Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, maggio 15, 2019

Quartetto Léner

Lener Quartet
Nel corso del Sette-Ottocento, quando i massimi esponenti della Scuola di Vienna, da Haydn a Beethoven, erano impegnati a dar corpo al nucleo del grande repertorio quartettistico, gli strumentisti chiamati a far conoscere al pubblico queste straordinarie partiture non erano, per quanto ci è dato saperne, musicisti di eccezionale carisma. All’epoca di Beethoven il quartetto d’archi più noto era quello che faceva capo al violinista Ignaz Schuppanzigh (1776-1830), degnissimo musicista ma assolutamente non comparabile ai virtuosi di scuola paganiniana venuti poi. Il primo grande violinista dell'Ottocento a dedicarsi stabilmente al repertorio cameristico fu Joseph Joachim (1831-1907), dedicatario del Concerto per violino in Re maggiore op. 77 di Johannes Brahms. Joachim fondò ben quattro Quartetti che portavano il suo nome: a Weimar (1851-52), a Hannover (1852-66), a Londra (1859-97) e a Berlino (1869-97). Con queste formazioni Joachim diede ripetute integrali dei quartetti beethoveniani, oltre a numerose prime esecuzioni (di opere di Brahms, Cherubini, D'Alpert, Dohnanyi e Dvorak). Sulla strada di Joachim si misero due altri leggendari virtuosi: il viennese Arnold Rosé e il belga Eugène Ysaye. Il primo fondò nel 1882 il Quartetto Rosé che, prima a Vienna,
poi a Londra, fu promotore della Neue Musik oltre a creare novità di Brahms, Pfitzner, Reger; il secondo fonodò a Bruxelles nel 1886 il “Quatuor Ysaye", formazione durata fino ai primi anni del `900 che rivestì un ruolo essenziale nella vita musicale parigina e belga (fra l'altro fu suo l’onore di creare nel 1893 il quartetto di Debussy e il concerto di Chausson). Altra formazione composta di stelle degli strumenti ad arco fu il Quartetto Boemo, fondato nel 1892 e scioltosi nel 1933. Creato da quattro allievi di Hanus Wihan al Conservatorio di Praga (il violinista Josef Suk, il violista Oskar Nedbal ecc.), il Quartetto Boemo acquisì una reputazione internazionale soprattutto per le sue interpretazioni di musica ceca (il quarletto n. 2 di Smetana fu il suo cavallo di battaglia). Nell'ultimo quindicennio del XIX secolo l'accresciuta domanda internazionale di esecuzioni professionali, rispondenti all'alto concetto della letteratura cameristica che la borghesia internazianale era venuta facendosi, stimolò la nascita di nuove formazioni. In Francia nacquero il Quartetto Parent (durato dal 1892 al 1913) e il Quartetto Capet (dal 1893 al 1928); sulla Costa Atlantica degli Stati Uniti, in quel New England che conservava forti radici europee, nacque nel 1886 a Boston il Quartetto Kneisel, dissoltosi nel 1917. Con il XX secolo e l’avvento della riproduzione fonografica, straordinaria cassa di risonanza per tutti gli interpreti, le formazioni quartettistiche si moltiplicarono. Nessuno di questi gruppi faceva più capo ad un solista carismatico come Joachim o Ysaye: in tutti prevaleva il concetto di gruppo specializzato, in possesso di riconoscibili caratteristiche timbriche e la cui linea interpretativa prescindeva dall’apporto delle singole personalità. Nel 1902 veniva fondato sul lago di Ginevra il Quartetta Flonzaley; nel 1908 nasceva a Londra il London String Quartet (già New String Quartet): nel 1912 a Bruxelles, sulle orme di Ysaye, ecco il Quartetto Pro Arte: nel 1913 Adolf Busch creava con alcuni membri dell'Orchestra del Wiener Konzertverein il Quartetto che portò il nome prima di Konzertverein Quartett, poi di Busch Quartett; nel 1917 quattro orchestrali dell'Opera di Budapest formavano il Quartetto di Budapest; nel 1919 Joseph Calvet fondava in Francia il Quartetto omonimo che, sostenuto da Nadia Boulanger, si dedicò con successo al repertorio contemporaneo.
Proprio nel 1918, a metà strada fra le ultime due date, ecco il Quartetto Léner. Quasi contemporaneamente al Quartetto di Budapest (Emil Hauser, Alfred Indig, Istvan Ipolyi, Hary Son), la città di Budapest battezzava un secondo Quartetto d’archi di grande levatura. Il fatto non sorprende chi conosca anche superficialmente l'eccellenza della scuola violinistica magiara. L’Ungheria ha dato - e seguita a dare - alla letteratura quartettistica un numero impressionante di poker di fuoriclasse: pensiamo al Quartetto Ungherese (1935-1970), al Quartetto Végh (1940-1980), al Quartetto Tatrai (1946), al Quartetto Bartok (già Komlos; 1957), al Quartetto Kodaly (1966) al Quartetto Eder (1972), e a odierne formazioni giovani quali il Takacs e il Keller. Come verificatosi per buona parte dei Quarletti celebri, anche il Lener nacaue sotto forma di sodalizio fra coetanei, compagni di scuola del medesimo istituto. Jeno (Eugenio) Lehner (cognome in seguito mutato in Léner) era nato nel 1894. Degli altri membri del Quartetto - Joseph Smilovitz, 2° violino, Sandor Roth, viola, Imre Hartmann, violoncello - uno era sua coetaneo; gli altri due, nati nel 1895, erano di un solo anno più giovani. Tutti avevano studiato con insegnanti formidabili: Hartmann era stato allievo di David Popper, fra i padri della scuola cellistica moderna, gli altri tre avevano studiato con Hubay. Jeno Hubay (Budapest 1858 - ivi 1937), violinista e compositore, figlio del celelore violinista Karl Hubay (1828-1885), aveva esordito a 11 anni come bambino-prodigio. A 13 anni si era trasferito a Berlino, alla Hochschule fur Musik, dove si era perfezionato con Joseph Joachim. Tornato in patria, era stato elogiato da Franz Liszt e, dietro sua raccomandazione, si era trasferito a Parigi, facendo amicizia con Vieuxtemps. Tornato a Budapest, Hubay si era dedicato all'insegnamento e aveva ereditato dal padre la cattedra di violino. Dal 1919 al '34 fu direttore dell'Accademia Liszt. Maestro di molti leggendari solisti (Vecsey e Szigeti fra gli altri), fu ecoezionale didatta nell'ambito dell'interpretazione di musica da camera. Oltre che solista, Jeno Hubay aveva infatti fondato nell'Ottocento un Quartetto a lui intitolato, che ricevette le lodi entusiastiche di Brahms. Léner, Smilovitz, Roth e Hartmann suonavano tutti nell’Orchestra dell’Opera di Budapest quando, nel 1918, al termine del primo conflitto mondiale, scoppiò in Ungheria la Rivoluzlone. Interrottasi la vita musicale a causa dei sanguinosi avvenimenti (la lotta fra il partito del conte Karolyi e quello di Béla Kun), i quattro giovani decisero di “mettersi in proprio" e di formare un Quartetto d'archi.
Ritiratisi in un paesino di campagna con gli strumenti e un baule pieno di partiture, entrarono in clausura e per due anni lavorarono alla costruzione di un repertorio e alla definizione di uno stile interpretativo personale. Dopo 24 mesi di duro lavoro si sentirono finalmente pronti per la prima esibizione. Il loro concetto di debutto ebbe luogo a Vienna nel 1920 di fronte ad un uditorio nel quale sedevano illustri compositori convenuti da tutto il mondo di lingua tedesca e dalla Francia. Fra questi ultimi c'era Maurice Ravel, il quale si dichiarò entusiasta di quei quattro ragazzi, sollecitandoli a esibirsi presso un pubblico appassionato e competente come quello di Parigi. Jeno Lener e i suoi tre amici accolsero l'invito e il loro primo concerto parigino destò enorme sensazione. Il concerto più cruciale per la loro affermazione internazionale doveva tuttavia rivelarsi quello londinese, il 15 marzo 1922. "Balance and quality of tone are for them of supreme importance" scrisse un critico della capitale. "Even the passionate eloquence of Brahms cannot induce them to overstep their self-imposed limits. When they have agreed to a climax their tone will be robust and sonorous. But they do not allow tone to wait on sentiment, but rather feeling on tone. Thus the impression the listener derives is one of extraordinary smoothness and finisch". Fra il Quartetto Lener e il pubblico londinese scoccò un vero e proprio "colpo di fulmine": i quattro ungheresi scalzarono dal cuore dei britannici le altre formazioni, anche perché, a differenza di un ensemble come il London String Quartet (Sammons, Petre, Waldo-Warner, Warwick-Evans), erano meno "Brithis-oriented" (Delius ecc.) e palesemente più "idiomatic" nell'ambito della letteratura mitteleuropea classica e romantica. I dirigenti dell'etichetta Columbia, persuasi di trovarsi di fronte ad una realtà del massimo rilievo, si affrettarono a mettere sotto contratto i quattro magiari e fecero registrare loro i capisaldi della letteratura da camera. In 18 anni (1922-1939), tanto durò la collaborazione del Quartetto Lener con la British Columbia, venne messo assieme un repertorio quartettistico imponente, Secondo la catalogazione di Michael Smith e Ian Cosens (Voices of the Past, vol.8, The Oakwood Press) i 78 giri Columbia della serie L (1922-1929) furono 121, quelli con la sigla posteriore LX (1929-1939) furono 87. A queste 416 facciate si devono aggiungere quattro "Guest Performances": nel 1930 il Settimino op. 20 di Beethoven (Lener, Roth, Hartmann, Hobday, Draper, A.Brain, Hinchcliffe), nel '33 il Quartetto in Fa maggiore pe oboe K. 370 di Mozart (Leon  , Goossens, Lener, Roth, Hartmann) e nel biennio '38-'39 le due Sonate per violino e pianoforte di Beethoven opera 24 e opera 30 n. 1 registrate da Lener con il suo connazionale Lajos (Louis) Kentner (futura "spalla" di Yehudi Menhuin).
Le strabocchevoli dimensioni del catalogo Columbia del Quartetto Lener ci impediscono di passare in rassegna anche solo in modo sommario le loro realizzazioni. Ricordiamo tuttavia che, fino alla metà degli anni '20, a motivo delle limitazioni imposta dalla registrazione con il metodo acustico, il Quartetto Lener incise soltanto miscellanee di opere e di autori diversi (su un lato il Notturno del quartetto n.2 di Borodin, ad esempio, sull'altro lo Scherzo del quartetto op. 11 di Ciaikovski). Fu nel 1923, al sesto disco, che il Lener poté incidere un intero quartetto (il mozartiano K. 464 in otto facciate). A partire dall'anno successivo, con il Quartetto in do diesis minore op. 131 (5 dischi), ebbe inizio il ciclo delle incisioni beethoveniane della formazione budapestina. Un ciclo che proseguì nel corso di tutti gli anni '20 e '30, concludendosi nel 1938 con il Quartetto in mi minore op. 59/2 (4 dischi). In quegli anni il Lener divenne la formazione più richiesta per l'esecuzione del ciclo completo dei quartetti beethoveniani. Fra le più prestigiose proposte del ciclo fuori Londra va ricordata quella al Concertgebouw di Amsterdam (sala piccola) nel periodo 2-13novembre 1935. Nei quasi vent'anni di attività discografica il Quartetto léner incise sovente in formazioni allargate, che includevano di volta in volta "guest performers" come la pianista Olga Loeser-Lebert, il clarinettista Charles Draper, i violisti D'Oliveira e William Primrose, i due Brain (papà Aubrey e Dennis) al corno francese. Nell'ottobre 1929 il Quartetto Lener sbarcò negli Stati Uniti per una tournée in tutte le principali città, inclusa New York. Sotto i grattacieli riscosse particolare successo un loro ciclo di concerti dedicati alla storia della musica da camera, dal Barocco al Novecento. In America tuttavia il Quartetto Lener non riuscì a rinnovare i successi incontrati in Gran Bretagna. Il suo stile aristocratico "vecchia Europa" non convinse parte della critica, che gli rimproverava monotonia di stile e insufficiente adattabilità ai vari linguaggi. Alla fine della guerra il Lener era ormai considerato da tutte le agenzie concertistiche un ensemble di gusto sorpassato. Negli Stati Uniti l'indiscusso leader era ormai il Budapest String Quartet (formato a quel punto interamente da musicisti di origini russa), dal 1940 formazione "in residence" alla Library of Congress di Washington. Per sottolineare il proprio orgoglio nazionale Jeno Lener partecipò nel gennaio 1946 alla commemorazione di Béla Bartok tenutasi alla New York Public Library con il concorso di altri musicisti magiari in esilio, come il contralto Enid Szantho e il pianista Gyorgy Sandor. Il Quartetto (la cui nuova formazione era Michael Kuttner, 2° violino, Nicholas Harsanyi, viola, Otto Deri, violoncello) propose cinque brani da Mikrokosmos nell'arrangiamento di Tibor Serly. Due anni dopo, nel 1948, Jeno Lener si spegneva a soli 54 anni e la seconda formazione del Quartetto si sbandava definitivamente. Di lui restavano i dischi ma, con l'apparizione del microsolco 33 giri nei primi anni '50, anche la memoria fonografica del Quartetto sparì presto. Rimpiazzati da registrazioni tecnicamente più moderne di formazioni più "à la page", gli ingombranti album 78 giri del Lener finirono in soffitta.
Non è di poco conto che, nell'ambito del generale riesame della storia dell'interpretazione, oggi si torni a proporre il lascito beethoveniano del Lener. L'ascoltatore s'imbatte in una formazione che, come chiosarono i critici, si apparenta al Quartetto Busch per il calore romantico delle esecuzioni, contrapponendosi allo stile cartesiano e raffinato del Pro Arte e delle formazioni di scuola franco-belga. Le interpretazioni dei quattro quartetti di Beethoven qui proposte dagli allievi di Hubay e Popper a noi paiono stilisticamente imparentate (mutatis mutandis) con le Sinfonie beethoveniane lasciateci negli anni da Felix Weingartner (1863-1942), musicista mitteleuropeo molto popolare a Londra. Nelle une enelle altre si sente vibrare quella stessa conciliazione primigenia fra forma e sentimento, quel beato stato di grazia destinato di lì a poco a scomparire fra le vampe della lotta scatenatasi fra interpreti classici e interpreti romantici. Una guerra santa fra filologi e ri-creatori che ebbe i suoi campioni nei Toscanini, nei Mengelberg e nei Furtwangler, ma che, nelle sue estreme propaggini (ahinoi) dura tuttora.
Michele Salvini
(Note al disco Stradivarius STR 78002, (c) & (p) 1994) 

mercoledì, maggio 01, 2019

Beethoven Opus 111: Scritto e orale nell'interpretazione...

Ermitage (ERM 128) - (p) 1992
Perchè accostare alle esecuzioni di Wilhelm Backhaus e Claudio Arrau dell’opera 111 di Beethoven quella di un pianista in piena carriera qual è Paul Badura Skoda? La risposta sorge spontanea se si pensa che Paul Badura Skoda è l’autore di un annoso, fondamentale trattato sull’interpretazione di Mozart, e che ha di recente pubblicato un altro grande trattato sull’interpretazione di Bach. Dunque, un interprete che non solo riflette e si documenta e studia, ma che dà veste sistematica al suo pensiero e che compie lo sforzo, molto arduo per un'artista, di pervenire alla oggetivazione della scrittura. Ciò che Paul Badura-Skoda ci dice sull’interpretazione della Sonata op.111 ci interessa dunque sommamente perché rappresenta la spiegazione di una opzione interpretativa che appartiene a tutta una cultura del nostro tempo, di cui egli è autorevole esponente.
Se parlo di "opzione interpretativa" invece di interpretazione tout court mi avvio però subito verso lo scontro frontale con l’esordio di Paul Badura-Skoda: "Qual è la migliore interpretazione? Quella che aderisce maggiormente agli intenti del compositore. Quest’affermazione si fonda sul riconoscimento del compositore quale migliore conoscitore della sua opera".
A parer mio, questa concezione dell’interpretazione contiene una profonda verità, a patto di considerarla, appunto, come un’opzione che, se percorsa coerentemente, può portare a risultati di altissima qualità esegetica ed ermeneutica.
Ma è tuttavia esistito mai, l’interprete che scientemente e sistematicamente sia andato contro gli intenti del compositore? L’opzione di Badura-Skoda si basa su una completa - intendo dire "storica" nel senso più ampio - ricognizione del testo proprio partendo umilmente dalla "lettera". Nella plurisecolare vicenda del concertismo noi troviamo però altre opzioni, che non si pongono programmaticamente contro le intenzioni del compositore: ci fu chi, come Ferruccio Busoni; partiva dal logos. Ed io non intendo certo resuscitare un'arcaica contrapposizione di lettera e spirito, ma solo far osservare che il punto di partenza, il punto che conferisce poi all’interpretazione il suo carattere di fondo, può variare e può dare origine a diverse opzioni che non si escludono vicendevolmente e che, soprattutto, non impediscono a chi le sceglie il raggiungimento di un alto magistero.
All’intemo delle tre opzioni che ho prima indicato penso inoltre di poter distinguere un crinale che tutte le attaversa: il testo viene letto o viene rappresentato. Ora, a me sembra che, al di là del parallelismo Backhaus - tardo romanticismo, Arrau - Jugendstil, Badura-Skoda - età moderna, mi sembra, dicevo, che al di là del parallelismo Backhaus e Arrau si collochino su un versante del crinale, e sull’altro Badura-Skoda. Questa diversa collocazione dipende a parer mio da ragioni storiche che cercherò - non è facile - di spiegare rapidamente.
Backhaus nasceva in un’Europa in cui ancora viveva Franz Liszt; quando aveva dieci anni morivano Anton Rubistein e Hans von Bulow, se ne andava Clara Schtunann quando aveva dodici anni, e scompariva Brahms quando ne aveva tredici. Backhaus, bambino, fu presentato a Lipsia a Brahms, ma non lo ascoltò mai suonare, nè ascolta Clara Schumann, Bulow, Rubistein, Liszt. Li avevano ascoltati i suoi maestri, li avevano ascoltati molte persone che Backhaus aveva occasione di conoscere, e quindi ne sentiva parlare ad ogni momento, ma per lui l’arte dei grandi pianisti romantici era svanita nel nulla. Backhaus sapeva che dalla grandezza dell’interprete restava la memoria, e sapeva anche che la grandezza era effetto della fama, e che la fama era conseguenza del suceesso ottenuto in sala di concerto: l’arte dell’interprete si manifestava e si consumava in una comunicazione orale, che viveva poi nel ricordo.
A ventun anni Backhaus vinse il concorso Rubistein, e a ventiquattro venne invitato ad incidere i suoi primi dischi: l’arte dell’interprete si manifestava in questo caso in una eomunicazione scritta che rimaneva ai posteri. Ma né la fonografia era allora abbastanza sviluppata per rappresentare un’altemativa al recital, né Backhaus avrebbe potuto rinnegare la sua formazione di concertista come grande oratore popolare. Col passare dei decennni, tuttavia, Backhaus tenne conto del fatto che il disco dava luogo ad un tipo di comunicazione radicalmente diversa da quella del concerto. E il confronto tra i dischi fatti in studio e le registrazioni live rivela due atteggiamenti di interprete un po’ differenziati tra di loro.
Arrau, di diciannove anni più giovane, nasce in un mondo già diverso da quello in cui era venuto alla luce Backhaus. Tuttavia la sua fonnazione con un maestro che aveva ben conosciuto e molto ammirato Liszt lo porta verse l’assoluta preminenza del concerto, dell’oratoria tribunizia. Anche lui terrà conto della comunicazione scritta quando, dopo sessant’anni, affronterà in disco i grandi cicli beethoveniani, schumanniani, ecc. Ma fino alla fine resterà, prima di tutto concertista.
Paul Badura-Skoda, nato nel 1927, poteva conoscere dai dischi i pianisti che non poteva più ascoltare in sala, e quando, verso la metà del secolo, lavorava con filiale devozione nella scuola di Edwin Fischer, attraverso i dischi arrivava a sapere quel che Fischer era stato vent’anni prima, e a misurarne l’evoluzione.
Con la generazione a cui Paul Badura-Skoda appartiene, la possibilità della comunicazione scritta entra fin dall’inizio nelle prospettive di cui l’interprete deve tener conto. Il disco - l’interprete lo sa - verrà usato ripetutamente, e l’ascoltatore sarà in condizione di riscontrare l’esecuzione sul testo, e per lo meno su altre esecuzioni, con un lavoro di contronti non vago ma capillare. Il punto di partenza dell’interpretazione diventa l’eternità del disco, e l’adattamento avviene dal disco alla sala di concerto invece che viceversa.
Ciò che manca nel disco, rispetto al concerto, è prima di tutto il gesto esplicativo, poi la proiezione del suono in uno spazio noto all’esecutore, ed infine l’immersione nella “temperatura psicologica" di una sala piena di gente.
Prendiamo le prime due battute della Sonata ed ascoltiamole di seguito dai nostri tre interpreti: nella seconda battuta gli accordi sono seguiti da pause (silenzi); le pause dopo il terzo accordo sono però, quasi del tutto, annullate dal pedale di risonanza indicato da Beethoven stesso, dunque, pensa ad un gesto di stacco delle mani dalla tastiera mentre ancora perdura il suono. Ma l’attacco dell’ampio arpeggio che precede il terzo accordo elimina in pratica anche il silenzio dopo il secondo accordo. Arrau e Badura-Skoda realizzano il testo com’è scritto, "ricavando" prima dell'arpeggio un microsilenzio (l). Backhaus elimina tutti i silenzi.
Il secondo confronto accosta le tre esecuzioni della sola seconda battuta, consentendo a tutti gli ascoltatori, spero, di cogliere bene la differenza. Orbene, si può asserire, essendo il testo chiarissimo, inequivocabile, che Backhaus va contro le intenzioni di Beethoven? A parer mio, no. Backhaus pensa ad una espansiva proiezione del suono nell’ambiente e, mentre prolunga i suoni con il pedale, dà nell’ambiente il senso della separazione tra i tre accordi mediante un gesto, piuttosto ampio e molto plastico, di distacco delle mani dalla tastiera.
Fu il primo concerto importante da me ascoltato nell’adolescenza, un recital beethoviano di Backhaus che terminava con la Sonata op.111, ed ogni suo gesto è ancora stampato nella mia memoria!
Backhaus non aveva una mimica molto accentuata, alla Artur Rubistein, ma la sua gestualità spiegava benissimo la struttura della musica e le sue - di Backhaus - intenzioni oratorie. Chi ascolta oggi la registrazione deve non curarsi della rispondenza tra testo ed esecuzione (ed è, in fondo, l'atteggiamento migliore), oppure deve ricostruire con la fantasia la messinscena di Backhaus; altrimenti, grammaticalmente, lo censurerà.
Grammaticalmente, tutti e tre i nostri interpreti sarebbero del resto censurabili nelle battute 26-28 (esempio n. 1), in cui non realizzano i segni di sforzato di Beethoven (un po’ lo tenta Arrau, ma il passo non gli riesce tecnicamente bene). Il dilemma è di realizzare gli sforzato spezzando il flusso ritmico continuo o di realizzarli in una misura praticamente inavvertibile per l’ascoltatore. I nostri tre campioni preferiscono rendere serrata invece che ansimante la corsa verso la riesplosione del tema. Ed è una scelta drammaturgica, non testuale, che per un momento porta Badura-Skoda nel crinale da cui di solito si tiene lontano.
Quando arriva il secondo tema, osserva Badura-Skoda, Backhaus e Arrau staccano un tempo più lento; che Arrau precede da un ulteriore rallentando, sebbene Beethoven non abbia indicato nulla. L’indicazione di Beethoven - meno allegro alla battuta 52 - ci dice che l’autore vuole un tempo più lento per la ripetizione variata del tema.
E’ dunque in qualche modo giustificata l’adozione di un tempo più lento per il secondo tema, e ancora più lento per la ripetizione variata? Per la cultura a cui appartengono Backhaus e Arrau, sì, senza dubbio. Drammaturgicamente, il secondo tema, essendo l’antagonista, dev’essere caratterizzato come tale, e la caratterizzazione comporta per Backhaus e per Arrau un tempo pin lento (per Arrau anche il momento preparatorio). Per Backhaus e per Arrau il mantenimento di un tempo inalterato rischierebbe invece di non far capire all'ascoltatore che è entrato in scena l’antagonista, tanto più perché Beethoven non lo presenta nella tonalità prevedibile e tradizionale mi bemolle maggiore, ma in la bemolle maggiore. In questo come in altri casi la comunicazione orale dev'essere di una chiarezza abbagliante, mentre la comunicazione scritta, che permette il ripensamento e la verifica, può essere molto più sfumata. L'esempio n. 2 accosta le tre esecuzioni. L’ascoltatore potrà preferire l’una o l’a1tra. Ma a me importava di far capire su quali precise intenzionalità di regia si basino le differenze, e di conseguenza l’apparente arbitrio di Backhaus e Arrau.
Nella esecuzione dell’Arietta è sorprendente la soluzione timbrico - dinamica di Backhaus. La scrittura è a quattro parti reali, ma con le due più acute assai distanziate dalle due più gravi; e ciò pone all’esecutore , se mira all’eufonia del risultato complessivo, dei notevoli problemi. Arrau e Badura-Skoda li risolvono brillantemente con il pedale di risonanza e con la rotondità di suono del basso.
Backhaus intona invece con larga sonante cantabilità le due parti acute, ed esegue al limite del pianismo e con timbro spento le due parti gravi, dandoci l’idea di due eventi, concomitanti e correlati ma indipendenti, piuttosto che di un unico evento culminante nella melodia. E’ una soluzione ardita, che trova il suo modello nel terzo dei Sech kleine Klavierstucke op.19 di Schoenberg (forte alla mano destra, pianissimo alla mano sinistra) e che dimostra la "modernità" di Backhaus, al quale Schoenberg risultava incomprensibile ma alla cultura espressionistica non era affatto estraneo. La sorpresa più grande ce la riserva tuttavia Arrau, nel punto culminante della prima sezione dell’Arietta (battute 5-6): la seconda volta che l’esegue, non la prima, e cioè quando fa il ritornello. Inspiegabilmente, dico, perché una vecchia e venerabile norma di strumentalizzazione impone di non modificare la timbrica nel corso di una frase e di far coincidere culmine emotivo con culmine dinamico. Anche in questo caso bisogna immaginare il gesto di Arrau, che spostava in avanti il busto ed alzava spasimando la testa: nel punto culminante la commozione è così grande che la voce si strozza e si affievolisce. Ascoltai da Arrau la Sonata op. 111 al Teatro Manzoni di Milano, se ben ricordo, nel 1951; e questo suo gesto di persona prossima al deliquio la vedo ancora. Non so se tutti resteranno presi dall'espressione puramente sonora come io fui preso dall’espressione sonora unita al gesto: lo spero, perché questo è per me uno di quei momenti in cui la genialità creativa dell’interprete balena luminosamente.
L'enfatizzazione gestuale dei punti culminanti, sia emotivi che strutturali, è uno degli accadimenti che
rendono tanto affascinate la comunicazione orale. Come esempio di enfatizzazione di un punto culminante strutturale possiamo scegliere le battute 94-96 del secondo tempo (esempio n.3): attraverso un forte rallentamento Arrau fa capire che la variazione è finita e che inizia la coda di collegamento con la variazione successiva. Come esempio di punto culminante emotivo possiamo invece scegliere le battute 157-158, in cui Backhaus si spinge fino ad un arpeggiato non indicato (esempio n.4). Ed infine, una enfatizzazione insieme strutturale ed emotiva: le battute 168-169.
Beethoven affida qui all’esecutore un compito pressoché impossibile: per due volte lo stesso suono, il sol4, viene usato contemporaneamente come nota della melodia e come nota del trillo, e quindi con funzione insieme espressiva ed ornamentale. L’evidenza plastica della soluzione di Arrau, che si piegava lentamente sulla tastiera, come se andasse a stanare nel tasto la possibilità dell’impossibile, è impressionante.
Sono riuscito con ciò a far comprendere la differenza che corre tra il concepire l’interpretazione come comunicazione scritta e come comunicazione orale, e tra il leggere un testo e il metterlo in scena? Lo spero. Sappia il lettore che non attraverso il riscontro sul testo, ma attraverso il riscontro sulla pienezza e sulla coerenza emotiva riuscirà a rendersi ragioni delle interpretazioni live che il disco propone.

(1) Per una discussione completa di questo particolare si potrebbe prendere in considerazione 1’attacco "in battere" invece che "in levare" dell’arpeggio: attacco che sarebbe filologicamente giustificato e che permetterebbe di effettuare la pausa, il silenzio, tra il secondo e il terzo accordo. Siccome nessuno dei tre interpreti fa però ricorso a questa soluzione, non ne discuterò i vantaggi e gli svantaggi. 
Piero Rattalino
(Note al CD Ermitage ERM 128)