Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 26, 2012

Monteverdi: il "Quinto Libro de' Madrigali" (1605)


William-Adolphe Bouguerau
"Le ninfe e il satiro"
Il Quinto Libro de’ Madrigali, pubblicato a Venezia dall’editore Ricciardo Amadino nel 1605, segue di due anni la pubblicazione del Quarto e potrebbe essere considerato la sua naturale prosecuzione, in direzione dell’intensificazione di quella ricerca espressiva che già era divenuta eloquente sperimentazione. Tale “spregiudicata” e innovativa ricerca aveva affascinato e allo stesso tempo scandalizzato molti illustri personaggi. Quegli arditi procedimenti erano stati fonti di discussione teorica e spunto delle pubblicazioni che avevano infuocato gli animi degli intellettuali: “L’Artusi, overo Delle imperfettioni della moderna musica” (Prima e Seconda parte, edite nel 1600 e nel 1603). Quale cavilloso protettore delle regole tradizionali della musica e baluardo inflessibile contro le nuove strade musicali che violano tali leggi, il canonico Giovanni Maria Artusi si scaglia contro alcuni madrigali monteverdiani non ancora pubblicati ma ascoltati anni prima in ambiente ferrarese: tali dibattute composizioni, distribuite sapientemente fra il Quarto e il Quinto Libro, amplificano il successo editoriale che, per quest’ultima pubblicazione, conta ben nove ristampe che arrivano al 1643.
Nella dedica a Vincenzo Gonzaga, duca della bella e ricca città di Mantova, Monteverdi offre il suo “parto di Madrigali, supplicandola che sì come non isdegnò d’udirli più volte nelle sue regie camere, mentre erano notati a penna, et udendoli diede segno di singolarmente gradirli, onde m’honorò del carico sopra la nobilissima sua Musica: così (…) sotto la protettione di così gran Prencipe, vivranno eterna vita ad onta di quelle lingue, che cercano di dar morte all’opere altrui”. Evidente, in queste parole, la richiesta dell’autore di difendere sia la propria ricerca compositiva che tutto quell’approfondimento che Ferrara aveva promosso per tanti anni, prima della sua annessione allo Stato Pontificio: la musica “nuova” ora si compone e si ascolta a Mantova nelle regie camere, dove alcun canonico potrà adombrarle perché musica apprezzata dal duca. Affascinante, per noi, questa testimonianza di prassi esecutiva d’opere scritte a penna: le opere erano eseguite, provate, ascoltate, prima d’assugere alla stampa; anche se immaginiamo un simile iter, in realtà noi non abbiamo (di Monteverdi, come di quasi tutti gli autori di quest’epoca) alcun foglio autografo e le uniche nostre fonti musicali sono quelle a stampa, proprio quelle che vivono eterna vita. Anche se Artusi, trent’anni più tardi, addolcirà la sua posizione e i suoi severi giudizi (come lo stesso Monteverdi scrive di lui: “si quietò in maniera che per l’avvenire non solamente si firmò di passar più oltre ma volgendo la penna in lode, cominciò ad amarmi e a stimarmi”), ancora oggi noi rimaniamo stupefatti dall’intento provocatorio di alcune opere, la prima delle quali è arrogantemente posta in apertura del libro. Dissonanze sui tempi forti (e quindi non come incidente di passaggio ma asprezze “volute”, provocate e provocanti), senza preparazione (dunque senza addolcimento e risoluzione), note estranee all’accordo consonante: queste alcune delle durezze inserite in Cruda Amarilli che, ancor oggi, colpiscono per la loro modernità. Le ragioni della “norma”, di ciò che è avvalorato dal passato, dall’autorità antica, in Monteverdi sono sorpassate dalle ragioni della ricerca espressiva armonica. Egli non si difenderà da Artusi con copiosi scritti teorici: basterà un breve comunicato pratico, agli studiosi lettori, pubblicato in questo Quinto Libro, prima della stampa delle note musicali. Musicista e non teorico, troppo preso dal servizio musicale del duca, egli si giustificherà dicendo di non essere “padrone di quel tempo che tal’hora mi bisognarebbe”; dunque “non vi maravigliate ch’io dia alle stampe questi madrigali senza prima rispondere all’oppositioni che fece l’Artusi”. Seguono alcune parole che rimasero nella storia della musica: “Io non faccio le mie cose a caso et tosto che sia rescritta uscirà in luce portando in fronte il nome di Seconda Pratica, overo Perfettione della Moderna musica”. Come scrive Claudio Gallico, “la Seconda Pratica è quello stile musicale che vuole “l’oratione” (ossia la parola più il significato, la comunicazione, l’animus, il concetto, il concetto che vi abitano oltre alla prosodia, la sintassi e il cursus retorico) padrona dell’armonia (della musica e del suo apparato fonico, grammaticale, strutturale) e non serva” (C. Gallico: Monteverdi, 1979).
Monteverdi, dunque, si avvale della libertà di utilizzare qualsiasi mezzo musicale, qualsiasi risorsa sia tradizionale che inventata, per esporre il testo poetico trasfigurandolo espressivamente e artisticamente: Artusi riaffermerà che la “Seconda Pratica, che si può dire con ogni verità, che sia la feccia della Prima”, ma rimarrà schiacciato dalla potenza del nuovo modo di scrittura che in pochi anni travolgerà inesorabilmente il mondo antico.
Da questo libro in poi i madrigali cambieranno forma esteriore. Il tradizionale brano a sole cinque voci si trasformerà in un laboratorio che ammetterà l’uso di sinfonie strumentali ed estesi momenti affidati a terzetti, duetti o anche brani solistici, sostenuti da una “innovativa invenzione”: una linea melodica strumentale assolutamente autonoma (non ricavata dunque dalle voci com’era avvenuto nel già noto basso seguente), composta dall’autore (e non ricavata dall’esecutore strumentale), che come scrive Giovan Battista Doni nel 1635 “per continuarsi dal principio sino alla fine, si suol chiamare basso continuo”. Già nel frontespizio (e nel libro che proprio Monteverdi fa stampare per la prima volta nelle sue pubblicazioni, riservato solo alla linea di basso strumentale) vi è scritto che tale parte è dedicata “per il clavicembalo, chittarrone o altro simile istrumento, fatto particolarmente per li sei ultimi et per li altri a beneplacito”. Il basso continuo, dunque, diventa obbligatorio e indispensabile per l’esecuzione degli ultimi sei brani che, proprio la loro peculiarità di cantare solistico, richiedono un sostegno armonico senza il quale il brano diventerebbe incompleto: tali accordi erano improvvisati dallo strumentista proprio su quella linea di basso. Il tipo di strumento da usare non è definito: può variare secondo la disponibilità degli esecutori e secondo l’effetto musicale ed espressivo che si desidera ottenere.
Nel Quinto Libro, l’insistente presenza di madrigali scritti dal poeta ferrarese Giovanni Battista Guarini (sedici madrigali su diciannove), ci indirizza ancora una volta alla rappresentazione del “Pastor Fido” (da cui sono stati tratti ben dieci brani) commissionata dal duca di Mantova ma della quale non abbiamo notizie in merito alla musica che fu eseguita. Mirtillo disperato dall’amore che Amarilli non può contraccambiare e i dolenti ammonimenti di Dorinda a Silvio, sono i due fulcri letterari di un libro che si occupa tematicamente dell’amore non contraccambiato. Monteverdi riunisce (come spesso ama interpretare) due scene distanti nel libro guariniano per far dialogare la prima coppia protagonista nei due brani iniziali: alle provocanti e già citate dissonanze costruite sulle prime parole di Cruda Amarilli rispondono le eguali dissonanze di O Mirtillo proprio sulle parole il cor di questa che chiami crudelissima Amarilli in un andamento ad accordi armonici verticali che evidenzia la trasparenza della parola teatrale. Alla seconda coppia infelice (Dorinda-Silvio) è invece affidato il cuore del libro: apice del madrigale monteverdiano a cinque voci (quello “tradizionale”, “a cappella”, quello prima dell’avvento del basso continuo), il gruppo di cinque madrigali che inizia con Ecco, Silvio, colei e termina con Ferir quel petto, Silvio rappresenta un’estesa scena drammatica che prosegue ed intensifica la ricerca teatrale di Vattene pur crudel del Terzo Libro, e quella del Quarto. “L’allusione alla cornice scenica e narrativa diventa esplicita: si rappresenta effettivamente un nucleo drammatico in una lunga catena dialogica di madrigali di cui i primi due affidati a Dorinda, i due successivi a Silvio e il conclusivo ancora a Dorinda. Per quest’articolata, estesa scena, Monteverdi s’affida a tutte le possibilità della declamazione recitativa a più voci” (P. Fabbri: Monteverdi, 1985). Con questa forte scena d’impatto teatrale, ancora affidata ai tradizionali mezzi della tradizione vocale polifonica (e non quella solistica), il madrigale sembra aver esplorato, e forse esaurito, le sue possibilità sia come forma che come mezzo espressivo; ma anche dopo questa vetta, la genialità di Monteverdi partorirà nuove strade espressive, inventando nuovi mezzi e forme che già ascoltiamo in quei ultimi sei brani (e che poi continueremo ad ammirare in tutti i libri successivi). Ritroveremo altre due posteriori scene teatrali legate alla “tradizione polifonica” (anche se con basso continuo obbligato): la prima che inizia con il celeberrimo lamento Lasciatemi morire, la seconda composta dalla famosa Sestina: Lacrime d’amante al Sepolcro dell’Amata, poste rispettivamente all’inizio e alla fine del Sesto Libro).
Un altro madrigale, particolarmente originale (dello stesso poeta del Pastor Fido ma tratto dalle Rime, 1598) fu vittima delle critiche dell’Artusi. Difficile, per un fautore dello stile antico, comprendere la genialità di un brano che stimola per i suoi effetti di contrasto timbrici e sonori: Era l’anima mia inizia con le tre voci gravi nella loro tessitura più bassa, esprimendo lo sconforto delle parole; con un repentino cambio scena appare nella sua abbagliante luminosità l’anima più bella e più gradita con le voci acute che danno vita ad un sottile gioco psicologico, ansimante, ricco di sensualità e pathos.
A testimonianza della continuità con il libro antecedente, in Che dar più vi poss’io ritroviamo l’espediente già usato nel Quarto Libro della declamazione salmodica (usata solitamente nell’intonazione ecclesiastica) di forte impatto sonoro. A conclusione della prima parte del libro (quella legata alla ricerca musicale senza basso continuo) troviamo M’è più dolce penar che, per il testo legato al Pastor Fido, per il riferimento ad Amarilli (prima protagonista della raccolta), per le dissonanze audaci (come quelle del primo brano) desidera essere epitome ed epilogo della ricerca musicale affrontata da Monteverdi prima di quei sei madrigali che apriranno un nuovo modo di comporre.
Primo dei sei brani con il sostegno armonico obbligatorio degli strumenti di continuo, Ahi, come un vago sol è stato spesso considerato anticipatore delle forme più tarde della cantata o addirittura del rondò classico, per quella sua forma regolare che alterna episodi solistici a momenti di tutti sonoro: al di là di queste “premonizioni”, credo sia affascinante notare quanto la frase Ah, che piaga d’amor, ripetuta in cinque episodi, accresce sempre più la sua forza espressiva trovando sempre nuovi modi di esprimersi fino allo struggente apice dell’ultimo episodio e allo sfiduciato catarsi finale.



T’amo mia vita è un altro di quei brani per il quale sono stati versati fiumi di parole: un’eterea, semplice, fresca, essenziale frase inizia solisticamente con il cantus, quale ricordo risonante nel cuore dell’amata. Al suo ripetersi (se volessimo parlare di “premonizioni” dovremmo notare che tre secoli dopo anche Leonard Bernstein nella canzone d’amore dedicata a Maria ricorre ad un simile procedimento) si snodano le riflessioni innamorate del protagonista affidate alle tre voci gravi; solo quando l’ultimo eco di quella frase gli colmerà il cuore, si unirà nelle ultime battute anche una quinta voce a riempire il contrappunto nella replica incessante e instancabile di quella primigenia frase testuale e della sua annessa melodia.

Due madrigali molto virtuosistici completano questa seconda parte innovativa. Il primo, Troppo ben può dopo una breve introduzione, ci presenta le riflessioni in dialogo (in una precisa forma bipartita AB-AB) tra il solista (che sempre più si sta trasformando in un vero e proprio personaggio) e un gruppo di voci (quasi dei consiglieri o degli amici che avvisano e consigliano il protagonista). Il secondo, E così a poco a poco, allarga l’organico a sei voci (a presagio e preparazione del successivo brano) utilizzando due voci per narrare e le altre voci per ripetere e far divampare sempre più intensamente il fuoco dell’incendio con il noto procedimento del madrigalismo.
Conclude il libro un concerto finale a nove voci e sinfonie, un brano anomalo che, com’era uso all’epoca, viene posto al termine del libro: Questi vaghi concenti ricorda da un lato le Symphonie Sacre di Giovanni Gabrieli, con i cori dialoganti (detti appunto “battenti”) di stampo veneziano e dall’altro i concertoni ferraresi citati dall’ambasciatore fiorentino nel 1571 che impiegavano fino a sessanta esecutori (come già citavamo nel Terzo Libro). Il linguaggio che Monteverdi usa è però molto progredito rispetto quegli esempi, tanto da far pensare ad una occasione specifica mantovana (a noi ancora ignota) attigua alla pubblicazione. La sinfonia a cinque (che, come avviene per le parti vocali, evita di definire gli strumenti destinatari) introduce e termina una prima parte composta da un serrato dialogo (in botta e risposta) fra i due cori a quattro voci, interrotto da episodi solistici affidati al Tenor del primo e poi del secondo coro. Un’esclamazione netta, tagliente, di tutti gli esecutori (Deh!) introduce una voce (la nona) che ascoltiamo ora per la prima volta, un vero personaggio solista che a sorpresa (non questa è una vera e propria invenzione barocca?) invoca di entrare nel gruppo corale: se potessi anch’io così dolce dolermi. Teatralmente, citando la stessa melodia, altre voci in duetto elemosinano di unirsi a questo canto che il successivo intervento solistico, affidato al basso del primo coro, specificherà essere sgorgato dal pianto d’amore. Un complesso doppio coro composto da melodie orizzontali, ad imitazione, frutto di sapienza contrappuntistica, conclude a nove voci il concerto e quest’originale pubblicazione.
Studiando la prassi esecutiva e le fonti storicoartistiche inerenti a questo libro, ritroviamo altri due argomenti a favore dell’esecuzione con sole voci maschili. Il primo, è un’affascinante antologia di travestimenti spirituali dedicata al Cardinale Borromeo di Milano, pubblicata da Aquilino Coppini nel 1607: Musica tolta da i madrigali di Claudio Monteverde, e d’altri autori, a cinque et a sei voci, e fatta spirituale. Coppini adatta alle melodie di ben undici madrigali dal quinto libro (e a brani di Banchieri, Gabrieli, Giovannelli, Marenzio, Nanino e Vecchi) alcuni testi sacri in latino, ad uso liturgico. Sapendo che le donne non potevano cantare brani sacri o spirituali, deduciamo una prassi esecutiva analoga per i madrigali profani originali (per approfondimenti su questa pubblicazione si veda il sito curato dal Prof. Jens Peter Jacobsen del Dipartimento di Musica dell’Università di Aarhus (Danimarca): http://www.jpj.dk/index.htm#"Jesper". La seconda testimonianza di una consueta prassi esecutiva dei madrigali monteverdiani da parte di sole voci maschili è una trascrizione del madrigale Cruda Amarilli nell’Esemplare o sia Saggio fondamentale pratico di contrappunto (Bologna, 1774-76) redatto da uno dei più importanti studiosi del mondo antico, Padre Martini (il personaggio che noi tutti dovremmo eternamente ringraziare per aver salvato dalla distruzione molte delle pubblicazioni antiche ora conservate nel prezioso scrigno italiano del Civico Museo Bibliografico-Musicale di Bologna). Nonostante fosse trascorso un secolo e mezzo e che Monteverdi fosse dimenticato a favore di Mozart (che studiò in Italia con il Padre), Martini esperto specialista e fautore della conservazione del passato (sia teorica che esecutiva) ripropone quel madrigale, in una versione correttissima, ma trasportata una quarta inferiore e con fa diesis in chiave, per essere cantata da voci maschili: una prassi che rimaneva incolume dopo tutto quel tempo. Una versione e una prassi che vi riproponiamo oggi, dopo ancora tre secoli.
Dedico questa registrazione alla memoria di Pina Pighi, mia insegnante di musica nelle scuole medie, e di Claudio Gallico, insigne musicologo: da loro ho imparato che si può vivere per la Musica.
Marco Longhini
(note al Cd Naxos 8.555311)

sabato, maggio 19, 2012

Enzo Dara ricorda il debutto di Luciano Pavarotti

L’anniversario è indimenticabile: il 29 aprile del 1961 il giovane Luciano Pavarotti iniziava al Teatro Municipale “Romolo Valli” la sua trionfale carriera. Avendo vinto il concorso Achille Peri, gli spettava di esordire nella Bohème, nei panni del poeta Rodolfo.
Luciano Pavarotti
Trent’anni dopo – lunedi 29 aprile 1991 – il Teatro “Romolo Valli” organizzò i “festeggiamenti per il 30esimo del debutto” di un Pavarotti già superstar, organizzando un concerto con un cast stellare: Luciano Pavarotti, June Anderson (soprano), Piero Cappuccilli (baritono), Paolo Coni (baritono), Enzo Dara (basso), Giovanni Furlanetto (basso), Raina Kabaivanska (soprano), Patrizia Pace (soprano), Giuseppe Sabbatini (tenore), Shirley Verret (mezzosoprano). A dirigere l’orchestra del teatro Comunale di Bologna due maestri: Leone Magiera e Maurizio Benini.
Nella sua abitazione di Mantova Enzo Dara, basso buffo di caratura mondiale (1500 recite, 76 personaggi, 34 album, 24 anni con Claudio Abbado, in attività fino al 2004, oggi regista) ci riceve e torna volentieri sulla serata- evento al Teatro “Romolo Valli”.
Maestro Dara, racconti….
Luciano alle prove del giorno prima era un po’ nervoso. Poi la sera dopo, appunto lunedi 29 aprile, si placò e stregò tutti quanti.
Insieme avete cantato un duetto dell’Elisir d’amore di Donizetti...
Sì, abbiamo fatto il duetto “Voglio dire…lo stupendo…”, il duetto in cui Nemorino compra dal medico ambulante Dulcamara che ero io, una bottiglia che non era affatto l’Elisir promesso ma una bottiglia di Bordeaux da poco. Ci siamo molto divertiti. Fummo anche adeguatamente applauditi. Poi quando Pavarotti ha cantato ”Che gelida manina” è scoppiato il delirio.
La serata al Valli era dedicata a Gigetto Reverberi, un uomo speciale. Concorda?
Di più. Il teatro reggiano era il regno del nostro Gigetto, grande uomo di teatro, grande e vero socialista, amante della lirica e delle belle voci giovanili. Ricordo che lo spettacolo a lui dedicato fu anche teletrasmesso e passato in video dalla Decca.
Maestro, se non ricordo male con Pavarotti lei ha anche inciso “L’elisir d’amore” al Metropolitan
Sì, nel 1990, anno in cui io avevo cantato a Madrid “Il Turco in Italia” diretto da Zedda, il ”Don Pasquale” a Venezia con Ferro sul podio, e “L’Italiana in Algeri” a Vienna accanto a Raimondi.
Poi vi siete ritrovati al Met di New York diretti dal grande Levine….
Sempre nell’Elisir. Ne è uscito anche un video con la regia di Brian Large. Essendo quasi compaesani Luciano ed io amavamo parlarci spesso in dialetto. E lui cominciava sempre chiedendomi “Enso, come stet?” “Ben e ti?”.
E Pavarotti come replicava?
Da dio! Certo Reggio entrava spesso nei nostri discorsi. Lui ha cominciato al Valli una carriera trionfale, io ho svoltato debuttando a Reggio come basso buffo il primo febbraio del 1967. Con l’“Elisir d’amore”, diretto da Masini. Il 14 ho cantato a Guastalla, il 16 a Modena con Luciano. Poi siamo andati in tutto il mondo: Reggio ci ha portato fortuna.

Enrico Pirondini (Giornale di Reggio, 29 aprile 2012)

sabato, maggio 05, 2012

Tamburini: Fabbrica d'Organi

"...Mi chiamerò quindi veramente fortunato se queste pagine mi potranno procurare l'onore di allargare la cerchia de' miei amici, e la soddisfazione di veder compresa ed incoraggianta la mia iniziativa da quanti amano dotare le loro chiese di organi fatti bene, di durata e di perfetto stile italiano."
Giovanni Tamburini
(Catalogo della Fabbrica d'Organi Giovanni Tamburini di Crema 1909)

La macchina sonora dell'organo è composta in linea di massima dalle seguenti parti:
1.      Tastiera
2.      Trasmissione
3.      Somiere
4.      Ventilabro
5.      Stecca di registro
6.      Canne
7.      Elettroventilatore
8.      Mantice
9.      Valvola di regolazione della pressione dell'aria
10.  Condotti di alimentazione

Il mantice (8) accumula l'aria proveniente dalle pompe manuali o dall'elettroventilatore (7) ed ha anche la funzione di regolare la pressione dell'aria tramite una speciale valvola (9). Il mantice fornisce l'aria al somiere attraverso i condotti di alimentazione (10).

Struttura base dell'organo

Il somiere (3) è costituito da una sorta di cassa in legno a forma di parallelepipedo, rettangolo vuoto all'interno, che contiene delle valvole, denominate ventilabri, comandate attraverso la trasmissione dalla tastiera. Il somiere prende il nome dal fatto che lo stesso porta il peso, cioè la "soma" delle canne.

L'organista premendo il tasto (1), comanda, tramite la trasmissione (2), l'apertura di un ventilabro (4) il quale permette all'aria, proveniente dal mantice e compressa nel somiere ad una determinata pressione, di raggiungere le canne sovrastanti il somiere, le quali emettono il suono nella frequenza e con il timbro sonoro impostato dall'organaro.

Sul somiere trovano posto numerose file di canne (6), ognuna delle quali corrisponde ad un timbro sonoro diverso, denominato registro. I diversi registri possono essere attivati attraverso l'azionamento delle stecche (5) da parte dell'organista che può scegliere di utilizzare diversi registri, singolarmente oppure in combinazione tra loro. Ogni registro ha un numero di canne corrispondente ai tasti oppure ai pedali. Il funzionamento della pedaliera segue un percorso analogo. Ha una sua trasmissione e un suo somiere, l'organista, una volta premuto un pedale, permetta all'aria immagazzinata nel somiere della pedaliera di raggiungere le canne del pedale.

Per comprendere al meglio il funzionamento di un organo conviene analizzarlo schematicamente per parti funzionali, in questo modo sarà possibile osservare la lenta evoluzione che ha portato al perfezionamento dello strumento e, in un certo senso, ad una fossilizzazione intorno ad alcuni capisaldi irrinunciabili.
Non sempre il progresso tecnico ha avuto come conseguenza un miglioramento, poiché l’entusiasmo per le nuove scoperte ha spesso indotto gli organari ad introdurle "sic simpliciter" nella prassi costruttiva, senza un preliminare approccio critico.
La meccanica: manticeria, trasmissioni, somieri. Dal momento che l’organo è uno strumento aerofono il primo problema sarà quello di fornire l’aria in quantità sufficiente per permettere l’emissione dei suoni da parte delle canne.
I primi rudimentali strumenti del I secolo d. C., possedevano delle pompe che aspiravano l’aria dell’ambiente che veniva introdotta direttamente nel somiere. La capacità delle pompe era ovviamente proporzionale alle "dimensioni" dell’organo. La pompa stessa era dotata di una valvola che provvedeva al dosaggio della pressione del vento. Ma già dal IV secolo si introdusse un elemento intermedio per controllare meglio l’emissione del vento e per alleggerire la fatica dei garzoni tiramantici. Si tratta di borse o soffietti in pelle che hanno la funzione di veri e propri serbatoi. Il mantice si configura in due tipi principali: a libro (o ad ala) e a lanterna. Il primo, più antico, poteva essere azionato tramite pedali o leve; presenta lo svantaggio di richiedere, nei grandi organi, un numero considerevole di tiramantici che peraltro devono coordinare gli sforzi per evitare squilibri nella fornitura di vento.
Più equilibrato sotto questo profilo è il mantice a lanterna la cui parte superiore mobile, spesso caricata con pesi, elimina tali scompensi. Un albero a camme provvede al moto alternato di più soffietti sfasati tra di loro, al garzone sarà richiesto l’azionamento di una manovella, con un movimento rotatorio molto regolare. Ove la distanza mantici-canne fosse troppo elevata, si provvedeva a ripristinare la pressione con mantici intermedi equilibratori.
Con la rivoluzione industriale i garzoni vennero sostituiti con macchine a vapore, a gas e infine con elettroventilatori. La pratica attuale di inserire il ventilatore elettrico non comporta peraltro "problemi filologici" sia per le nuove realizzazioni, sia per i restauri ed è normalmente accettata, salvo in casi di organi di eccezionale pregio, in quanto non stravolge l’impianto della manticeria né distrugge le parti esistenti che possono comunque essere utilizzate anche a mano. Per ovvie ragioni si richiede al ventilatore la massima silenziosità.
Un’ultima osservazione riguardo all’elettro-ventilatore. In genere il ventilatore elettrico non viene munito di alcun dispositivo atto a regolarne la potenza: quando l’organista lo aziona, tramite un semplice interruttore, fornisce al motore la massima potenza, indipendentemente dal reale bisogno d’aria. Se osserviamo tutto ciò attraverso l’ottica della faticosa manovella, comprendiamo degli aspetti dello strumento che potevano apparire privi di significato. Uno di questi è rappresentato dai pesi che gravano sui mantici. È chiaro che i garzoni girassero la manovella in maniera da garantire il "vento", cioè l’aria compressa, sufficiente in quel dato momento, ma non di più, a differenza di quanto invece avviene oggi con il motore elettrico.
A seguito di questa considerazione si potrebbero esprimere riserve sull'installazione di ventilatori, perché aumenterebbero la pressione del vento per loro stessa conformazione. Il problema è, peraltro, superabile tecnicamente con l'introduzione di semplici valvole a tendina da inserirsi tra il ventilatore e il mantice, cui spetta la regolazione delle stesse: quando il mantice si abbassa la valvola si apre e fornisce vento, mentre se occorre un’immissione limitata d’aria la tendina occlude parzialmente o completamente il condotto, permettendo una regolazione efficace della pressione.
Bisogna tuttavia concordare con lo studioso nel condannare il comportamento di certi organisti che lasciano attivo il ventilatore anche se non suonano, generando (specialmente in condizioni estreme) squilibri termo-igrometrici all'interno del somiere, con la produzione di trasuoni e fischi. Il vento prodotto viene convogliato verso i somieri attraverso una serie di condutture, perlopiù in legno e a sezione rettangolare. Particolare attenzione deve essere impiegata nella realizzazione dei nodi che non devono avere perdite di vento, nei limiti del possibile: di norma si usa pelle di capra incollata alle assi. Il legno e tutte le parti destinate ad essere scoperte vengono poi tinteggiate con bolus rosso stemperato nella colla con funzione anti-tarlo. Non si sa fino a che punto questi metodi antichi e un po’ caserecci possano effettivamente avere valore scientifico, ma la pratica secolare è tutto sommato collaudata. È poi assolutamente corretto che i condotti debbano avere una certa elasticità meccanica per poter sopportare sbalzi termo-igrometrici ed eventuali cedimenti differenziati delle strutture di sostegno. L'aria custodita in pressione nella secreta del somiere è pronta per essere immessa nelle canne per la produzione del suono. Occorre un meccanismo regolatore che permetta l'emissione delle note.

A questo punto dobbiamo interrogarci non solo su un fatto tecnico e fisico, ma analizzare concettualmente l'atto musicale così come si configura nella pratica organistica.
Attraverso gli organi sensoriali l'organista riceve le informazioni sulla musica che sta per eseguire; dati che poi elabora concettualmente e trasmette a mani e piedi per l'abbassamento dei tasti corrispondenti alle note. La parte trasmissiva dello strumento provvede a trasferire questi comandi a delle valvole dette ventilabri che aprendosi fanno suonare le canne. Questi meccanismi sono strutturati in modo da inficiare quasi totalmente gli sforzi dell'organista nel dare espressione alla musica. L'esecuzione è completamente differente da quella di un violino o di un pianoforte: in questi casi interprete e strumento sono una cosa sola e possono fornire una gamma infinita di combinazioni intensità sonora-tocco (o arcata). Nel caso dell'organo è un lavoro intellettuale prima ancora che di manualità: ecco uno dei motivi per cui l'organo è così adatto per l'esecuzione di musiche contrappuntistiche, composte con criteri quasi matematici e che raramente danno concessioni alle lusinghe dell'"ispirazione". In questo senso molti organari non hanno ritenuto una gran perdita la scomparsa totale dell’espressione nei sistemi moderni di trasmissione (pneumatico, elettrico ecc.). Ancora negli anni ‘60 erano pochi gli studiosi che invocavano il ritorno alla trasmissione meccanica non solo per motivi storici e filologici, ma anche per ridare allo strumento quella sensibilità al tocco che, seppur minima, provvede alla migliore interazione musico-strumento. Solo a partire dagli anni ‘70 questa consapevolezza si è imposta seriamente nella pratica costruttiva degli organari più attenti.

Abbiamo precisato che la parte trasmissiva deve "veicolare" le informazioni dall’esecutore al somiere. Occorre evidenziare che ve ne sono di due tipi: le note nella sequenza temporale che genera la composizione; i registri con cui quella musica deve essere eseguita. Questi ultimi sono i timbri, "le voci" dell’organo (principale, ripieno, oboe, flauto ecc.): una sua caratteristica specifica che connota anche sensibilità artistica dell’artefice, l’epoca, il luogo di costruzione ed altre indicazioni stilistiche. Il metodo più antico è la trasmissione meccanica detta "catenacciatura" per il fatto di essere costituita da tiranti, squadrette, bilance, leve, catenacci appunto. Tramite una serie di rimandi l’azione meccanica dell’esecutore si trasferisce dalla consolle ai somieri. Nei piccoli organi ad ala, così come negli strumenti più primitivi, la catenacciatura poteva essere ridotta o eliminata, dal momento che era lo stesso tasto ad aprire le valvole o a costituire per prolungamento il ventilabro stesso. Una soluzione così semplificata non è adottabile negli strumenti fissi per una serie di motivi tecnici: non corrispondenza dimensionale tra larghezza della tastiera e del somiere; lunghezza eccessiva dei somieri per l’inserimento di un cero numero di registri, con conseguente allungamento delle valvole e sforzo dello strumentista. Tuttavia il legame tasto-ventilabro, malgrado l’interposizione della meccanica, rimarrà sempre una costante nella vera tradizione organaria. Per conseguente induzione, ciascuna tastiera (manuale o pedaliera) sarà connessa ad un somiere e quindi ad un corpo d’organo. Cosa che bisognerà tenere ben presente se si vuole comprendere le esigenze spaziali-architettoniche dello strumento.

Vi sono due tipi principali di catenacciatura: quella sospesa, più usata, e quella a bilico. La prima fa uso di tiranti e perciò si sviluppa al di sopra dei tasti, assimilabili a leve del secondo ordine, mentre la seconda utilizza dei puntoni collocati sotto il manuale ed è ottima per particolari esigenze come il collegamento con corpi d’organo posizionati alle spalle della consolle (positivo tergale). Analogamente le manette dei registri sono provvisti di simili meccanismi. Anche se in apparenza il metodo della trasmissione meccanica appare complesso, esso è facilmente manutenibile con l’ausilio di una limitata attrezzatura: cacciaviti, pinze, filo di ferro. Per contro è più soggetto a scompensi statici, ambientali, termo-igrometrici (cedimenti, ingrossamento del legno, ossidazione e rilassamento di elementi metallici, perdita di elasticità di molle di ritorno ecc.); è più duro al tocco, dunque l’organo risulta più faticoso a suonarsi. Ma il grande pregio della catenacciatura consiste nel mantenere quel residuo di sensibilità al tocco che, come abbiamo precedentemente esposto, è ormai un’esigenza irrinunciabile per una corretta interpretazione della macchina-organo.

Esistono altri metodi di trasmissioni sviluppati a partire dal secolo XIX, primo fra tutti il sistema pneumatico, dapprima interpretato come semplice servomeccanismo per eliminare le durezze delle tastiere (leva Barker, 1835), quindi come trasmissione tubolare assai simile al circuito del freno di servizio nelle automobili, però con funzionamento ad aria. Presenta la possibilità di posizionare la consolle relativamente distante dal corpo dello strumento, ma comporta l’uso di meccanismi molto delicati e la manutenzione è un grosso problema, tant’è che in casi disperati si è dovuto passare al sistema elettrico. Ha anche il difetto di creare degli scompensi di pressione tra i vari canaletti, con ritardi nell’attacco e nello stacco delle note, come rileva Marco Enrico Bossi: "Il sistema tubolare sostituisce con felici risultati la catenacciatura, ma presenta qualche inconveniente se la distanza a percorrere, dal tasto al somiere, è troppo considerevole. Di preferenza si sostituisce alla meccanica della pedaliera, poiché ai manuali reca l’inconveniente che consiste nella elisione, causa il vento dell’uno e dell’altro dei canali vicini, per cui i due ventilabri del somiere non si chiudono con prontezza ed impediscono la chiarezza dei suoni, specialmente nei passi accelerati, trilli ecc." (M. E. Bossi, G. Tebaldini, Metodo teorico pratico per organo, Milano 1893, pag. 29) Fu il dott. Gaunslett nel 1851 il pioniere del sistema elettrico, anche se in Italia dovremo attendere il 1887 con l’applicazione da parte della ditta Bossi-Urbano dell’elettricità all’organo di S. Alessandro in Colonna a Bergamo, reso peraltro celebre per la precedente applicazione della più lunga catenacciatura meccanica che correva per oltre trenta metri sotto il pavimento della chiesa.

Nella trasmissione elettrica le tastiere sono assimilabili a una serie di interruttori collegati con fili a dei relè che provvedono all’apertura delle valvole. Naturalmente il sistema si è evoluto con il progresso delle telecomunicazioni, per cui si è passati dal semplice collegamento con grossi cavi coassiali, alla connessione tramite apposito "modem", per arrivare ultimamente all’interfaccia MIDI e ai raggi infrarossi. Con il sistema di trasmissione elettrico si raggiunge il massimo grado di libertà nella registrazione, che memorizzabili prima dell’esecuzione ed inseribili a piacere tramite l’elettronica. Questa possibilità tecnica ha dato origine, a nostro modo di vedere, ad un processo deleterio: l’organista viene stimolato psicologicamente a cambiare registrazione più di quando in realtà le esigenze dei brani non lo richiederebbero. In conclusione, sebbene non si debbano condannare i risultati della tecnologia di questi ultimi due secoli, occorre ricordare che lo strumento è frutto di un lavoro artigiano e non industriale: pertanto la trasmissione più idonea alla natura e alla tradizione dell’organo è certamente quella meccanica.

Il vento e i comandi dell’organista, cioè i fattori naturale ed umano, giungono alla cassa dell’organo, ossia ai somieri. Essi sono costituiti da casse lignee a tenuta sviluppate in larghezza e in profondità, dotate al loro interno di valvole (ventilabri) e provviste sulla faccia superiore di fori, su cui si innestano le canne immediatamente sopra ai rispettivi ventilabri.

Si possono distinguere in prima battuta somieri divisi a scomparti o liberi. Tra i primi si può individuare un’ulteriore classificazione tra i somieri a canale per tasto (metodo più antico) e a canale per registro (introdotti solo col pneumatismo) a seconda che la segreta sia divisa nel senso della profondità o della larghezza. Poiché ai meccanismi di regolazione del vento sono richiesti due diversi interventi (comando del registro e della nota), la struttura ventilabro-secreta è piuttosto complessa e può essere realizzata secondo vari metodi costruttivi.

I due sistemi storicamente più antichi, applicati a somieri a canale per tasto, sono quello a tiro e quello a vento. Il primo, più antico e diffuso soprattutto in Italia centro-meridionale e nei paesi esteri, consiste in una serie di ventilabri comandati dai tasti, mentre per la regolazione dei registri provvede una stecca forata posta sopra ai ventilabri che viene fatta scorrere mediante i caratteristici pomelli finché i fori non coincidono con quelli del somiere.

Il somiere a vento, usato soprattutto negli organi lombardi dell’ ’800, ha la complicazione di essere costituito da tanti "ventilabrini" alla cui sommità sono collocati dei borsini in pelle, in modo da occludere il foro di uscita del vento. Le valvole sono comandate dai tasti, mentre l’abbassamento dei borsini, tenuti a contatto col somiere tramite punte metalliche, non può avvenire se non è inserito il corrispettivo registro. Naturalmente questi antichi metodi non sono immuni da difetti.

“Gli inconvenienti comuni a codesti due sistemi di somieri sono:
1)      il tasto deve aprire un ventilabro assai lungo e largo tenuto chiuso da una molla e dalla forza dell’aria compressa, cosicché specialmente negli organi grandi le tastiere riescano assai dure e quasi insonabili quando due o tre di esse sono accoppiate tra loro;
2)      quando voglia l’organista dare a un tratto tutta la forza all’organo deve, premendo col piede una stanga, muovere tutte insieme le manette e v’hanno organi fra noi nei quali l’aprire il tiratutto generale richiede uno sforzo erculeo.

I difetti particolari ai due somieri sono i seguenti: nel somiere a tiro è difetto principale la grande difficoltà dello spianare convenientemente la tavola su cui scorrono le liste perforate, e malgrado ciò le frequenti perdite di vento il quale introducendosi tra le liste suddette va a far sonare le canne che devono tacere.

Altro sconcio e non lieve è quello che le liste di legno per quanto esso sia stagionato e compatto, pure è sempre più o meno soggetto agli effetti dell’umido e del secco, e ne consegue che, o non chiudono bene, o stentano a scorrere nelle loro guide. Nel somiere a vento è difetto principale la sua complicazione. Tanti ventilabrini, tante molle quante sono le canne, e queste e quelli imprigionati in uno scompartimento del somiere non mai accessibile, né all’occhio, né alla mano dell’organaro e molto meno dell’organista. Non parliamo poi della maggiore spesa che porta con sé il somiere a vento”. (Bossi, Tebaldini, op.cit., pag. 24)

Nei sistemi moderni i ventilabri sono sostituiti con pistoni o membrane comandati pneumaticamente o elettricamente. In questo modo ogni canna viene resa indipendente da tutte le altre e perciò rende inutili dal punto di vista meccanico le tradizionali divisioni in canali. È il risultato di un processo iniziato con l’inglese Trice (1847-1918) (somiere a pistoni) e con il cremasco Inzoli (somiere a doppio scompartimento). Il sistema tradizionale a canale per tasto rimane quello più pertinente anche perché garantisce la migliore distribuzione del vento. Infatti nei sistemi privi di canali ed a canale per registro le canne più grandi, che necessitano di maggiore aria, e quelle più piccole sono alimentate in modo comune in una medesima secreta e quindi si generano degli scompensi di pressione a danno delle canne più piccole. Esistono altri svantaggi collaterali derivati dall’adozione di somieri a canali per registro, come autorevolmente ci informa Luigi Ferdinando Tagliavini, uno dei più eminenti esperti di storia dell'organo e dell'arte organaria: “Da vari decenni l’esperienza degli organari e gli studi degli organologi hanno portato ad una completa rivalutazione del tipo di somiere a canale per tasto, nelle sue varianti "a stecche" e "a ventilabrini". Nel somiere a vento è difetto principale [Tale somiere] favorisce al massimo grado, da un lato la fusione dei vari registri, dall’altro la chiarezza e trasparenza polifonica. Nei somieri a canale per registro adottati dall’odierna organaria industriale il metodo di distribuzione dell’aria è stato invertito: le canne destinate a suonare assieme per formare un suono di combinazione sono infatti alimentate in maniera del tutto indipendente, a scapito della riuscita del timbro sintetico risultante. Nel somiere a vento è difetto principale Va altresì notato come l’attacco dei suoni nei somieri a pistoni e a membrana (i più diffusi del tipo a canali per registro) sia sempre aggressivo. Non va inoltre dimenticato che i somieri a canali per registro esigono una profondità assai maggiore di quella richiesta dai somieri a canali per tasto, con conseguente svantaggio per una logica sistemazione e per una buona resa sonora dello strumento”. (L. F. Tagliavini, Nuove vie dell’arte organaria italiana, in: L’Organo. Rivista di cultura organaria e organistica, n. 1-2, III, Bologna 1962, pagg. 87-88)

Fabbrica d'Organi Comm. Giovanni Tamburini
di Saverio Anselmi Tamburini - Crema