Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, agosto 21, 2022

Il dramma liturgico medievale

Un'esigenza di drarnmatizzazione è rilevabile fin nelle radici 
più remote del canto di chiesa. All'inizio fu il semplice canto responsoriale dove il popolo interveniva con brevi ritornelli alla fine del recitativo del celebrante; poi fu la volta del canto antifonico che, originato in Persia, attraverso l'Antiochia conobbe una vasta diffusione in occidente nella forma dell'alternanza tra due cori. Ma in realtà la stessa regolamentazione dell'apparato liturgico (nei sermoni, nelle processioni, nella messa) già sottendeva una dimensione drammatica che, svolgendo in forma rappresentativa le manifestazioni di culto, mirava chiaramente a un coinvolgimento il quale, facendo leva su meccanismi psicologici elementari, sollecitava l'attenzione ben oltre la semplice testimonianza dell'atto di fede. Anzi c'è da chiedersi se la messa, intesa come momento di partecipazione collettiva al culto, avrebbe senso se fosse compresa solo come svolgimento simbologico di una sostanza concettuale la quale invece, articolandosi nella gestualità di un discorso rappresentativo, stabilisce un rapporto comunicativo capace di demolire ogni forma di preclusione intellettualistica e di raggiungere indistintamente il livello di comprensibilità più diretto. Lo sviluppo del canto liturgico sta a testimoniarlo.
Se nei tre secoli che dalla riforma ascritta a Gregorio Magno (eletto papa nel 590 e morto nel 604) vanno fino al periodo in cui per la prima volta è documentata la pratica dei tropi: il canto romano fiorisce come manifestazione esclusiva di una religiosità dimensionata al carattere universale della Chiesa - nei termini di una lingua ufficiale promulgata in opposizione ai dialetti rappresentati dalle liturgie regionali (mozarabiche, gallicane, ecc.) estirpate da preciso calcolo imperialistico -, a lungo andare l'astratta immutabilità del culto fu intaccata dall'esigenza di un rapporto meno mediato, che lo sviluppo degli inni e delle sequenze già avevano raggiunto nella simmetria strofica e nell'andamento sillabico derivato dal ritmo accentato che la lingua parlata aveva affermato sulle proporzioni di quantità del latino dotto.
Verso l'850 Notker Balbulus riferiva della venuta a San Gallo di un monaco di Jumièges, il quale gli aveva fatto conoscere un antifonario in cui, sotto i vocalizzi alleluiatici, erano disposti sillabicamente dei versetti Tale procedimento, oltre a introdurre un diverso peso specifico nella siderea struttura melismatica della melodia, apriva profonde prospettive di trasformazione nel codificato ordine gregoriano che, dalla semplice pratica dei tropi, condusse fino alla polifonia. La pratica dei tropi, dall'iniziale modifica del testo, portò ben presto infatti a forme di composizione autonome che prescindevano dal repertorio liturgico ufficiale; e non è un caso che da tale articolazione espressiva maturasse il concetto del dramma liturgico, sorto esso pure, come tutto il filone delle forme musicali del Medioevo, dal principio di trasformazione degli aspetti formali della liturgia.
Molti tropi infatti contenevano dialoghi che, essendo intonati in modo antifonico, potevano essere sviluppati in drammatizzazione vera e propria, A un tropo pasquale, attribuito a Tutilone da San Gallo e nella sua forma più antica contenuto in un manoscritto del monastero di San Marziale di Limoges databile nei primi decenni del X secolo, si fa risalire l'origine del dramma liturgico Si tratta del tropo "Quem queritis", articolato in dialogo tra gli angeli di guardia al sepolcro e le Marie chiamate a compiere il loro atto di devozione sulla tomba del Cristo. Sviluppato in ufficio drammatico, con il titolo Visitatio sepulchri il "Quem queritis“ si ritrova in almeno 400 manoscritti sparsi per tutta Europa, dall'Inghilterra all'Italia del Sud, dalla Spagna alla Polonia. Come poteva la Chiesa, così severa verso il concetto e il ruolo sociale del teatro, ammettere uno sviluppo del genere? Il fatto è che il latino era diventato sempre più una lingua incomprensibile al popolo, per cui a partire dai procedimenti allegorici fino alla teatralizzazione vera e propria tutto diventava accettabile in funzione di una più stretta adesione al momento liturgico. Sul principio della Visitatio sepulchri prese forma il dramma natalizio il quale, come Officium pastorum, pure si fondava su un tropo modellato sull'esempio del "Quem queritis”, ovviamente con i pastori al posto delle Marie. All'inizio esclusivamente basato sulla scena del presepe e quindi piuttosto statico, l'Officium pastorum fu seguito dall'Officium stellae, che integrava all'azione i tre Magi, acquistando notevolmente in spunti scenici. Una vera e propria processione con i Magi e il loro seguito di servi attraversava allora la chiesa fino all'altare dove venivano deposti i doni. In successive versioni vi figurava anche Erode e la sua corte a fare del dramma natalizio un'occasione di sontuosità e a sviluppare in termini sempre più immaginifici il messaggio liturgico, capace in tal modo di porsi al livello più popolare di comprensibilità. Ancora in questa linea di sviluppo si situano le Processioni dei profeti, concepite come drammatizzazione dell'agostiniano Sermo de syrnbolo, che enumerava le profezie dell'avvento del Salvatore documentate presso gli ebrei e presso i pagani. Spogliato degli elementi espositivi e narrativi, il monologo venne trasformato in una sfilata di profeti e nella sua prima versione è ancora rintracciabile in un manoscritto di Limoges. Particolarmente interessante e il codice di Laon, dove il profeta Balaam appare in groppa a un asino. Questa presenza dell'asino doveva assumere un particolare significato se la versione contenuta in un manoscritto di Rouen porta esplicitamente il titolo Ordo processionis asinorum. In questi casi l'apparire dell'asino, figura archetipica di personaggio folle e bizzarro risalente a tradizioni pagane, era accompagnata dal canto umoristico "Orientis partibus adventavit asinus", la celebre prosa dell'asino diffusissima in tutto il Medioevo. Era questa la forma più diretta di concessione al popolo, nei termini di un sincretismo che posteriormente la Chiesa non avrebbe più tollerato.
Pure nell'assecondamento del gusto popolare si situano i drammi del codice di Fleurv, almeno per quanto concerne le quattro azioni che si riconducono alla più umanizzata figura di santo, San Nicola (Tres filiae, Tres clericii, Iconia Sancti Nicolai, Filius Getronius). E in questa evoluzione assistiamo da una parte all'estensione del luogo scenico, nello spazio esterno alla chiesa a diretto contatto con il popolo, e dall'altra al passaggio dal latino al volgare, già evidente nello Sponsus di Limoges; passaggio che si completerà nel Mystère d'Adam (databile tra il 1146 e il 1174), il quale segna pure il predominio della recitazione sul canto in una prospettiva in cui gli aspetti simbologici cederanno vieppiù di fronte al realismo scenico, peraltro affermato senza rinunciare alla meraviglia degli apparati spettacolari minuziosamente descritti nelle didascalie dell'Adam, dove tra l'altro era previsto che le varie sortite dei demoni dall'inferno dovessero passare "per plateas", cioè fra il pubblico, con soluzioni che non sono quindi solo prerogativa di certo provocatorio teatro moderno.
Gradualmente il legame con la liturgia quindi si allenta, ma per buona parte il tentativo di certi studiosi di tracciare un'esatta linea di demarcazione tra drammi liturgici e drammi semiliturgici si rivela inaccettabile. L'esigenza che stava alla base del dramma liturgico non era infatti quella di dar vita a una forma artistica più o meno autonoma, ma corrispondeva al bisogno di assicurare all'avvenimento religioso evidenza rappresentativa, un'esemplarità che si imprimesse in maniera più diretta nella mente dei fedeli. Esso rimaneva perciò un fenomeno non tanto legato al culto, ma addirittura una manifestazione essa stessa di culto, anche se non in forma ortodossa. Anzi, considerato non dalla prospettiva della Chiesa ma del popolo, il dramma liturgico dovette probabilmente costituire il modo più spontaneo e partecipato di concepire il culto. Più spontaneo in quanto gli era concesso di attingere liberamente non solo ai testi sacri, ma anche ai sermoni, alle vite dei santi e ai libri apocrifi. Più partecipato in quanto numerosi ruoli, perlomeno quelli secondari, erano affidati ad anonimi cittadini mentre a confermare la continuità del livello liturgico i ruoli maggiori erano assunti dal clero.
In quanto preciso momento di coinvolgimento sociale, con la crescita delle città, questa attività sfuggì al controllo del potere ecclesiastico, soppiantato in questa funzione dalle confraternite e dalle corporazioni. Del 1378 ci sono addirittura documenti che registrano la protesta del capitolo di San Paolo di Londra rivolta a re Riccardo II, affinché proibisse a gente inesperta di presentare le storie dell'Antico e del Nuovo Testamento. Ma la laicizzazione del dramma a quel tempo era già un fatto compiuto per cui il repertorio conservato, al di là del significato religioso, sviluppava nei confronti della vita contemporanea un rapporto realistico di insostituibile portata storica. Nei Miracles de Notre Dame (XlV sec.) dietro una frase quale "Les Anglots m'ont tout tolu" possiamo leggere tutta la tragica realtà della guerra dei cento anni. Mentre nei Miracles de Ste-Geneviève già si può parlare di iperrealismo, trovandoci di fronte all'incessante sfilare di personaggi disgraziati (idropici, lebbrosi, ecc.) pronti per essere miracolati dal santo di turno, ma nel contempo presentati in modo da sottolineare insistentemente le loro afflizioni e il repellente aspetto fisico. Nel contesto realistico dei drammi di Ste-Geneviève e interessante considerare il ruolo assegnato alla musica chiamata ad accompagnare le apparizioni angeliche, mentre al contrario quando gli angeli escono di scena il testo continua indicando espressamente “sans chanter".
L'atto è di importanza tutt'altro che trascurabile e si pone in linea con l'ipotesi di Nino Pirrotta, il quale ha fatto notare come i soggetti dei primi melodrammi (dalla Dafne all'Orfeo) fossero scelti in modo da rendere plausibile il fatto di assistrre all'azione di personaggi intenti ad esprimersi in canto: nella teoria del Guarini gli arcadi erano infatti poeti che esercitavano anche la musica. Nella fase di maggior realismo il dramma liturgico era quindi ugualmente portato a circoscrivere nella musica il fattore trascendente e idealizzante, la cui presenza doveva perciò essere motivata dall'azione.
Interamente musicato è invece il Ludus Danielis di Beauvais (XII sec.), il quale si situa al primo stadio d'evoluzione del dramma liturgico. La storia di Daniele infatti non è altro che una derivazione dal primitivo Ordo prophetarum. Da questa Processione dei profeti si stacca la figura di Daniele che verso il 1140 ritroviamo protagonista dell'omonimo dramma del chierico Ilario, allievo di Abelardo. Ilario fu anche autore di un Lazarus, citato fra i primi esempi significativi di interpolazione di ritornelli in volgare nel latino della struttura di base.
Qualche decennio dopo a Beauvais è rappresentato un altro Ludus Danielis, il più elaborato e musicalmente interessante tra i drammi tramandati sino a noi. Più che di lavoro anonimo si tratta di una creazione collettiva secondo quanto recita la quartina d'introduzione:

Ad honorem tui Christe
Danielis ludus iste
in Belvaco est inventus
et invenit hunc juventus

Gli studenti di Beauvais si basarono comunque sul precedente dramma di Ilario, come dimostra l'assunzione dell'episodio apocrifo dell'angelo che ammonisce il profeta Abacuc a soccorrere Daniele, portandogli da mangiare nella fossa dei leoni. Ispirati a Ilario sono probabilmente anche i pochi versi in volgare interpolati al testo latino, mentre l'impostazione drammatica vi risulta efficacemente accurata grazie alla varietà melodica e dei metri sapientemente dosati della prosa latina, orientata in modo chiaramente teatrale. Nei vari conductus, dove il coro stimola gli astanti commentando gli avvenimenti, il Danjou ha addirittura supposto che gli studenti di Beauvais si fossero rifatti all'antica tragedia. ln realtà era la stessa dimensione scenica ad esigere tale articolazione, come è il caso della musica abbondantemente arricchita dal suono degli strumenti, non espressamente indicati nella melodia superstite ma supposti dalle allusioni del testo.
L'aspetto sommario della notazione permette comunque di riconoscere la diversità dei materiali impiegati, che è tipica del contesto in cui veniva a collocarsi il dramma liturgico, per metà austero, in linea con la tradizione più ortodossa avvertibile nell'andamento melismatico del canto gregoriano che compare nei cori dei personaggi di corte, e per metà aperto alle suggestioni delle acquisizioni più recenti, nel livello del canto sillabico ormai apparentabile alle forme profane che della lingua latina non sviluppavano più la metrica basata sulla quantità, ma il principio degli accenti. Tale formulazione è chiaramente riscontrabile nei conductus, cioè il canto che accompagnava una funzione cerimoniale quando l'officiante si spostava da un luogo all'altro della chiesa, e che nel Daniel, oltre ad annunciare le entrate dei vari personaggi, come termine è designato per la prima volta nella storia della musica. Fra i più interessanti figura il conductus che accompagna l'andata di Daniele al re, che, pur rispettando la suddivisione strofica, si svolge in modo articolato tra il coro dei principi e la voce sola del profeta Un secondo conductus è basato sull'incipit della sequenza di San Nicola (“Congaudentes exultemus"), ad indicare come i procedimenti compositivi dell'epoca prevedessero la libera riutilizzazione dei materiali melodici, probabilmente con il preciso scopo di coinvolgere maggiormente il pubblico proponendogli melodie già familiari. E tale grado di coinvolgimento nel Ludus Danielis è proporzionale alla meraviglia indotta dalla mano misteriosa che traccia davanti al re le tre enigmatiche parole della profezia, dai leoni nella fossa e dalle apparizioni dell'angelo che da ultimo annuncia la nascita del Cristo, riportando l'emozione al contesto della festività che un dramma del genere era chiamato a condecorare.
Carlo Piccardi
© 1996 Ermitage s.r l. - Bologna, Italy

sabato, agosto 13, 2022

Noumeno a transistors - Cembalo vedi clavicembalo

1. NOUMENO A TRANSISTORS
" ...poiché l'artista si trova, per la prima volta, in presenza del mondo dei suoni nella sua concretezza fisica, senza bisogno di intermediari che traducano attraverso uno strumento prestabilito e limitato un pensiero musicale precedentemente espresso dall'astratta simbologia del segno grafico". Che cos'è? Un'ipotesi onirico-metafisica estratta da un odierno Gli Stati della Luna di Cyrano de Bergerac, un po' meno fantafilosofico?
E' semplicemente un passo da Fenomenologia della musica radicale di Luigi Rognoni, là dove tratta della musica e1ettronica.
Il discorso vi s'impegna non poco: "il mondo dei suoni" sembra proiettato da prospettive vagamente platoniche; e la "concretezza fisica", sebbene sia detta, appunto, "fisica" (e non metafisica), per il fatto di venir vista come qualcosa di finora inaccessibile e tutt'al più tradotto col tramite di intermediari "strumenti prestabiliti", sembra assumere una mitica assolutezza, per cui, con facile (fin troppo) scambio dialettico, di quella "concretezza fisica" si da (o si intravede) una assolutezza metafisica; o perlomeno, le viene attribuito un valore che ricorda il noumeno, contrapposto al fenomeno, in quelle pagine della Critica della Ragion pura dove Emmanuel Kant ne tratteggia i rapporti e il significato. Sempre, ripeto, con uno scambio dialettico; ma il senso, la psicologia che viene indotta nel lettore è quella. Nonché Kant, potran pensare ch'io non sappia leggere nemmeno Rognoni. Anche in questo ('noumeni' a parte), avrei allora un'ottima compagnia, questa documentabile: Guido Turchi, che recensendo (positivamente, nel complesso) il libro di Rognoni, osservava fra l'altro che stando a quello " ...si dovrebbe supporre, per desunzione, che il mondo dei suoni - prima dell'avvento della musica elettronica - non aveva una "sua concretezza fisica,,,". Turchi, evidentemente, non viene abbagliato da quel «mondo dei suoni» e reagisce come se al suo posto ci fosse scritto più tranquillamente «i suoni». Non coglie carichi metafisici involontari.
Comunque, spiegherò adesso perché quel punto del libro mi abbia colpito. Mi par di sentirci almeno due residui retorici. Uno viene dal solito idealismo, diventato semispontaneo anche in chi lo discute o lo respinge (e questo conferma l'importanza che ha avuto). L'altro, è una suggestione di tipo tecnicistico. Idealismo, perché il ritenere che gli strumenti «prestabiliti» e «limitati» siano un debole e molesto intermediario al pensiero musicale, fa parte di quel modo di vedere e di sentire. E questo (come rileva anche Turchi a proposito d'altri aspetti) per un fenomenologo, e in un libro che si intitola alla fenomenologia, è abbastanza strano. Sempre da quella sponda viene spontanea la valutazione positiva a qualsiasi mezzo che 'liberi' la musica da quegli impacci. Così va a finire che l'elettronica viene salutata come il mezzo per attingere, alla buonora, al vero «mondo dei suoni», la cui pretesa «concretezza fisica», per effetto della mentalità antispiritualistica, viene talmente sopravvalutata, da ipostatizzarsi automaticamente, cosi da far pensare a quella specie di 'noumeno' (che, non si dimentichi per non fare ingiustizie o inesattezze, a Rognoni non passa neppure per la testa), in una mentalità opposta.
Mi sono soffermato sul passo, che contiene un eccesso di valutazione della musica elettronica, non tanto in rapporto alle ormai notissime, vecchie censure mosse al lato fantastico della produzione musicale elettronica, quanto al fatto che si tratta di un procedimento basato sugli apparecchi elettro-acustici, sia nella 'creazione' sia nella comunicazione. Dal lato 'creazione ', viene attribuita all'esperienza elettronica addirittura la possibilità di risalire al «mondo dei suoni» precedente la creazione artistica stessa; anzi si rincarava la dose a pag. 33 con un «la natura del mondo dei suoni» e con una citazione di Enzo Paci inneggiante alle nuove libertà provocate dalla conoscenza del mezzo elettronico (e sorprende che quest'altro fenomenologo, brillante e acuto allievo di Banfi, appena dopo aver detto che «moltiplicando le nostre possibilità ogni strumento ci dà un 'supplemento di anima' perché ci dà un supplemento di percezione», intenda ciò a senso unico, nel solito banale, quantitativo senso della retorica 'liberatrice' non-relativa, incapace di cogliere la dialettica interna degli sviluppi tecnico-estetici nella storia della musica, di attribuire la parte che in essa hanno avuto anche gli strumenti con i loro 'limiti'; scherzi che la filosofia, di qualsiasi tendenza, può fare quando manchi una esperienza diretta e viva del fatto musicale.
E' abbastanza ridicolo (e abbastanza assurdo, per chi pratichi la musica) che un potere cosi straordinario venga attribuito alla parte speculativa della ricerca elettronica a scopo musicale, dimenticando che tutto questo è pur sempre una riduzione del fatto acustico a possibilità schematizzate da numeri o addirittura da apparecchi misuratori ottici, e in ogni caso legate sempre allo schema degli apparati elettronici, siano i triodi termoionici siano i transistors, apparati che esistono (e 'fungono') unicamente sulla base di schemi, e non sono già 'fenomeni' dai quali gli schemi si possano estrarre per opportunità pratica; perciò, se mai esiste un risultato di seconda mano rispetto alla supposta verità naturale è proprio quello dato dalla elaborazione elettronica. Se aggiungiamo che per la rivelazione concretamente acustica, da ascoltare, si ricorre sempre ai diffusori, agli 'altoparlanti', la 'libertà' e la nobiltà del risultato diminuiscono ancora; perché il suono da diffusore, per perfezionato che sia, non può eliminare certe caratteristiche udibili, riconoscibili (a meno di non avere più dialettica che orecchio, vedi Adorno che pianificano e riducono ogni suono prodotto a queste stesse caratteristiche (quelle che fanno riconoscere, in soldoni, il 'suono d'altoparlante').
Dalla data dello scritto di Rognoni, e ancor più da quello di Enzo Paci, è passato qualche annetto; quanto è bastato a ridurre parecchio le speranze, l'autorità e l'uso musicale dei suoni elettronici, che sembrano destinati a diventare soltanto degli ausiliari più o meno graditi, e comunque a venir utilizzati anche e proprio per quella caratteristica udibile (e per questo, se mai, significante in un ambito limitato da far giocare con altri: come si fa in musica) di 'suono d'altoparlante': un salto in giù da rompersi il collo, per quella specie di 'noumeno' a transistors.
Tuttavia, ci troviamo assediati da diffusori e da altoparlanti in molti spettacoli musicali: perfino in occasioni di alta classe, com'era a Firenze Romeo e Giulietta di Berlioz vòlto in balletto da Maurice Béjart ai Giardini di Boboli per il «Maggio», con la musica riprodotta da un gracchiante, assordante, assediante complesso di «elettro.dinamici» (ma è noto che la gens á ballet quasi sempre non ha molta sensibilità per la parte sonora - non diciamo musicale - che fa da supporto alle loro operazioni).
E la bella. trovata di amplificare gli strumenti dal suono alquanto esile, come il clavicembalo? Ma allora, che senso ha ascoltare di presenza la musica, se quello che si ascolta ha le stesse approssimazioni e le stesse riduzioni della radio, del nastro o del disco? Come 'presenza ', potrà essere gradita quella eventualmente 'bella' di chi esegue: ma dubito che questa abbia qualità foniche. Si arrivò, qualche anno fa, a tenere un concerto di clavicordo in una vasta sala, con l'amplificatore: il clavicordo ha una voce che arriva sì e no a due metri; ed anche questo fa parte del suo carattere; che senso ha ascoltarlo amplificato?
Ma tutto ciò rientra nella barbarie per cui oggi si esegue ogni sorta di musica, anche da camera, nelle stesse sale da duemila posti che servono per i concerti sinfonici.
Tornando all'assedio dei diffusori: se all'abuso di questi arnesi in pubblico si aggiunge l'abitudine al disco, alla radio, al magnetofono (utilissimi purché ci si ricordi che sono surrogati), ci si ritroverà avviati a una generazione di 'ascoltatori elettronici': tutt'altro che un progresso. E non è che manchi la sensibilità, malgrado i molti attentati al nostro orecchio; capitati quasi per caso ad ascoltare per la prima volta 'dal vivo' una orchestra sinfonica, molti ragazzi milanesi entrati al «Palalido» dove il comune aveva fatto replicare a ingresso libero, un concerto sinfonico della RAI diretto da Prêtre, si trovarono dapprima stupiti e poi entusiasmati non tanto dalla musica (Mozart e Strauss) ma dal suono 'vero' degli strumenti, «tanto più bello» (dicevano) che con la radio o dal disco.
A proposito: tutti presi dalla 'comodità moderna' del disco (e poi del disco alleato al nastro magnetico) gli anni Venti, Trenta e successivi lasciarono cadere in disuso gli apparecchi riproduttori per pianoforti Steinway «Welte Mignon»›, «Duo Art», «Ampico», che erano degli autopiani, o pianole, perfezionate in modo che suonando un pianoforte munito di quell'apparecchio, la esecuzione rimaneva registrata sul rullo di carta con ogni particolare, fraseggio, coloriti, pedale, stecche eventuali, tutto, insomma. Poi bastava 'suonare' quei rulli su un pianoforte munito dell'adatto meccanismo, per riascoltare l'esecuzione di quel tizio in ogni particolare. Purché l'apparecchio funzionasse a puntino, si capisce. Da alcuni anni si è rispolverato il «Welte Mignon» (o il «Duo Art») per trarne dischi, dai quali ascoltare l'esecuzione di grandi concertisti del passato o di compositori, che avevano registrato con quegli apparecchi, nel periodo tra l'anno 1904 e il 1925 circa. Il segreto di tanta esattezza nel riprodurre le sfumature di una esecuzione cioè qualcosa di molto fluido, stava (almeno nel «Welte Mignon››) nell'adoperare un mezzo appunto estremamente fluido, il mercurio: ce n'era un serbatoio sotto la tastiera, il movimento del tasto modificava la situazione del mercurio (c'erano dei pescanti che vi si immergevano); e questi mutamenti erano comunicati per via elettrica all'apparecchio che impressionava il rullo, non con fori, ma con tracce di inchiostro magnetico, così che, facendo scorrere il rullo nell'apparecchio 'lettore', queste tracce sollecitavano elettrocalamite, le quali riproducevano, col loro movimento, quello che dita e piedi del pianista avevano fatto, agendo su «dita» e su «piedi,» feltrati che suonavano e pedalizzavano.
Quando si abbandonarono questi apparecchi perché era più semplice incidere dischi, si pensava a riprodurre purchessia; non si era ancora avvertita la differenza (o almeno l'importanza della differenza) tra suono riprodotto e suono diretto dello strumento. Oggi, forse perché subissati dal suono elettrodinamico, questa differenza (e questa sua importanza) la notiamo. Sarebbe il caso di riprendere gli apparecchi «Welte» eccetera, eventualmente di perfezionarli ancora, se possibile, con eventuali circuiti elettronici, e aggiungere alle non molte registrazioni su rullo, fatte da musicisti ormai scomparsi, altre, con esecutori di oggi. Non si potrebbero soppiantare i dischi, i nastri e simili, ma accanto a questi, che possono far ascoltare col tramite di sia pur raffinati diffusori, si avrebbe l'esecuzione sempre di un certo giorno a una certa ora, però da ascoltare direttamente col suono autentico dello strumento, e non nel suo schema elettrodinamico. Almeno per il pianoforte. Sarebbe pur qualcosa.

2. CEMBALO, VEDI CLAVICEMBALO
In maggioranza (e non mi ricordo se davvero ci siano eccezioni) i dizionari e le enciclopedie musicali, arrivati alla voce CEMBALO, la sbrigano semplicemente così:
«vedi CLAVICEMBALO», oppure: «abbreviazione di CLAVICEMBALO». Con la stessa disinvoltura, elencano: «KLAVIER, vedi PIANOFORTE».
Ma Klavier o Clavier, in tedesco, vuol dire 'pianoforte' da quando i pianoforti esistono; prima, voleva dire 'strumento a tastiera' in genere (e si capisce come: dal latino clavis, per 'tasto'; che del resto nell'inglese e ancora oggi identico a 'chiave', key: così fu che in un dizionario tematico tradotto dall'inglese si legge, accanto all'incipit dello Studio in sol bemolle op. 10, n. 5 di Chopin: «La chiave nera»).
Perciò, Clavier era clavicembalo, clavicordo, spinetta, anche organo: almeno fino al Settecento inoltrato, quando tutti questi strumenti avevano una letteratura in comune.
Quanto a 'cembalo', il caso è analogo, anche se meno vasto, Con etimologia diversa, il vocabolo voleva dire 'strumento a tastiera e a corde', tant'è vero che fino a circa metà dell'Ottocento significò, nell'uso comune, anche 'pianoforte'.
D'accordo, 'cembalo' è anche abbreviazione di 'clavicembalo '; ma fermandosi lì si omettono parecchi altri significati che una enciclopedia musicale dovrebbe dare: ad esempio tutti quelli connessi alle funzioni della musica d'assieme e al «continuo»: maestro al cembalo, contrabasso al. cembalo e cosi via, che rimasero in uso nei teatri anche quando ormai il «cembalo» non era più un clavicembalo da un bel pezzo. E non lo era più almeno dalla fine del Settecento: così almeno testimonia, per esempio, il libretto de Le cantatrici villane di Valentino Fioravanti (1798), scritto dal Palomba: « ...Ma sentite che cembalo! / Lo volesse accordar solo una volta / quel malandrino dell'accordatore! Pazienza... Pesteremo!» Ora, se il cembalo fosse stato un clavicembalo o una spinetta con meccanica a corda pizzicata, «pestare» non avrebbe portato nessun esito. Dunque si trattava già di un pianoforte, sia pure rudimentale.
A proposito di 'cembalo' e di Clavier: ciò che Johann Sebastian Bach intitolò in tedesco Das wohltemperierte Clavier, in italiano si è sempre tradotto come Il clavicembalo ben temperato. Stando ai dizionari si dovrebbe addirittura tradurre Il pianoforte ben temperato. Stando, invece, a ciò che all'epoca significava la parola Clavier, il vocabolo più adatto sarebbe Cembalo (vedi sopra). Anche se per dizionari ed enciclopedie «Cembalo» è solamente 1'abbreviazione di «clavicembalo».
Che tradurre così quel titolo fosse inesatto, qualcuno lo aveva pur notato: ad esempio, già nel 1926, Attilio Brugnoli nel suo libro Dinamica pianistica.
Se può consolarci, anche i francesi commettono la stessa leggerezza: Le clavecin bien tempéré. Anche loro, si vede, attratti dal «clav.» e da una traduzione anche fonetica (e poi, non saprebbero come fare, a meno di usare clavier, che è 'tastiera' in francese. Quanto agli anglosassoni, prima optarono per un altro strumento tra i diversi settecenteschi indicati da Clavier, e tradussero The Well-tempered clavichord (anche loro attratti dal «clav.»: visto che il clavicembalo in inglese è harpsichord); poi, fecero ammenda e infilarono nella traduzione il vocabolo tedesco originale, così: The well-tempered Clavier. Il bello è che questo non piacerebbe a noi italiani che pure stiamo sprecando a man salva vocaboli stranieri dentro i nostri discorsi: al nostro orecchio, che digerisce ben altro, Il 'Clavier' ben temperato non va. Gente strana, che siamo, Intanto, i dizionari tengono duro col loro «cembalo, vedi clavicembalo». Ancora un po', e scriveranno: «Piano, vedi pianoforte».
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXV n. 3 dicembre 1972)