimi capitoli d'una biografia da pubblicare nella prossima primavera, s'imbattesse in una nota a commento della lettera che Beethoven scrisse il 26 Maggio 1824 al suo ultimo mecenate, il principe Nikolaus Galitzin, cui doveva il trionfo della Missa Solemnis a Pietroburgo il 7 Aprile: il committente e dedicatario dei primi tre degli ultimi Quartetti: «Le allego una riproduzione della Medaille, mezza libbra d'oro, che S. Maestà di Francia mi ha mandato in segno di soddisfazione per la mia Messa, e versi italiani su di me ... ».
Nel recente Epistolario diretto dal professor Brandenburg del Beethovenhaus e stampato da Henle di Monaco una nota chiarisce (Vol. 5, p. 330): «L'Ode a Lodovico van Beethoven di Calisto Bassi fu declamata nell'Akademie del 23.5.1824 e, a causa delle allusioni alle circostanze della morte di Mozart, chiamata in giudizio dai dirigenti della Polizia e della Censura», e termina con rinvio a un articolo, Zu Mozarts Tod, pubblicato da tale Gustav Gugitz (ignoto non solo a me, ma alla sterminata MGG) nel terzo numero delle «Mozarteum Mitteflungen» del 1920.
Questa nota mi divenne, la scorsa estate, un nuovo mistero del mai finito, mai chiuso, mai aperto e sempre crepitante macabro mozartiano: una continuazione, finora ignota, del rumore che il povero Salieri aveva suscitato accusandosi, dall'ospedale dei pazzi dove l'avevano accolto, d'aver avvelenato Mozart. In definitiva questo episodio mi appare la più importante novità emersa nei sei anni dopo l'apparizione di questo libro.
Calisto Bassi, la cui personalità si ricostruisce riunendo due fasce biografiche finora incomunicanti, italiana e tedesca, nacque, secondo il Dizionario degli Italiani, a Cremona, al principio del sec. XIX, da Nicola, cantante buffo napoletano: fu traduttore e arrangiatore in tre lingue di libretti d'opera, arrivò a Vienna con Barbaja, l'impresario di Rossini che aveva preso in appalto il Kärtnerthortheater. Partecipò in modo che il Dizionario definisce «singolare» senza spiegar nulla, alle Quattro giornate di Milano e moti, nella miseria dei teatranti, «nell'Ospedale di Abbiategrasso verso il 1860».
La sua sortita oratoria e poetica in favor di Beethoven giunge, nei suoi limiti, sensazionale perché rivela una spaccatura finora ignota nel campo italiano di fronte alla disgrazia di Salieri. Seppure i tedeschi appaiano divisi su quella favola di veleni, come perfino i Quaderni di conversazione di Beethoven rivelano, la rumorosa colonia italiana sembrava finora stretta intorno al Kapellmeister di Legnago e all'appassionata «Lettera [ ... ] in difesa del M° Salieri calunniato dell'avvelenamento del M° Mozzard», scritta e subito pubblicata nella «Biblioteca italiana» di Milano dal comasco Giuseppe Carpani (1752-1825), il biografo di Haydn plagiato da Stendhal.
Nell'Ode, il giovane Bassi si schiera impetuosamente con gli accusatori di Salieri, loquaci e attivi anche in casa Beethoven. Ma «fino a che le fantasie del malato ormai morente passavano di bocca in bocca», spiega il fantomatico Gugitz, la Polizia e la Censura non ebbero in mano una ragione d'intervenire. Gliela dette Bassi che, «aizzato forse da un forsennato irragionevole amore per la musica tedesca», li provvide finalmente di versi scritti e firmati. Dove tuttavia nessun nome è scritto in chiaro, e fin che Bassi canta del livore al suo [di Mozart] lato» e del «nappo avvelenato», gl'inquisitori avevano poco da stringere. Credettero d'avere in pugno il poeta dove l'Ode passava a un «VECCHIO, che in non roca voce / cantò Maria piangente il Figlio in croce», perché Salieri aveva scritto uno Stabat Mater. Ma Bassi replicò che non sapeva nulla d'uno Stabat Mater di Salieri, lui intendeva quello di Pergolesi. Per continuare a perseguire il giovane, il soprintendente dei teatri statali, conte Moritz Dietrichstein-Leslie, dové farsi fare un apposito Hofdekret, che arrivò al galoppo il 29-31 Maggio.
Molte volte ho cercato d'indovinare quali valori difendessero questa Polizei e questa Zensur: se l'onore di Mozart, Kammerkonipositeur imperiale e regio, o l'onore dell'aristocratico ritenuto committente occulto del Requiem, o l'onore del governo e polizia austriaci che nella morte e sepoltura di Mozart furono implicati in misura pesante e mai bene calcolata. Davanti a questo documento in versi che fu subito sequestrato perché conteneva indecifrabili allusioni a un mai provato delitto di trentatré anni prima, mi domando chi intendessero difendere quelle autorità di Polizei e Zensur, se l'onore del settantaquattrenne Hofkapellmeister ormai fuori di sé, o l'enorme ben chiuso involucro di menzogne che s'inventarono per quella morte lontana, e furono tenacemente difese sotto la Monarchia e la Repubblica, e il Terzo Reich, e la nuova Repubblica Austriaca.
Resto convinto che Mozart morisse per cause naturali, seppure nel quadro di una natura anomala e rara, e che la gestione della sua morte generasse un mostruoso cumulo, tutto absburgico, di turpissime favole, a cominciare con la «fossa comune». Che non fu fossa, e tanto meno comune, ma una finta cassa da morto che si apriva su un lato da cui il cadavere scivolava nella calce viva dove si sarebbe sciolto: una procedura che, si assicurò allora, era stata inventata personalmente da Giuseppe II, da cui la copiò esultante la mafia siciliana. Non doveva restare traccia di quel cadavere, e non restò.
Resta, invece, la convinzione, che tra poche pagine esprimo, essere la biografia di Beethoven «il filtro e la foce» del mondo mozartiano: non per nulla lo chiamarono «il secondo Mozart». Un tipo che Polizei e Zensur tennero sempre d'occhio. Senonché, quando fu morto, non si trovarono davanti un gruppetto di parenti e intriganti spaventati, ma un oceano di ventimila persone che seguivano la bara, non sudditi di una degradata dinastia ma, come li chiamò Franz Grillparzer, il solo poeta che l'Austria avesse, «il popolo tedesco».
di Piero Buscaroli (Prefazione alla II edizione de "La morte di Mozart", Rizzoli BUR)

lunedì, maggio 14, 2007

L'Antigone di Ivan Fedele

Le "prime assolute" di opere liriche in Italia sono diventate avvenimenti rari. Colpa senz'altro di teatri che non hanno il coraggio di osare, ma anche dei compositori che fanno fatica a rinnovare quella formula del «recitar cantando» che continua a catturarci attraverso le opere del passato. Il soggetto scelto per l'inaugurazione - il 24 aprile di un Maggio Musicale tutto incentrato sul mito è Antigone: l'eroina sofoclea che ha già ispirato una ventina di opere, prevalentemente del secondo Settecento (da Galuppi a Winter) e del primo Novecento (da Honegger a Orff). Il compositore è Ivan Fedele, che a cinquantaquattro anni ha scritto ora la sua prima vera opera (se si esclude il dramma musicale giovanile in un atto, Ipermnestra) con il collaboratore letterario di sempre, Giuliano Corti (che ha partecipato anche lui all'intervista che segue). Un debutto un po' tardivo per un musicista di doti singolari, da sempre dedito alla ricerca d'avanguardia, che esprime già da tempo un'autentica vocazione drammatica anche nella sua musica non-teatrale e che mostra qui una rara consapevolezza del proprio operato. Lo spettacolo beneficerà fra l'altro di una messa in scena ingegnosa firmata da Mario Martone e Sergio Tramonti e di un compagnia di rilievo capeggiata da Monica Bacelli (Antigone) e Roberto Abbondanza (Creonte) e diretta dal compositore svizzero Michel Tabachnik.
Per i compositori d'avanguardia del dopo-guerra scrivere un'opera non era una faccenda semplice. Fino a che punto questa difficoltà si avverte ancora oggi?
La volontà dei compositori della scuola di Darmstadt di disgregare la forma attraverso il serialismo integrale li ha portati a respingere tutte le forme più tipiche del periodo romantico, e le difficoltà che ebbero a riavvicinarsi all'opera si manifestavano anche nella terminologia: si parlava spesso di «non-opera» o al massimo di teatro musicale. Gli stessi libretti tendevano a essere estremamente densi e poco teatrali, e i personaggi spesso rimanevano immobili in scena. C'è stata però in seguito una graduale ricostruzione dei linguaggi; si è riconosciuto l'importanza di una gerarchia, di un'organizzazione del materiale comprensibile nel tempo e capace di far passare un'emozione. Basti pensare a Rituel, scritto da Boulez nel 1975 in memoria di Maderna, dove una quarta eccedente si ripete e si rifrange in tutto il pezzo. Una cosa del genere sarebbe stata inconcepibile per un compositore come Boulez solo dieci anni prima. In anni più recenti poi sono state scritte delle opere di grande efficacia teatrale dai compositori più aperti alla sperimentazione linguistica. Penso per esempio a Das Mädchen mit den Schwefelhölzern di Lachenmann, un vero capolavoro, oppure alle Trois Soeurs di Peter Eótvós, un'opera meravigliosa in cui tre controtenori svolgono i ruoli delle tre sorelle di Checov: un esempio di come il linguaggio della contemporaneità possa essere utilizzato con piena maturità espressiva.
L'impiego delle voci nelle opere contemporanee è rimasto però piuttosto uniforme...
In effetti c'è stato per molto tempo un ricorso a un declamato generico che giustifica la presenza di attori vocalizzanti sulla scena ma che non si assume nessuna responsabilità di tipo stilistico. E una specie di rifugio grigio nel quale si nasconde il compositore che non vuole ammettere di scrivere un'opera. Fui molto colpito quando ascoltai per la prima volta Outis di Berio, un'opera in cui il protagonista canta una vera e propria aria fatta di note piuttosto lunghe che seguono una direttrice ora discendente ora ascendente. Un'altra esperienza per me affascinante è stata la rappresentazione di GO-gol di Michael Levinas il figlio del filosofo alla Filature di Mulhouse una decina d'anni fa. Al personaggio veniva associato una linea cromatica ripetuta molte volte che ti rimaneva in testa anche dopo l'uscita dal teatro. Interessante da questo punto di vista è pure Medeamaterial di Dusapin, incisa con l'orchestra barocca di Herreweghe.
Come deve rapportarsi con il passato il compositore contemporaneo?
A differenza dei nostri «padri» musicali, che avevano una visione positivistica della musica e della storia della musica, per cui ogni novità tendeva a cancellare i filoni precedenti o alternativi, oggi dobbiamo cercare una sintesi più alta. Che secondo me si può trovare in una visione «geologica» della storia. Il compositore è seduto su un terreno nel quale si trovano tutte le stratificazioni del passato. Egli diventa così contemporaneo - se pensiamo a un punto verticale dove spazio e tempo si unificano - anche della storia, con il quale instaura appunto un rapporto di profondità. Io posso penetrare nella storia e tirare fuori dal terreno sottostante il contrappunto del Cinquecento, il quale all'aria della contemporaneità si ossida, si sbriciola, quindi assume un nuovo senso. Questo secondo me significa avere un rapporto sano con la storia. Non a caso la crescita in alto di una pianta è proporzionale alla fertilità del terreno e alla profondità delle radici.

Può dare un esempio dell'influenza del passato nella Sua produzione?
Quando decisi di scrivere un Concerto per pianoforte e orchestra, ho riflettuto sulla fenomenologia del Concerto classico, che ha alla sua base il principio fisico semplicissimo dell'eco; della botta e risposta. Lo stesso principio che informa il canone, la fuga. E siccome l'eco è un fenomeno di risonanza, ho riflettuto su come si potesse sfruttare altri tipi di risonanza all'interno di un Concerto per solista e orchestra. E ho pensato che l'orchestra potesse diventare un luogo, un ambiente nel quale la parte solistica venga proiettata come quando si lancia un sasso nello stagno e si diradano dei cerchi. Cerchi che sono provocati dal sasso ma che non hanno niente a che fare con la forma del sasso. Per esempio se il solista esegue degli arpeggi, l'orchestra fa degli accenti su questi arpeggi; così si crea una vera coesione tra solo e tutti senza che l'orchestra ripeta alcunché della parte solistica.
Quando ha deciso di scrivere un'opera?
Ci stavo pensando da tempo quando, tre anni fa, dopo un concerto dell'Ensemble Intercontemporain a Firenze nel quale venne eseguita Ali di cantor, una mia composizione per trenta musicisti dislocati nello spazio scenico in maniera simmetrica, l'allora sovrintendente del Maggio Musicale Giorgio Van Straten mi telefonò e - dopo aver lodato la forza drammaturgica di quella composizione orchestrale - mi chiese se avevo mai pensato di scrivere un'opera. Gli risposi che riflettevo da mesi, insieme a Giuliano Corti - autore di molti testi da me musicati - su tematiche possibili, e che eravamo particolarmente attratti dall'idea di affrontare un soggetto mitologico con protagonista femminile. Fra l'altro con Giuliano avevamo già realizzato per la radio venti quadri di cinque minuti ciascuno ispirati ai miti di coppia nella Grecia antica: quadri affidati a due recitanti e a una musica elettronica. Van Straten era entusiasta di quest'idea, in quanto aveva già pensato a un festival dedicato in qualche maniera al mito.
Perché poi la scelta di Antigone?
Perché come tanti personaggi creati in quel periodo d'oro dell'antica Grecia, Antigone continua a rapportarsi a noi, soprattutto nella sua rivendicazione delle ragioni del cuore, in opposizione a quelle del potere. E' veramente un personaggio poliedrico: può essere vista non solo come eroina che combatte contro il potere ma anche come espressione di pietas. Ci sono volute però sette stesure del libretto per arrivare al testo estremamente asciutto che cercavo.
Qual è il rapporto tra il libretto e la tragedia di Sofocle?
Abbiamo conservato l'impianto di base di Sofocle, ripartendo dal testo greco e ricostruendo la storia delle traduzioni - non solo in italiano ma anche in francese e in inglese - cercando di trovare le parole essenziali che permettano di liberare il significato originale. In un certo senso, più si toglie e più si riesce ad esprimere. Man mano che il libretto prende corpo, io mi faccio un'idea musicale. Prendo molti appunti, già comincio nella mia testa a caratterizzare i personaggi. Immaginavo di essere seduto in scena e di vederli muovere intorno a me. Dovevo controllare da vicino il movimento e mi sono sempre posto la domanda: perché devo mettere in musica quest'azione?
Come caratterizza chi sta in scena?
Attraverso il profilo melodico, l'articolazione ritmica, le scelte intervallari e il contesto armonico. Per Creonte uso due o tre stilemi che si ripeteranno in forma compressa o dilatata per tutta l'opera. Alla fine dell'opera la sua stentorietà viene meno: c'è una transizione tra il canto e il parlato che dà l'idea di un personaggio che va verso la follia, una follia che si esprime pure attraverso la disintegrazione del testo. Emone - il fidanzato di Antigone e figlio di Creonte - ha una linea simile di quella del padre, ma compressa: una linea che ci comunica il loro legame di famiglia al di là di ciò che esprimono le parole. Tiresia - che ho affidato a un controtenore - si esprime in maniera completamente diversa, per sottolineare il carattere particolare del suo vaticinio. Quando fa i presagi di sventura, lo fa dilatando o comprimendo il testo, per renderlo il più oscuro possibile. Il controtenore è l'unico cantante la cui voce viene sottoposta a una vera e propria elaborazione elettronica. Porterà un sensore al polso che manderà degli impulsi al computer che trasformeranno i gesti del personaggio in modulazioni vocali. Così la voce sarà doppiamente straniata. Tutte le altre voci saranno poi sonorizzate per uscire un po' dalla retorica operistica classica e per permettere anche le sfumature del sussurrato senza avere problemi di proiezione nella sala. Antigone è un mezzosoprano, mentre la sorella Ismene è un soprano. All'inizio, quando sono unite nel compiangere il fratello, cantano insieme. Si esprimono in duale: si tratta di una forma personale tipica della grammatica greca: «noi due». Nella poesia essa esprime una relazione intima di scambio e di condivisione. Quando però le scelte delle due sorelle divergono, non cantano più insieme e anche le linee musicali si distinguono più nettamente.
Che tipo di equilibrio cerca di raggiungere tra voci e orchestra?
Io sono partito comunque dall'idea che ci fosse una sonorizzazione delle voci; una cosa diversa rispetto all'amplificazione. La sonorizzazione permette di applicare alla voce dei trattamenti: per esempio due personaggi possono avere dei riverberi leggeri ma diversi. Nella scrittura tuttavia sono sempre stato consapevole del fatto che sotto le voci ci saranno novanta soggetti che suonano. In orchestra c'è un utilizzo notevole del registro grave, un centro di gravità abbastanza basso. Ho lasciato l'orchestra con la briglia sciolta solo quando ci sono passaggi puramente strumentali. In altri momenti ho cercato degli effetti più sfumati, come il coro di ottoni con sordina che crea una specie di riverbero in orchestra della linea vocale. In questo senso si può parlare di un tentativo di «vocalizzare l'orchestra». Anche se poi il nucleo centrale dell'orchestra sono gli strumenti a percussione intonati - il cymbalon, il vibrafono, la marimba del registro grave, il pianoforte insieme all'arpa. Strumenti che creano un'atmosfera al contempo arcaica e contemporanea: servono a punteggiare il fraseggio vocale, a volte quasi con l'effetto del battito di un cuore. La stessa orchestra insomma diventa quasi un personaggio.
C'è qualche altro aspetto curioso nel mondo sonoro di quest'opera?
Mi sono concesso una libertà di tipo interpretativo: un coro femminile collocato in sala che rappresenta l'inconscio femminile, una specie di orchestra di voci che fa riverberare alcune note di Antigone nella sala. Desidero in questo modo evidenziare la presenza di un'altra «scena», quella del pubblico che ascolta. Per me del resto la dimensione spaziale della musica è molto importante. E l'allestimento di Mario Martone valorizzerà benissimo quest'aspetto della drammaturgia musicale, sfruttando la profondità del palcoscenico del Teatro Comunale. La mia riflessione sulla spazializzazione della musica parte dalla constatazione che quando due strumentisti seduti uno accanto all'altro in orchestra si scambiano una frase melodica, chi ascolta avverte soltanto un cambio di timbro, mentre quando gli stessi strumentisti sono seduti a una certa distanza l'ascoltatore percepisce il passaggio nello spazio. E se questi spazi si moltiplicano si crea una vera e propria drammatizzazione della musica stessa. Ho fatto i primi esperimenti di questo genere in Duo en résonance e in Richiamo, entrambi composti negli anni novanta, e ho scritto pure un saggio sull'argomento in francese intitolato «Ecrire pour e par l'espace» (scrivere per e attraverso lo spazio).
Ha dei luoghi prediletti per la composizione?
Ho una cucina grande, e appena posso scrivo lì quando sono a casa a Milano. E' un luogo molto familiare. Ma in realtà posso comporre dappertutto. Quando faccio dei lunghi viaggi in treno di sei, sette ore - mi metto lì tranquillo e comincio a schizzare delle cose. Antigone poi l'ho scritta in parte a Gallipoli, dove mia madre ha una casa, davanti al Mar Ionio, e in parte a Strasburgo, in un ambiente mitteleuropeo completamente diverso. Poi in treno e in vari altri luoghi.
Quali invece gli orari congeniali per la scrittura?
Da questo punto di vista ho cambiato moltissimo nel corso degli anni. In passato facevo anche le due, le tre di notte. Adesso dormo di notte e lavoro benissimo la mattina, anche se ho un metabolismo lento, come pure nel primo pomeriggio. E' come se avessi bisogno della luce per essere creativo. Mentre la sera è il momento in cui rifletto, leggo, guardo delle cose. Non si riesce del resto a immaginare musica per ventiquattro ore di seguito. Componendo Antigone non mi sono limitato inizialmente alla semplice linea vocale e a uno spunto di accompagnamento; ho iniziato a strumentare quasi subito.
Come avviene l'ispirazione?
Un'idea può presentarsi come un flash, ma il lavoro di comporre è quello di renderla. L'idea iniziale non resta infatti sempre la stessa. Non riesco a capire quei colleghi che mi fanno vedere un foglietto e mi dicono: «questo è il mio pezzo per orchestra». Come se lo schizzo contenesse tutto e la fase di realizzazione non contasse nulla. Per me invece il tempo può cambiare tutto e deve essere usato in modo creativo. Mentre scrivo una scena dell'opera, già sto pensano a come sarà la scena successiva. Per il personaggio di Tiresia - ad esempio - una parte che ho scritto alla fine, avevo delle idee chiarissime fin dall'inizio.
Ora che l'opera sta per essere messa in scena, che sensazioni ha?
Sono personalmente veramente soddisfatto del lavoro che ho fatto. Scrivere quest'opera mi ha dato molta felicità. Nello stesso tempo riconosco di non avere una conoscenza approfondita di come si fa teatro concretamente: le prove saranno per me un'occasione di apprendimento, e le seguirò con grande umiltà.

di Stephen Hastings (Musica, n.185, aprile 2007)

sabato, maggio 12, 2007

La VI di Mahler e Karajan: un rapporto complesso e privilegiato

Nell'immenso repertorio di Herbert von Karajan è oltremodo interessante andare alla ricerca di quelle composizioni con le quali - per i motivi più disparati - evitò di confrontarsi nel corso di tutta la sua attività. Volendo usare termini meno perentori, si potrebbe anche parlare di composizioni che in questa o quella fase della sua carriera forse non si accordavano con il programma artistico del momento o che per un futuro immediato valevano solo come eventuali, vaghe intenzioni. La situazione è particolarmente interessante nel caso delle sinfonie di Gustav Mahier; infatti nel repertorio concertistico e nella discografia di Karajan, che fatta eccezione per alcuni titoli coincidevano, non rientravano le sinfonie con coro, e cioè la n. 2 ("Resurrezione"), la n. 3 e la n. 8 ("Sinfonia dei mille"). Ma anche le Sinfonie n. 1 (il "Titano") e n. 7 (il "Canto della notte") si cercheranno invano nei programmi concertistici e nella discografia di Karajan. Vi comparivano invece la Sinfonia n. 4 (con soprano solista), la n. 5 e la n. 9, e appunto la Sesta, una sinfonia monumentale che conosce la sensibilità più delicata come l'esplosione più veemente, e che lo stesso Gustav Mahler definì "Tragica". E' inutile ora ripensare e sottilizzare su queste scelte di Karajan, ma ciò fa supporre che il direttore avesse un rapporto ambivalente con la musica di Mahler: se da una parte se ne sentiva grandemente attratto, dall'altra nutriva un certo scetticismo - uno scetticismo affettuoso, critico, esitante. Herbert von Karajan registrò la Sesta Sinfonia in la minore di Gustav Mahler nel 1978, e quando essa fu pubblicata - in un box di due dischi - ebbe un'accoglienza entusiastica e un sorprendente impatto a livello pubblicitario. Il motivo era da ricercarsi nel fatto che Karajan, insieme ai Berliner Philinarmoniker, era riuscito a rilevare le durezze radicali e le impietose fratture della composizione senza indulgere ad alcun alleggerimento estetizzante. E tuttavia la sua interpretazione tradiva sempre quella patina, quell'atmosfera autunnale propria di un'epoca al tramonto, segnata da un dolce brivido e una raffinata nobiltà, che ormai da tempo erano divenute peculiari della concezione e della sensibilità di Karajan, e soprattutto della sua psicologia timbrica. La "Tragica" di Gustav Mahler era offerta dunque nella sua integrale cifra espressiva, ma per la sua veste sonora s'imponeva anche come splendido esempio di virtuosismo strumentale e raffinatezza timbrica, che anche nei gesti più crudi sapeva attenersi alle regole artistiche della calibratura sonora. Se si ascolta oggi e a una certa distanza di tempo questa interpretazione di Karajan della Sesta, si potrà credere a stento che la sua registrazione si compisse in quattro fasi di lavoro in un arco di oltre tre anni, dal 20 gennaio 1975 al 9 marzo 1977. Eppure, nonostante le ripetute cesure che costellarono questa produzione, tutto sembra procedere come di petto. Ciò significa che Karajan ed i suoi Berliner Philharmoniker e naturalmente i tecnici della Deutsche Grammophon, seppero quasi misteriosamente creare una continuità interpretativa e musicale tra l'ultima nota della seduta di registrazione del 20 febbraio 1975 (ore 13.00) e la prima nota del pomeriggio del 18 febbraio 1977 (ore 16.00) - la pausa più lunga nella storia dell'incisione. Per creare tale coesione di sonorità, nel dettaglio come nella sua globalità, e una pregnanza drammaturgica così convincente non era solo necessaria una grande esperienza tecnica, ma anche una forza di immaginazione e suggestione che sfocia nel mistico. Nelle diverse peripezie di questa sinfonia ciò diveniva quasi un miracolo di moderna produzione musicale, dal momento che la composizione è già di per sé un testamento di sensibilità e un pensiero di assillante instabilità. A tale proposito, nella nota di presentazione pubblicata nella prima edizione discografica, Hanspeter Krellmann aveva rilevato: "Mentre la musica di Bruckner si mostra sempre sicura di se stessa, quella di Mahler cerca di raggiungere tale sicurezza. Nella sua Sesta Sinfonia l'intenzione di fondo rimane sempre manifestamente chiara, dal grave incedere dell'esordio (dove sembrano preannunciate le pesanti movenze della 'Sagra' stravinskiana) alla conclusione dispersiva del quarto movimento: quella di descrivere, non in senso programmatico ma quasi psicoanalitico, la tragicità della sua vita d'artista, di presentarne non una riproduzione ma una visione ideale - per parafrasare un'espressione di Paul Kee".

Peter Cossé (traduzione di Gabriele Cervone) - DGG 1998