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mercoledì, maggio 01, 2019

Beethoven Opus 111: Scritto e orale nell'interpretazione...

Ermitage (ERM 128) - (p) 1992
Perchè accostare alle esecuzioni di Wilhelm Backhaus e Claudio Arrau dell’opera 111 di Beethoven quella di un pianista in piena carriera qual è Paul Badura Skoda? La risposta sorge spontanea se si pensa che Paul Badura Skoda è l’autore di un annoso, fondamentale trattato sull’interpretazione di Mozart, e che ha di recente pubblicato un altro grande trattato sull’interpretazione di Bach. Dunque, un interprete che non solo riflette e si documenta e studia, ma che dà veste sistematica al suo pensiero e che compie lo sforzo, molto arduo per un'artista, di pervenire alla oggetivazione della scrittura. Ciò che Paul Badura-Skoda ci dice sull’interpretazione della Sonata op.111 ci interessa dunque sommamente perché rappresenta la spiegazione di una opzione interpretativa che appartiene a tutta una cultura del nostro tempo, di cui egli è autorevole esponente.
Se parlo di "opzione interpretativa" invece di interpretazione tout court mi avvio però subito verso lo scontro frontale con l’esordio di Paul Badura-Skoda: "Qual è la migliore interpretazione? Quella che aderisce maggiormente agli intenti del compositore. Quest’affermazione si fonda sul riconoscimento del compositore quale migliore conoscitore della sua opera".
A parer mio, questa concezione dell’interpretazione contiene una profonda verità, a patto di considerarla, appunto, come un’opzione che, se percorsa coerentemente, può portare a risultati di altissima qualità esegetica ed ermeneutica.
Ma è tuttavia esistito mai, l’interprete che scientemente e sistematicamente sia andato contro gli intenti del compositore? L’opzione di Badura-Skoda si basa su una completa - intendo dire "storica" nel senso più ampio - ricognizione del testo proprio partendo umilmente dalla "lettera". Nella plurisecolare vicenda del concertismo noi troviamo però altre opzioni, che non si pongono programmaticamente contro le intenzioni del compositore: ci fu chi, come Ferruccio Busoni; partiva dal logos. Ed io non intendo certo resuscitare un'arcaica contrapposizione di lettera e spirito, ma solo far osservare che il punto di partenza, il punto che conferisce poi all’interpretazione il suo carattere di fondo, può variare e può dare origine a diverse opzioni che non si escludono vicendevolmente e che, soprattutto, non impediscono a chi le sceglie il raggiungimento di un alto magistero.
All’intemo delle tre opzioni che ho prima indicato penso inoltre di poter distinguere un crinale che tutte le attaversa: il testo viene letto o viene rappresentato. Ora, a me sembra che, al di là del parallelismo Backhaus - tardo romanticismo, Arrau - Jugendstil, Badura-Skoda - età moderna, mi sembra, dicevo, che al di là del parallelismo Backhaus e Arrau si collochino su un versante del crinale, e sull’altro Badura-Skoda. Questa diversa collocazione dipende a parer mio da ragioni storiche che cercherò - non è facile - di spiegare rapidamente.
Backhaus nasceva in un’Europa in cui ancora viveva Franz Liszt; quando aveva dieci anni morivano Anton Rubistein e Hans von Bulow, se ne andava Clara Schtunann quando aveva dodici anni, e scompariva Brahms quando ne aveva tredici. Backhaus, bambino, fu presentato a Lipsia a Brahms, ma non lo ascoltò mai suonare, nè ascolta Clara Schumann, Bulow, Rubistein, Liszt. Li avevano ascoltati i suoi maestri, li avevano ascoltati molte persone che Backhaus aveva occasione di conoscere, e quindi ne sentiva parlare ad ogni momento, ma per lui l’arte dei grandi pianisti romantici era svanita nel nulla. Backhaus sapeva che dalla grandezza dell’interprete restava la memoria, e sapeva anche che la grandezza era effetto della fama, e che la fama era conseguenza del suceesso ottenuto in sala di concerto: l’arte dell’interprete si manifestava e si consumava in una comunicazione orale, che viveva poi nel ricordo.
A ventun anni Backhaus vinse il concorso Rubistein, e a ventiquattro venne invitato ad incidere i suoi primi dischi: l’arte dell’interprete si manifestava in questo caso in una eomunicazione scritta che rimaneva ai posteri. Ma né la fonografia era allora abbastanza sviluppata per rappresentare un’altemativa al recital, né Backhaus avrebbe potuto rinnegare la sua formazione di concertista come grande oratore popolare. Col passare dei decennni, tuttavia, Backhaus tenne conto del fatto che il disco dava luogo ad un tipo di comunicazione radicalmente diversa da quella del concerto. E il confronto tra i dischi fatti in studio e le registrazioni live rivela due atteggiamenti di interprete un po’ differenziati tra di loro.
Arrau, di diciannove anni più giovane, nasce in un mondo già diverso da quello in cui era venuto alla luce Backhaus. Tuttavia la sua fonnazione con un maestro che aveva ben conosciuto e molto ammirato Liszt lo porta verse l’assoluta preminenza del concerto, dell’oratoria tribunizia. Anche lui terrà conto della comunicazione scritta quando, dopo sessant’anni, affronterà in disco i grandi cicli beethoveniani, schumanniani, ecc. Ma fino alla fine resterà, prima di tutto concertista.
Paul Badura-Skoda, nato nel 1927, poteva conoscere dai dischi i pianisti che non poteva più ascoltare in sala, e quando, verso la metà del secolo, lavorava con filiale devozione nella scuola di Edwin Fischer, attraverso i dischi arrivava a sapere quel che Fischer era stato vent’anni prima, e a misurarne l’evoluzione.
Con la generazione a cui Paul Badura-Skoda appartiene, la possibilità della comunicazione scritta entra fin dall’inizio nelle prospettive di cui l’interprete deve tener conto. Il disco - l’interprete lo sa - verrà usato ripetutamente, e l’ascoltatore sarà in condizione di riscontrare l’esecuzione sul testo, e per lo meno su altre esecuzioni, con un lavoro di contronti non vago ma capillare. Il punto di partenza dell’interpretazione diventa l’eternità del disco, e l’adattamento avviene dal disco alla sala di concerto invece che viceversa.
Ciò che manca nel disco, rispetto al concerto, è prima di tutto il gesto esplicativo, poi la proiezione del suono in uno spazio noto all’esecutore, ed infine l’immersione nella “temperatura psicologica" di una sala piena di gente.
Prendiamo le prime due battute della Sonata ed ascoltiamole di seguito dai nostri tre interpreti: nella seconda battuta gli accordi sono seguiti da pause (silenzi); le pause dopo il terzo accordo sono però, quasi del tutto, annullate dal pedale di risonanza indicato da Beethoven stesso, dunque, pensa ad un gesto di stacco delle mani dalla tastiera mentre ancora perdura il suono. Ma l’attacco dell’ampio arpeggio che precede il terzo accordo elimina in pratica anche il silenzio dopo il secondo accordo. Arrau e Badura-Skoda realizzano il testo com’è scritto, "ricavando" prima dell'arpeggio un microsilenzio (l). Backhaus elimina tutti i silenzi.
Il secondo confronto accosta le tre esecuzioni della sola seconda battuta, consentendo a tutti gli ascoltatori, spero, di cogliere bene la differenza. Orbene, si può asserire, essendo il testo chiarissimo, inequivocabile, che Backhaus va contro le intenzioni di Beethoven? A parer mio, no. Backhaus pensa ad una espansiva proiezione del suono nell’ambiente e, mentre prolunga i suoni con il pedale, dà nell’ambiente il senso della separazione tra i tre accordi mediante un gesto, piuttosto ampio e molto plastico, di distacco delle mani dalla tastiera.
Fu il primo concerto importante da me ascoltato nell’adolescenza, un recital beethoviano di Backhaus che terminava con la Sonata op.111, ed ogni suo gesto è ancora stampato nella mia memoria!
Backhaus non aveva una mimica molto accentuata, alla Artur Rubistein, ma la sua gestualità spiegava benissimo la struttura della musica e le sue - di Backhaus - intenzioni oratorie. Chi ascolta oggi la registrazione deve non curarsi della rispondenza tra testo ed esecuzione (ed è, in fondo, l'atteggiamento migliore), oppure deve ricostruire con la fantasia la messinscena di Backhaus; altrimenti, grammaticalmente, lo censurerà.
Grammaticalmente, tutti e tre i nostri interpreti sarebbero del resto censurabili nelle battute 26-28 (esempio n. 1), in cui non realizzano i segni di sforzato di Beethoven (un po’ lo tenta Arrau, ma il passo non gli riesce tecnicamente bene). Il dilemma è di realizzare gli sforzato spezzando il flusso ritmico continuo o di realizzarli in una misura praticamente inavvertibile per l’ascoltatore. I nostri tre campioni preferiscono rendere serrata invece che ansimante la corsa verso la riesplosione del tema. Ed è una scelta drammaturgica, non testuale, che per un momento porta Badura-Skoda nel crinale da cui di solito si tiene lontano.
Quando arriva il secondo tema, osserva Badura-Skoda, Backhaus e Arrau staccano un tempo più lento; che Arrau precede da un ulteriore rallentando, sebbene Beethoven non abbia indicato nulla. L’indicazione di Beethoven - meno allegro alla battuta 52 - ci dice che l’autore vuole un tempo più lento per la ripetizione variata del tema.
E’ dunque in qualche modo giustificata l’adozione di un tempo più lento per il secondo tema, e ancora più lento per la ripetizione variata? Per la cultura a cui appartengono Backhaus e Arrau, sì, senza dubbio. Drammaturgicamente, il secondo tema, essendo l’antagonista, dev’essere caratterizzato come tale, e la caratterizzazione comporta per Backhaus e per Arrau un tempo pin lento (per Arrau anche il momento preparatorio). Per Backhaus e per Arrau il mantenimento di un tempo inalterato rischierebbe invece di non far capire all'ascoltatore che è entrato in scena l’antagonista, tanto più perché Beethoven non lo presenta nella tonalità prevedibile e tradizionale mi bemolle maggiore, ma in la bemolle maggiore. In questo come in altri casi la comunicazione orale dev'essere di una chiarezza abbagliante, mentre la comunicazione scritta, che permette il ripensamento e la verifica, può essere molto più sfumata. L'esempio n. 2 accosta le tre esecuzioni. L’ascoltatore potrà preferire l’una o l’a1tra. Ma a me importava di far capire su quali precise intenzionalità di regia si basino le differenze, e di conseguenza l’apparente arbitrio di Backhaus e Arrau.
Nella esecuzione dell’Arietta è sorprendente la soluzione timbrico - dinamica di Backhaus. La scrittura è a quattro parti reali, ma con le due più acute assai distanziate dalle due più gravi; e ciò pone all’esecutore , se mira all’eufonia del risultato complessivo, dei notevoli problemi. Arrau e Badura-Skoda li risolvono brillantemente con il pedale di risonanza e con la rotondità di suono del basso.
Backhaus intona invece con larga sonante cantabilità le due parti acute, ed esegue al limite del pianismo e con timbro spento le due parti gravi, dandoci l’idea di due eventi, concomitanti e correlati ma indipendenti, piuttosto che di un unico evento culminante nella melodia. E’ una soluzione ardita, che trova il suo modello nel terzo dei Sech kleine Klavierstucke op.19 di Schoenberg (forte alla mano destra, pianissimo alla mano sinistra) e che dimostra la "modernità" di Backhaus, al quale Schoenberg risultava incomprensibile ma alla cultura espressionistica non era affatto estraneo. La sorpresa più grande ce la riserva tuttavia Arrau, nel punto culminante della prima sezione dell’Arietta (battute 5-6): la seconda volta che l’esegue, non la prima, e cioè quando fa il ritornello. Inspiegabilmente, dico, perché una vecchia e venerabile norma di strumentalizzazione impone di non modificare la timbrica nel corso di una frase e di far coincidere culmine emotivo con culmine dinamico. Anche in questo caso bisogna immaginare il gesto di Arrau, che spostava in avanti il busto ed alzava spasimando la testa: nel punto culminante la commozione è così grande che la voce si strozza e si affievolisce. Ascoltai da Arrau la Sonata op. 111 al Teatro Manzoni di Milano, se ben ricordo, nel 1951; e questo suo gesto di persona prossima al deliquio la vedo ancora. Non so se tutti resteranno presi dall'espressione puramente sonora come io fui preso dall’espressione sonora unita al gesto: lo spero, perché questo è per me uno di quei momenti in cui la genialità creativa dell’interprete balena luminosamente.
L'enfatizzazione gestuale dei punti culminanti, sia emotivi che strutturali, è uno degli accadimenti che
rendono tanto affascinate la comunicazione orale. Come esempio di enfatizzazione di un punto culminante strutturale possiamo scegliere le battute 94-96 del secondo tempo (esempio n.3): attraverso un forte rallentamento Arrau fa capire che la variazione è finita e che inizia la coda di collegamento con la variazione successiva. Come esempio di punto culminante emotivo possiamo invece scegliere le battute 157-158, in cui Backhaus si spinge fino ad un arpeggiato non indicato (esempio n.4). Ed infine, una enfatizzazione insieme strutturale ed emotiva: le battute 168-169.
Beethoven affida qui all’esecutore un compito pressoché impossibile: per due volte lo stesso suono, il sol4, viene usato contemporaneamente come nota della melodia e come nota del trillo, e quindi con funzione insieme espressiva ed ornamentale. L’evidenza plastica della soluzione di Arrau, che si piegava lentamente sulla tastiera, come se andasse a stanare nel tasto la possibilità dell’impossibile, è impressionante.
Sono riuscito con ciò a far comprendere la differenza che corre tra il concepire l’interpretazione come comunicazione scritta e come comunicazione orale, e tra il leggere un testo e il metterlo in scena? Lo spero. Sappia il lettore che non attraverso il riscontro sul testo, ma attraverso il riscontro sulla pienezza e sulla coerenza emotiva riuscirà a rendersi ragioni delle interpretazioni live che il disco propone.

(1) Per una discussione completa di questo particolare si potrebbe prendere in considerazione 1’attacco "in battere" invece che "in levare" dell’arpeggio: attacco che sarebbe filologicamente giustificato e che permetterebbe di effettuare la pausa, il silenzio, tra il secondo e il terzo accordo. Siccome nessuno dei tre interpreti fa però ricorso a questa soluzione, non ne discuterò i vantaggi e gli svantaggi. 
Piero Rattalino
(Note al CD Ermitage ERM 128)

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