" ...poiché l'artista si trova, per la prima volta, in presenza del mondo dei suoni nella sua concretezza fisica, senza bisogno di intermediari che traducano attraverso uno strumento prestabilito e limitato un pensiero musicale precedentemente espresso dall'astratta simbologia del segno grafico". Che cos'è? Un'ipotesi onirico-metafisica estratta da un odierno Gli Stati della Luna di Cyrano de Bergerac, un po' meno fantafilosofico?
E' semplicemente un passo da Fenomenologia della musica radicale di Luigi Rognoni, là dove tratta della musica e1ettronica.
Il discorso vi s'impegna non poco: "il mondo dei suoni" sembra proiettato da prospettive vagamente platoniche; e la "concretezza fisica", sebbene sia detta, appunto, "fisica" (e non metafisica), per il fatto di venir vista come qualcosa di finora inaccessibile e tutt'al più tradotto col tramite di intermediari "strumenti prestabiliti", sembra assumere una mitica assolutezza, per cui, con facile (fin troppo) scambio dialettico, di quella "concretezza fisica" si da (o si intravede) una assolutezza metafisica; o perlomeno, le viene attribuito un valore che ricorda il noumeno, contrapposto al fenomeno, in quelle pagine della Critica della Ragion pura dove Emmanuel Kant ne tratteggia i rapporti e il significato. Sempre, ripeto, con uno scambio dialettico; ma il senso, la psicologia che viene indotta nel lettore è quella. Nonché Kant, potran pensare ch'io non sappia leggere nemmeno Rognoni. Anche in questo ('noumeni' a parte), avrei allora un'ottima compagnia, questa documentabile: Guido Turchi, che recensendo (positivamente, nel complesso) il libro di Rognoni, osservava fra l'altro che stando a quello " ...si dovrebbe supporre, per desunzione, che il mondo dei suoni - prima dell'avvento della musica elettronica - non aveva una "sua concretezza fisica,,,". Turchi, evidentemente, non viene abbagliato da quel «mondo dei suoni» e reagisce come se al suo posto ci fosse scritto più tranquillamente «i suoni». Non coglie carichi metafisici involontari.
Comunque, spiegherò adesso perché quel punto del libro mi abbia colpito. Mi par di sentirci almeno due residui retorici. Uno viene dal solito idealismo, diventato semispontaneo anche in chi lo discute o lo respinge (e questo conferma l'importanza che ha avuto). L'altro, è una suggestione di tipo tecnicistico. Idealismo, perché il ritenere che gli strumenti «prestabiliti» e «limitati» siano un debole e molesto intermediario al pensiero musicale, fa parte di quel modo di vedere e di sentire. E questo (come rileva anche Turchi a proposito d'altri aspetti) per un fenomenologo, e in un libro che si intitola alla fenomenologia, è abbastanza strano. Sempre da quella sponda viene spontanea la valutazione positiva a qualsiasi mezzo che 'liberi' la musica da quegli impacci. Così va a finire che l'elettronica viene salutata come il mezzo per attingere, alla buonora, al vero «mondo dei suoni», la cui pretesa «concretezza fisica», per effetto della mentalità antispiritualistica, viene talmente sopravvalutata, da ipostatizzarsi automaticamente, cosi da far pensare a quella specie di 'noumeno' (che, non si dimentichi per non fare ingiustizie o inesattezze, a Rognoni non passa neppure per la testa), in una mentalità opposta.
Mi sono soffermato sul passo, che contiene un eccesso di valutazione della musica elettronica, non tanto in rapporto alle ormai notissime, vecchie censure mosse al lato fantastico della produzione musicale elettronica, quanto al fatto che si tratta di un procedimento basato sugli apparecchi elettro-acustici, sia nella 'creazione' sia nella comunicazione. Dal lato 'creazione ', viene attribuita all'esperienza elettronica addirittura la possibilità di risalire al «mondo dei suoni» precedente la creazione artistica stessa; anzi si rincarava la dose a pag. 33 con un «la natura del mondo dei suoni» e con una citazione di Enzo Paci inneggiante alle nuove libertà provocate dalla conoscenza del mezzo elettronico (e sorprende che quest'altro fenomenologo, brillante e acuto allievo di Banfi, appena dopo aver detto che «moltiplicando le nostre possibilità ogni strumento ci dà un 'supplemento di anima' perché ci dà un supplemento di percezione», intenda ciò a senso unico, nel solito banale, quantitativo senso della retorica 'liberatrice' non-relativa, incapace di cogliere la dialettica interna degli sviluppi tecnico-estetici nella storia della musica, di attribuire la parte che in essa hanno avuto anche gli strumenti con i loro 'limiti'; scherzi che la filosofia, di qualsiasi tendenza, può fare quando manchi una esperienza diretta e viva del fatto musicale.
E' abbastanza ridicolo (e abbastanza assurdo, per chi pratichi la musica) che un potere cosi straordinario venga attribuito alla parte speculativa della ricerca elettronica a scopo musicale, dimenticando che tutto questo è pur sempre una riduzione del fatto acustico a possibilità schematizzate da numeri o addirittura da apparecchi misuratori ottici, e in ogni caso legate sempre allo schema degli apparati elettronici, siano i triodi termoionici siano i transistors, apparati che esistono (e 'fungono') unicamente sulla base di schemi, e non sono già 'fenomeni' dai quali gli schemi si possano estrarre per opportunità pratica; perciò, se mai esiste un risultato di seconda mano rispetto alla supposta verità naturale è proprio quello dato dalla elaborazione elettronica. Se aggiungiamo che per la rivelazione concretamente acustica, da ascoltare, si ricorre sempre ai diffusori, agli 'altoparlanti', la 'libertà' e la nobiltà del risultato diminuiscono ancora; perché il suono da diffusore, per perfezionato che sia, non può eliminare certe caratteristiche udibili, riconoscibili (a meno di non avere più dialettica che orecchio, vedi Adorno che pianificano e riducono ogni suono prodotto a queste stesse caratteristiche (quelle che fanno riconoscere, in soldoni, il 'suono d'altoparlante').
Dalla data dello scritto di Rognoni, e ancor più da quello di Enzo Paci, è passato qualche annetto; quanto è bastato a ridurre parecchio le speranze, l'autorità e l'uso musicale dei suoni elettronici, che sembrano destinati a diventare soltanto degli ausiliari più o meno graditi, e comunque a venir utilizzati anche e proprio per quella caratteristica udibile (e per questo, se mai, significante in un ambito limitato da far giocare con altri: come si fa in musica) di 'suono d'altoparlante': un salto in giù da rompersi il collo, per quella specie di 'noumeno' a transistors.
Tuttavia, ci troviamo assediati da diffusori e da altoparlanti in molti spettacoli musicali: perfino in occasioni di alta classe, com'era a Firenze Romeo e Giulietta di Berlioz vòlto in balletto da Maurice Béjart ai Giardini di Boboli per il «Maggio», con la musica riprodotta da un gracchiante, assordante, assediante complesso di «elettro.dinamici» (ma è noto che la gens á ballet quasi sempre non ha molta sensibilità per la parte sonora - non diciamo musicale - che fa da supporto alle loro operazioni).
E la bella. trovata di amplificare gli strumenti dal suono alquanto esile, come il clavicembalo? Ma allora, che senso ha ascoltare di presenza la musica, se quello che si ascolta ha le stesse approssimazioni e le stesse riduzioni della radio, del nastro o del disco? Come 'presenza ', potrà essere gradita quella eventualmente 'bella' di chi esegue: ma dubito che questa abbia qualità foniche. Si arrivò, qualche anno fa, a tenere un concerto di clavicordo in una vasta sala, con l'amplificatore: il clavicordo ha una voce che arriva sì e no a due metri; ed anche questo fa parte del suo carattere; che senso ha ascoltarlo amplificato?
Ma tutto ciò rientra nella barbarie per cui oggi si esegue ogni sorta di musica, anche da camera, nelle stesse sale da duemila posti che servono per i concerti sinfonici.
Tornando all'assedio dei diffusori: se all'abuso di questi arnesi in pubblico si aggiunge l'abitudine al disco, alla radio, al magnetofono (utilissimi purché ci si ricordi che sono surrogati), ci si ritroverà avviati a una generazione di 'ascoltatori elettronici': tutt'altro che un progresso. E non è che manchi la sensibilità, malgrado i molti attentati al nostro orecchio; capitati quasi per caso ad ascoltare per la prima volta 'dal vivo' una orchestra sinfonica, molti ragazzi milanesi entrati al «Palalido» dove il comune aveva fatto replicare a ingresso libero, un concerto sinfonico della RAI diretto da Prêtre, si trovarono dapprima stupiti e poi entusiasmati non tanto dalla musica (Mozart e Strauss) ma dal suono 'vero' degli strumenti, «tanto più bello» (dicevano) che con la radio o dal disco.
A proposito: tutti presi dalla 'comodità moderna' del disco (e poi del disco alleato al nastro magnetico) gli anni Venti, Trenta e successivi lasciarono cadere in disuso gli apparecchi riproduttori per pianoforti Steinway «Welte Mignon»›, «Duo Art», «Ampico», che erano degli autopiani, o pianole, perfezionate in modo che suonando un pianoforte munito di quell'apparecchio, la esecuzione rimaneva registrata sul rullo di carta con ogni particolare, fraseggio, coloriti, pedale, stecche eventuali, tutto, insomma. Poi bastava 'suonare' quei rulli su un pianoforte munito dell'adatto meccanismo, per riascoltare l'esecuzione di quel tizio in ogni particolare. Purché l'apparecchio funzionasse a puntino, si capisce. Da alcuni anni si è rispolverato il «Welte Mignon» (o il «Duo Art») per trarne dischi, dai quali ascoltare l'esecuzione di grandi concertisti del passato o di compositori, che avevano registrato con quegli apparecchi, nel periodo tra l'anno 1904 e il 1925 circa. Il segreto di tanta esattezza nel riprodurre le sfumature di una esecuzione cioè qualcosa di molto fluido, stava (almeno nel «Welte Mignon››) nell'adoperare un mezzo appunto estremamente fluido, il mercurio: ce n'era un serbatoio sotto la tastiera, il movimento del tasto modificava la situazione del mercurio (c'erano dei pescanti che vi si immergevano); e questi mutamenti erano comunicati per via elettrica all'apparecchio che impressionava il rullo, non con fori, ma con tracce di inchiostro magnetico, così che, facendo scorrere il rullo nell'apparecchio 'lettore', queste tracce sollecitavano elettrocalamite, le quali riproducevano, col loro movimento, quello che dita e piedi del pianista avevano fatto, agendo su «dita» e su «piedi,» feltrati che suonavano e pedalizzavano.
Quando si abbandonarono questi apparecchi perché era più semplice incidere dischi, si pensava a riprodurre purchessia; non si era ancora avvertita la differenza (o almeno l'importanza della differenza) tra suono riprodotto e suono diretto dello strumento. Oggi, forse perché subissati dal suono elettrodinamico, questa differenza (e questa sua importanza) la notiamo. Sarebbe il caso di riprendere gli apparecchi «Welte» eccetera, eventualmente di perfezionarli ancora, se possibile, con eventuali circuiti elettronici, e aggiungere alle non molte registrazioni su rullo, fatte da musicisti ormai scomparsi, altre, con esecutori di oggi. Non si potrebbero soppiantare i dischi, i nastri e simili, ma accanto a questi, che possono far ascoltare col tramite di sia pur raffinati diffusori, si avrebbe l'esecuzione sempre di un certo giorno a una certa ora, però da ascoltare direttamente col suono autentico dello strumento, e non nel suo schema elettrodinamico. Almeno per il pianoforte. Sarebbe pur qualcosa.
2. CEMBALO, VEDI CLAVICEMBALO
In maggioranza (e non mi ricordo se davvero ci siano eccezioni) i dizionari e le enciclopedie musicali, arrivati alla voce CEMBALO, la sbrigano semplicemente così:
«vedi CLAVICEMBALO», oppure: «abbreviazione di CLAVICEMBALO». Con la stessa disinvoltura, elencano: «KLAVIER, vedi PIANOFORTE».
Ma Klavier o Clavier, in tedesco, vuol dire 'pianoforte' da quando i pianoforti esistono; prima, voleva dire 'strumento a tastiera' in genere (e si capisce come: dal latino clavis, per 'tasto'; che del resto nell'inglese e ancora oggi identico a 'chiave', key: così fu che in un dizionario tematico tradotto dall'inglese si legge, accanto all'incipit dello Studio in sol bemolle op. 10, n. 5 di Chopin: «La chiave nera»).
Perciò, Clavier era clavicembalo, clavicordo, spinetta, anche organo: almeno fino al Settecento inoltrato, quando tutti questi strumenti avevano una letteratura in comune.
Quanto a 'cembalo', il caso è analogo, anche se meno vasto, Con etimologia diversa, il vocabolo voleva dire 'strumento a tastiera e a corde', tant'è vero che fino a circa metà dell'Ottocento significò, nell'uso comune, anche 'pianoforte'.
D'accordo, 'cembalo' è anche abbreviazione di 'clavicembalo '; ma fermandosi lì si omettono parecchi altri significati che una enciclopedia musicale dovrebbe dare: ad esempio tutti quelli connessi alle funzioni della musica d'assieme e al «continuo»: maestro al cembalo, contrabasso al. cembalo e cosi via, che rimasero in uso nei teatri anche quando ormai il «cembalo» non era più un clavicembalo da un bel pezzo. E non lo era più almeno dalla fine del Settecento: così almeno testimonia, per esempio, il libretto de Le cantatrici villane di Valentino Fioravanti (1798), scritto dal Palomba: « ...Ma sentite che cembalo! / Lo volesse accordar solo una volta / quel malandrino dell'accordatore! Pazienza... Pesteremo!» Ora, se il cembalo fosse stato un clavicembalo o una spinetta con meccanica a corda pizzicata, «pestare» non avrebbe portato nessun esito. Dunque si trattava già di un pianoforte, sia pure rudimentale.
A proposito di 'cembalo' e di Clavier: ciò che Johann Sebastian Bach intitolò in tedesco Das wohltemperierte Clavier, in italiano si è sempre tradotto come Il clavicembalo ben temperato. Stando ai dizionari si dovrebbe addirittura tradurre Il pianoforte ben temperato. Stando, invece, a ciò che all'epoca significava la parola Clavier, il vocabolo più adatto sarebbe Cembalo (vedi sopra). Anche se per dizionari ed enciclopedie «Cembalo» è solamente 1'abbreviazione di «clavicembalo».
Che tradurre così quel titolo fosse inesatto, qualcuno lo aveva pur notato: ad esempio, già nel 1926, Attilio Brugnoli nel suo libro Dinamica pianistica.
Se può consolarci, anche i francesi commettono la stessa leggerezza: Le clavecin bien tempéré. Anche loro, si vede, attratti dal «clav.» e da una traduzione anche fonetica (e poi, non saprebbero come fare, a meno di usare clavier, che è 'tastiera' in francese. Quanto agli anglosassoni, prima optarono per un altro strumento tra i diversi settecenteschi indicati da Clavier, e tradussero The Well-tempered clavichord (anche loro attratti dal «clav.»: visto che il clavicembalo in inglese è harpsichord); poi, fecero ammenda e infilarono nella traduzione il vocabolo tedesco originale, così: The well-tempered Clavier. Il bello è che questo non piacerebbe a noi italiani che pure stiamo sprecando a man salva vocaboli stranieri dentro i nostri discorsi: al nostro orecchio, che digerisce ben altro, Il 'Clavier' ben temperato non va. Gente strana, che siamo, Intanto, i dizionari tengono duro col loro «cembalo, vedi clavicembalo». Ancora un po', e scriveranno: «Piano, vedi pianoforte».
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXV n. 3 dicembre 1972)
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