Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 18, 2023

Mahler, non Mahler

Il cinema può usare la musica in due modi: 
come commento musicale di sottofondo nella colonna sonora (a volte raffinatissima e strettamente coordinata all'immagine; vedi l'inevitabile esempio di Prokofiev per Alexander Nevskij) e come argomento. Nel secondo caso è praticamente indispensabile includere anche il primo, perché la musica come argomento risulta parecchio insipida se non c'è niente da ascoltare; e non certo in un film si fanno comparire pagine di partitura, nemmeno nei paesi dove si può far partecipare il pubblico alla parte musicale di uno spettacolo semplicemente dandogli all'ingresso una pagina di musica da leggere; in Italia, poi, sarebbe una barzelletta.
Quale argomento, la musica può entrare nel film o come biografia più o meno romanzata di un musicista, o come episodio musicale in una vicenda qualunque; e può succedere che il brano, la composizione musicale che si ascolta in quell'episodio diventi anche il motivo base di tutto il sottofondo-commento: così, mi pare, era in Breve incontro, con il Secondo Concerto di Rachmaninov suonato da Eileen Joyce. A parte il suo carattere emotivo, questa composizione non aveva niente a che fare con la vicenda del film. Ne aveva parecchio, invece, in un altro film, dove si vedeva Arthur Rubinstein suonarla: e i due film aggiunsero alla celebrità del Secondo Concerto anche una popolarità non molto nobile e abbastanza tipica. Quella, per intenderci, che affligge Schubert e la sua Sinfonia in si minore, meglio nota come Incompiuta, da quando circolò il film Angeli senza paradiso. E poiché là dentro, dandosi l'aria di raccontare la vita di Franz Schubert, si faceva intendere non so più che sciagurato movente amoroso come causa della incompiutezza, le conseguenze furono due:
a) la gente credette che quella fosse l'ultima sinfonia di Schubert e che fosse rimasta "incompiuta" alla sua morte precoce;
b) oltre all'Ave Maria, diventò popolare anche l'Incompiuta: o meglio, quel motivo cantabile che nel primo tempo della Sinfonia stessa funge da 'seconda idea', in mi maggiore; popolare non molto diversamente da come intende Adorno, nel descrivere l'ascolto basato sui motivi e i motivetti, che secondo lui costituirebbe il feticizzante "consumo" della musica nella nostra società, incoraggiato dai direttori e dai concertisti che ai «motivi» darebbero troppo rilievo.
Ma non è ora il caso di discutere sul generalizzare adorniano; torniamo invece al cinema. Il discorso che ho fatto fin qui non è, come può sembrare, una divagazione in superficie: ricorda, invece, come nel cinema (e al cinema) i rapporti fra la musica e il pubblico, che qui è prima di tutto pubblico cinematografico, finiscano per essere anche rapporti di diffusione, anche quando gli autori del film abbiano altri scopi. Un elzeviro di Michele Prisco prende spunto proprio dal film che più ci interessa, Morte a Venezia, ed è mosso soprattutto da codesto fatto della diffusione e, in particolare, dal livello al quale avviene: «in ogni caso molto volgarizzata, nonostante tutta la nobiltà dell'operazione, alla massa inerte degli spettatori disseminati nel buio delle varie sale anche ai patiti di Rita Pavone e Celentano»...
Per non rischiar di deformare il senso del discorso di Prisco, dovrei riprodurre gran parte del suo elzeviro: ma porterei via spazio e rischierei di uscir dal seminato; avvertirò che lo scrittore esprime inquietudini e sensazioni sue personali, si preoccupa che il discorso possa essere «a suo modo classista, o forse, peggio, razzista»; e raccomando a chi creda di giudicarlo, di andarselo a leggere tutto. A me interessa ora che Prisco, di tutto quanto contiene il film Morte a Venezia, si preoccupi solamente della musica e dell'effetto che produrrà non tanto vedere raffigurato nel protagonista del film un musicista, non tanto sapere adombrata in questa figura quella di Gustav Mahler, ma ascoltare la musica di Mahler nella colonna sonora. Tralascerò presto la sua reazione personale (è, dice, «un patito della musica di Mahler, e il suo è un singolare moto di gelosia: la gelosia di chi vede un sentimento privato o un ricordo personale o un bene prezioso tutto suo messo in pubblico...») ma questa ci ha portato quasi senz'accorgercene dentro all'argomento: cioè a quanto di musica, e quanto di Mahler ci sia in Morte a Venezia, film di Luchino Visconti.
Fra i casi accennati all'inizio, Morte a Venezia è cosiffatto: la musica ne è argomento, sia perché il protagonista è (per volere di Visconti) un musicista, sia perché questi più volte nel corso del film argomenta sulla musica; però la colonna sonora riproduce soprattutto composizioni che la vicenda attribuisce a quel musicista, ma che non vengono eseguite in quelle parti del film durante le quali si ascoltano, salvo brevissimi istanti: diventano «commento musicale», insomma (e come tali rischiano quel che Prisco teme). Ma è chiaro che non è tutto qui. E potremmo dire che i contenuti musicali e i riferimenti alla musica anche come riferimenti a un dato musicista variano a seconda dell'ascoltatore. Tant'è vero che, a livello di informazione giornalistica, Morte a Venezia ha sollevato due curiosità: se veramente Mahler fosse un tipo come l'Aschenbach del film, e se tutta la musica che c'è nella colonna sonora fosse sua.
Anche qualcuno che pur sapeva come nel racconto di Thomas Mann La morte a Venezia (Der Tod in Venedig) il protagonista fosse non musicista ma scrittore, pensa che tra quella figura e quella effettiva e vissuta di Mahler ci sia poca differenza, o che bastasse un niente a trasformar l'uno nell'altro: un niente che poteva essere anche soltanto la scena in flashback del funeralino della bambina (com'è noto, Mahler perdette veramente una delle due piccole figlie).
In sostanza, la domanda può diventare: perché e fino a che punto c'è Mahler nel film Morte a Venezia di Luchino Visconti, tratto da La morte a Venezia di Thomas Mann?
A «perché Mahler» sia Visconti che i suoi esegeti ufficiali rispondono con una spiegazione che Antonio Banfi avrebbe ascritto alla 'fenomenologia della cultura': e nel riferirmi al filosofo italiano non posso fare a meno di notare come il suo nome e il suo pensiero 'leghino' con il nodo di intenzioni e di 'Weltanschauung' che collega Thomas Mann a Mahler, se è vero che in Georg Simmel (uno degli ispiratori più fecondi del Banfi) si può trovare definito il «tempo psicologico» di Mahler: così avverte Luigi Rognoni, che del resto, come allievo di Banfi, era specialmente preparato a cogliere rifrazioni del pensiero simmeliano. E lo stesso Thomas Mann, pedina 'primaria' nel gioco fenomenologico che ci interessa, cita Simmel proprio a proposito di Venezia, vista (pare evidente) pensando a Der Tod in Venedig, e a proposito di un aggettivo che sembra essere l'insegna di Morte a Venezia e che si attaglia anche alla musica di Mahler (ma non soltanto alla sua): «ambigua». «...e la città ambigua nel pomeriggio. Ambigua è davvero l'aggettivo più modesto che le si possa attribuire (glie l'ha dato Simmel), ma le si addice stupendamente...»
Dicevo dunque che Visconti e i suoi esegeti spiegano la scelta mahleriana con l'effettivo legame fra certe altre scelte precedenti di Visconti, in particolare di quella manniana (fin da Mario e il mago come balletto); appunto i percorsi della 'fenomenologia della cultura' approderebbero, dopo quella partenza, ancora a Mahler non essendo stato abbandonato Mann; per Morte a Venezia lo stesso Mann, sappiamo, aveva richiamato Mahler, più o meno a ragione nel suo Der Tod in Venedig. Visconti poi, sollecitato da Micciché, ammette che ci siano delle «coincidenze nominalistiche fatti che mi sono accaduti di frequente, forse istintivi...», cioè un personaggio del suo precedente film La caduta degli dèi che si chiama anche lui Aschenbach come il protagonista di Der Tod in Venedig e di Morte a Venezia, e addirittura il Franz di Senso che si chiamava Mahler (e così volle Visconti: nel racconto di Camillo Boito il tenente si chiama Remigio Ruz). Aggiunge, però Visconti:  «Ma in Senso c'era la musica di Bruckner, che fu maestro di Mahler, e dunque... il riferimento specifico mahleriano non era né isolato né casuale». Come «riferimento specifico», mi sembra un po' troppo vicino alla faccenda delle «coincidenze nominalistiche», cioè non sembra andar oltre la superficie di un richiamo psicologico, anche se affiorante da conoscenze e da una cultura molto più sostanziose.
Ma poco più in là leggo ancora, dichiarato da Visconti: «vi è infine da aggiungere che già per La caduta degli dèi avevo intenzione di usare la musica di Mahler»... . Non lo fece soltanto perché i produttori gli assegnarono un compositore loro per i commenti musicali. E qui si deve notare, intanto, che, per quanto si voglia considerare continuo il circuito delle idee viscontiane, La caduta degli dèi sembra essere considerato, anche da Visconti, il più lontano da Mann; e che dunque ci sarebbe stata in Visconti, non inconscia come nei «nominalismi», non vaga come nel richiamo attraverso Bruckner, una recente 'voglia di Mahler': e. si badi, non al livello di argomento, ma - come per la Settima di Bruckner in Senso - al livello più modesto del commento musicale. Dunque si direbbe che si siano incontrati due fenomeni: da una parte il circuito di idee, ('fenomenologia della cultura') dall'altro il cosiddetto boom mahleriano che sta prendendo ormai tutte le caratteristiche di una moda. A questa moda, mancava ancora il contributo di una colonna sonora cinematografica; persa l'occasione della Caduta, Visconti vi ha provveduto puntualmente adesso con Morte a Venezia. Intendiamoci, non credo che Visconti avesse bisogno di essere investito da una moda mahleriana per usare Mahler; però non penso sia vergognoso per nessuno aver ricevuto, magari inconsciamente, una sollecitazione anche da quella parte.
Prima di proseguire, però, devo giustificare l'etichetta di «moda» a proposito di Mahler. Potrà sembrare strano che lo dica proprio io: una ventina d'anni fa, quando da noi quasi tutti quelli che non ignoravano Mahler continuavano a ripetere i luoghi comuni accreditati da certi manuali (epigono wagneriano, musica da direttore d'orchestra e via dicendo) mettendolo nel mazzo dei prolissi e noiosi assieme a Bruckner, il sottoscritto era fra i pochissimi che cercavano di far capire al prossimo come tutto questo fosse perlomeno inesatto. Naturalmente, non ho affatto cambiato idea; so anche come «repetita juvant», e quanto abbiano giovato alla diffusione di Mahler le incisioni integrali su dischi con nomi prestigiosi come quello di Bernstein; mi rendo conto anche come la nostra epoca sia più adatta a cogliere il senso di una musica piena -di 'arrières-pensées' quale è quella di Mahler; però mi sembrano un po' strani gli entusiasmi di tanta gente, che fino a cinque minuti fa non andava molto oltre la canzonetta e adesso delira per sinfonie da centoventi minuti, una volta giudicate barbosissime (e se anch'io fossi «geloso» come Prisco?...).
A questo punto, conviene dare per conosciuti tutti i nessi esistenti fra Der Tod in Venedig di Mann e Mahler: cioè, riassumendo, che Mann dichiaratamente (vedi le sue lettere) si riferì a Mahler morto da poco per il protagonista di Der Tod in Venedig sebbene ne avesse fatto uno scrittore (11), non certo per somiglianze biografiche, ma, se mai, per assonanze di contenuti artistici; che il musicista Leverkühn, protagonista di Doktor Faustus (libro scritto molti anni dopo da Mann) adombra, sì, Schoenberg, ma al tempo stesso, vagamente, anche Mahler, e in certo modo riprende idealmente il tema di Der Tod in Venedig. E conviene passare a un breve esame di ciò che riguarda la musica in generale e Mahler in particolare nel film Morte a Venezia. Intendo 'musica' in senso larghissimo: storia, biografia, composizioni, esecuzioni, riferimenti di ogni sorta.
Prima di tutto: il protagonista di Morte a Venezia, Gustav von Aschenbach, è o non è, in realtà, Gustav Mahler?
Cominciamo con la somiglianza fisica. Nel film l'attore Dirk Bogarde è truccato in modo da somigliare vagamente allo stesso Thomas Mann, con i baffetti e gli occhiali; ma cerca di somigliare anche a Mahler, soprattutto per la fronte e l'attaccatura dei capelli. Dovrebbe trattarsi del Mahler anziano; questo, però, portava occhiali ma non aveva più i baffi, che aveva portato invece da giovane; inoltre, da giovane il suo naso non si era ancora incurvato, mentre era molto ricurvo verso il basso negli ultimi anni.
La somiglianza del viso di Aschenbach con quello di Mahler e un po' più accentuata nei brevi «flashback», quando appare più giovane sì, ma senza baffi. Nell'insieme, però, l'Aschenbach del film non somiglia a Mahler, anche per le proporzioni del viso, assai meno allungato.
Meno che mai la vicenda di Aschenbach ha a che fare con la biografia effettiva di Gustav Mahler; né il tono vago e quasi irreale della narrazione cinematografica può trasformare chiaramente la vicenda stessa in un simbolo, quasi che Mann e più ancora Visconti intendessero la morte precoce di Mahler (aveva cinquantun anni) come dovuta ad una specie di distruzione del fisico incapace di inseguire ideali di bellezza impossibile, fino a morirne.
Qualunque finzione letteraria diventa più diretta e definita quando sia trasferita in un film, malgrado i più sottili e raffinati presupposti espressivi e intellettuali. Qui, il fatto che più colpisce è l'improvvisa attrazione («ambigua» ma non tanto) che Aschenbach prova per il bellissimo ragazzo polacco Tadzio; fra tante contaminazioni e ambivalenze che promanano da tutto questo affaire letterario-musicale-cinematografico, si potrebbe anche credere che nella vita del vero Mahler ci fossero stati veramente episodi simili, interpretabili anche come simboli del suo travaglio artistico; e questo non è assolutamente. Mahler ebbe, sì, delle difficoltà psichiche, delle nevrosi, tant'è vero che andò anche a consultare Siegmund Freud; ma non risulta che in lui ci fosse niente di sessualmente equivoco. Nel film ci sono, è vero, alcuni episodi che non sono tratti dal racconto di Mann; e fra questi, due si riferiscono chiaramente alla vita di Mahler: i suoi giochi in campagna con la moglie e la bambina, e il funerale della piccola.
Mahler perdette effettivamente la sua primogenita che aveva solo cinque anni (la moglie Alma lo accusò di aver chiamato la sventura, poiché aveva composto poco tempo prima i Kindertotenlieder); ma questo non basta a far corrispondere Aschenbach con Mahler.
L'episodio del 'fiasco' (Aschenbach dirige una sua nuova composizione e viene fischiato) non si può riferire invece alla biografia di Mahler: i suoi veri insuccessi (due, a Budapest e a Monaco, con la Prima e la Quarta) sono del 1889 e del 1901, dunque non c'entrano col periodo finale; nel 1910 Mahler aveva diretto a Monaco 1'Ottava con i famosi mille esecutori, davanti a tremila persone, ed era stato acclamato per mezz'ora. In quell'occasione aveva conosciuto Thomas Mann. Se mai, ricorda un altro musicista immaginario, invenzione letteraria. di Romain Rolland: il protagonista di Jean-Christophe, libro che venne scritto anch'esso attorno al 1910. Visconti e lo sceneggiatore Badalucco hanno introdotto poi un personaggio che può ricordare il Serenus del Doktor Faustus: un altro musicista, un po' seguace e un po' collega, anche un po' 'doppio' secondo la poetica dei Romantici (in fondo, qualcosa
di hoffmanniano, di 'Kapellmeister' Johann Kreisler è pur rimasto, in tutti questi musicisti inventati, fino al Faustus). Quest'altro musicista, Alfried, discute più volte di musica, o meglio di estetica e di intenzioni artistiche con Aschenbach. Esempio tipico: «L'arte è la fonte più alta dell'educazione! L'artista deve essere esemplare... Un esempio di equilibrio e di univocità», afferma Aschenbach; e Alfried gli risponde: «Univocità? Ma l'arte è ambigua, sempre. E la musica è più ambigua delle arti... E' l'ambiguità elevata a sistema».
Alberto Moravia, recensendo il film su «L'espresso», ha creduto di riconoscere questi dialoghi come provenienti dal Doktor Faustus di Mann. Ma, come conferma anche Lino Micciché, in realtà essi derivano solo indirettamente («quasi soltanto ad sensum») dal materiale ideologico del Faustus, e risentono poi di altre opere manniane, non solo, ma riprendono più o meno vagamente anche scritti di Mahler; uno ripete testualmente parte di una lettera scritta da Mahler alla moglie Alma. Né a Mahler né all'Aschenbach di Mann si riferisce poi l'episodio della ragazza di piacere, ma ancora al Leverkühn del Doktor Faustus; difatti la giovane prostituta si chiama Esmeralda, come quella che 'contagia' Leverkühn; anche la nave sulla quale Aschenbach arriva a Venezia, nel film si chiama Esmeralda: nominalismo simbolico.
Al musicista Aschenbach, il film 'presta' la musica di Mahler: precisamente, tutto l'«Adagietto» in fa maggiore (quarto e penultimo tempo della Sinfonia n. 5 in do diesis minore) il quarto tempo della Sinfonia n. 3, che è un lied per contralto su testo di Nietzsche, e l'inizio del quarto tempo (finale) della Sinfonia n. 4, che è pure un lied, Das himmlische Leben dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn, tanto importante nella poetica di Mahler. Che si voglia «prestargliela», ad Aschenbach, questa musica, e non soltanto farne un sottofondo di commento, è evidente perché l'«Adagietto» della Quinta non solo si ascolta più volte eseguito in parte (e una volta per intero) dall'orchestra senza un riferimento diretto all'azione, ma si vede e si ascolta Alfried suonarne 1'inizio al pianoforte; ancor più direttamente, le prime battute del finale della Quarta vengono suonate ancora al pianoforte da Alfried, con questa precisa affermazione, rivolta ad Aschenbach: «...La senti, no? La riconosci, vero? E' la tua..., la tua musica!». E' da notare che il frammento di Quarta sinfonia suonato al pianoforte, nella colonna sonora del film è preso da un disco dove è incisa una esecuzione che Mahler stesso registrò col famoso apparecchio Welte-Mignon che si applicava a uno speciale pianoforte Steinway. E' un 'autenticismo' un po' obliquo, perché nel film si vede suonare Alfried, non Aschenbach.
Quanto al Lied dalla Terza Sinfonia, vien fatto ascoltare in corrispondenza alla immagine di Aschenbach che, sulla spiaggia del Lido, si mette a comporre, ispirato dalla visione di Tadzio. Evidentemente, si vuol far capire che compone quella musica. Il testo è il Canto di mezzanotte dallo Zarathustra di Nietzsche, ed è facile riferirlo alle visioni e ai tormenti di Aschenbach: «O uomo, attenzione! Che dice la profonda notte? Io dormivo! Fui svegliato da un profondo sogno. Il mondo è profondo e più profondo di quanto ricordi il giorno... Profondo è il suo dolore. Gioia, gioia più profonda di quanto il cuore sopporti».
L'«Adagietto» della Quinta sinfonia è un Mahler abbastanza diretto, senza quel gioco di 'personaggi musicali' che crea spesso nelle sue sinfonie un vero e proprio teatro di musiche basato sulle reminiscenze, sul 'Kitsch', sulle citazioni proprie e altrui.
La cosa è parsa strana, si direbbe, agli esegeti mahleriani; ed ecco che si sono affrettati a trovare almeno una autocitazione, non proprio esatta ma soltanto «identica dal punto di vista ritmico e, per così dire declamatorio», come precisa Rognoni : due battute del Lied da Rueckert Ich bin der Welt abhanden gekommen (una delle più belle pagine di Mahler, dalla lentezza intensa e come sospesa nell'aria); certo, a furia di trovare in Mahler riferimenti alle musiche sue e a quelle altrui, si rischia di vederli anche dove non ci sono. A questa stregua, si potrebbero considerare derivazioni reciproche i molti passi dove Mahler adopera un tipo di frammento melodico evidentemente a lui caro, che inizia salendo due volte di grado (due toni, o un tono e un semitono) e prosegue con un salto ascendente di terza o di quarta.
L'«Adagietto» è musica dal timbro dolce (archi e arpa), e dal sapore agrodolce: bastano a inasprirla appena alcune dissonanze di 'seconda 'minore' (do diesis alle viole, contro re bequadro ai primi violini; fa bequadro ai primi, sol bemolle ai secondi violini); ad addolcirla, tre (di numero) unissoni fra arpa e violini; a renderla struggente il movimento delle parti, rallentato il più possibile, nella chiusa.
Posso capire la «gelosia» di Prisco, nel vedere il cartello fatale («da questa sinfonia è tratto il celebre Adagietto del film Morte a Venezia»), accanto ai dischi della Quinta nelle vetrine dei «negozi discografici». E qui è il momento di accennare all'esecuzione delle musiche di Mahler nella colonna sonora del film, con l'orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia diretta da Franco Mannino: una interpretazione veramente bella, intensa, soprattutto nell'«Adagietto». In genere ci sono due criteri per interpretarlo: uno intende «Adagietto» come «non molto adagio» e tiene un tempo più scorrevole: vedi Bruno Walter o Barbirolli; l'altro, intende «Adagietto» come «Adagio breve» e «piccolo» (anche secondo l'organico orchestrale), e rispetta il «Sehr Langsam» scritto in partitura: vedi ad esempio Bernstein, e nel nostro caso Mannino. Nel Lied della Terza canta con voce calda il contralto Lucretia West.
Nei titoli 'di coda' del film si legge semplicemente: «Musiche di Gustav Mahler dalla III e V Sinfonia»; così si è rischiato di far prendere per Mahler anche qualche altra composizione che fa capolino nella colonna sonora; c'è la Bagatella «per Elisa», strimpellata con un dito da Tadzio e poi a due mani da Esmeralda: troppo celebre perché non si sappia che è di Beethoven; ci sono operette e valzer viennesi, suonati con stanchezza ammalata da una orchestrina; ma c'è anche una nenia cantata da Mascia Predit senza accompagnamento: sulle prime può parere una canzone polacca, invece non soltanto è russa, ma è di Mussorgskij. Ebbene, c'è stato il rischio che qualcuno la prendesse per Mahler, anche quella (e anche nell'elzeviro di Prisco c'è il rischio di capire che lui la creda di Mahler).
Qualche aspetto secondario, adesso; e qualche appunto che l'occhio del musicista suggerisce, quasi pignoleria dettata dalla deformazione professionale. Per esempio: si vedono Aschenbach e Alfried lavorare al pianoforte, tenendone il coperchio tutto sollevato, come se stessero dando un concerto; ma i musicisti di solito (vorrei dire di regola) quando compongono al pianoforte tengono il coperchio abbassato; direi che in genere non scoperchiano mai la coda, e per lo più tengono tutto chiuso, posando il leggio sopra il coperchio. Poi, ci sarebbe da divertirsi a indagare presso gli archivi delle fabbriche per sapere se già nel 1910 fossero in circolazione pianoforti a coda con gambe e cetra lisce e quadrate; è possibile, perché si tratta di elementi liberty; però uno dei vari pianoforti che si vedono nel film sembra veramente un po' troppo recente: soprattutto per quel leggio pieno e squadrato, invece che sagomato e traforato. Pignolerie, certo; ma proprio un ambientatore minuzioso e raffinato come Luchino Visconti fa venir voglia di sottilizzare.
Molti si chiedono se non sarebbe stato più netto lasciare che Aschenbach rimanesse scrittore, com'era nel racconto di Mann. Visconti obietta che è più adatto al cinema presentare un musicista, perché la musica si può far ascoltare, mentre non è altrettanto agevole far 'leggere' brani letterari. E' vero; ed è anche vero che sarebbe praticamente impossibile far ricorrere le eventuali citazioni letterarie come Visconti ha fatto con l'«Adagietto», trasformato in motivo conduttore del commento musicale, e al tempo stesso in «citazione creativa». Poi, c'erano i complicati motivi ideali, i circuiti di idee, le intenzioni nascoste, le anticipazioni in Thomas Mann, da Der Tod in Venedig al Doktor Faustus, per cui il musicista, Mahler o non Mahler, aveva covato a lungo sotto la cenere. Ma riunire e far emergere alla luce questi motivi sotterranei è sempre una operazione molto delicata. Una massima teatrale antica, classica, raccomandava di non mostrare mai in scena i morti. Qui il «morto» è invece una cosa viva e instabile, «ambigua», la musica. Mettendo in chiaro quel che in Mann era in cifra, Visconti ha realizzato un film raffinato e (stando anche al giudizio di chi se ne intende) cinematograficamente molto alto. Tuttavia il musicista, davanti a quell'Aschenbach-Mahler-non-Mahler, si trova un tantino a disagio.
Ma i musicisti, lo sanno tutti, sono dei rompiscatole; figuriamoci quando, da ragazzi hanno studiato anche un po' di filosofia.
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIV n. 2, giugno 1971)

giovedì, febbraio 02, 2023

L'organo e il cembalo di Bach da Schweitzer a oggi

Nel corso dell'800, da Mendelssohn a Ce
sar Franck, l'organo venne ridotto a strumento di carattere sinfonico, privo della sua potenziale molteplicità timbrica e per lo più utile soltanto a costituire una specie di surrogato dell'orchestra. Il musicista che restituì all'organo la sua veste di strumento-sintesi, di immensa fucina di suoni ove si potessero plasmare strutture arditissime e irripetibili fu Max Reger con le sue titaniche e sofferte composizioni costantemente protese verso il recupero del modello bachiano. In effetti Reger si trovò in una posizione assai singolare: erede di un certo formalismo classicista e votato, dopo l'assimilazione dell'esperienza romantica, alla riscoperta del contrappuntismo barocco e della severa polifonia antica, egli giunse alle soglie della dissoluzione tonale con l'uso di un cromatismo esasperato. Per restare nel campo della sua produzione organistica, la sensibilità decadente del suo linguaggio, talvolta tenebroso e talvolta pervaso da un senso plastico luminoso e nitido, lo portò ad esprimere una religiosità contorta, intensa ma allo stesso tempo sensuale. L'incomprensione che ancor oggi in Italia viene riservata a Reger (spesso definito "retorico") deve essere addebitata alla scarsa familiarità della nostra cultura con il clima spirituale tipicamente germanico, in cui trovarono una dissoluzione congiunta due grandi costanti del pensiero tedesco: l'idealismo e il protestantesimo (anche se quest'ultimo permarrà dopo aver subito una profonda metamorfosi). In verità Reger è musicista importantissimo e nel nostro caso fu l'indiretto iniziatore della moderna tradizione esecutiva bachiana per organo. Infatti egli esercitò una notevole influenza nei confronti dell'amico Karl Straube, organista formatosi alla scuola romantica, il quale diede così inizio al recupero della tradizione esecutiva barocca: recupero lento e laborioso, che doveva attraversare una lunga purificazione dalla prassi esecutiva ottocentesca.
Le sopraccennate peculiarità dell'organo romantico erano il frutto di un ben preciso indirizzo estetico che predominava nel secolo scorso e che in sostanza reagiva alla visione del mondo propugnata dal positivismo. Quest'ultimo trasponeva in sede scientifica e quantificabile la fiducia illuminista in una Ragione che potesse conferire forma e struttura assolute ai contenuti dell'esperienza. Una appetizione dunque verso un mondo codificato una volta per sempre e ottimisticamente proteso verso un rassicurante progresso. Il pensiero romantico al contrario aborriva (com'è giusto) ogni riduzione in formule della totalità della vita: la dialettica onnicomprensiva, che costituisce la trabeazione portante del mondo secondo l'idealismo, non può tralasciare entità primarie come il corpus dell'irrazionale (intuizione, fantasia, misticismo, ecc.), quasi che esso non facesse parte della vita. Risulterà infatti chiaro che lo stesso congegno logico della dialettica hegeliana non esclude per nulla tali entità, bensì le viene ad inserire nel ritmo complessivo della vita. Non a caso nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel la Ragione non è altro che una semplice figura, incastonata anch'essa nel grande mosaico dell'Essere. Il quale, a sua volta, non obbedisce affatto ad un criterio diligentemente razionale (come vorrebbe il positivismo), ma a pulsioni non mortificabili in semplici formule (e qui starebbe l'origine mistica del pensiero hegeliano, secondo cui la dialettica dell'Essere rappresenta il tracciato del divino attraverso il il mondo).
In termini musicali questo grande movimento di pensiero portò nel secolo scorso alle tipiche caratteristiche dello stile romantico più maturo (Wagner in primis e poi, già proteso verso nuove possibilità, Max Reger). La melodia infinita di Wagner rappresenta il tentativo sonoro di creare un'entità totale, dove la razionalità dell'impianto possa coesistere con l'irrazionale tensione dei suoi contenuti più interni, così legati alla visione poetica di Nietzsche, nonostante la famosa rottura avvenuta fra i due personaggi. In altre parole, il rapporto fra l'apollineo della forma e il dionisiaco del contenuto sfocia nel perenne ed irrisolto "streben" romantico, che rifiuta ogni codificazione in formule, ogni delimitazione al proprio fluire, in quanto sempre ansioso di cogliere nell'attimo o nel frammento (si ricordi Novalis) la totalità del mondo. Se dunque l'Illuminismo si era compiaciuto, con la «teoria degli affetti», di stendere un sillabario musicale dei sentimenti, la risposta filosofica ed artistica del Romanticismo fu drasticamente contraria a tale sclerosi enciclopedica e venne in seguito perfezionata dalla raffinatezza del Decadentismo, votato alla sublimazione estetica dell'introspezione.
Per quanto concerne la figura di Bach, punto focale di questo scritto, non bisogna dimenticare che molti fra i massimi esponenti della reazione contro le asettiche istanze illuministe si rifecero a Spinoza e in particolare a due punti della sua dottrina: al concetto panteistico di Sostanza e alla visione intuitiva della conoscenza suprema. L'unità geometrico-mistica del pensiero spinoziano è sempre stata un grande punto di avvio per ogni pensatore che dovesse reagire contro i fanatismi enciclopedici o le rassicuranti concretezze dell'empirismo. Fra il mondo speculativo di Spinoza e quello espressivo di Bach il passo è molto breve, in quanto si stabilisce subito un denominatore comune fra i due: «esprit de geometrie» come linguaggio e senso lirico della totalità. Di tale relazione si accorse per primo Goethe, che tenne entrambi in massima stima, seguito da Hegel e quindi da un intero periodo storico di rivalutazione per i due dimenticati vertici del mondo seicentesco.
Tuttavia, se il «more geometrico» di Spinoza si risolve esplicitamente nella contemplazione intuitiva di Dio (ed è ciò garanzia di spiritualità anti-illuministica per il pensiero romantico), il linguaggio di Bach sembra consumarsi nella propria geometrica struttura e ciò poteva costituire elemento non facilmente assimilabile in un'epoca in cui le catalogazioni della ragione si spezzavano a favore di una percezione totale della vita. Pertanto la sincera rivalutazione culturale dell'opera bachiana si trovò invischiata in una prassi esecutiva tendente ad assimilare Bach alla sensibilità romantica. Il che in pratica significa: abuso del legato, scarso fraseggio, eccessiva cantabilità; tutte peculiarità romantiche, che venivano a sovrapporsi all'autentico dettato bachiano. In definitiva, mentre l'universalità e la spiritualità del messaggio bachiano erano amate ed accettate, la costruzione geometrica del suo linguaggio non veniva compresa o, meglio, veniva guardata con sospetto, sospetto di connivenze formali con la mentalità illuminista. Tale era la situazione culturale, quando Straube iniziò il recupero della prassi esecutiva barocca e a tali criteri rispondono anche le famose letture bachiane di Albert Schweitzer, pervenuteci attraverso numerose incisioni.
In verità noi oggi sappiamo (anche se vi è chi si ostina a non capirlo) che la geometria di Bach non ha nulla a che spartire con la cultura illuminista, anzi ne è il più palese rifiuto, essendo frutto di molteplici concause precedenti e talvolta antiche: polifonismo medioevale, tradizione simbolico-esoterica, misticismo figurato barocco, rigore speculativo razionalista, concezione luterana del dolore e infine anticipazioni del moderno conflitto fra tensione creativa e realtà esterna. Per quest'ultimo motivo il labirinto geometrico del linguaggio bachiano si contrappone al mondo esterno, non ne è una riduzione in formule logiche, bensì vive di per sé in modo autonomo come realtà totale e assoluta.
Dunque l'edificio sonoro di Bach è ben lontano dall'essere il risultato di una operazione linguistica che squadri il mondo e lo quantifichi; al contrario si tratta di una totalità vivente che si sovrappone al mondo e lo sublima in posizione creativa. Tale caratteristica veniva a conciliarsi perfettamente con lo spirito dell'idealismo per lo stesso motivo che indusse Hegel a dire di Spinoza: «...Essere spinoziani è l'inizio essenziale del filosofare. Infatti, non si comincia a filosofare senza che l'anima si tuffi anzitutto in quest'etere dell'unica Sostanza, in cui è sommerso tutto quel che si era ritenuto vero; questa negazione di tutto quel ch'è particolare, cui deve essere pervenuto ogni filosofo, è la liberazione dello spirito e la sua base assoluta». Hegel conclude affermando che la Sostanza spinoziana deve tramutarsi da entità immobile e contemplabile in soggetto attivo del divenire dello spirito. Se questo passaggio hegeliano viene interpretato in chiave musicale e si sostituisce il pensiero di Spinoza con la musica di Bach, si ottiene la più concisa spiegazione filosofica di come nacquero i criteri interpretativi bachiani in clima romantico. Infatti, analogamente a Spinoza, la posizione di Bach è di stampo contemplativo e intuitivo, cosa, questa, non sgradita alla cultura romantica, che però desiderava sentire tanto il messaggio del Kantor quanto quello di Spinoza più vicini al proprio inarrestabile «streben», forse per rendere ancor più solida l'implicita alleanza contro l'enciclopedismo illuminista: per tale motivo si cominciò, e si seguitò, ad eseguire Bach in chiave romantica, per un conscio e inconscio desiderio di appropriazione. Così facendo si dimenticava che l'effettiva posizione anti-illuminista di Bach (rifiuto del pianoforte e dello stile galante) era da attribuirsi al ritorno verso l'antico e non a un preconizzare futuri svolgimenti; tuttavia il significato complessivo della figura bachiana resta proprio quello di essersi opposto con un uso iperbolico dell'ordine distributivo (stile geometrico e costruzione a segmenti) alla razionalizzazione del mondo e della vita in formule, voluto dall'epoca dei lumi (teoria degli affetti nonché enciclopedismo). In definitiva il cardine del legame che si strinse fra Bach e l'idealismo potrebbe essere simboleggiato dal seguente motto: la realtà non si classifica, si crea. E infatti Bach creò dal nulla una realtà che oserei definire con appropriate parole gaddiane: «nobile di una sua strutturante accettazione, veracemente spaziatasi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe, premeditata da Dio».
Alla luce delle considerazioni finora addotte, è possibile iniziare un sintetico excursus attraverso le più importanti interpretazioni bachiane da Schvveitzer a oggi. Dico subito che per interpretazioni «più importanti» intendo quelle che, tramite diffusione discografica, hanno creato uno stile e un'epoca; in altre parole un punto di riferimento interpretativo. Il concerto è un fatto troppo effimero per essere fermato nel trascorrere degli eventi: può portare gloria e prestigio, ma ciò che resta sono i dischi come testimonianza.
Vi sono, ad esempio, insigni organisti come i due svizzeri Hans Vollenweider e Eduard Muller o il tedesco Victor Lukas o ancora il giovane e validissimo rumeno Michael Radulescu, che non hanno particolarmente diffuso la loro attività discografica e pertanto restano nell'Olimpo degli interpreti, senza però usufruire di quel potente «braccio secolare» del mondo musicale che è il disco.
Albert Schweitzer fu l'interprete che portò a coronamento l'assimilazione romantica di Bach. Per quanto egli raccomandasse la scelta dell'organo a trazione meccanica (più ricco di sfumature rispetto a quello elettrico estilisticamente adeguato per la polifonia bachiana), le sue letture furono sempre improntate ad una lenta cantabilità non disgiunta da un senso titanico del costrutto polifonico. Ne deriva pertanto, specie nei Preludi e Fughe, una certa mancanza di agilità nelle singole voci ed una espressività d'insieme piuttosto incombente, priva di vera pulsazione ritmica. Tale inconveniente si riscontra assai meno nei corali, dove l'ispirazione mistica consente a Schweitzer di svolgere un'intensa cantabilità, sorretta dall'uso sapiente del fraseggio. Appare allora chiaro l'intento di trasporre in suoni l'idea luterana del dolore e dell'abbandono in Dio del credente: il tutto viene circonfuso da un esasperato lirismo romantico, che tende a trasformare la sfaccettata struttura melodica bachiana in una «melodia infinita» non lontana dalla più autentica e legittima poetica wagneriana. A riprova di ciò, nel famoso libro di Schweitzer su Bach («Il musicista poeta») troviamo un capitolo in cui si raffrontano le caratteristiche espressive di Bach con quelle di Wagner: evidentemente la totalità. del mondo bachiano non può non richiamare per analogia l'anelito al totale presente in Wagner. Tuttavia quando ascoltiamo Schweitzer non bisogna dimenticare la sua origine alsaziana, che implicitamente ci ricorda la sua formazione culturale franco-germanica: infatti le peculiarità del suo stile sono il frutto di questa fusione ambientale. Dalla Francia gli pervenne la consuetudine per certe sonorità dolci e introspettive; dalla Germania il senso lirico-teologico dell'opera bachiana.
Assai diverso è il Bach di Marcel Dupré, che fu rappresentante tipico della scuola romantica francese. Innanzitutto, da vero francese, notiamo in lui un eccesso di sonorità nasali unitamente a una legatissima impostazione di carattere sinfonico, che induce a stabilire il seguente raffronto con Schweitzer: se quest'ultimo può essere definito un interprete di formazione romantico-idealista, Dupré accentuò ancor più la componente sentimentale giungendo a darci una lettura bachiana alquanto greve e retorica, nonché confermando le scarse possibilità di intesa fra la cultura francese e un decantato dello spirito tedesco quale è appunto Bach (anche in seguito, come vedremo, gli organisti francesi non hanno mai eccelso nell'eseguire l'opera del Kantor, con la sola eccezione di Litaize).
Con Wanda Landowska risorge il clavicembalo, in verità ancora ben lontano dalla precisione filologica dei nostri giorni. In effetti il cembalo della Landowska non si è ancora del tutto affrancato dalla mentalità pianistica, di cui, in un certo senso costituisce una sublimazione. Tuttavia i meriti di questa insigne pioniera si inquadrano perfettamente in quel tipo di predilezione per l'oggettività storica, che è parte non indifferente dello storicismo idealista. Si comincia finalmente a capire che la poetica bachiana pur non essendo il frutto di premesse squisitamente cerebrali, necessita di un tramite espressivo «chiaro e distinto» come il cembalo, strumento ragionatore per eccellenza.
Tornando all'organo, sono i due maggiori allievi di Straube, Fritz Heitmann, e Anton Nowakowkj, che per primi attuano un parziale ritorno alla prassi esecutiva barocca, secondo l'indirizzo dato loro dal maestro e indirettamente da Max Reger. I tratti fondamentali del loro stile rispondono ad una esigenza di maggior rigore geometrico, di più accentuato senso architettonico non privo dell'indispensabile trasporto lirico: per la prima volta si realizza una lettura bachiana in cui oggettività strutturale e abbandono poetico coesistono. Sarà a tal punto il binomio vincente di tutta la storia interpretativa del nostro secolo, che solo i furori filologici di oggi (ennesimo tentacolo dell'eredità positivista) tentano di sopraffarlo. In realtà con Heitmann e Nowakowskj si esce per la prima volta dal clima romantico e involuto delle precedenti interpretazioni, il fraseggio comincia ad avere il giusto rilievo e la chiarezza polifonica acquista un nitido contorno: in altre parole siamo di fronte a un Bach autentico, che non disdegna l'esperienza romantica per cui è passato, ma della quale conserva un lontano ricordo. Non si presume di ricostruire fotograficamente, con le alchimie da laboratorio, il Bach del 1728, bensì viene trasposto in suoni il significato complessivo del suo messaggio (questo sì in modo oggettivo) coscienti di non poter evitare del tutto le acquisizioni storiche intercorse fra il tempo di Bach e il nostro.
Con Fernando Germani, principale diffusore dell'opera bachiana in Italia, nonché studioso insigne, si resta più vicini allo stile legato della tradizione romantica, pur senza ritornare alla esasperante lentezza di un Dupré. Anzi, nel caso di Germani, lo stile legato proviene da una inclinazione virtuosistica, che inficia la chiarezza del dettato per il desiderio di offrirne un'immagine aerea, vaporosa. E' una tentazione contro cui bisogna guardarsi nell'eseguire Bach: la trasparenza del suo linguaggio, al contrario, viene data proprio dal minutissimo cesello geometrico.
E alla perfetta, a tutt'oggi insuperata, realizzazione del cesello bachiano (non disgiunta da un'intensa espressività lirica e religiosa) si perviene tra la fine degni anni '50 e la fine dei '60 per merito precipuo di questa grande triade di interpreti: Helmut Walcha, Walter Kraft e Michael Schneider, che potrebbero essere definiti come i depositari delle verità bachiane del nostro secolo. Già la loro provenienza indica il clima di piena ortodossia bachiana in cui ci veniamo a trovare: Kraft è di Lubecca, Walcha di Lipsia e Schneider di Weimar. Esistono tuttavia alcune differenze fra i tre stili. Mentre il nordico Kraft sottolinea in modo quasi glaciale la costruzione plastica del Kantor con una stupefacente ma tutt'altro che inespressiva esattezza di contorni, Walcha e Schneider propendono verso un'epressività leggermente più morbida, che però non intacca minimamente l'imperturbabile gioco dell'architettura bachiana e la sua armonia distributiva. D'altro canto il denominatore comune ai tre interpreti può essere identificato con il perfetto equilibrio fra le due componenti primarie del pensiero di Bach (rigoglio formale e ispirazione religiosa), mentre domina nella loro lettura il senso austero, ostinato e quasi drammatico della fede luterana, elemento che resta il cardine psicologico su cui ruota il mondo di Bach. Dal punto di vista meramente tecnico, il criterio esecutivo che questi tre «grandi» affermano una volta per tutte è quello del fraseggio staccato, nitido, proteso ad evidenziare la costruzione a segmenti del linguaggio bachiano.
Anche per quanto concerne il cembalo Walcha è riuscito a portare una testimonianza fondamentale: egli è l'unico ad aver tradotto in pratica la concezione organistica del clavicembalo bachiano, così lontano nella sua costruzione polifonica, dal cembalo di un Rameau o di un Haendel, per non dire di uno Scarlatti. Tale concetto è stato ormai assodato per la gran parte del repertorio cembalistico di Bach, ma soltanto Walcha (forse perché organista) è stato capace di metterlo in pratica: la sua incisione del Clavicembalo Ben Temperato ne è un esempio miracoloso. Pur senza rinunciare a continue delicatezze espressive, egli non cessa mai di evidenziare il severo gioco polifonico che sorregge il tutto.
A tanto non sono giunti né l'estroso e suggestivo Kirkpatrick (troppo esuberante, eccede in coloratura come spesso gli anglosassoni), né la precisa Algrimm (un po' spigolosa e talvolta quasi telegrafica), né la bravissima Ruzickova (leggermente troppo languida, anche se molto raffinata). Gustav Leonhardt merita un cenno a parte: la sua natura fiamminga ci offre interpretazioni suggestive e affascinanti anche se probabilmente non ortodosse dal punto di vista bachiano. Ad esempio egli abusa del rubato, che viene a sconnettere la complessa stratificazione della polifonia di Bach; tuttavia le sonorità turgide e misteriose che sa trarre dai suoi clavicembali antichi ci conducono nella dimensione esoterica e sognante che pure faceva parte del mondo seicentesco. La sua lettura delle Variazioni Goldberg è al di sopra di ogni aggettivazione.
Fra gli organisti di maggior spicco cronologicamente posteriori a Walcha (ovvero più giovani) troviamo l'austriaco Anton Heiller, che sovrappone alla chiarezza di fraseggio una certa cantabilità alquanto espansiva, intenta soprattutto a trasmettere la devozione religiosa della musica di Bach. Importante è pure la lettura di Gaston Litaize, il quale, pur essendo francese, riesce a contenere al minimo le caratteristiche della sua scuola (non idonea ad una esemplare lettura bachiana) e a offrirci un Bach potente, intenso, ma allo stesso tempo chiaro e toccante. Assolutamente fuori stile si trovano invece i due decantati francesi Marie Claire Alain e Michel Chapuis la prima immette una «verve» eccessiva nel trasmetterci i pensieri del Kantor (per non parlare delle registrazioni), il secondo alterna brani interessanti e talvolta validissimi ad altri sconcertanti per l'impensabile velocità, e tale inconstanza ci induce a sospettare che egli non abbia ben assimilato il significato culturale di Bach.
Invece di grandissimo interprete possiamo parlare riferendoci a Wilhelm Krumbach, le cui letture raggiungono vertici elevatissimi per profondità speculativa, senso poetico, chiarezza di fraseggio e mirabile registrazione: una vera summa della tradizione esecutiva tedesca, l'erede designato a raccogliere la «leadership» dell'ormai vecchio Walcha. Nel repertorio dei corali in particolare Krumbach ci offre dei bagliori forse mai raggiunti prima d'oggi in quanto egli sa sovrapporre all'euritmia geometrica una religiosità intensa.
Molto bene possiamo anche dire di Lionel Rogg, la cui precisione, unita a raffinatezza espressiva, è notevole e assai disinvolta. Anche l'Italia non è priva di esecutori validissimi per quanto se ne parli raramente o perlomeno senza la dovuta attenzione. Gianfranco Spinelli e Luigi Ferdinando Tagliavini emergono per rigore filologico e misura interpretativa; Achille Berruti al contrario è temperamento più intuitivo e particolarmente incline a evidenziare i legami espressivi fra il corale bachiano e la corrente del Pietismo; Giuseppe Zanaboni si distingue per il trasporto poetico delle sue interpretazioni. Fra i più giovani sono da segnalare per diversi ma altrettanto validi motivi Enzo Corti, Carlo Stella, Francesco Catena e Stefano Innocenti, interpreti che accomunano tutti notevole sensibilità espressiva a una solida e rigorosa preparazione.
Tuttavia, per concludere, è opportuno ricordare che le disquisizioni tecnico-interpretative su Bach sono utili fino a un certo punto oltre il quale divengono pleonastiche. Bach rappresenta il culmine estetico di un mondo (il '600) che credeva nei contenuti della ragione (le idee chiare e distinte di Cartesio) come tramite perfetto fra l'uomo e l'ordine divino. Ora noi, alla luce delle considerazioni fatte all'inizio di questo scritto, non crediamo più in tale verità, in quanto la ragione ci appare del tutto insufficiente a cogliere la totalità della vita (si pensi solo a cosa dice in proposito Bergson). Per questo motivo Bach resta un fenomeno irripetibile. Eseguirlo significa soprattutto capire il mondo che egli rappresenta e comprenderne il senso complessivo nel corso della storia fino a noi. In termini hegeliani diremmo che bisogna capire il mondo di Bach come «figura» (Hegel dice «Bild») del divenire dello Spirito nella fenomenologia della storia e del pensiero.
Paolo Fenoglio
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIX n. 2, settembre 1976)
Cenni discografici
(per quanto concerne dischi reperibili sul mercato italiano)
1) Le interpretazioni bachiane di Albert Schweitzer sono state ristampate dalla CBS.
2) Di Marcel Dupré la Philips ha recentemente pubblicato alcune interpretazioni.
3) Wanda Landowska è stata riproposta dalla Victor.
4) Di Fritz Heitmann e Anton Nowakowskj sono stati recentemente pubblicati due dischi della Telefunken nella serie «Dokumente».
5) Fernando Germani è reperibile nella EMI.
6) Helmut Walcha ha inciso la sua famosa opera omnia per la Archiv.
7) Walter Kraft ha fatto altrettanto per la VOX (e si trova ancora qualcosa).
8) Di Michael Schneider è difficile trovare dischi in Italia, tuttavia ne segnalo uno nella collana economica «Europa» distribuita dalla DUCALE.
9) Il cembalo di Walcha si trova ancora nella Archiv o, per chi la trovasse, in una edizione EMI del '63, ottima.
10) Kirkpatrick ha inciso per Archiv e DGG.
11) Isolde Algrimm per la Philips (oggi si trova nella serie «Fontana»).
12) Zuzana Ruzickova per Supraphon e Erato.
13) Gustav Leonhardt per Telefunken, BASF e Philips.
14) Anton Heiller ha inciso l'opera omnia per la Philips (oggi nella «Fontana»).
15) Gaston Litaize ha realizzato alcuni dischi per la Decca francese.
16) Marie-Claire Alain per la Erato e Michel Chapuis per la Telefunken (entrambi l'opera omnia).
17) Wilhelm Krumbach per BASF e Telefunken.
18) Lionel Rogg ha inciso l'opera omnia per la ORYX inglese.