Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, marzo 21, 2021

Vladimir Delman & Gustav Mahler

GUSTAV MAHLER (1860-1911)

SINFONIA N. 5 IN DO DIESIS MINORE

1° tempo - Marcia funebre. In tempo misurato
2° tempo - Tempestosamente mosso, con la più grande veemenza
3° tempo - Scherzo - Robusto, non troppo veloce
4° tempo - Adagietto - Molto lento
5° tempo - Rondò finale - Allegro

ORCHESTRA SINFONICA DEL TEATRO ALLA SCALA
Maestro concertatore direttore
VLADIMIR DELMAN

Il direttore d'orchestra, VLADIMIR DELMAN è nato a Leningrado e si è diplomato al Conservatorio della stessa città in pianoforte e direzione d’orchestra. Ha svolto attività artistica a Mosca, nell'URSS, in Inghilterra, Francia, Germania Orientale e Cuba. Dal 1974 risiede in Italia. Ha diretto le orchestre della RAI, del Maggio Musicale Fiorentino, della Fenice di Venezia, dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma, del Comunale di Bologna e del Regio di Torino. Alla Scala ha diretto il settimo concerto sinfonico della stagione del bicentenario.

GUSTAV MAHLER (1860-1911) è un musicista postumo, la cui fortuna si può dire dati dalla fine della seconda guerra mondiale. Nato a Kaliste in Boemia, quando la Boemia faceva ancora parte dell”impero austro-ungarico, raggiunse grandissima fama come direttore d’orchestra specialmente nel periodo in cui, dal 1897 al 1907, prestò la sua opera come direttore della Opera di Stato di Vienna. Agli occhi dei contemporanei la grandezza del compositore risultò anzi parzialmente oscurata dalla grandezza del direttore d'orchestra.
La sua opera di compositore comprende, distribuite nell'arco dell'ultimo ventennio della sua vita, nove sinfonie, il Lied von der Erde (Canto della terra) e importanti cicli di Lieder per canto e orchestra: citiamo il Des Knaben Wunderhorn (Il canto meraviglioso del fanciullo) i Lieder eines fahrenden Gesellen (Canti di un compagno errante), i Kindertotenlieder (Canti di fanciulli morti) e i Lieder nach Ruckert (Canti da Ruckert). Mahler è un contemporaneo di Debussy e di Riccardo Strauss (anche di Puccini), ma nulla ha in comune con questi musicisti.
Legato a tutta la tradizione della musica austro-tedesca, da Schubert a Wagner, con lui volge verso la sua conclusione la lunga parabola del romanticismo musicale. Nella sua musica c’è veramente il senso di qualcosa che finisce, di una civiltà giunta al suo tramonto, di un’epoca che si chiude. Sembra talvolta che i poeti riescano a presagire a distanza quello che dovrà accadere e noi crediamo di trovare oggi nella musica di Mahler il presentimento delle tragedie che hanno funestato l’Europa nella prima metà di questo secolo. E' certo, comunque, che pochi musicisti riescono a parlare con Mahler all'umanità di oggi e la sua fortuna postuma non può essere giudicata soltanto un fenomeno di moda. Anche nel campo della produzione discografica il successo di Mahler, con la cui musica si sono cimentati i più grandi direttori d’orchestra - da Bernstein a Kubelik, da Solti a Karajan (senza dimenticare Bruno Walter, colui che anche nella direzione d’orchestra raccolse direttamente l’eredità di Mahler) - non è inferiore a quello dei più grandi e noti musicisti dell’età classico-romantica, da Mozart a Brahms. Con l’eccezione dei cicli liederistici, Mahler impiega sempre un organico orchestrale portato ai suoi limiti estremi e non sono mancate, da parte di taluni detrattori, accuse di elefantiasi Sonora. Anche il ricorso a materiali molto eterogenei è stato spesso sottolineato non positivamente da critici e studiosi. La Quinta Sinfonia, comportante anch'essa il ricorso a un gran numero di strumenti a fiato, legni e ottoni, e a una nutritissima percussione, presenta una struttura tripartita, ma è suddivisa in cinque movimenti: i primi due formano la prima parte, lo Scherzo la seconda e gli ultimi due la terza.
La composizione dell'orchestra è la seguente: quattro flauti (terzo e quarto anche ottavini), tre oboi (terzo anche corno inglese), tre clarinetti in si bemolle, (terzo anche clarinetto basso in si bemolle), tre fagotti (terzo anche controfagotto), sei corni in fa, quattro trombe in fa e si bemolle, tre tromboni, un basso-tuba, arpa, timpani, tamburi, grancassa, piatti, triangolo, tam-tam, nacchere e archi. La tonalità di do diesis minore, attribuita solitamente a tutta la sinfonia, riguarda in realtà soltanto il primo tempo: il secondo è in la minore, il terzo, lo Scherzo, è in re maggiore, il quarto, l'Adagietto, è in fa maggiore e il quinto movimento, Rondò-finale, è di nuovo in re maggiore. Nella Quinta Sinfonia, come accadrà anche nella Sesta e nella Settima, Mahler non fa ricorso alla voce umana, di cui si era servito nella Seconda, Terza e Quarta, ma non mancano anche nella Quinta riferimenti ai Lieder, come i contemporanei Kindertotenlieder e, per quanto riguarda l’inizio dell'Adagietto in fa maggiore per archi e arpa (si tratta del tempo più breve ma anche più noto, per l’impiego fattone da Luchino Visconti nel film "Morte a Venezia" del 1971), è da sottolineare la coincidenza con l’inizio del bellissimo Lied su testo di Ruckert: "Ich bin der welt abhanden gekommen" (Sono giunto smarrito nel mondo). La Quinta Sinfonia fu composta negli anni 1901-1902, ma eseguita per la prima volta, sotto la direzione dell’autore, a Colonia il 18 Ottobre 1904. Nessun’altra opera di Mahler fu sottoposta a così ripetute e scrupolose revisioni. Secondo il Redlich, uno dei più insigni studiosi mahleriani, la Quinta "è forse l'espressione più ortodossa dell’attaccamento di Mahler all'eredità classica viennese".
Questa Sinfonia si differenzia però dal modello classico per il fatto che il primo movimento è, come si è detto, diviso in due parti ben distinte, una "marcia funebre" e un "allegro" che elabora in gran parte il materiale tematico precedente e funziona da sviluppo di esso. Il terzo tempo, uno Scherzo con due Trii, il secondo dei quali è di dimensioni ragguardevoli, segue lo schema del Landler e ci riconduce al mondo di Schubert e di Bruckner. L’impressionante lunghezza dello scherzo è controbilanciata dalla tenera semplicità dell'Adagietto per archi e arpa, somigliante almeno esteriormente a un canto schumanniano, che acquista il valore di un breve interludio ed è come un ponte di passaggio al Rondò finale, di carattere briosamente estroverso e di vigoroso impianto contrappuntistico, che nell'ampiezza e grandiosità del suo sviluppo sembra riportarci alla giubilante solennità dei finali delle sinfonie bruckneriane.


Le interpretazioni mahleriane in Italia di
VLADIMIR DELMAN

Des Knaben Wunderhorn
1975, 7 giugno - Evelyn Lear - Orchestra della RAI di Roma - Roma, Auditorium della RAI
 
Des Lied von der Erde
1978, 14, 15 ottobre - Regine Fonseca, Eberhard Büchner - Orchestra Teatro Comunale di Bologna - Bologna, Teatro Comunale
1978, 7 dicembre - Regine Fonseca, Gösta Winbergh - Orchestra della RAI di Torino - Torino, Auditorium RAI
1979, 19, 20, 21 gennaio - Regine Fonseca, Richard Cassilly - Orchestra Teatro Comunale di Genova - Genova, Politeama Genovese

Sinfonia n. 3
1979, 24, 24 settembre - Viorica Cortez - Coro Antoniano, Orchestra e Coro Teatro Comunale di Bologna - Bologna, Teatro Comunale
1982, 27 marzo - Orchestra e Coro della RAI di Roma - Roma, Foro Italico
1982, 5 maggio - Reinhild Runkel - Cori del Conservatorio Martini, Orchestra del Teatro Comunale di Bologna - Repubblica di San Marino
1982, 7, 8 maggio - Reinhild Runkel - Cori del Conservatorio Martini, Orchestra del Teatro Comunale di Bologna - Bologna, Teatro Comunale
1983, 8, 9 dicembre - Orchestra della RAI di Torino - Torino, Auditorium RAI (concerti annullati per sciopero)
1984, 13, 14 dicembre - Maureen Forrester - Orchestra e Coro della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi
1990, 25 ottobre - Gabriele Schreckenbach - Coro e Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi

Sinfonia n. 8 "Dei mille"
1979 9, 20, 21 ottobre - Maria Luisa Cioni, Silvia Rhis Thomas, Juanita Porras, Reinhild Rundek, Giuliano Ciannella, Attilio D'Orazi, Boris Carmeli - Orchestra e Coro Teatro Comunale di Bologna - Bologna, Teatro Comunale

Sinfonia n. 5
1980, 17, 19 ottobre - Orchestra Teatro Comunale di Bologna - Bologna, Sala Europa
1980, 18 ottobreOrchestra Teatro Comunale di Bologna - Ferrara, Teatro Comunale
1980, 8 novembreOrchestra Teatro Comunale di Bologna - Cesena, Teatro Bonci
1980, 9 novembreOrchestra Teatro Comunale di Bologna - Modena, Teatro Comunale
1981, 4 novembre - Orchestra della Scala di Milano - Mantova, Teatro Sociale
1981, 5 novembre - Orchestra della Scala di Milano - Carpi, Teatro Comunale
1981, 6 novembre - Orchestra della Scala di Milano - Cremona, Teatro Ponchielli
1981, 7 novembre - Orchestra della Scala di Milano - Bergamo, Palazzo dello Sport
1981, 11 novembre - Orchestra della Scala di Milano - Milano, Teatro alla Scala
1985, 29 settembre - Orchestra Sinfonica Siciliana - Palermo, Teatro Golden
1991, 26 luglio - Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi
1993, 11, 12 dicembre - Orchestra Giuseppe Verdi di Milano - Milano, Auditorium Verdi
 
Sinfonia n. 1 "Titano"
1982, 17, 20 settembre - Orchestra Teatro Comunale di Bologna - Bologna, Teatro Comunale
1990, 8, 9 febbraio - Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi 
1991, 5 luglio - Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi 

Kindertotenlieder
1991, 16 luglio - Livia Budai-Batky - Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi

Sinfonia n. 9
1991, 21, 22 novembre - Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi
1993, 22, 23 aprile - Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi

Sinfonia n. 2 "Resurrezione"
1993, 11, 12 novembre - Ana Pusar, Liliana Bizineche Eisinger - Coro della Radio di Budapest - Orchestra della RAI di Milano - Milano, Auditorium Verdi

 

mercoledì, marzo 10, 2021

Paolo Grassi: La musica nei programmi televisivi

Qualche tempo fa, in un’intervista 
sulla "Nazione" di Firenze, rispondevo ad una obiezione di Leonardo Pinzauti sul calo di quantità e di qualità di "musica colta" nei programmi radiotelevisivi, dopo la Riforma, dicendo più o meno: "So che sono state avanzate critiche, riserve e dissensi a questo proposito ... Ma, pur premettendo che non posso seguire, come vorrei, tutto quello che viene trasmesso né conoscere come vorrei, le più importanti realizzazioni del passato, mi pare che si possa obiettivamente dire che ci sia stata più una flessione di quantità che di qualità: basterebbe pensare alle famose trasmissioni televisive in diretta dalla Scala e dal 'Maggio', i prossimi concerti sinfonici sempre dalla Scala, la nostra disponibilità a trasmettere il prossimo Trovatore dal Comunale di Firenze, il Macbeth da Torino, gli impegni assolti con le dirette da Spoleto, con le 'differite' da Montepulciano, Martina Franca, Perugia, ecc. e mi sembra che la qualità sia stata assicurata".
E’ bene dire che nell'intervista citata, accennavo anche al grande avvenimento destinato ad essere trasmesso il 7 dicembre in tutto il mondo, e cioè la ripresa in diretta, per il bicentenario della Scala, del Don Carlos di Verdi, diretto da Abbado e con la regia di Ronconi, senza immaginare allora che interessi economici, estranei alla RAI, incomprensioni e veti assurdi, avrebbero impedito ad una platea mondiale di assistere, se non un mese dopo, con pieno diritto, ad uno spettacolo di eccezionale interesse artistico e culturale.
Questa mancata occasione non impedirà certamente la prosecuzione del nuovo rapporto instaurato fra la RAI e le principali forze musicali, vive ed operanti nel nostro Paese e nel mondo: i recenti collegamenti con il Bolscioi di Mosca che hanno permesso a milioni di telespettatori di seguire via satellite il "Boris Godunov" e lo "Schiaccianoci" sono la testimonianza, non solo di un accordo italo-sovietico stipulato alcuni mesi fa a Mosca, ma di una nuova volontà e di una nuova politica nel campo musicale. E non è soltanto perché alla RAI è arrivato un presidente che viene dal teatro e dalla musica, ma per le precise indicazioni del Consiglio d’Amministrazione che in una recente riunione ha approvato all'unanimità un piano che prevede interventi decisivi nel settore delle scienze, del teatro di prosa, delle arti figurative e anche in quello della musica colta, con particolare riguardo a quella contemporanea ed ai musicisti italiani d’oggi.
Perché, è bene ribadirlo, la nuova politica nei confronti della musica non può e non deve essere puro trionfalismo ed esibizionismo di alcune ricche vetrine musicali, come i più importanti Teatri lirici d’Italia e del mondo - alle quali vetrine, è bene però dirlo, i cittadini medi, nella stragrande maggioranza, si possono avvicinare solo grazie alla televisione, e questa è una funzione insostituibile della TV - ma l’inizio di un nuovo corso in cui accanto a spettacoli musicali di qualità, si prevedono rubriche specializzate d’informazione, di iniziazione e di pedagogia musicale, dibattiti, sceneggiati con protagonisti musicisti ed il mondo della musica (se ne stanno preparando già tre, una vita di Verdi, una di Schubert e il "Giovane Mozart") ed infine le attività collaterali delle "consociate" (fra queste la Fonit-Cetra con una serie di dischi "live"), per dare un senso ed una linea più coerente ai nostri programmi musicali e raggiungere strati sempre più vasti di pubblico.
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E ora una breve riflessione. Sui rapporti tra i grandi mezzi di comunicazione di massa e la musica colta credo che, ormai da un pezzo, sia stato scritto quasi tutto ed in genere per trarne conclusioni quasi sempre negative, a livello di riflessione sociologica: basta pensare a quanto scritto da Adorno nell’"Introduzione alla sociologia della musica", in particolare nel capitolo, dove esaminando la funzione della musica il filosofo tedesco osserva che "la musica come funzione sociale è affine alla truffa, e fallace promessa di gioia che pone se stessa al posto della gioia" ... e ancora "che come i bambini corrono dove succede qualcosa, così solo i tipi umani in regresso corrono dietro alla musica".
Personalmente sono portato a credere che la critica sociologica di Adorno sia più "negativa" che "distruttiva": trattandosi di un linguaggio "astratto", a forte carica "espressiva" - come rileva acutamente anche Luigi Rognoni in un suo saggio - la musica, per Adorno, è e rimane essenzialmente il linguaggio dell’interiorità, il linguaggio più carico di implicazioni culturali e spirituali per cui la riproduzione, la diffusione attraverso i mass-media rischia di farle perdere le caratteristiche di arte "auratica" per eccellenza - secondo la nota definizione di Walter Benjamin. Ecco la ragione fondamentale del pessimismo adorniamo: in realtà - e spero di non scandalizzare i sociologi della Scuola di Francoforte e di non dissacrare alcun mito - io credo che la musica è un’arte sociale i cui generi e le cui forme si sono evoluti in funzione degli ambienti ai quali essa si riferiva. Per esempio, la società del XVII e del XVIII secolo ha favorito la moda ed il diffondersi della musica da camera allo stesso modo in cui i perfezionamenti tecnici degli scenari teatrali hanno, più tardi, orientato i soggetti e la composizione delle opere liriche.
Non molto tempo fa, il cinema ha aperto la via ad una forma e ad una concezione originale della musica da scena. E ora che la televisione si è inserita profondamente nella vita quotidiana, non dovrebbe avere nessuna incidenza, nessun rapporto attivo e proficuo con la musica? La musica, ripeto, è un’arte sociale e la televisione ne è il suo moderno profeta, se è anche vero quello che ha detto Luigi Nono nel convegno organizzato dall’ASAC a Venezia, che non si deve più centralizzare l’ascolto della musica nei teatri ma diffonderlo e che il teatro o la sala da concerto, come luoghi deputati per sentire musica sono un "mistero" goduto da pochi.
Subito dopo bisogna precisare che nella nostra nuova linea di tendenza cercheremo di combattere la prevenzione che c’è all'interno dell’Azienda, ma non solo della nostra, nei confronti della musica colta, l’idea che le trasmissioni musicali non facciano spettacolo ed abbiano indici di gradimento molto inferiori alle medie più basse di altri generi più popolari come i film, gli sceneggiati, gli spettacoli di rivista, i documentari giornalistici, ecc. Questa concezione ha relegato spesso, nel passato, le trasmissioni di concerti, balletti, opere liriche, rubriche musicali in posizioni subordinate rispetto ad altri generi, con collocazioni infelici, il concerto sinfonico ed il balletto contro il film del lunedì, ad esempio, l’opera lirica contro il grosso spettacolo di rivista del sabato, così da provocare spesso reazioni e giuste critiche da parte dei telespettatori e dei musicologi, per il ruolo di parente povera "proscritta" assegnato alla musica rispetto alle altre attività.
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Mi sembra che la "diretta" di grossi ed importanti avvenimenti musicali, con collocazioni privilegiate, come l’"Otello", la "Norma", "Napoli milionaria", il "Boris", il "Macbeth" e domani il "Trovatore", il "Ballo in maschera", il "Simon Boccanegra", il "Ballo Excelsior" ecc. insieme all'attenzione che ora si è ristabilita, per il fatto musicale in TV, nei giornali, nelle riviste, nei periodici specializzati (la grande risonanza data alla polemica per il "Don Carlos" non è stata solo scandalistica ma ha un fondo di protesta culturale) contribuirà a dare, nel futuro, alla musica colta il giusto posto che le spetta nell'ambito dei programmi radiotelevisivi. Questo è solo l’inizio di un lungo cammino: è necessario procedere gradualmente, partendo dalla convinzione che le trasmissioni di musica colta, attraverso i mass-media, debbano assolvere ad un duplice compito, spettacolare e pedagogico.
Per quanto riguarda il primo, sono convinto che bisogna tenersi ad eguale distanza dall'esoterismo e dalla volgarizzazione demagogica: spettacoli di alto livello artistico, ma non sofisticati o di troppo impegnato ascolto, se si vuole suscitare in un pubblico eterogeneo e numeroso un interesse reale e sempre più vivo verso la musica. E a questo proposito ho già detto in altra occasione che la RAI deve tener conto della realtà (oggi la Scala, il Bolscioi, domani l’Opera di Parigi, Vienna, Bayreuth, Salisburgo, il Metropolitan, il Colòn, ecc.) ma anche anticiparla: non si può cioè soltanto accorgersi di quel che c’è ma dobbiamo anche noi inventare una linea di produzione. E questo implica un discorso, cui accenneremo più in là, sulle enormi possibilità di visualizzazione che il mezzo televisivo offre e sulle nuove funzioni che la televisione deve assolvere, come strumento più idoneo di rinnovamento delle vecchie concezioni, in una più piena e completa utilizzazione funzionale e "fantastica" dei suoni e dei rumori.
Quanto alla funzione pedagogica, mi sembra che i grandi mezzi di comunicazione di massa abbiano importanti compiti da realizzare, in un reale e operativo collegamento con i Conservatori e con le Scuole di musica del nostro Paese, come è stato auspicato nel recente convegno di Assisi. Oggi c'è da noi, soprattutto da parte dei giovani, un’autentica fame di musica che nessuna Istituzione pubblica e privata, Ente lirico-sinfonico riesce a soddisfare. Ho letto sui giornali che per l'inaugurazione, S. Cecilia ha organizzato una prova generale per studenti all’Auditorium in Vaticano ospitando seimila ragazzi; i nostri concerti, per le stagioni iniziate da poco, a Roma, a Torino, a Milano e perfino a Napoli, dove il M° Bortolotto ha organizzato un’interessantissima stagione di musica contemporanea, sono straboccanti di folla, soprattutto di giovani: è vero quanto ha detto Zurletti in un suo recente articolo su " Repubblica" che "nonostante la sapiente e spietata politica di consumo, i juke-box non sono riusciti ad annullare gli interessi musicali seri, e anzi forse li hanno rivelati".
Per questo, proprio per venire incontro a queste esigenze di un pubblico giovane, fra le altre iniziative, abbiamo favorito la creazione, col patrocinio del "Corriere della sera" e l’entusiasmo di Joy Bryer, dell’Orchestra giovanile della Comunità europea che darà il suo primo concerto a Copenhagen il prossimo 27 marzo sotto la direzione di Claudio Abbado, e che sarà costituita da 135 elementi provenienti da tutti i 9 paesi del Mercato Comune.
E’ anche chiaro che la trasmissione televisiva di un concerto o di un’opera non avrà mai lo stesso valore di un vero concerto, di una vera opera, ma potrà aprire altri orizzonti: spetta a noi sfruttarli. D’altra parte gli spettacoli musicali come le informazioni sulla musica, attraverso le rubriche specializzate, i dibattiti, ecc. che devono favorire una migliore conoscenza e stimolare una maggior curiosità, non potranno raggiungere in nessun altro luogo un’efficacia paragonabile a quella offerta dalla televisione: giovandosi della distanza, del tempo, l’immagine è congiunta e qualche volta precede il suono, quasi a completarlo e moltiplicandone il valore.
Rammento quanto scrisse, quasi profeticamente, il grande Strawinsky nelle "Cronache della mia vita" anticipando certe questioni televisive: "Ho sempre detestato ascoltare la musica a occhi chiusi, senza che l’occhio vi prenda parte attiva. La vista del gesto e del movimento delle varie parti del corpo che la producono è una necessità essenziale per afferrare la musica in tutta la sua pienezza. Infatti ogni musica, dopo essere stata composta, esige ancora un mezzo di esteriorizzazione, per essere percepita dall'ascoltatore".
"Evidentemente è preferibile spesso volgere gli occhi da un’altra parte o chiuderli, quando una gesticolazione superflua dell’esecutore impedisce di concentrare la nostra attenzione auditiva. Ma se questi gesti sono provocati unicamente dalle esigenze della musica e non tendono ad impressionare l’ascoltatore con mezzi extra artistici, perché non seguire con lo sguardo dei movimenti che, come quelli delle braccia del timpanista, del violinista, del suonatore di trombone o del direttore d’orchestra ci facilitano la percezione uditiva?".
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Un altro capitolo importante, che ci e siamo proposti di seguire con particolare attenzione, è quello della musica moderna, alla quale il nostro pubblico deve essere a poco a poco avvicinato: anche in questo caso, in modi diversi, iniziando ad esempio con monografie dei principali autori contemporanei come ha fatto esemplarmente la BBC con la recente serie "Omnibus" dedicata a Berio, Ligeti, Stochhausen, Penderecki, Varese, Slutoslausky, ecc., cui sono state abbinate esecuzioni di altissimo livello.
In questo concordo con Pierre Boulez che in "Per volontà e per caso" dice giustamente che si può imporre la musica contemporanea, anche attraverso i mass-media, solo quando si offrono esecuzioni perfette. E non considero certo, come qualche raffinato musicologo, un punto negativo (come non lo considera neppure il grande Boulez) il fatto che la musica moderna, attraverso la televisione, arriva, in esecuzioni impeccabili, ad un grande pubblico e passa così - come si dice - nella rete della distribuzione del consumo di massa. Qualcuno, con linguaggio falsamente marxista potrebbe obiettare che la musica moderna in questo modo si reifica, ma io ritengo che dal punto di vista della fecondità, un’arte è in una situazione migliore quando è inserita in una rete di grande diffusione come la TV, quando non è più in lotta ed ha moltiplicato i suoi seguaci, ammiratori ed epigoni.
Anche la creazione di opere originali per il repertorio lirico, coreografico, sinfonico televisivo è un problema che dobbiamo sentire profondamente, anche se molto difficile: penso tuttavia che un grande compositore moderno (Henze ad esempio o Berio o Nono) possa essere invogliato a scrivere un’opera pensando al pubblico vasto della TV. Non si scrive, del resto, un’opera semplicemente per il piacere di comunicarla ad alcuni amici: anche se a tutta prima sarebbe interessante farlo, in ciascun artista c’è il bisogno di comunicare con molte persone ed un desiderio di essere compresi e assimilati. Un’operazione di questo genere può essere resa possibile dalla televisione: il rapporto musica-TV, soprattutto per quanto riguarda la creazione di opere originali, è un tema importantissimo e posso anticipare che costituirà l’argomento del convegno del prossimo Premio Italia, che si svolgerà in settembre a Milano.
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Una breve riflessione a parte riguarda la creazione di una raccolta di esecuzioni autenticamente valide, raccolta che non dovrebbe avere come suo canone solo la perfezione tecnica (sotto il profilo della ripresa video e soprattutto audio, nel quale ultimo settore la nostra Azienda deve raggiungere rapidamente i traguardi della stereo-quadrifonia, studiati attualmente presso la Z.D.F. di Mainz dal prof. Schumann), ma la qualità musicale medesima, che - come a suo tempo osservava già Webern - è minacciata da ogni parte per via dell’inarrestabile perdita del senso della tradizione. Per raggiungere ciò, sarebbe opportuno mettere a disposizione di certi grandi interpreti, per certi autori, un numero di prove a piacere: una vera interpretazione ha probabilmente bisogno di "sperpero" di tempo come la grande architettura ha bisogno di sprecare spazio. Non posso soffermarmi, come forse dovrei, sulla musica elettronica, elettroacustica e per computer: ricordo che c’è un progetto, per ora in fase di studio, di sviluppare la parte della visualizzazione del Centro di Fonologia di Milano, nato nel lontano 1955, un tempo all'avanguardia, in questo campo, in Europa: luogo di educazione e sviluppo musicale per tanti musicisti famosi come Maderna, Berio, Nono, Stockhausen, Clementi, Cage, ecc., ora purtroppo ha perso il suo primato, anche perché nel frattempo altri organismi hanno fatto passi da gigante, come l’Ircam di Parigi ad esempio, dove lavora però un italiano, il geniale Di Giugno.
Desidero solo rammentare che in questo studio, Luigi Nono ha creato opere come "Ricorda cosa ti hanno fatto ad Auschwitz", "Contrappunto dialettico alla mente" ed il bellissimo lavoro teatrale "Al gran sole carico d’amore", un importante e contrastato successo della Scala nel 1976 che quest’anno la televisione porterà al suo grande pubblico.
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Pensare di risolvere tutti i numerosi e difficili problemi della musica colta in tempi brevi sarebbe sbagliato e altrettanto sarebbe contentarsi di tempi lunghi. Bisogna pensare in tempi brevi-medi e credo che già si notino inversioni di tendenza rispetto al calo di cui parlavo all'inizio.
Da parte mia non posso interferire nell'autonomia delle Reti: ma non posso nemmeno tradire la mia vita, tutta un’esistenza che ha avuto dimestichezza non soltanto con lo spettacolo ma anche con la musica...
Credo insomma nella musica come fatto vitale che sta in mezzo a noi e credo, s’intende, all'aristocrazia ma anche alla popolarità del fatto musicale, di cui tutti hanno bisogno e di cui sta crescendo una vera e propria fame.
E la televisione può diventare veramente il korrepetitor, il fido maestro sostituto, di cui parlava Adorno, al quale una volta si affidava la responsabilità di educare i cantanti e al quale oggi si può affidare il compito dell’educazione musicale del pubblico: la musica attraverso l’ascolto non inficiato dal rituale della sala da concerto o del teatro d’opera, esce dal suo sacrario - come ha osservato Giacomo Manzoni - si smitizza definitivamente acquistando però, con questo, nuove qualità anziché perdere il suo senso. La televisione, la tecnica cioè, diventa dunque mezzo di assoluto progresso positivo: e questo è la base e anche la speranza per il nostro lavoro di domani.
Paolo Grassi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXX n.3 dicembre 1977 / anno XXXI n.1 gennaio 1978)

lunedì, marzo 01, 2021

Piero Rattalino: "Dopo una vita nella trincea della musica sono rimasto soltanto un divulgatore"

Quartiere Prati, Roma, interno giorno. Un pianoforte. Un giradischi. Un computer. Piero Rattalino - il miglior divulgatore musicale che ci sia in Italia - si accomoda su una sedia davanti a me. Abbandona le braccia fino a congiungerle tra le cosce. Piega il capo in avanti. Somiglia al vecchio Rod Steiger. La stessa impassibile faccia di duro metallo prezioso. Gli stessi occhi freddi, coperti da occhiali che sembrano aumentare la distanza.
È un uomo ancora vigoroso, attento, provvisto di una cautela che si potrebbe confondere con la parola noia. Al telefono è stato lapidario: venga, ma non so come finirà. I suoi libri hanno esplorato l'intero universo pianistico. E in ciascuno si ritrova una punta di teatralità. Non spiegano, almeno non solo. Recitano. Mozart, Chopin, Beethoven sembrano, prima di tutto, attori piantati nel mezzo di un grande palcoscenico. Raccontano delle storie. Alle quali Rattalino presta l'orecchio. Dice: "Non mi piace affliggere chi legga i miei libri. Già fanno il sacrificio di comprarmi, vorrei evitare l'eccesso di pesantezza tipica di certa saggistica accademica".
Rattalino non si limita a divulgare in modo originale. Al pianoforte ha dedicato molti anni di insegnamento. Tra i suoi ultimi allievi, una delle più riuscite espressioni, l'iraniano Ramin Bahrami.

Che cosa ha Bahrami che altri pianisti non hanno?
"Il grandissimo talento. Lui incarna l'artista puro e indomabile. Ho fatto una fatica enorme a irreggimentarlo. Per fortuna senza riuscirci. Diciamo che gli ho insegnato a sopportare il morso".
Si può, si deve, irreggimentare la creatività?
"Di solito abbiamo una nozione astratta della creatività. Non basta nell'esecuzione la grande fantasia, la libertà interpretativa. Occorre disciplina, lavoro, fatica. Un talento autentico copre in men che non si dica il novanta per cento del percorso. Ma è il restante dieci per cento che fa la differenza. E su quel dieci l'impegno deve essere assoluto".
Lei ha insegnato in diversi conservatori. Immagino che i talenti autentici siano pochi.
"Pochissimi".
Come li riconosce?
"Dalla facilità e dalla rapidità con cui imparano. E poi c'è l'originalità: qualcuno fa qualcosa alla quale nessun maestro aveva pensato prima".
Quanto conta la mano del pianista?
"Si è un po' troppo enfatizzata questa parte del corpo. La mano deve essere né troppo grande né troppo piccola. Con una proporzione tra il dito medio e la sua parte superiore. Ma alla fine, per suonare bene, è la testa che deve funzionare. La tecnica, sosteneva Ferruccio Busoni, risiede nel cervello".
Lei con chi ha studiato?
"Con Carlo Vidusso. Possedeva un senso pianistico formidabile. Ma l'esecuzione migliore per lui era sempre la seconda. Mai la prima, né quelle successive. Era come se dopo aver toccato la perfezione il brano non gli interessasse più. Davvero strano".
La stranezza paga nella musica?
"Se si sposa al talento, certamente. Poi c'è il linguaggio del corpo che nel pianoforte ha una funzione ornamentale. Il gesto non è mai intrinseco alla musica. Serve al pubblico. Gli indica quando arriverà il momento importante".
Forse il pianoforte è lo strumento più teatrale.
"È soprattutto una macchina che produce suoni che una volta emessi non sono modificabili. La teatralità lo umanizza. Un pianista come Lang Lang è una serie impressionante di smorfie".
Arturo Benedetti Michelangeli impressionava per la sua immobilità.
"La sua era una teatralità più segreta".
Lo ha conosciuto?
"Gli avrò parlato tre o quattro volte. Non era dotato di una comunicazione incoraggiante. Ma di un'artisticità formidabile, questo sì. Il suo problema credo che sia stato crescere, durante il fascismo, in un ambiente di provincia. Se ne rese conto andando all'estero. Provò ad acculturarsi. Avrebbe dovuto disinteressarsi di ciò che pensavano in America. Invece si lasciò toccare dal perfezionismo".
Non è necessariamente un limite.
"Si tende alla perfezione come ci si sporge da una balaustra pericolosa. Può andar bene o male. Puoi alzarti in cielo o sfracellarti. Ma il punto non è questo".
E quale sarebbe?
"Negli ultimi concerti di Benedetti Michelangeli sentivo il cambiamento. Ancora una volta la forza della natura si era impossessata di lui. Ripescò quanto di grande c'era nella sua anima senza filtri culturali".
La cultura era un impedimento?
"In un certo senso sì. Il cammino che aveva compiuto lo stava conducendo verso la sterilità. Ma seppe reagire, abbandonandosi alla forza emotiva. Ricordo a Bregenz nel 1988. Erano in molti ad ascoltarlo. E tanti dissero che non era più lui. Deploravano questo stile che era diventato disperato e violento. Mentre io ci vedevo libertà e ricchezza interiore. Aveva qualcosa di profetico. Alfred Cortot colse la sua inattualità quando disse che Michelangeli era la reincarnazione di Liszt. La verità è che il suo animo aveva in dosi eguali ed estreme crudeltà e dolcezza".
Chi sono stati secondo lei i più grandi pianisti del secolo scorso?
"I tre più grandi per me furono Backhaus, Richter e Horowitz ".
Cosa li accomuna?
"Niente, tranne il fatto che erano grandi pianisti. Il più gigione fu Horowitz. Backhaus sembrava una specie di profeta probo. Richter non ripeteva mai niente di ciò che faceva. Aveva il senso del paradosso, più di Gould. Poi c'è Rubinstein. Formidabile concertista. Con un grande fiuto per il pubblico. Mi sarebbe piaciuto sentire dal vivo Paderewsky. Un incantatore. Purtroppo morì nel 1941".
Un'altra che forse avrebbe meritato di essere ascoltata è Maria Judina.
"Fu un singolare prodotto della Russia post-zarista. Una donna stravagante, imprevedibile. Folle. Grande pianista. Prima di un concerto, alla notizia della morte di Pasternak volle leggere alcune sue poesie. Mosca non era il massimo della tolleranza. Eppure, malgrado le sue radici ebraiche, era adorata da Stalin. Richter disse che il suono della Judina faceva venire il mal di testa".
Degli italiani chi ama?
"A parte Benedetti Michelangeli, direi Pollini che ha interpretato bene il suo tempo. Resistendo alle sirene eclettiche del post-moderno. E per l'originalità ammiro Giovanni Bellucci. Su Beethoven ha saputo dire qualcosa di diverso e nuovo".
Aleggia nell'aria un nome.
"Quale?"
Glenn Gould che lei poc'anzi ha evocato.
"Sono nato nel 1931. Se non fosse morto nel 1982 Gould oggi avrebbe un anno meno di me. Dissero di lui che si aggrappava alla tastiera del pianoforte come fosse la gonna della mamma. Non so se davvero fosse immaturo o imperfetto. Per me era un grande umorista. Sapeva cogliere il lato paradossale dell'interpretazione. Sospetto che raramente sia stato sincero".
Cioè?
"Rappresentava e non viveva. Ma poi anche di questo si è stancato e poco per volta ha smesso di suonare in pubblico. Quando sostengo che fosse paradossale intendo che malgrado avesse una gestualità fortissima, detestava la teatralità".
Eppure non c'è teatralità più esibita delle "Variazioni Goldberg".
"Erano ritenute l'opus riassuntiva della personalità di Bach, che era un uomo solenne e religioso. Non parlerei però di teatralità. Gould le portò sul piano dello scherzo. Più vicine a Scarlatti che allo stesso Bach. E questo gli fece incontrare il favore dei giovani".
Perfino Thomas Bernhardt nel "Soccombente" fece crescere la fama di Gould.
"Anche quello era uno scherzo del suo radicalismo pianistico ".
Sembrava suonasse dal basso verso l'alto e non viceversa.
"Ogni volta scalava una montagna. Non è un caso che nell'esecuzione del 1955 si presentò vestito da sciatore. Aveva capito cosa fossero i mezzi di comunicazione di massa".
Oggi ci sono solo quelli.
"Si è persa la distanza tra l'uso del mezzo e il mezzo stesso".
Come è finito nella musica?
"Come si finisce nel mare o in un pantano; in un inferno o in paradiso: per pura passione. Mio padre era industriale. In quanto primogenito avrei dovuto proseguire il suo lavoro. Non volli. Gli dissi che volevo occuparmi di musica. Finii il liceo classico a diciassette anni. A diciotto mi diplomai in pianoforte. A ventitré in composizione. Diventai musicista. A ventisei insegnante di ruolo nel conservatorio. E ho capito che la mia vocazione era più insegnare che suonare. Scrissi il mio primo libro a ventiquattro anni, un libriccino di studi di interpretazione pianistica. Ad oggi sono cinquantuno i libri che ho scritto".
Ha fatto altro nella vita?
"A parte 42 anni di insegnamento del pianoforte ho fatto il direttore artistico in vari teatri. Esperienza notevole per chi voglia capire cos'è la trincea della musica: le guerre, gli agguati, gli assalti. I morti disseminati e le barelle per i feriti".
Straziante.
"Il teatro italiano è straziante".
Non si è mai pentito di non aver scelto la carriera del musicista?
"Avevo un certo talento. Poi scoprii che era più grande la predisposizione all'insegnamento. Le confesso però che sono un divulgatore più che un musicologo".
Ama il pubblico?
"Lo rispetto. Senza cosa saremmo, noi tutti?"
Le piace Keith Jarrett?
"Nel suo genere è bravissimo, scrissi anche qualcosa su di lui e lo invitai a suonare al Regio di Torino. Non mi piace quando prova a fare il classico. Quando eseguì Il clavicembalo ben temperato di Bach, era da scappare via. A proposito di jazz ho ammirato molto Erroll Garner. Ho visto suonare Oscar Peterson. E poi un vero talento fu Michel Petrucciani. Ricordo la meraviglia di una Cucaracia improvvisata al pianoforte. Non arrivava ai pedali, eppure sembrava che volasse".
Di Giovanni Allevi cosa pensa?
"Interessante più che per la musica per il modo di rapportarsi al pubblico. Un fenomeno da studiare".
La grande musica del '900 si è allontanata dal pubblico. Perché?
"Nell'idea di creare un linguaggio nuovo, la musica si è intellettualizzata. Ha voluto il controllo totale, ma questo controllo non è riconosciuto dal pubblico".
Eppure il pubblico ha accettalo l'arte astratta ma non la dodecafonia.
"Nikolaus Harnoncourt ha detto che la musica fino a Beethoven parla, dopo dipinge. Se non conosci il nuovo linguaggio figurato non capisci".
Si è accennato a Bach e a Beethoven. Dove li colloca nella sua mente?
"Furono entrambi grandi virtuosi del pianoforte. Penso all'uomo Bach: buon borghese tedesco, religioso, sposato due volte mise al mondo venti figli. Amava la famiglia. Ma non era un personaggio da romanzo, come invece lo fu Beethoven, che era pieno di complessi e di demoni che lo angustiarono per tutta la vita".
Più vicino, quest'ultimo, alla nostra sensibilità.
"È indiscutibile. Diversamente da Bach che aspirava ad essere un artigiano, Beethoven pretese di essere un poeta e un intellettuale. È una rivoluzione del costume che fa sì che non sia Wagner a scrivere per primo la musica dell'avvenire, ma Beethoven ".
Non a caso è al centro con l'opera 111 nel "Doctor Faustus" di Thomas Mann.
"Devo dire che lì mi colpiva maggiormente la difesa che il maestro di Adrian Leverkühn, il musicologo Wendell Kretzschmar, fa del "Sansone e Dalila" di Camille Saint-Saens. Comunque bello il dialogo demoniaco sull'opera di Beethoven. Mann l'aveva ripreso da Adorno".
Lo ha mai incontrato?
"Lo vidi in casa di alcuni amici. Ricordo una signora con un generoso decolté e lui fisso su quel seno come un basilisco. I suoi libri non mi hanno impressionato più di tanto. Certo ha influenzato profondamente la critica musicale. Ma io non sono un critico".
Su la musica e Dio cosa pensa?
"Non penso nulla. Più che avvicinare la musica a Dio, farei il contrario. Ma sul mio rapporto personale con la religione non saprei cosa dire. La sola religione che mi piace è il calcio. Sono nato a Fossano, in Piemonte. Tifo da sempre per il Torino. Ho conosciuto Valentino Mazzola, il cui talento era pari a quello dei grandi musicisti".
Si è mai chiesto che vita può condurre uno che sperando nel talento sa di non averlo?
"Domanda terribile. Il grande Sergiu Celibidache teneva spesso dei corsi. Un giorno un onesto musicista gli confessò di non avere le qualità per riuscire bene come direttore d'orchestra. Celibidache lo confortò. Gli disse che nella sua testa era tutto a posto, così nel suo cuore. Insista e qualcosa accadrà. Quando l'uomo andò via, intervenni: maestro, lei sa perfettamente che quell'uomo non ha talento, perché farlo insistere? La mia responsabilità, rispose, è di diffondere la verità della musica. E non importa se la gran parte non ce la farà, l'importante è far parte di questa grande chiesa. Parlava come un profeta. Ma i profeti non hanno l'obbligo di dire la verità".
Antonio Gnoli
("la Repubblica", 29 maggio 2016)