Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, dicembre 24, 2008

Heinrich Schütz: Italia-Germania 4 a 3

"Non arrivava da solo: l'organista del duomo di Könisgberg, Heinrich Albert, che si era fatto un nome oltre i confini prussiani come compositore ed editore di raccolte di Lieder, portava con sè suo cugino: il maestro di cappella di corte Heinrich Schütz della Sassonia Elettorale che voleva comunque recarsi ad Amburgo e proseguire per Gluckstadt dove sperava di trovare l'agognato invito alla corte danese: nulla lo tratteneva più in Sassonia. Sull'inizio dei sessanta, quindi nell'età di Weckherlin, ma più energico dello svevo, consunto dal servizio di Stato, Schütz era un uomo di distante autorità e di severa grandezza che nessuno (anche Albert solo approssimativamente) riusciva ad afferrare. La sua comparsa tutt'altro che arrogante, semmai preoccupata per il presunto disturbo che arrecava, sublimò l'assemblea dei poeti di Telgte e d'altro canto ridimensionò l'incontro. Era venuto a loro qualcuno che nessun gruppo poteva sopportare. Non voglio farmi più furbo di allora, ma questo lo sapevano tutti, per quanto incontestata fosse la sua concezione di Dio e per quanto devoto, nonstante le ripetute offerte danesi, si fosse dimostrato al suo Principe, Schütz era tuttavia rimasto suddito solo delle proprie aspirazioni."

Heinrich Schütz appare all'improvviso nel mezzo di un romanzo dello scrittore tedesco Günther Grass. Non c'è da stupirsi: L'incontro di Telgte si svolge nel 1647 in una locanda tedesca durante la Guerra dei Trent'anni, affollato ritrovo di poeti ed artisti smarriti e divisi, ma tutti realmente esistiti e in cui Grass lasciava trapelare l'immagine contemporanea degli intellettuali appena usciti da una guerra ancora più terribile pur se molto più breve.
«Sì, è, un ritratto efficace del compositore tedesco» riconosce Matteo Messori, organista, clavicembalista e direttore, a cui Brilliant Classics ha affidato l'immane compito di incidere l'opera completo di Heinrich Schütz con il gruppo da lui fondato Cappella Augustana. I primi cinque dischi con le prime due parti delle Symphoniae Sacrae e la Weinachtshistorie sono usciti nel dicembre scorso; imminente la pubblicazione del secondo cofanetto con altri cinque dischi che includeranno la raccolta dei madrigali italiani, le Contiones Socrae e la prima parte dei Kleine geistliche Concerte. «Per arrivare alla fine di tutta l'opera di Schütz ci vorranno un'altra ventina di dischi. E' un'impresa considerevole - ammette Messori - e ci impegnerà per i prossimi anni con un ritmo di lavoro abbastanza serrato». Impresa che sembra un'occasione preziosa per riaprire la discussione su un musicista rimasto defilato perfino nella storia della musica tedesca. Eppure Schütz è un'infinita sorpresa. Già dal suo primo apprendistato musicale che, nonostante le resistenze della sua famiglia, lo conduce a Venezia nel 1609, si trova a vivere in una capitale musicale capace di sorprendere per la sontuosità sonora, come quella che era dispiegata per la celebrazione dei vespri. «A Venezia Schütz avrà per maestro Giovanni Gabrieli - racconta Messori - e qui nel 1611, a ventisei anni pubblicherà il suo opus primum, i Madrigali italiani. Sono composizioni finora non del tutto valorizzate dalla critica ed invece, a studiarle ed eseguirle, si sono rivelate come pagine assolutamente straordinarie. Dal punto di vista formale sono madrigali abbastanza lunghi, dieci su testo di Giambattista Marino, sei tratti dal Pastor Fido di Guarino, altri due su testi di poeti di scuola marinista e l'ultimo, un Dialogo a due cori, su testo probabilmente dello stesso compositore. Sono pagine in cui Schütz si impossessa dei tesori della scuola italiana fino in fondo. Con questo bagaglio musicale torna arricchito, pronto ad un lavoro di rinnovamento nello stile e nelle forme praticate in Germania».
Perché non riaprire ancora il romanzo di Grass? «Nessuno più di lui puntava sulla parola e che la sua musica doveva servire esclusivamente alla parola, voleva chiarirla, animarla, sottolinearne i gesti e sprofondarla, dilatarla, innalzarla in ogni abisso, vastità ed altezza. Schütz era severo con le parole e si atteneva alla tradizionale liturgia latina o alla lettera della bibbia di Lutero. All'offerta dei poeti contemporanei si era finora rifiutato nella sua opera principale, la musica sacra, salve le eccezioni del Salterio di Becker e di alcuni testi del giovane Opitz; i poeti tedeschi non avevano avuto niente da dirgli per quanto ardentemente egli ci avesse palesato i suoi desideri di testi...».
Messori dà ragione a Grass e anzi si spinge oltre: «Schütz è il grande musicus poeticus del XVII secolo. Lui cerca di dipingere musicalmente la parola in tutti i suoi affetti e con risultati che possiamo riscontrare solo nell'opera teatrale e madrigalistica di Monteverdi. Schütz è altrettanto grande nella musica sacra. Basterebbe ascoltare le sue Cantiones Sacrae che abbiamo registrato per il prossimo cofanetto della nostra Schütz-Edition. Qui c'è una vena intimistica che si rivela quando la musica viene a contatto con questi testi latini che ai tempi si credevano di San Agostino, ma che in realtà sono opera di mistici medievali. Erano diffusi anche in ambito luterano e hanno ispirato una devozione molto personale, domestica.»
Perché contare aiutava contro la fame, dice uno dei personaggi dei romanzo di Grass. Eppure persino contare divenne ad un certo punto difficile. A Dresda nel 1636 la Cappella dell'Elettore è in rovina, dimezzato, a causa della guerra e diventa difficile eseguire il canto a più parti. A questo periodo così critico appartengono i Piccoli Concerti Spirituali che Schütz compone su testi scritturali (Salmi in maggior parte) e sui versi di alcuni inni luterani. E' musica scritta per le poche forze rimaste. «Mai strumenti oltre a quelli di continuo, eppure in questa semplicità vi è una forza espressiva impressionante.»
Le future tappe del progetto discografico si profilano già all'orizzonte: «Stiamo pianificando la prossima stazione che prevede la registrazione delle Historiae, quella della Resurrezione Op.3 (1623), e le tre Historiae della Passione rimaste manoscritte, che appartengono all'ultimissimo periodo di vita di Schütz, opere molto intense, oltre a Le sette Parole di Cristo in Croce. Ci aspetta poi il secondo libro dei Piccoli Concerti Spirituali. Dopo affronteremo la terza parte delle Symphoniae Sacrae, che è del 1651, impressionanti pagine concertanti a più voci soliste, violini e altri strumenti e diversi cori di complemento».
E per l'edizione a quale attenersi? «Continuo a tenere presente, oltre alle fonti originali, l'edizione delle opere complete curata da Philipp Spitta a partire dal 1885 (in occasione del terzo centenario della nascita del Sagittario). A tutt'oggi resta un'edizione esemplare non solo per la sua importanza nella storia della fortuna di questo compositore ma perché è condotta con criteri filologici inattaccabili nell'epoca attuale dove trionfa la filologia musicale. C'è una precisione negli apparati critici che testimonia il riscontro puntuale delle edizioni a stampa e dei vari manoscritti. A malapena ho trovato un errore in ogni volume studiato. Ed è l'edizione che ha avuto per le mani Johannes Brahms che da direttore di coro e da compositore di polifonia ha sempre dimostrato di conoscere molto bene l'opera di Schütz. E' un'edizione che fa ancora testo se si pensa che la Neue Schütz Ausgabe uscita a partire dalla metà degli anni Cinquanta per Bärenreiter tra i molti discutibili criteri diplomatici (chiavi modernizzate, spesso valori originali alterati, realizzazione del basso continuo ecc.) trasporta un numero esorbitante di brani, facilitando le parti, per consentirne insomma l'esecuzione da parte dei cori di dilettanti diffusi in Germania. E ci sono registrazioni discografiche che se ne conformano come nulla fosse, tradendo così la variegata paletta tonale e coloristica insita nella musica di Schütz».
Nessun timore ad affrontare da musicista italiano gli opera omnia di uno dei massimi maestri della musica tedesca? «Schütz si lamentava che i cantanti e gli strumentisti tedeschi non erano abituati allo stile italiano e non smetteva di guardare all'Italia - che definisce «retta e vera scuola di ogni musica» - come punto di riferimento. Di fatti ci ritornerà una seconda volta nel 1628 e si accorgerà che a Venezia qualcosa era cambiato. Erano gli anni in cui si diffondeva l'opera in musica. Per questo credo interessante la prospettiva italiana sottesa a questo grande progetto discografico. Prospettiva che si arricchisce tramite l'importanza che abbiamo dato, di nuovo in questo secondo cofanetto, all'organo: le Cantiones sono state accompagnate da un antico strumento veneziano del 1730,effettuando la registrazione in cantoria, e un altro organo in stile emiliano scicentesco (assieme a violone e spinetta) ha sostenuto il basso continuo dei Piccoli Concerti del 1636.» Nei dischi sarà ridotta al minimo la presenza di contraltisti e Matteo Messori spiega perché: «C'è da intendere quali fossero i tipi di voce che cantavano le parti di alto al tempo di Schütz. La tessitura evidentemente non è quella del falsettista a cui siamo abituati oggi. Erano sicuramente voci di tenori acuti, che all'occorenza falsettavano nelle note più alte: di norma le linee del Sagittario non oltrepassavano il la. Nelle Cantiones e nei Piccoli Concerti Spirituali appena incisi le parti di contralto sono perciò sostenute da tenori mentre il trio di voci acute dei Madrigali è tutto femminile, sul modello allora molto seguito del Concerto delle Dame ferraresi. Sì, il legame con l'Italia per Schütz è sempre rimasto molto forte. E si può ripetere quel che ha scritto il musicologo Wolfgang Osthoff: la musica tedesca con Schütz ha imparato dall'Italia un proprio linguaggio, quella tensione alla parola, che era tipicamente italiana».

di Alessandro Taverna (Falstaff, n.3/2004)

martedì, dicembre 16, 2008

Philip Glass: Musica e marketing

In un’infaticabile maratona promozionale che ha visto Glass affiancare Scorsese nella presentazione italiana del film Kundun e che si è andata ad incastrare tra una serie impressionante di impegni professionali da parte di uno dei compositori più richiesti, si inserisce anche questo nostro incontro. Il personaggio, occorre dirlo, dimostra una grande capacità comunicativa e le sue parole, così come la sua musica, riescono con una naturalezza disarmante a semplificare questioni dibattute come il rapporto tra il compositore contemporaneo e il suo pubblico, l’industria discografica, il nuovo linguaggio musicale e il tipo di fruizione che ne consegue, l’educazione musicale ed altri argomenti “scottanti” come si vedrà di seguito. Naturalmente siamo partiti dal cinema, mondo che Glass ha assiduamente frequentato nel corso della sua carriera.

Il rapporto tra il regista cinematografico e l’autore della colonna sonora è assai peculiare. Come cambia il ruolo del musicista nel cinema rispetto alla sua normale attività compositiva?
"Nel cinema il lavoro del musicista è sempre da porsi in stretta relazione con quello del regista. Esiste tra le due figure un contatto particolare: il musicista è comunque responsabile di quello che sta facendo e deve rendere conto al regista, che crea le condizioni di questo rapporto professionale. In altri casi, come avviene ad esempio nell’opera, la situazione è molto diversa poiché il compositore riesce a mantenere un’indipendenza molto più forte. D’altro canto occorre dire che alcuni registi sono molto disponibili e aperti alle idee dei musicisti, mentre altri sono molto chiusi. Con i primi lavorare diventa molto facile, con i secondi più difficile. Quando lavoravo con Godfrey Reggio condividevamo gran parte delle cose e c’era un grande sintonia nel nostro lavoro, perché lui è un regista a cui piace cooperare."
Quei tipi di film erano differenti da Kundun in quanto privi di uno sviluppo narrativo vero e proprio.
"Esattamente. Con Reggio abbiamo discusso molto di più di quanto abbiamo fatto ora sulla sceneggiatura scritta da Melissa Mathison. Nel caso di Kundun c’era una storia da raccontare secondo un certo sviluppo e Melissa aveva le sue idee molto precise su come narrare la storia. Mentre con Godfrey si decidevano insieme anche l’ordine delle scene e io potevo collaborare direttamente anche sotto l’aspetto filmico. Con Scorsese questo non è stato possibile. Una volta messa a punto la sceneggiatura, egli sa esattamente quali saranno le sequenze e le inquadrature. Ed è estremamente preciso. Reggio, dopo aver sentito certe parti di musica che lo colpivano particolarmente, allora voleva aggiungere altri fotogrammi per allungare certe sequenze. Intere parti furono rifilmate dopo l’ascolto della musica. Avevamo una grande libertà che ci consentiva di lavorare in questo modo, mentre con Scorsese non c’è stata questa flessibilità. La precisione con cui egli riesce a combinare la musica con le immagini è quasi la stessa rispetto a Reggio. Devo però sottolineare che Kundun è stato il primo film in cui ho lavorato utilizzando un programma interamente digitale e ciò ha influito moltissimo sull’esito finale. Durante la lavorazione dei vecchi film ci si ritrovava con decine di pezzi di pellicola in giro per lo studio. Se volevi vederne uno, dovevi mandarlo indietro alla moviola e ripassarlo continuamente, mentre oggi l’intero film può essere immagazzinato nel computer. Questa facilità ci ha permesso di fare dei confronti con scene girate anche due mesi prima ed era possibile fare comparazioni tra tutte le versioni di una stessa scena in poco tempo. È capitato che ci soffermassimo sulla stessa scena anche più di sessanta volte, specialmente quando si trattò di inserire la musica. Potevamo scegliere la scena in cui la musica si combinava meglio con le immagini, andando a ripescare tutte le vecchie versioni. Lavorare in questo modo ti consente di avere un gran numero di informazioni, forse anche troppe. Il sistema digitale offre una resa filmica ottima e facilita il lavoro, rendendo immediatamente accessibile sia le immagini, sia il sonoro del film, sia la musica che si vuole inserire come commento."
Una situazione diversa si è presentata con i lavori ispirati ad alcuni film di Jean Cocteau, come nell’opera da camera Le testament d’Orphée. In quel caso godeva di una maggiore libertà?
"No. Avevo dei limiti imposti dalla Fondazione Cocteau, che mi prescrisse di seguire alla lettera la sceneggiatura. Così mi sono attenuto scrupolosamente ad essa. In questo caso non si può parlare di collaborazione vera e propria, bensì di adeguamento alla concezione di base del film che riguardava i temi della vita e del canto. Comunque penso che Cocteau sarebbe stato soddisfatto del lavoro. Egli era un grande sperimentatore come poeta, come scrittore, come pittore e infine anche come autore di film."
Cambiamo completamente argomento: parliamo di marketing. Quanto pensa che sia importante per un compositore moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?
"È una domanda molto interessante. Credo di avere instaurato una speciale rapporto con il mio pubblico, da quando eseguo la mia musica in giro per il mondo. Se per un film esiste una promozione che ricade anche sul compositore della colonna sonora, la stessa cosa non accade per l’esecutore che porta in giro la propria musica. Quando la lavorazione del film è finita, finisce anche l’attività del musicista che ha prestato la sua opera e ciò penso che sia abbastanza frustrante. I nuovi pezzi che pubblicherò con Robert Wilson e che usciranno in Italia in autunno, li porterò in giro e li eseguirò in tournée. Quest’anno ho tenuto circa ottanta concerti e ciò significa che ricerco costantemente il contatto con il pubblico, ma non solo durante l’esibizione. Mi piace parlare con il pubblico e anche firmare qualche autografo. Per me il pubblico non è una categoria astratta, ma si tratta di persone reali con cui io mi confronto. È capitato spesso che qualcuno venisse a dirmi che aveva utilizzato la mia musica per il suo matrimonio, cosicché mi facesse sentire in qualche modo responsabile della sua cerimonia. Non volevo sapere cosa era successo poi, anche se ho sempre sperato che la mia musica potesse esprimere il più sincero augurio. E cose di questo tipo ne sento moltissime. Ma questo, più che marketing, è un rapporto personale alla pari, che io ricerco. Se tengo un concerto di fronte a cinquecento o a mille spettatori, riesco ad avere una visione dell’audience non come di una folla inerte. E’ per questo motivo che non voglio che la sala sia completamente oscurata e preferisco che le luci siano posizionate ad un terzo dell’altezza effettiva del palcoscenico, perché voglio vedere i volti delle persone presenti in sala. Se però parliamo di marketing in senso stretto, non sono così competente in materia. L’industria discografica o la produzione cinematografica se ne occupano con piani e strategie ben determinate."
Le ho fatto questa domanda perché, secondo me, un potenziale straordinario della sua musica risiede proprio nella sua capacità comunicativa.
"Penso che ciò riguardi il fatto di essere anche esecutore della mia musica. Devo dire che questa decisione avvenne in me molto presto, quando non ero ancora trentenne, e fu determinata principalmente da due persone: Ravi Shankar, che incontrai quando avevo ventisette anni, e John Cage. Entrambi hanno dedicato l’intera loro esistenza alla musica. Ravi sta ancora suonando. L’ho visto a Nuova Delhi un mese fa con il suo trio e ho pensato che fosse davvero meraviglioso che questi tre anziani musicisti siano ancora in attività e che tengano normalmente dei concerti dal vivo. Quando incontrai John, ne rimasi totalmente affascinato, sebbene la sua musica continui ad essere difficile ancora oggi, perfino quella che compose verso la fine della sua vita, come i pezzi basati su Henry Thoreau (Renga del 1976, n.d.r.). Ho visto molta gente uscire dalle sue esibizioni, anche quando aveva settantacinque anni (undici anni fa, n.d.r.)."
Adesso però c’è una riscoperta di John Cage.
"Sì, probabilmente la gente non esce più ai suoi concerti. In un certo senso per me è sempre stato un musicista di successo, in quanto la proposta della sua musica al pubblico non coincideva in un affare privato, concepito per un pubblico immaginario, non ancora nato - come se la gente che verrà in futuro dovrà per forza essere migliore della gente che vive il nostro presente. La gente è la stessa: non cambia nulla essere nati nel diciottesimo secolo piuttosto che oggi. E questa è la lezione che appreso da Cage: la funzione del compositore deve essere molto diretta. Questo è il mio modello e questo è il modello che offro io alle giovani generazioni, che cerco sempre di incoraggiare. Tornando al quesito da lei posto precedentemente, le domande “Per chi scriviamo la musica?” o “Chi è il pubblico?” sono domande importanti, che dobbiamo sempre porci. Così come: “In che modo il pubblico riscontra la qualità di quello che facciamo?”. I propositi che ci poniamo fanno cambiare le prospettive di lavoro: tra un’opera e un film c’è una grossa differenza. Così come esiste una diversità tra il pubblico del teatro lirico e il pubblico del cinema. Quest’ultimo, in particolare, ha una minima conoscenza di musica contemporanea. Così se scrivi musica troppo astratta per loro, ti credono pazzo, perché non ti capiscono. E hanno ragione! Ancora differente sarà il pubblico presente ad un concerto del Kronos Quartet che esegue la mia musica. Sarei quindi uno sconsiderato a non accorgermi di tali differenze. Per me la grande sfida per un compositore, che scrive per un media popolare come può essere un film, è quella di mantenere l’individualità e la qualità della propria musica, facendosi capire."
Assistendo ad un suo concerto, mi capitato di vedere atteggiamenti mistici da parte di molte persone del pubblico, in una maniera passiva, come se la musica fosse un mezzo più che un fine. Quale pensa che sia il modo migliore per fruire della sua musica?
"In un certo modo mi accorgo che ciò che lei dice può succedere anche ai miei concerti. Ma le faccio osservare che certe persone che vanno all’opera o ai concerti classici fanno la stessa cosa. Anche se ascoltano Beethoven alcuni chinano il capo e chissà, magari a volte perfino dormono."
In genere si pensa che per ascoltare Beethoven occorra concentrarsi su alcune strutture, magari riconoscere i temi...
"Non sono molto d’accordo con questa idea. Naturalmente più una persona è educata musicalmente più riesce ad apprezzare la musica. Ma anche mio padre, che non leggeva le note, amava moltissimo la musica allo stesso modo di come la può amare una persona che riconosce i temi o le riprese. La gente viene ai concerti portandosi dietro quello che ha, sia essa una preparazione sofisticata o elementare. La vera qualità della musica è che può incontrare tutti dall’ignorante all’intellettuale. E questa è una qualità che esprime una concezione molto democratica. È per questo motivo che scrivo raramente spiegazioni tecniche sulla mia musica, che, comunque, non considero importanti. Ho visto delle analisi di alcuni miei brani e spesso mi mandano cose che riesco a malapena a decifrare, anche se ho scritto io quella musica. In genere si tratta di studenti o dottorandi che hanno le loro buone ragioni per farlo. Per quanto mi riguarda io ho una preparazione classica, ma non ho bisogno di indossare il mio diploma."
D’altra parte anche per infrangere delle regole è necessario che queste esistano.
"Sono d’accordo con lei. Lo dico spesso ai giovani compositori che senza la tecnica non si può fare nulla e spiego loro l’importanza del contrappunto e dell’armonia. Anche negli anni Sessanta, quando stavo cambiando il mio linguaggio musicale, senza una preparazione specifica non sarei stato in grado di farlo. Come avrei potuto rompere i muri se non conoscevo la casa?"
Come fece anche John Cage.
"Sì. Lui aveva studiato addirittura con Schönberg. Nel mondo del pop si possono trovare molti musicisti autodidatti, mentre nel mondo della musica tradizionale da concerto credo di non poterne individuare neanche uno."
Lei è stato anche produttore pop.
"Mi piace lavorare con musicisti pop come Patti Smith o Paul Simon, perché riesco ad entrare in contatto con quel loro spirito così spontaneo. Tutto il mio bagaglio culturale, che ho iniziato a costruire dall’età di sei anni, in quei momenti non serve più."
Poi sovrintende la Point Music, un’etichetta che ha oggi al suo attivo una discreta serie di pubblicazioni.
"La Point Music accoglie al suo interno musicisti come Gavin Bryars, Bang on a Can, Uakti, Todd Levin. Siamo cioè maggiormente interessati alla musica contemporanea e sperimentale, anche se vengono accolte anche operazioni più divulgative come gli arrangiamenti sinfonici delle musiche dei Pink Floyd, che è stato un lavoro che abbiamo fortemente voluto. Devo però dire che il lavoro di produzione è un affare complicato. Come compositore mi sento molto più libero nelle mie scelte di quanto non lo sia la mia etichetta."

di Michele Coralli ("il Giornale della Musica", n.139, 1998)

mercoledì, dicembre 10, 2008

Che delitto aver dimenticato Shostakovich

Su «Liberazione» di ieri Alfonso Gianni, sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, ha dedicato un corposo articolo a un'occasione perduta del morente 2006: il mancato ricordo in Italia del centenario della nascita del musicista russo Dimitri Shostakovich (1906-1975). Un intervento pregevole, ben documentato, che ricorda giustamente come quest'anno sia stato speso malamente nella repubblica della musica. Troppe cose su Mozart, non incisive, incollate alla meglio per un falso anniversario, un marasma in cui è difficile orientarsi; comunque Gianni salva il saggio di Lidia Bramani su Wolfgang Amadeus massone e rivoluzionario, uscito da Bruno Mondadori. Noi osiamo aggiungere che un altro libro meriterà la massima attenzione: usiamo il futuro perché vedrà la luce a fine gennaio: si tratta de I Mozart in Italia di Alberto Basso, che sarà pubblicato dall'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. In esso - tre libri in uno, con le sue fittissime 700 pagine su doppia o tripla colonna - ci saranno tutti i documenti dei soggiorni nella nostra penisola di Wolfgang Amadeus e di papà Leopold, nonché le loro lettere dal Belpaese (quanto alla traduzione integrale dell'epistolario mozartiano, conviene perdere la speranza). Certo, Shostakovich è stato sottovalutato, ignorato, trattato come un musicista di seconda categoria, relegato nelle programmazioni quasi sempre come uno di terza. Alfonso Gianni rammenta la pregevole raccolta di lettere Trascrivere la vita intera (uscita da Il Saggiatore) che getta molta luce sul lavoro creativo di questo compositore e sui suoi rapporti; evita di citare la traduzione del saggio di Solomon Volkov Stalin e Shostakovich (pubblicato da Garzanti), forse perché ben informato del fatto che quest'opera fa emettere gridolini di gioia negli Usa ma dopo quasi tre anni non è ancora stata tradotta in russo. Ne deduca il lettore i motivi. Anche se non ce la sentiamo di condividere il giudizio che vede in Shostakovich il Beethoven del '900 (Gianni lo cita facendolo scortare da un «banalmente»), dobbiamo sottolineare che il sottosegretario spiega la grandezza del russo e, di conseguenza, denuncia il mancato ossequio della nostra cultura musicale come prova del suo cattivo funzionamento. Certo, un compositore che già con la Sinfonia n.1 del 1926 ottiene risonanza internazionale e che dalle esperienze estetiche dell'avanguardia rivoluzionaria (si intendano Prokofiev, Majakovskij ecc.) attraversa le fasi della creazione aggressiva, grottesca, esuberante; un musicista che percorre indenne l'atonalità e può permettersi di visitare il jazz, i temi popolari, di scrivere colonne sonore per il cinema e brani per il teatro, di inviare sberleffi a quelle partiture malate e melense che in Urss erano chiamate «borghesi»; insomma siffatto maestro mai perse la sua vena e il senso dell'epoca, rimanendo sempre un protagonista. Mentre da noi si inneggia al '68, lui può permettersi di scrivere - corre il ' 69 - la Sinfonia n.14, dove pessimismo e toni cupi sono il miglior requiem di quell'epoca (il contrario dell'opera di Luigi Nono Al gran sole carico d' amore, inizio anni '70, oggi non particolarmente ricordata). Ma tutti gli esempi non possono rendere il valore unico di Shostakovich che fu non soltanto artistico, ma anche civile e politico. Già, politico. Gianni evoca lo strampalato giudizio di Kruscev («la sua musica è soltanto frastuono, fa venire il mal di pancia»), che sembra tratto da un film di Alberto Sordi, ma non si sofferma su Stalin. Non vorremmo scandalizzare i benpensanti, ma sarebbe bene ricordare che il Piccolo Padre fu un ammiratore più che un denigratore di Shostakovich. Sì, lo sappiamo, c'è la famosa delibera di Zdanov del 1948 che metteva tra i nemici del popolo avanguardisti, futuristi, strutturalisti e simile marmaglia, ma non va dimenticato che Stalin telefonò personalmente al compositore all'indomani della pubblicazione di quell'infelice documento, proponendogli un viaggio in America. Tale notizia, che è stata ripetuta allo scrivente in alcuni incontri moscoviti, si può trovare confermata sulla «Pravda» del 25 settembre di quest'anno, in un' intervista al novantenne Tikhon Khrennikov (allievo di Prokofiev, beniamino di Stalin: lo aveva nominato - e tenne l'incarico 40 anni - presidente dell'Unione dei Compositori Sovietici). Di più. Da Pietroburgo, proprio in questi giorni, giungono in libreria i diari segreti del direttore d'orchestra Evgenij Mravinskij, con il titolo Le note del ricordo (Zapiski na pamjat, edizione Iskusstvo). La celebre bacchetta diresse in prima esecuzione quasi tutte le sinfonie di Shostakovich e di lui fu intimo amico. Ebbene: Mravinskij, che non ha alcun interesse a difendere il Piccolo Padre, giacché è morto da anni e mai pubblicò questi suoi scritti custoditi in luogo segreto, ricorda che il compositore oltre a prendere la tessera del Pcus dedicò alla rivoluzione sinfonie e altri brani ed ebbe con Stalin un buon rapporto, ricevendo gli omonimi premi, conversando in varie occasioni con lui eccetera. Quindi - e non è revisionismo spicciolo - molte biografie che lo presentano come dissidente e perseguitato sono da riscrivere. Insomma, la mancata celebrazione del centenario di Shostakovich è anche un'occasione perduta per aprire il discorso sui rapporti tra musica e politica. Nel '900 è impossibile ignorarli. Se Stalin fu un assiduo e non sbadigliante frequentatore del Bolshoi, non dimentichiamoci che anche il nazismo ebbe compositori e direttori d'orchestra che ne aiutarono il disegno. Forse è giunto il tempo di parlarne.

Armando Torno (Corriere della Sera, 29 dicembre 2006)

giovedì, dicembre 04, 2008

L'Europa riconosciuta: il talento del giovane Salieri riscoperto dopo due secoli.

Nessuno ha, nel secolo ventunesimo né nel ventesimo, ascoltato l'Europa riconosciuta di Antonio Salieri, l'Opera con la quale il 3 agosto 1778 si aprì il nuovissimo Teatro alla Scala di Milano. Addirittura, essa non venne più eseguita dopo la serie di recite milanesi. Al momento nel quale, oggi, essa è stata scelta per lo spettacolo d'inaugurazione del medesimo teatro dopo i lavori di restauro, si poteva temere che la decisione nascesse più da un obbligo storico di omaggio elegante che da ragioni drammatiche e musicali intrinseche. La Scala ha dovuto prodursi da sé un'edizione della partitura, al momento ancora manoscritta; e tale edizione è stata oggetto di studio anche da parte nostra, così che ne possiamo parlare a prescindere dall' effetto d'ascolto della prova generale. Le preoccupazioni vanno fugate perché l'Europa riconosciuta contiene una gran quantità di musica splendida pur essendo di una durata complessiva minore della gran parte dei prodotti di repertorio. Quando la qualità musicale non è splendida è sempre alta e rifinita, provenendo peraltro dalla mano di un orchestratore formidabile sebbene giovane. A soccorso della qualità musicale giunge una concezione drammatica singolare e d'un'efficacia notevolissima. Il pubblico deve però imparare a cogliere un linguaggio musicale che ha nello stesso tempo qualcosa di familiare e di alieno. Di familiare per le affinità, in qualche caso i presagi, con lo stile di Haydn e Mozart, e prima ancora di Giovanni Cristiano Bach, davvero rilevanti nel ventottenne Salieri. Di alieno, perché questo musicista, grande sebbene non dell'altezza somma dei primi due nominati, è, come Cherubini, che a lui assomiglia moltissimo, un caso a sé. Appartiene allo Stile Classico di sicuro per il suo essere di formazione fondamentalmente viennese e per gl'intrecci personali che lo avvinceranno persino a Schubert. Risuona però come qualcosa di più arcaico e di più moderno in un suo contorto senso. Chi avrebbe mai immaginato che Salieri e Cherubini fossero per sfociare in Berlioz e Liszt? Questi sono i paradossi storici. Tutti e tre stanno a metà dentro, a metà fuori l'unità formale e linguistica classico-romantica. Eppure un tempo Cherubini passava per emblema stesso del Classico, Berlioz del Romanticismo. Un'Opera come quella di Salieri il pubblico può ascoltarla oggi in teatri diversi o in Festivals specialistici; alla Scala, visto anche il modo di esecuzione così differente da quelli alla moda per musica datata 1778, farà un'impressione ancora più esotica, che va vinta. Il compositore che venne chiamato da Vienna per scrivere l'Opera inaugurale della Scala aveva, ripeto, solo ventotto anni. Ma aveva raggiunto una precocissima maturità: il suo livello artistico non muterà più coi decenni. Era un uomo intelligente e colto, Salieri, e alla fine di grande generosità, nonostante le calunnie di Mozart e l'effettiva sua rivalità con lui. Ai funerali di Amadé si trovarono in pochissimi: egli c'era. Il giovane aveva già raggiunto tale maturità: è del 1776 la sua versione di uno dei capolavori poetici del Settecento, La Passione di Metastasio. Di questo testo, insuperabile per scandagli psicologici, esistono numerosissime intonazioni. Fra quante conosca io, la più bella in assoluto si deve a Paisiello; la più drammatica, con una sorta di ferreo puntiglio, a Salieri. E si spiega. Proprio perché egli è dentro e fuori insieme dallo Stile Classico e da quel che lo precede, Salieri può esser raffigurato in un bassorilievo conservato a Vienna come il più vicino al letto del morente Metastasio ed essere, in musica, l'incarnazione di concetti lontani da quelli dell'Opera cosiddetta «metastasiana». Nel 1776 egli aveva già fatto la sua esperienza creativa fondamentale, la conoscenza del teatro musicale di Gluck. E Gluck è la radice di tutto il mondo eccentrico allo stile classico-romantico, fino appunto a Berlioz e Liszt. Solo un visionario ispirato da Gluck può aprire un'Opera, come Salieri apre l'Europa riconosciuta, con una Sinfonia strumentale interrotta e concepita secondo la Retorica del gesto musicale, non a partire da un'idea musicale intrinseca. Essa è infatti un pezzo d'impareggiabile forza drammatica, tale da costituire una vera sorpresa per lo spettatore; ma è del tutto atematica, essendo costituita solo di scale, arpeggi, sincopi ritmiche, accordi. Le Tempeste dello Stile classico sono tutte di elaborazione tematica, coerentemente, da Haydn a Wagner. Nell'Europa riconosciuta è possibile vedere come tre Opere inzeppate in una. Si tenderebbe ad aggiungere l'avverbio: «artificiosamente». Ciò che sarebbe artificioso per altri, corrisponde alla natura di Salieri; a prescindere dal fatto che le vicende dello stile si complicano sempre d'artificio. La descrizione dall'esterno dell'Opera incomincia col rilevare che i personaggi sono cinque. Uno solo è una voce virile: meno importante degli altri, è un tenore, dall'estensione corrispondente all'incirca a un attuale mezzosoprano un'ottava sotto. Ha una sola Aria di coloratura e per il resto dialoga con gli altri. Poi vi sono due coppie di un maschio e di una femmina ciascuna. Le due femmine corrispondono, all'incirca, a un attuale soprano sopracuto di coloratura; i due personaggi virili, aventi a destinatario ideale prima ancora che reale il castrato, sono due voci corrispondenti all'incirca all'attuale contralto. Si ripete «all'incirca» giacché lo stesso concetto di estensione vocale e di tessitura è in quest'Opera corrispondente a canoni diversi da quelli che si formeranno nel repertorio in Rossini e dopo di lui. I due soprani hanno una scrittura tecnicamente e stilisticamente affine: ne risulta che sono quasi indistinguibili sotto il profilo della moderna specificità in psicologia musicale. Dei due contralti si sarebbe per dire lo stesso se non fosse che la profusione melodica sparsa da Salieri nell'Opera benedice i loro pezzi patetici al punto che l'attenzione si rinnova di continuo e la profilatura psicologica perde rilievo. In una vicenda di rivalità amorose e politiche intessuta di fatti atrocissimi, i personaggi sono dal compositore concepiti come incarnazione di «affetti», termine aristotelico e aulico per definire i «sentimenti», non come individui: «affetti» in senso generalissimo,tipico, appunto. Altrimenti, sono concepiti addirittura come effetti di un evento drammatico astratto; il giuoco di parole non è voluto. Abbiamo allora una forma musicale tutta concepita dall'esterno, secondo necessità drammatiche preparate dal testo letterario, volgarmente chiamato «libretto»: cosicché le Arie sono artificiosamente (di nuovo!) spezzate, inframmezzate a Recitativo, a interventi corali, a moti strumentali, ovvero mettono capo a qualcosa d'inaspettato in confronto alle premesse musicali. Spesso il risultato è d'una concettosa brevità che i vecchi insegnanti di latino definivano come «retorica asiana», propria dell'epoca post-aurea. Questa è una delle tre Opere contenute nell'Europa riconosciuta. E qui l'impronta di Gluck è più potente. Torno a un concetto: perché in Salieri come in Gluck l'invenzione parte da una primigenia immagine plastica che diventa col lavoro creativo cosa musicale. In Mozart e Haydn l'invenzione parte da una primigenia immagine musicale che diventa col lavoro creativo anche cosa drammatica. Salieri usa tutti i mezzi sopra elencati per accumulazione e crescendo, altri espedienti dell'oratoria antica trasposti nei trattati di composizione musicale del Seicento e del Settecento. Perviene così a una attuazione drammatica della vicenda tradotta in musica di alta qualità. Ecco l'Opera «riformatrice» che corrisponde alle intenzioni del poeta drammatico, Mattia Verazi. Questi non è poeta, bensì un moderno regista che con le parole prepara il gesto drammatico attuato in musica. Di singolare finezza è un'osservazione di Pietro Verri nel descrivere l'Opera al fratello Alessandro in una missiva molto citata in letteratura, da ultimo da Paolo Gallarati nel perfetto saggio introduttivo composto per l'occasione di domani. Dice di Verazi il Verri: «uomo che non è poeta, né di lettere, ma teatrale»; sopra si è fatta solo la parafrasi dell'espressione citata. I materiali di partenza adoperati dal Verazi sono lacerti metastasiani, immagini, concetti, similitudini, involgariti ma volti ad altro effetto: quello drammatico, appunto, non quello poetico e psicologico, come in Metastasio. La seconda Opera contenuta nell'Europa riconosciuta è un' Opera-concerto secondo il vecchio modello fissato da Hasse decenni prima e rinverdito alla luce di un aggiornato Stile Classico alla viennese. Di qui la profluvie di colorature vocali specie nelle due parti di soprano con un'insistenza sui virtuosismi nel sopracuto che parrebbe rendere oggi addirittura ineseguibili le parti stesse. A onta dell'algida astrazione dello stile, che brilla come l'oreficeria di pietre dure, anzi pure a causa di esso, non si può che ammirare altamente la maestria e la rifinitura effuse da Salieri. Poi, ed eccoci per inavvertibile modulazione alla terza, v'è l'Opera che ti rapisce. Già si è detto dell'eleganza e del pathos di alcune Arie lente. Un Coro in Do maggiore nel I atto, O temide immortale, è un' arcana anticipazione (Gallarati adopera benissimo l' espressione «pre-eco») del Flauto magico. Il Finale, A regnar su questa sede, sembra esser stato volontariamente parodiato da Mozart in Bella vita militar di Così fan tutte: vi è quel po' di amido neoclassico che trovi pure nella Marcia dei soldati di Pizarro del Fidelio. Sempre nel II atto, un' Aria cantata da Semele, uno dei due soprani, è una strepitosa gara di bravura con un oboe solista. Dall'esterno, a chiunque verrebbe il paragone con il celebre episodio messo in versi da Giovambattista Marino, la contesa tra la voce umana e l'usignolo. Invece, proprio qui siamo del tutto di fuori dal Barocco: e le orecchie ti dicono di un richiamo autentico alla ventura, insuperabile, Sinfonia Concertante in Si bemolle maggiore di Haydn. Ecco il Salieri che, con la sua innaturale naturalezza, sta per intero entro lo Stile Classico.

Paolo Isotta (Corriere della Sera, 6 dicembre 2004)