Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, novembre 28, 2020

Il Garibaldi dei direttori d'orchestra

Pomeriggio festivo ad Arona. Un battello 
è in partenza per Verbania. Perché non concedersi una breve gita sul lago? Non molta gente a bordo, per lo più persone anziane in vacanza sul posto. Un bel vegliardo sugli ottanta, ma ancora gagliardo e diritto, ricorda G. B. Shaw nell'aspetto, ma G. B. Shaw è ormai morto da lustri e poi, questo signore, non è forestiero, è di queste parti, in vena di chiacchiere e d'una loquacità alla fine simpatica. E', come si dice, un attaccabottoni. Mi prende il braccio e leva l'altra mano a indicarmi una villetta affondata nel verde nel tratto di Meina e: "Vede quella villa? Sì, quella con la gradinata e quella specie di torretta a fianco...! Oh, niente di straordinario come costruzione, bisogna riconoscerlo   Dirle esattamente a chi appartenga, oggi non saprei. Sa, qui da noi, è continuo acquistare, vendere, comprare, affittare, tanto han da fare i notai   Ma lasciamo! Un tempo, cinquanta, forse sessant'anni fa, allora ero giovane anch'io, lì abitava un grande musicista, un vero musicista ed altrettanto valente direttore d'orchestra, con tutto il rispetto dovuto a Toscanini".
Dicendo questo, il vecchietto mi prende il braccio come per sorprendermi: "Ha mai sentito parlare di Luigi Mancinelli?" Di Luigi Mancinelli conosco molte cose, non tutti gli aneddoti che il mio compagno di viaggio di un’ora si mette a raccontarmi e che ascolto con compiacimento.
Altri tempi, altri modi di far musica o, forse, altra fede nella musica, E allora perché non ricordare questo sincero musicista, questo direttore d'orchestra che ebbe il suo glorioso quarto d’ora di celebrità, tanto più che quest'anno ricorre il cinquantenario della morte?
Luigi Mancinelli vide la luce il 5 febbraio 1848, in pieno Risorgimento, alla vigilia delle fatidiche Cinque Giornate milanesi, nella silenziosa Orvieto. Silenziosa e tranquilla la sua città natale, ma non il ragazzino Mancinelli che, irrequieto, scompariva di casa per avventurose esplorazioni nei dintorni, a scapito dello studio; aveva però assai precocemente manifestato la sua vocazione per quell'arte a cui, un tempo si sarebbe detto, la musa Polimnia presiede. La musica, insomma. Ma la famiglia tenne nascosto quel fanciullo prodigio, si sognava di fare di lui tutt'altro che un musicista dal futuro incerto. Altre idee correvano allora per quanto si riferiva all'avvenire dei figli. Il più fiero oppositore, il piccolo Luigi lo trovò nel padre che, sembra, avrebbe voluto fare del figlio un onorato commerciante. Ma com'era possibile che il giovinetto frenasse in sé quella furia artistica impetuosa che gli si agitava dentro? Guidato o, suo malgrado, protetto dai lampeggiamenti di un sicuro talento, Luigi Mancinelli, quattordicenne appena, abbandonò la casa paterna. Quasi il prologo di un romanzo.
Comunque, per i favori che il "destino", a volte, elargisce a taluni, egli ebbe presto modo di inserirsi nel mondo musicale italiano dell'ultimo quarto di secolo. Ed in questo mondo rappresentativo che nessuno può cancellare, rimane figura poliedrica che gode perlomeno di tre sfaccettature interessanti, e nessuna di esse cede di fronte all'altra.
In seguito ai suoi inizi burrascosi e non senza vicissitudini, il Mancinelli era riuscito ad ottenere un posto di violoncellista al teatro "La Pergola" di Firenze e, subito dopo, a soli ventun anni viene scritturato in qualità di primo violoncellista al "Morlacchi" di Perugia e, vedi la fortuna! sostituto dell’allora popolarissimo direttore d’orchestra e compositore Emilio Usiglio, il celebre autore di "Le Educande di Sorrento", opera replicatissima nei teatri d'opera italiani sul finire del secolo. E vedi altra fortuna! Il Mancinelli venne invitato al podio a sostituire il titolare, impedito, in una occasione, da una crisi "bacchica" (crisi alla quale andava sovente soggetto), a dirigere l'"Aida" che mandava in delirio le platee. Quella sera, al "Morlacchi", si trovava l'editore Giulio Ricordi, che fu preso e coinvolto dall'entusiasmo degli spettatori verso quel giovane direttore d'orchestra chiamato all'ultimo momento. Giulio Ricordi, si diceva, per certe cose aveva il fiuto di un cane di razza. Intuisce le doti di Mancinelli e lo impone a Jacovacci, allora direttore del teatro "Apollo" di Roma. Si tratta senza indugio di scritturare il neo direttore d’orchestra di Perugia, per affidargli la direzione della prima romana della stessa "Aida". Questo avviene puntualmente ed il Mancinelli verrà ben presto conteso dai maggiori teatri lirici del mondo.
Costretto a vivere in mezzo agli spartiti, il Mancinelli, curioso di ogni nuovo avvenimento musicale, s'innamora, come dire? del sinfonismo wagneriano. Colpito dal misticismo infuocato dell’autore di "Lohengrin" e della "Tetralogia", egli diventerà il massimo cultore wagneriano in Italia. Fu infatti il Mancinelli che, con la fondazione della Società del Quartetto a Bologna, ebbe modo di far conoscere in anteprima alcuni brani del "Parsifal". Audace impresa la sua mettere in contatto la dura anima carducciana con l'"aquila" di Lipsia. E si deve al Mancinelli se il Carducci scrisse quell'ode in onore di Wagner dai roboanti versi: "Quando Wagner possente / mille anime intona / ai cantanti metalli..." E’ rimasta poi, famosa, negli annali del teatro lirico, la sera del 3 aprile 1880, sempre al romano teatro "Apollo", la direzione da lui condotta con giovanile ed impetuoso ardore del "Lohengrin". Wagner, che si trovava nel suo dorato raccoglimento di Posillipo, vorrà conoscere il Mancinelli personalmente e con il suo paterno abbraccio gli manifesterà così la sua profonda stima.
Ma il Mancinelli ebbe il merito di non insistere e fermarsi a Wagner. La sua incessante attività di direttore d'orchestra, oltre che a metterlo in contatto con i maggiori compositori arrivati, lo obbligava anche a considerate i giovani d’ingegno che premevano alle porte del tempio lirico. E non erano pochi in quegli anni in cui il verismo musicale cominciava a farsi strada, e, parecchi, bravi ed anche bravissimi. Ebbene il Mancinelli non solo fece delle ottime scelte, ma protesse e guidò questi giovani che si chiamavano Puccini, Leoncavallo, Mascagni, Giordano ed altri nomi magari a questi non inferiori.
Ascoltata la pucciniana "Le Villi", intuita la colorita e suggestiva vena del maestro toscano, il Mancinelli non esita a farla eseguire al Comunale di Bologna e non solo, ma con un eccellente "cast" di cantanti. E, sempre fidando nell'autentico genio pucciniano, malgrado l'infausto esito della prima alla Scala dell’"Edgar" (21 aprile 1889; dirigeva Franco Faccio un altro dei massimi direttori del tempo), il Mancinelli volle portare l'opera sulle scene del "Teatro Reale" di Madrid ed anche in questa occasione il
"cast" comprendeva quanto di migliori cantanti possedeva allora l’Italia. Citiamo: Tamagno, Tetrazzini, la Pasqua; e l'"Edgar" ottenne, se non uno strepitoso (non era possibile dato il valore diseguale dell’opera), un sincero successo. Così come, più tardi, con il concorso della Melba e di De Lucia, impose al "Covent Garden" di Londra la "Cavalleria Rusticana".
Il Mancinelli era ormai uno dei grandi maestri e proprio per questo non poteva sfuggire alle rivalità e magari alla calunnia. Si parlò di lui come d’un dittatore, d'infedeltà delle sue amicizie e di altro. Ne sorsero delle polemiche sui giornali! Chi lo difendeva e chi lo accusava. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Vale la pena di ricordare, a sua giustificazione, il seguente episodio romano. In occasione della venuta a Roma del presidente degli Stati Uniti Wilson, nel 1910, si era pensato ad una rappresentazione di "I Puritani" di Bellini e se ne era affidata la concertazione e direzione appunto a Mancinelli. Il maestro, trovando l'opera piuttosto invecchiata, rispose che accettava a patto di apportarvi alcuni rimaneggiamenti. I belliniani di Roma gridarono allo scandalo. Per un mero caso l’opera non si poté eseguire a Roma, tuttavia Pietro Mascagni, che l’opinione pubblica sosteneva essersi guastato con il Mancinelli, aveva approvato i ritocchi. Era indirettamente una smentita ai calunniatori. "I Puritani" vennero poi rappresentati al "San Carlo" di Napoli proprio con quei rimaneggiamenti, ed applauditi da un pubblico che belliniano lo era al cento per cento.
Quanto ai rapporti di Mancinelli con Verdi furono sempre dei più cordiali. Egli aveva diretto decine di volte opere verdiane sui palcoscenici inglesi ed americani: in modo particolare "Otello" e "Falstaff". E’ bene anche dire che il Mancinelli aveva sposato una intima di casa Verdi, Luisa Cora, genovese, la quale, guarda caso, abitò per parecchi anni proprio in quello stesso Palazzo Doria, a Principe, dove per quasi quarant'anni Verdi soggiornava quando veniva nella città marinara durante l'inverno.
Ma passiamo al compositore. Un direttore d’orchestra e musicista nell'anima come il Mancinelli non poteva subire il contagio della... composizione. A spigolare nel ricettario (si passi il termine) mancinelliano si trovano dei titoli piuttosto curiosi per un entusiasta wagneriano (lasciamo ad altri per competenza la consultazione degli spartiti) quali: "Paolo e Francesca", "Isora di Provenza" e un "Tizianello" (indubbiamente di ispirazione demussettiana). Musica di scena aveva anche scritto per i grandi drammi storici del Cossa, uno dei drammaturghi idoli di fine ottocento, così per "Messalina" e per "Cleopatra". La sua fama è poi consegnata anche ad un poema sinfonico che venne eseguito nel 1918, proprio durante la tremenda settimana del Piave. L’argomento era la vita di San Francesco d’Assisi, il titolo "Frate Sole", l'avevano sceneggiato Mario Corsi e Ugo Falena e il successo anche sotto l'aspetto patriottico, perché il pubblico accorreva alle esecuzioni per trarne speranza in un momento tanto difficile per l’Italia, fu grandioso. Il detto "poema sinfonico", come l’altro di poco successivo (1920) "Giuliano l’Apostata", in verità fu concepito anche come musica da film.
"Ero e Leandro", eseguita la prima volta nel 1897 e scritta quasi di getto un paio di anni prima fu però la sua opera più fortunata, degna forse ancor oggi di essere ripresa. Ma un’altra, forse più autentica opera, o, almeno, assai cara alla fantasia del suo autore, vagheggiata per lunghi anni, è il "Sogno di una notte di mezza estate" di ispirazione scespiriana, della quale era trapelato qualcosa fin da quando era in gestazione nell'idillico villino di Meina, attraverso le indiscrezioni degli amici, che l'avevano definita "ricca di melodia e di colori insoliti". Ma il compositore si dimostrava incontentabile. Nel 1917 l'aveva annunciata come pronta ma ancora nel 1919 dichiarava che non era soddisfatto, che vi faticava, avendo dovuto "scompaginare" (era il termine da lui usato) tutto il terzo atto. E Arrigo Boito, suo grande amico, che diceva come la penna del Mancinelli fosse "facile" poiché si metteva sereno e senza indolenza a "strumentare" i suoi lavori!
Così alla sua morte, a 73 anni, avvenuta a Roma (ma le sue spoglie vennero portate al cimitero genovese di Staglieno in una severa tomba dove l'epigrafe dice "Luigi Mancinelli - d'imperiture musiche - assertore, interprete, creatore"), l'opera che doveva essere il suo più ambito premio non era ancora stata rappresentata. Questo "Sogno" (tra le sue pagine più suggestive il duetto d’amore fra Lisandro ed Erminia cui fa da sfondo un amoroso canto in lontananza) apparve musica "fresca ed elegante, ricca di melodia", proprio com'era trapelato dalle primissime indiscrezioni. D'altronde, il Mancinelli stesso era solito dire che "per scrivere un’opera è indispensabile di poter disporre di abbondanza di melodia", ed egli in questo parve difettare. Lui, che aveva rimaneggiato Bellini, sosteneva questo! E fu il suo peccato veniale, di tenere troppo alla melodia proprio quando il gusto delle platee volgeva verso compositori più robusti, più veristi. Ebbene sì, furono proprio le nuove leve da lui aiutate e comprese, a contendergli il passo.
D'altronde, anche come direttore d’orchestra il fremito nervoso della bacchetta di Toscanini faceva disconoscere il fedele e grande servitore che tanto aveva fatto per l'opera lirica da meritare da Wagner l’appellativo, oggi un po' burlesco e pur sincero di "Garibaldi dei direttori d'orchestra".
Domenico Rigotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXV n.2, agosto 1972)

domenica, novembre 15, 2020

Cesare Musatti (1897-1989): le nevrosi dei musicisti...

D.
Cosa rappresentava per lei la musica da ragazzo, che rapporto aveva con la musica?
R. Avevo un rapporto con la musica principalmente legato alla personalità di mio padre, che aveva studiato violino al Conservatorio B. Marcello di Venezia, ed amava moltissimo la musica. Si gloriava spesso di quando, Wagner, poco prima di morire andò in quel conservatorio a dirigere l’orchestra degli studenti, fra cui c’era anche lui. Chi veramente aveva molta passione per la musica era mio padre. Non fece il professionista perché era avvocato, aveva già una carriera politica avviata e così suonava d’estate. Quando andavamo in villeggiatura in montagna suonava con una nostra amica pianista e mi piaceva ascoltarlo (e si mette a canticchiare un motivetto come a rivivere quei momenti).
D. Lei ha studiato musica?
R. Ho avuto la disgrazia di avere studiato un po’ di pianoforte con un’insegnante che era diventata un’istituzione in famiglia ed era obbligatoria. Insegnava a tutti i miei cugini e nessuno poi ha continuato, perché era un’insegnante fasulla, non sapeva proprio insegnare e così, purtroppo, non ho mai imparato bene la musica.
D. Ma le interessava seguire i concerti?
R. Sebbene a Venezia in quel periodo non vi fossero molte possibilità, perché l’unico teatro era "La Fenice", vi andavo spesso. Pur non godendo di una seria preparazione musicale ne avevo quel tanto che mi bastava per leggere una partitura. Ascoltavo soprattutto Wagner, perché in casa mia c’era questa grande passione per la musica di Wagner. Io andavo alla Fenice in loggione, e mi piazzavo all'estrema sinistra rispetto alla scena.
D. Perché?
R. Le opere che eseguivano le conoscevo abbastanza bene ed allora mi piaceva veder di fianco il direttore e mi appassionavo moltissimo osservare tutti i settori dell’orchestra nel loro avvicendarsi. Mi sembrava che la musica ne venisse arricchita.
D. Col tempo si sarà formato progressivamente una cultura musicale.
R. No, non molta, sempre per questa maledetta faccenda di non avere mai tempo per nulla. Ma ho un ricordo indelebile di un grande avvenimento che si tenne a Padova, nel 1922. Appena laureato sono stato assistente di psicologia in quella università. Per festeggiare il settimo centenario della fondazione dell’Ateneo vennero programmati una serie di concerti nel grande salone, che all'epoca in cui Padova era un comune serviva alle adunate popolari e come consiglio comunale. La sala quindi, non adatta acusticamente, venne fornita di tutta quella serie di accorgimenti acustici di cui necessitava. Un’emozione fortissima mi venne data dal sentire la quinta e la settima sinfonia di Beethoven dirette da Arturo Toscanini.
D. Cosa rappresenta per lei la musica ora, e quali autori ascolta più ricorrentemente?
R. I classici, in particolare Beethoven. Io ho sempre canticchiato, mentre camminavo e correvo, a seconda di ciò che stessi facendo. Anche ora, che non cammino più molto bene, mi piace canticchiare marcette o motivi che improvvisamente ricordo. Anche mentre mi allaccio le scarpe compongo nella mia testa e canticchio questi motivi che poi sono tutte reminiscenze che rielaboro un po’. Potrei dire che la mia vita si è sempre svolta con un sottofondo musicale che variava a seconda delle occasioni.
D. Non avendo molto tempo per la professione che conduce, ascolterà invece molti dischi; vedo sulla sua scrivania "Die Frau Ohne Schatten" ("La donna senz'ombra") di R. Strauss su testo di Hugo von Hofmansthal.
R. No, non ascolto molti dischi, mi diverto piuttosto a suonare la pianola elettrica inventando vari motivetti ed eseguendoli solo con la mano destra, perché non sono capace di fare l'accompagnamento. Questo disco di Strauss, che lei ha visto, mi serve per studiare il tema di una conferenza che dovrei tenere per gli Amici della Scala. Il problema dell’ombra è un problema psicologico molto interessante, il problema del doppio, del gemello, dell’identico, del ritratto, questo motivo dell’immagine di sé stessi riflessa che è uno sdoppiamento ed anche una perdita d’identità. La perdita dell’ombra è la perdita della propria identità; è per studiare questo problema che mi sono procurato il libretto ed il disco della "Donna senz'ombra". Un mio allievo, ora, sta tenendo su questo problema un corso all'Università di Milano. Questo problema è presente non solo in opere di fantasia ed è psicologicamente molto interessante.
D. "Il ritratto di Dorian Gray" di Wilde è esemplificativo di questo problema: lo sdoppiamento d'identità. Ritiene sia molto frequente fra gli artisti?
R. Si, moltissimo. Un artista può andare soggetto a complicazioni nevrotiche come ogni uomo, ma forse in misura maggiore per la forte risonanza della vita emotiva, per i fattori esibizionistici della propria persona o per i problemi di successo ed insuccesso. Lo sdoppiamento d’identità è quasi implicito in un artista: il vedere se stesso sdoppiato, il problema di obiettivare in qualche modo la propria identità.
Chi è il musicista? Il musicista quindi interprete, ricalca il compositore, ricalca l`opera d'arte scritta da un altro, s’identifica nell'opera del compositore; quindi la doppia identità è un problema che abbastanza comprensibilmente tende a coinvolgere in prima persona il musicista in particolare, come del resto anche l’attore. L’attore deve cambiare sempre personalità; quando deve recitare deve essere il personaggio che interpreta.
D. Ed il direttore d'orchestra?
R. Ha lo stesso problema ed in più il problema dell’orchestra. Perché il direttore s’arrabbia? Perché un musicista non suona bene, perché non lo segue, perché è lui che sta suonando tutti gli strumenti, suona con i gesti servendosi dei musicisti, diventa lui stesso l’orchestra intera.
D. Cosa sono i "crampi professionali" che spesso colpiscono i musicisti?
R. Ogni musicista ha un rapporto particolare col proprio strumento; il proprio strumento diventa una sorta di prolungamento del proprio corpo. Anche il direttore suona con tutto il corpo. Questa partecipazione corporea fa si che i musicisti siano particolarmente sensibili e soggetti a manifestazioni di carattere psicosomatico.
Si sviluppa una sensibilità corporea particolare che i tedeschi chiamano il "linguaggio degli organi". Gli organi partecipano interamente all'espressione del pensiero, ed a questo motivo sono riconducibili i crampi professionali, cartina tornasole di conflitti psichici interiori. Questi "crampi" sono delle piccole isterie localizzate, non sono le grandi isterie di una volta caratterizzate da convulsioni ed attacchi epilettici, che avevano tutte, comunque, un preciso significato, erano una rappresentazione, un dramma esplicito gestualmente. Ora questo tipo d’isteria classica è completamente scomparso, esiste solo in alcune zone dell’Abruzzo e nei paesi del Terzo mondo. Non si sa come mai sia scomparso, ma, quando sono stato in Cina nel '55, alcuni medici cinesi mi parlavano di vedere ancora in alcuni pazienti le stesse manifestazioni che a Parigi risalivano alla fine dell’800. Forse sono scomparse in seguito alla capacità d’interpretarle, di darvi un significato. L’attacco isterico, infatti, ha sempre un significato, è un dramma recitato in modo sommario, ma è un dramma.
Adesso non avviene il tipico attacco isterico ma l’isteria è localizzata in uno o più organi particolari, ha quindi un carattere solo parziale. Bruno Walter ne fu colpito ad un braccio, non poteva più dirigere. Ora si tratta sempre di paralisi o contrattura, ciò implica la messa fuori combattimento di un organo fondamentale al proseguimento delle proprie mansioni e quindi scaturisce generalmente da un conflitto psichico profondo.
D. Cosa e successo a Bruno Walter?
R. Bruno Walter venne colpito da una paralisi isterica al braccio destro verso il 1904 che gli impedì di dirigere per un certo periodo di tempo. Walter rimase probabilmente suggestionato da due fattori in particolare: Mahler, che per lui rappresentava un padre, gli consigliò, dopo il fiasco nella direzione del Tannhäuser di Wagner a Vienna, di accettare l’incarico offertogli a Colonia; inoltre aveva a che fare con molti critici e calunniatori antisemiti, in entrambi i casi si trattava di allontanarlo. La paralisi derivò da questi due fattori principalmente e Walter ricorse a Freud che lo aiutò nella soluzione di questo problema. Walter stesso diceva: "Cercai di familiarizzarmi con le idee di Freud, e di imparare da lui. Mi sforzavo di adattare, pur senza danneggiarla, la mia tecnica di direzione alla debolezza del mio braccio; ed a forza di apprendere e dimenticare, di sforzarmi ed avere fiducia, mi riuscì di ritrovarmi padrone della mia attività.
D. Ha avuto in analisi molti compositori?
R. Solo uno, quando era piuttosto giovane, un compositore veneziano scomparso purtroppo molto giovane, Bruno Maderna.
D. Chi è soggetto a maggiori nevrosi fra un esecutore, un direttore, od un compositore?
R. Certamente moltissimo l’esecutore; infatti il problema della musica nel tempo è di enorme portata. Nelle arti plastiche, come in quelle letterarie, o per lo stesso compositore, il prodotto che viene creato rimane ed è modificabile nel tempo. Per l’esecutore (come per l'attore) ciò che egli crea o (ricrea) si svolge ed esaurisce nel tempo. Rimane solo il ricordo ed è quindi un continuo ricreare in ogni momento, sottoponendosi a notevoli stress. Quando poi con le tecniche moderne si parla di registrazioni e quindi di fermare nel tempo un’esecuzione, gli esecutori stessi sono messi in crisi. Si apre tutto un campo nuovo in cui hanno la possibilità di scatenarsi particolari processi nevrotici, come fobie delle registrazioni, dubbi ossessivi sulla loro validità, con propositi di ritirarle o distruggerle.
D. Qual è la causa principale?
R. Questi pazienti sono di grande interesse per uno psicanalista. E' il problema della procreazione, fondamentalmente, in quanto si mandano proprie creature, divenute autonome registrazioni), in tutto il mondo; ed insieme il problema che queste registrazioni non possano essere degne di chi le ha eseguite.
D. Le sarebbe piaciuto fare il concertista, il direttore od il compositore?
R. lo sono già un compositore; quando suono sulla pianola o canticchio, compongo. Comunque credo che questi tre ruoli non possano essere così nettamente divisi, non credo che un compositore non diriga anche i suoi pezzi. Qual è quel compositore che non fa anche il direttore?
D. Oggi più di ieri, mi sembra che la maggior parte dei compositori non diriga le proprie composizioni. Perché le sembra cosi strano?
R. Non so, ma mi sembra che comporre senza dirigere il proprio pezzo diventi un’operazione in certo qual modo artefatta, che una composizione si riduca ad un puro fatto cerebrale, non pienamente vissuta. Perché una composizione sia vissuta deve essere eseguita o diretta dal creatore stesso.
D. Insomma se lei facesse il compositore vorrebbe anche dirigere la "propria creatura"?
R. Sì, se fossi compositore vorrei certamente dirigere tutti i miei pezzi.
D. Del problema del contemporaneo in arte, cosa ne pensa?
R. Il contemporaneo fa sempre un brutto effetto. Nel campo artistico l'innovatore è sempre qualcuno che tenta una via nuova e quindi difficilmente è riconosciuta dal pubblico o dai canali della critica ufficiale. E' sempre necessario molto tempo, prima che questo riconoscimento avvenga; alle volte ci sono persone di particolare intuito che "fiutano" il successo dell'innovatore. La maggior parte delle volte, invece, si parla di successo ritardato per l’innovatore, perché rompe certi schemi a cui il pubblico è abituato, e in cui vorrebbe sempre ritrovare anche i nuovi artisti. C’è sempre, nell'artista contemporaneo, il problema dell’incomprensione. Il nuovo artista ha sempre l'esigenza di creare qualcosa d’innovativo, di ricercare nuovi modi d’espressione ed è quindi naturalmente in contrasto col proprio pubblico, finché la spunta.
Fulvia Riccardi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXIX n. 1, gennaio 1986)

sabato, novembre 07, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (14/14)

I Quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini
della casa editrice come le patate in cantina.
Tutte le opere hanno questo carattere di "cosa"...
Ma che cosa sarebbero senza di esso?
Martin HEIDEGGER, Holzwege, I, 1
 
MUSICA SENZA FILOSOFIA
Quattordicesima (ed ultima) parte.
 
Filosofi come Martin Heidegger e Theodor Wiesengrund Adorno sono stati e sono lontanissimi tra loro, non soltanto per le vicende umane e le scelte che li fissano nella nostra memoria a un'immagine e talvolta a un demerito, fonte di rovinose conseguenze, ma soprattutto per l'angolo visuale dal quale ciascuno di essi si è riconosciuto in una propria origine. Senza dubbio, se i filosofi si dedicassero ad osservare gli esiti del loro pensiero, anziché scavare continuamente nel proprio terreno, il panorama apparirebbe più ordinato e omogeneo. Si dice spesso che è l'eterogenità del moderno che rende caotico l'orientamento intellettuale, ma la vera fonte di tale eterogeneità è piuttosto il passato.
Eppure, un'acutissima frustrazione vissuta con disincanto che è spesso sconsolato senso di sconfitta accomuna Heidegger e Adorno, e con loro un'intera generazione di maestri. La frustrazione è lo stato soggettivo lasciato nelle coscienze filosofiche da un volitante paradosso, uccello di malaugurio della nostra epoca. Anzi, da una catena di paradossi. Il pensiero moderno, irrobustito dalla scienza, si è teso nello sforzo immane di oggettivare il mondo. Nella sua fase culminante, al colmo del suo progetto di rafforzare al massimo grado lo strumento di tale oggettivazione, cioè l'Io pensante, la ragione, la Vernunft kantiana, ha dovuto ammettere che l'irrobustimento del pensiero pensante era divenuto ipertrofia del soggetto-pensiero, troppo vigoroso e corazzato per non schiacciare inevitabilmente il mondo, ridotto a un fantasma. Il mondo era divenuto pensiero, l'oggetto era stato interamente assorbito dall'Io penso, il noumeno sfuggiva dietro il fenomeno poiché il vero noumeno era il soggetto teso a distinguere tra fenomeno e noumeno. Tutto il mondo era divenuto fenomenico, quindi soggettivo. Ma poiché lo sforzo oggettivante era inarrestabile, l'oggettivazione, al di là degli intenti, si era attuata, ed è ingigantita negli ultimi due secoli; solo che le verità non si erano oggettivate in realtà, bensì in "cose", ingombranti testimoni di un divorzio tra io e mondo.
Verità suprema, l'arte; tanto più dolorosa la sua reificazione. Ancora più dolorosa la reificazione della musica, fra le arti la più libera, per qualità e definizione, dal rischio d'identificarsi con una merce o con un relitto dei tempi. Le opere dei pittori e degli architetti "appartengono" in quanto tali a qualcuno, o a una collettività (spesso, ahimé, allo Stato). La Primavera di Botticelli è quel quadro, non è un universale, ed è agli Uffizi e non altrove. Non è un universale, anche se significati universali vi si nascondono. La cattedrale di Chartres è quella e non altra, e il tempo la logora materialmente; una volta distrutta, sarebbe distrutta per sempre. La poesia non dipende dalla sopravvivenza di un oggetto materiale, ma la possibile scomparsa del suo veicolo linguistico e del suo codice semantico ne vanificherebbe l'esistenza. Sarebbe anch'essa una distruzione. La musica, per natura, sembra indipendente da ogni materia collocata hic et nunc nello spazio e nel tempo, è un'idea capace d'incarnarsi in eterno in un'esecuzione, o anche in una rievocazione puramente mentale. Tuttavia, anch'essa è divenuta "cosa". E' soggetta allo scambio di favori, al mercato, all'industria che la riproduce e la contrassegna con una graduatoria di pregio, persino con un cartellino di prezzo. E' usata come lenocinio attraente per vendere meglio una merce. Nell'era della riproducibilità tecnica, secondo la geniale analisi-denuncia di Walter Benjamin, anche la musica subisce logorìo e degrado.
Qui s'inserisce un altro paradosso. La reificazione della musica (dell'arte) è l'umiliazione del musicista compositore (dell'artista), soprattutto del musicista di oggi rispetto a quello di ieri. Ma la reificazione è divenuta un processo inevitabìle nel momento in cui l'artista si è fatto avanti con prepotenza irrompendo nell'opera d'arte. Ogni opera d'arte, ogni musica ha materialmente e storicamente un autore, ma la realtà integrale di una musica (di un'opera d'arte) è il suo essere nel mondo, non il mero evento della sua nascita. Sono esistite fasi in cui l'opera è più importante del suo autore, invisibile nell'alone che essa irradia, e in cui l'arte in quanto universale possibilità e nodo di possibili realizzati o non realizzati è più importante dell'opera "già fatta". L'artista si nasconde dietro la propria creatura, si avvolge nel proprio sistema universale di norme e di potenzialità: o plasas efanisen è l'immortale frase di Aristotele: "è proprio dell'artista scomparire" per dar luogo all'arte che lo trascende. Nell'arco di tempo che vede l'artista, non più "mastro" ma "Maestro", assumere individualità traboccante, l'opera d'arte si individualizza, assume concretezza ma tende a farsi "cosa". Il momento in cui essa ridiventa più importante del suo autore (i Girasoli di Vari Gogh valgono oggi agli occhi dei nostri contemporanei incomparabilmente più di quanto i contemporanei del pittore non valutassero lui, pover'uomo impresentabile in società) è la sua vendetta; ma un'amara vendetta, che fissa l'opera e la rende schiava. Decisivo, infatti, non è di quanto l'opera sia valutata più del suo autore, ma che ad essa sia inflitta una valutazione quantitativa.
Sulla reificazione della musica convengono dunque filosofi diversissimi come Heidegger, Benjamin, Merleau-Ponty e Adorno. E' Adorno colui che più ha battuto su questo chiodo, e tentando di capire il suo stato d'animo vogliamo concludere questa nostra serie di note sul rapporto tra musica e filosofia. L'atto filosofico e quello artistico sono inassimilabili e spesso ostili, tanto da escludersi dinanzi a verità estreme; un tratto essi hanno in comune, ed è la libertà dalla dialettica storica cui soggiace l'atto economico, politico e giuridico, ma anche l'atto etico, la cui relatività è fuori discussione. La filosofia di Adorno è pensiero debole, tanto critico e analitico da porre in discussione le stesse categorie della scepsi, e segue l'esistente, descrivendolo a posteriori, per catturarlo meglio e per frantumarlo. Così il pensiero debole ha una sua amara unità, e poco o nulla è in esso determinante la cosiddetta evoluzione delle idee. Ascoltando le parole di Adorno possiamo seguire un percorso a ritroso, indifferente al prima e al poi, e partire dai suoi testi più tardi per approdare a quelli del periodo di mezzo. La Negative Dialektik, scritta tra il 1959 e il 1966, nega in primo luogo la condizione attuale del mondo e apre la visione su ciò che non è, sull'utopia. La condizione denunciata è anche la condizione attuale dell'arte e in particolare della musica, fra le arti la prediletta da Adorno, musicista e compositore in proprio. Il libro negherebbe così anche la musica a noi contemporanea e la legittimità di chi la produce, così come negherebbe la filosofia di oggi e dichiarerebbe impossibile essere filosofi oggi. La negazione ha un palese sapore marxiano. Eppure, Adorno rivendica la filosofia contro la condanna di Marx poiché "è stato mancato il momento della sua realizzazione", la rivoluzione non c'è stata o è abortita, e quindi il pensiero filosofico deve continuare ad opporre alla malsana totalità dell'esistente il suo gesto dimesso e insieme deciso, impotente e insieme suggestivo. In questa prospettiva, il musicista (l'artista) deve rifiutare qualsiasi integrazione nel sistema economico, pubblicitario, professionale, poiché una sua omogeneizzazione avrebbe in sé la stessa logica di Auschwitz: la negazione di ogni significato individuale, fino all'eliminazione fisica dell'individuo. Nella Aesthetische Theorie uscita postuma nel 1970, un anno dopo la morte dell'autore, Adorno sviluppa i temi precedenti in una generale visione delle arti in cui la musica ha, come sempre in lui, la funzione più rappresentativa e riassuntiva, trattandosi di un caso estremo. Non esiste storia delle arti come evoluzione, ma un insieme di nodi e di fratture. I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità della musica moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente la compattezza del sempre uguale. L'esplosione è una delle invarianti della musica moderna. La musica di oggi è un mito rivolto contro se stesso; "nell'atemporalità del mito, l'attimo che spezza la continuità temporale trova la sua catastrofe". La nostra postilla a questa frase di Adorno è: ciò che rende terribile il rapporto odierno tra musica e pubblico è la necessità della musica di oggi, l'unica sua possibile autenticità.
La musica, continua Adorno, è il modello strutturale del nostro tempo. "Il rapporto della musica con il tempo musicale inteso in senso formale si determina unicamente nella relazione che con esso ha il concreto accadere musicale". Ma oggi la musica si ribella contro l'ordinamento temporale voluto dalla tradizione. Ne deriva che oggi la musica, se vuol essere nuova, dev'essere senza eccezioni un atto violento. Di tale atto violento, Adorno ha vissuto in pieno l'esperienza come compositore in prima persona. La sua scelta di vita e di pensiero contro il "sistema musicale" costruito dalla tradizione e identificato con l'esistente come categoria filosofica lo attrasse per consonanza naturale verso il radicalismo della Wiener Schule, ma il riconoscimento del nominalismo astratto connaturato nella tecnica di composizione con dodici suoni (Zwölftontechnik) lo ha reso a sua volta un "eretico rispetto a ciò che la Wiener Schule aveva eretto ad ortodossia", come ha scritto Clytus Gottwald, che di Adorno fu stretto amico, a proposito dei Frauenchöre di lui. Nel mondo d'oggi, la reificazione della musica fa sì che sia "cosa" qualsiasi aggregato di suoni, qualsiasi sistema, quindi anche una serie costruita secondo la Zwölftontechnik. La forma, quale che essa sia, è già un apparato consolatorio; essa va fatta esplodere. Altrimenti (ed è questa l'idea fondamentale circolante nella Philosophie der neuen Musik, del 1949) ogni possibile autenticità rischia di essere sacrificata al suo altare. Il dilemma adorniano è tra la distruzione dell'autenticità nella musica (quindi, la sua fatale traduzione in "cosa") e la distruzione dell'esistente (quindi, la cancellazione di ogni possibilità "storica" per la musica d'oggi). Mai come nella seconda metà del nostro secolo, in fondo più "tradizionale" nei prodotti musicali che non la prima metà, la filosofia si è allontanata da qualsiasi funzione giustificativa nei confronti della musica, e la musica, di conseguenza, non ha oggi una filosofia cui riferirsi. In questa fin-de-siècle la musica non ha alcuna intenzione di realizzare la profezia di Adorno il possibile e addirittura prossimo avvento di una lunga era senza musica - ed appare anzi inventiva e fertile, così come la filosofia mostra una grande forza amalgamatrice nei confronti della cultura e della società. Il vuoto filosofico della musica d'oggi deriva, piuttosto, dal fatto che la filosofia ha "sospeso il giudizio" sulla musica, e questa epoché trattiene o rallenta i nostri passi. Il territorio della musica è vasto, ma dove sono i segnali indicatori? 0 se ve ne sono, somigliano fin troppo a quelli delle autostrade intersecate da raccordi anulari, dove l'eccesso di zelo semiotico indica, ad un tempo, troppo e nulla.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 3, Marzo 1991, Anno XV)