Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, novembre 20, 2023

Incontro con Franco Gulli

Parla l'interprete dell'incisione discografica 
dei due Concerti per violino di Alberto Curci.

In una vetrina del centro milanese campeggia un disco - registrato sotto la direzione dell'illustre maestro Franco Capuana, solista di eccezione il violinista Franco Gulli - con i due Concerti per violino ed orchestra di Alberto Curci.
Trattandosi di una delle novità discografiche della stagione, l'ho acquistato ripromettendomi un incontro con il violinista, anche perché, da tempo, mi ero ripromessa di chiedere a Gulli una intervista.
Ascoltando il disco mi sono resa conto che l'interpretazione dei due Concerti è veramente superba: la musica si presta a voli lirici ed è palese che è stata composta da un compositore per il quale il violino non ha segreti.
Questi Concerti rappresentano, per l'esecutore, una panoramica in cui il violino spazia tecnicamente e liricamente: il Concerto romantico, opera 21, era già stato eseguito tempo addietro mentre il Secondo, opera 30, è stato presentato per la prima volta nella stagione sinfonica 1962, al Teatro S. Carlo di Napoli, proprio da Franco Gulli.
Alberto Curci, Accademico di S. Cecilia e medaglia d'oro per meriti nella cultura e nell'arte, è stato un illustre violinista e pedagogo: è dunque ovvio che, dedicandosi alla composizione, abbia pensato allo strumento che gran parte ebbe nella sua vita.
Ho telefonato a Franco Gulli ed egli, con la cortesia che lo distingue, non ha esitato a concedermi l'intervista che gli chiedevo.

Quali problemi strumentali ha trovato studiando i due Concerti per violino scritti da un compositore violinista come Alberto Curci?
La prima impressione sulla musica di Alberto Curci 1'ho avuta avvicinandomi al «Secondo Concerto» per violino ed orchestra composto dal maestro in epoca piuttosto recente: è stata l'impressione di una vena di ispirazione estremamente ricca e scevra di qualsiasi problema situato al di fuori di questa ispirazione. Come strumentista ho trovato che poche composizioni sono state scritte negli ultimi anni tenendo in così grande considerazione le esigenze e le possibilità tecniche ed espressive del violino: è evidente che, per un violinista, l'esecuzione di questo Concerto rappresenta una gioia strumentistica piuttosto fuori del comune. Vorrei anche notare che Alberto Curci non si è limitato a curare in ogni particolare la parte solistica, bensì ha strumentato questo suo lavoro prediletto con rara maestria, senza indulgere a facili effetti ma con esemplare contenutezza. Nel corso della registrazione, guidata dal M° Franco Capuana, ho avuto modo di ammirare particolarmente l'equilibrio fra parte solistica ed accompagnamento orchestrale. Il primo Concerto - dal titolo programmatico di «Concerto romantico» - risale a molti anni addietro e rivela il profondo interesse e l'amore paterno che Alberto Curci nutre per i suoi allievi: è indubbio che il maestro abbia voluto con questa opera dare la possibilità ai discepoli, anche non troppo avanzati nello studio, di eseguire pubblicamente una composizione nella quale far rifulgere le loro qualità strumentali ed emotive senza ricorrere a composizioni i cui problemi di tecnica e di fraseggio fossero superiori alle possibilità da loro raggiunte dopo qualche anno di studi e non ancora completate. Personalmente ho provato un particolare piacere nello studio e nella esecuzione del 1° tempo di questo «Concerto romantico» che, mi sembra, l'autore abbia voluto ricollegare alla grande tradizione dei Vieuxtemps e dei Wieniawski: credo di poter affermare che non esiste nella letteratura violinistica dei nostri tempi un pezzo che possa offrire insospettate possibilità di comunicativa per una giovane speranza del violino.
Lei ha inciso due Concerti di Alberto Curci: in quale dei due la sua musicalità ha trovato maggiore sfogo?
Come ho già fatto notare, ho provato una vera gioia strumentale a interpretare sia il primo che il secondo Concerto, sebbene per l'ascoltatore del disco apparirà evidente che nel secondo il Maestro Curci ha raggiunto una completezza compositiva ancora maggiore senza rinunciare, peraltro, alla schiettezza ispirativa legata indissolubilmente alla sua terra.
Quali ricordi le sono rimasti dal rapporto umano con Alberto Curci?
Ho conosciuto Alberto Curci in occasione di un mio «recital›› per l'Associazione Alessandro Scarlatti a Napoli e le sue parole di plauso, dettate da una affettuosa sincerità, mi avevano profondamente commosso: Alberto Curci è uno dei più insigni pedagoghi del violino che possa vantare l'Italia, un uomo che è stato amico di moltissimi fra i più grandi virtuosi di questo strumento, un benemerito della nostra arte per aver introdotto in Italia, con personale sacrificio, i fondamentali volumi di Carl Flesch e, soprattutto, per aver formato una eletta schiera di discepoli. Anche per queste ragioni mi ha particolarmente onorato l'invito che egli mi fece, a suo tempo, per la prima esecuzione, al San Carlo di Napoli, del suo «Secondo Concerto» e la sua successiva proposta di registrare su disco entrambi i Concerti.
Lei ha citato i volumi di Carl Flesch e, a proposito dell'attività editoriale del M° Alberto Curci, mi consta che le Edizioni Curci sono fra le più aggiornate nel campo della musica classica: è del mio stesso parere?
Condivido pienamente la sua opinione. Dobbiamo, infatti, alle Edizioni Curci alcune delle più spettacolose iniziative editoriali in questo campo: a questo proposito basti ricordare la insostituibile edizione delle «Sonate» di Beethoven, per pianoforte, a cura di uno dei più insigni musicisti della nostra epoca: Artur Schnabel. Con personale gioia ed interesse ho salutato inoltre l'apparizione del «Concerto in re magg. op. 61» per violino ed orchestra di Beethoven nella revisione di quel sommo artista del violino che è Joseph Szigeti. Potrebbero bastare le opere che ho citato perché ogni musicista fosse estremamente grato alle Edizioni Curci.
Oltre alla musica, si interessa di altre forme d'arte?
Sì: credo che non si possa prescindere da tutto ciò che fa parte del mondo dell'arte quando si esplica una attività di un determinato rango in questo mondo.
Che autori preferisce leggere?
Classici e contemporanei: è una domanda alquanto complessa alla quale è un po' problematico rispondere spaziando, i miei interessi letterari, dai classici alla moderna produzione italiana e straniera. Disgraziatamente il tempo, come ognuno sa, è terribilmente limitato ma se devo proprio indicare una preferenza penso che fra gli autori dai quali si possa trarre beneficio spirituale uno dei primissimi posti è attualmente occupato da Goethe.
 Quale pittura preferisce e perché?
A questa domanda potrei rispondere come ho fatto per la precedente: se Pier della Francesca mi lascia un senso di serenità e di grandiosità spirituale, come, ad esempio, la musica di Gabrieli, mi interesso con particolare fervore alle molteplici tendenze dell'arte contemporanea, prediligendo soprattutto Paul Klee nella pittura e Brancusi nella scultura.
Lei ha un duo con sua moglie, Enrica Cavallo, e fa parte, assieme a Bruno Giuranna e a Giacinto Caramia, del «Trio Italiano d'Archi»: quali programmi ha per il prossimo futuro?
Oltre alla mia attività solistica, ho sempre avuto un grande interesse per la musica da camera: da molti anni, infatti, io e mia moglie curiamo con entusiasmo il repertorio sonatistico come duo di violino e pianoforte. A questo riguardo preciso, anzi, che, oltre al repertorio classico e romantico, abbiamo avuto occasione di presentare per la prima volta in Italia molte Sonate di autori contemporanei quali Prokofief, Hindemith, Strawinsky. Da qualche anno, poi, il «Trio Italiano d'Archi», del quale faccio parte, svolge una notevole attività con un repertorio non molto esteso ma di straordinaria bellezza: basti ricordare, per esempio, il celestiale «Divertimento in mi bemolle maggiore»› di Mozart.
Lei ha mai insegnato?
Ho avuto qualche allievo parecchi anni fa ma non ho mai potuto dedicarmi molto all'insegnamento per la molteplicità dei miei impegni e conseguenti viaggi: devo dire, però, che la cosa mi interessa molto, specialmente se si ha la fortuna di insegnare ad allievi con i quali si possa anche discutere degli infiniti problemi riguardanti la musica ed il nostro strumento. Lei può immaginare dunque, quanto piacere mi abbia procurato l'onorifico invito del Conte Guido Chigi Saracini a tenere, nella prossima estate, nella sua Accademia Chigiana di Siena il corso di perfezionamento di violino.
Preferisce impostare un giovane o perfezionarlo?
E' una domanda alla quale mi è terribilmente difficile rispondere in quanto, fino ad ora, non ho mai avuto occasione di avere come allievo un principiante.

La natura ha dotato Franco Gulli di una personalità fisica notevole: egli, infatti, desta immediata simpatia per il suo sguardo leale e per la finezza dei modi. Quando, poi, prende tra le mani il suo splendido Guadagnini per farne scaturire note purissime e  suono sempre limpido ed avvincente, ci troviamo di fronte ad un quadro perfetto. Si può dire che il violinista triestino è veramente un privilegiato dalla sorte perché lo amalgama tra la sua persona e lo strumento è perfetto: questo è confermato dalla straordinaria facilità con la quale esegue qualsiasi composizione spaziando egli dalle interpretazioni di musica antica a quelle di musica contemporanea attraverso il classicismo ed il romanticismo.
Termino il mio «incontro» con le parole che il critico del più autorevole quotidiano milanese ha scritto per recensire l'esecuzione del Concerto di Beethoven fatta da Gulli all'Angelicum: «Franco Gulli è ormai nel pieno della maturità ed è da classificarsi violinista degno di competere con i maggiori esponenti del concertismo internazionale».
Jolanda D'Annibale
("Rassegna Musicale Curci", anno XVIII n. 1 marzo 1964)

sabato, novembre 11, 2023

Fitzwilliam Quartet: Complete Decca Recordings

Si dice che gli dèi, invidiosi delle 
straordinarie fortune dei migliori tra gli uomini, ordiscano sinistre insidie del destino per vendicarsi di costoro, con la scusa della hybris. Dev'essere ciò che accadde al leggendario Fitzwilliam String Quartet, catapultato dall'oggi al domani dal rango di “undergraduated Quartet” d'un College universitario inglese alla planetaria fama d'evangelisti ufficiali del verbo quartettistico sciostakoviano. C'erano entrate la curiosità (di conoscere l'allora ultimo nato, il Tredicesimo, dei quartetti di Shostakovich di cui il Fitzwilliam aveva pubblicamente eseguito il celebre Ottavo), la determinazione (scrivere al musicista in persona richiedendo l'invio della musica, che in Occidente non era disponibile), la bravura (farsi apprezzare dal compositore a tal punto che egli fece dei Fitzwilliams, di fatto, i “creatori” nei paesi di qua dalla ferrea cortina dei Quartetti ch'egli ancora scrisse, ovvero il Quattordicesimo e il Quindicesimo), la fortuna (quella serve sempre): che risedette, anche, nell`essere precocemente notati da Peter Wadland, il leggendario producer delle Editions de l'Oiseau-Lyre (un altro tanto fuori dal comune, Wadland, da essere reclamato anzitempo dal Parnaso degli Olirnpi), il quale affidò a quei giovanissimi la realizzazione della prima registrazione integrale, nei paesi non-comunisti, proprio dei Quartetti di Shostakovich.
L`impresa fu compiuta nel breve volgere d'un paio d'anni riscuotendo un risonante e durevole successo, anche commerciale. A riascoltarli oggi, quei Quartetti, mantengono intatta tutta la loro freschezza sorgiva e l'interpretazione del Fitzwilliam l'idea di unicità, che la distingue dall'approccio più “normalmente” russo dei, pur giustamente celebrati, creatori d'oltrecortina (il Quartetto Beethoven, fedelissimo di Sciosta) e dei loro leggendari concorrenti del Quartetto Borodin. Anche Shostakovich si dice confessasse di considerare i quattro giovani britannici i suoi interpreti prediletti. C`è nelle loro esecuzioni una forza drammatica quasi teatrale (ascoltare i recitativi, paiono cantati da voce umana), sonorità piene, al contempo tonde e ruvide, le dinamiche spesso estremizzate, sia nelle accentazioni del fortissimo che nella quasi-impercettibilità (ma il quasi è determinante) di estenuati pianissimi, a passare una pennellata espressionista sulle immagini liriche, sui quadri astratti, sulle tragiche evocazioni belliche, sui riferimenti storici o letterari che volta a volta si presentano, dichiarati o sottintesi, nei capolavori di Dmitri Dmitrievich. L'ideale per la sua musica, così fortemente contrastata tra l'apparenza superficiale e la sostanza profonda da scovarsi.
A mantenere la divisa d`apripista, per il prosieguo della sua carriera discografica il Fitzwilliarn si dedicò ad incidere opere di raro ascolto: nacquero così i dischi col Quartetto di Delius (che riscoprimmo teso e dipinto a colori meno tenui di quanto siamo soliti osservare) in desinenza baciata con quello di Sibelius, fissato pel capolavoro che da allora conoscemmo e ci abituammo ad ascoltare con più lieta frequenza; poi il gigantesco Quartetto di César Franck, dove il Fitzwilliam si divertiva a ricreare i “colori” dell'organo in un contrappunto abbacinante tra quattro solisti di stupefacente personalità. Una delle caratteristiche più evidenti del Fitzwilliam SQ è la perfetta definizione delle quattro voci, che si fondono in una timbrica comune senza mai nascondersi dietro le linee principali.
Coi due Quartetti di Borodin, l'ensemble tornava all'amato repertorio russo per gettare nuova e meritamente più radiosa luce sul misconosciuto primo e rinnovare con una interpretazione di straripante originalità il celebre secondo.
Poi venne la ondivaga Serenata italiana di Hugo Wolf, in un abbinamento, atto a far infuriare i due autori che si disamavano, col Quintetto di Brahms, clarinettista Alan Hacker, ed è l'unico esito non memorabile della collezione. Forse le intenzioni di svecchiare un pezzo che, a differenza degli altri incisi dal gruppo, era fin troppo eseguito superarono le reali possibilità di farlo (la tradizione esecutiva del Quintetto brahmsiano, anche in disco, è tra le più fortunate nella storia della musica occidentale); forse non si creò col clarinettista (che pare suonare su uno strumento in si bemolle anziché in la, come prescritto, sì che il colore risulta più livido che luminoso, e certo poco adatto a rimuovere dall'opera la patina d'autunnale che gli interpreti, dichiaratamente, si prefiggevano) quel feeling che i Fitzwilliams trovarono, invece, col violoncello di Christopher Van Kampen, compagno nel Quintetto in do minore di Schubert e in molti concerti: un disco-capolavoro nel quale l'inafferrabile fantasia schubertiana viene fatta vibrare in totale libertà d'esprimersi, nel mutevole porsi disincantata dinanzi all'eterno, quasi ironica a celar la tragedia, struggentesi di rimpianti, in una intonazione della 'Sehnsucht' 'romantica di travolgente pietas. I quattro formidabili musicisti avevano vinto così anche la prima sfida col “digitale”, riuscendo a mantenere intatta la riproduzione dei loro inconfondibili suoni e dei loro colori, tanto eccezionalmente “caldi'.
Si apriva il 1982, il nostro anno “mundial", e il Fitzwilliam riceveva la sua definitiva consacrazione: la Decca - che già aveva loro aperto le porte del suo catalogo principale - invitò questi antichi allievi di Cambridge a misurarsi con la summa quartettistica di Beethoven. O sia, la catena dell'Himalaya in punta d'archetto. Come con Shostakovich, si partì a registrare dal fondo, dagli ultimi Quartetti e quasi ad esorcizzare le non immotivate ansie, i prevedibili batticuori agitati dalla deferenza verso cotali giganti, il primo fu proprio il monumentale opus 132 in la minore, il Monte Everest dei quartettisti. Ascoltarlo fu (ed è ancora oggi) come ripulirsi le orecchie: l'interpretazione del Fitzwilliam non manteneva nulla di sacrale né di reverenziale (se non il necessario timor per affrontare simili sfide), nulla di testamentario. Anche la Canzona di Ringraziamento veniva attenuata di tante didascaliche sovrimpressioni e riportata alla sua pura - finissima, sperimentale, quasi inverosimile - essenza musicale: non più la preghiera (sia pure sonoramente ebraica) innalzata dall`Amadeus; non più l'immobilità metafisica del Quartetto Italiano in stato di grazia (ho in mente soprattutto una registrazione catturata 'live' alla londinese Royal Festival Hall nel 1965), ma uno scorrere lentissimo attraverso i modi antichi, che pur nella estenuata lentezza mostra sempre il suo moto, come un interminabile fiume cinese, col cangiare dei colori man mano che cambia il paesaggio. E il resto consegue, come i precordi, che risuonano nel ripetersi del salto di sesta che, prima della Canzona, aveva dato suono alla Cavatina nell'opus 130. Un'estasi tragica.
L`anno dopo prese corpo il progetto, avviato da tempo e sollecitato anche dalla vedova di Shostakovich, di registrare il Quintetto con pianoforte op. 57 del maestro: Irina, impariamo dal booklet, avrebbe gradito Richter o Gilels (et pour cause), ma la Decca preferì giocare in casa e coinvolse il “suo” Ashkenazy. A settembre i cinque si ritrovarono alla Kingsway Hall per registrare l'opera: Ashkenazy, si dice, dall`alto della sua fama accolse di buon grado la autorevolezza dei più giovani colleghi in materia sciostakoviana ed anzi ne sollecitò la guida, ma impose il suo proprio producer e il suo tecnico del suono, e la differenza si sente, percependosi un poco più di freddezza (il caratteristico suono “neo-classico" di Ashkenazy) nelle timbriche anche del quartetto, un colore meno caratterizzato e distinto di quanto non si ascolti negli altri dischi del FSQ; ma dal punto di vista strettamente musicale l'esito è (e fu al momento dell'uscita dei dischi che fecero epoca) egualmente soggiogante: l'eccitazione in trionfo. A dicembre il quartetto si ritrovò in studio per alternare l'incisione dell'opus 130 di Beethoven (quasi ovvio corollario - ricordate la sesta? - all'opus 132) con le Romanze su testi di Blok, protagonisti la Söderström ed Ashkenazy ai quali si aggiunsero Christopher Rowland e Ioan Davies (primo violino e violoncello del FSQ), che completavano il disco sciostakoviano.
I Fitzwilliams furono tra i primi a ripristinare, nel Quartetto in si bemolle, la Große Fuge come movimento conclusivo (oggi è venuto di moda): idea non buona a parer mio; se Beethoven decise di ritirare l'esorbitante esercizio di scrittura “vetero testamentaria" non fu certo solo perché glielo chiese il preoccupato editore. Ci sono le lettere a testimoniare come Ludwig trattava con i riottosi editori. Se aveva bisogno di “realizzare”, come dicevano un tempo i rappresentanti di commercio, accettava di pubblicare roba vecchia (tipo l'Ottetto op. 103, tenuto nel cassetto per ventitré anni) o nuove trascrizioni di lavori più antichi (ad esempio il Quintetto op. 104, arrangiamento del terzo Trio op. 1), qualche Lieder o una marcetta, tutti facilmente spendibili sul mercato dei dilettanti amatori... Ma quando si trattava delle opere che contano, Ludwig non cedeva un unghia, né sul soldo né su altro che potesse intaccare la novità (ci insisteva sempre molto) o il valore (ne era ben consapevole) della sua arte. E se gli argomenti per ripristinare la Fuga son quelli del 'pensiero originale', allora dovremmo anche reinserire nella Waldstein l'Andante in fa minore, il famigerato Andante favori da molti cuori infranti. Ma questo non s'attenta a farlo nessuno...
Idea non buona, dicevo, ma realizzata magistralmente: il Fitzwilliam è uno dei rarissimi ensembles, infatti, a riuscire a dare un senso musicale e formale, come coda di Quartetto, a quell'esorbitazione.
Il clamore suscitato dalle imprese del Fitzwilliam era a quel punto talmente clamoroso che gli dèi non vollero più saperne  e seminarono il germe dell`insidia. Nessuno avrebbe immaginato, all'epoca, che il ritorno a Shostakovich sarebbe stato, per il Fitzwilliam, la - non solo emblematica - chiusura del cerchio, dopo una vertiginosa parabola lanciata appena otto anni prima.
Nel 1984 era corsa la voce di due arrangiamenti per quartetto d'archi di Shostakovich appena riscoperti (risalgono a prima della guerra) e pubblicati. Il gruppo non poteva ignorarli ma, il tempo di ricevere la musica e studiarla, successe il finimondo. Christopher Rowland, il trasognato primo violino del gruppo che, si dice, aveva una perplessa e assai turbata tiefe religiosa, cedette a questa e ai suoi non più saldi nervi che crollavano al momento di presentarsi in pubblico, ritirandosi nei meno esposti compiti di direttore della musica da camera in un College di Manchester. Fu rimpiazzato da un argentino (una sorta di Barenboim dell'archetto che pareva il ritratto di Zukerman, ma non era Zukerman né Barenboim), Daniel Zisman, brillante virtuoso. Fu solo nel 1986, dunque, che la rinnovata compagine si ritrovò in studio per incidere i due nuovi Pezzi onde completare il disco col Quintetto e le Romanze, tenuto fermo fino allora: la novità si sente, Zisman è molto più “virtuoso” di Rowland, ma anche meno amalgamato col gruppo.
Ci sono - scopro dal booklet -  altri due dischi beethoveniani, conservati nei frigoriferi della Decca ma, si dice per decisione comune, mai pubblicati: i due Pezzi sciostakoviani sono, dunque, l'unica testimonianza discografica del Fitzwilliam con Zisman, il feeling col quale non dovette mai cementarsi del tutto. Nel 1988, con la motivazione ufficiale (ma poco credibile) d'una consistente riduzione dei  fondi da parte della York University (che dagli inizi manteneva il quartetto in residence), che non tutti vollero accettare, il gruppo si sciolse.
Si sarebbe ricostituito - con un nuovo primo violino e un nuovo violoncellista - pochi anni dopo (e ancora tiene duro, con valore), ma né il ciclo Beethoven né il rapporto con la Decca sarebbero mai più stati ripresi.
Credo sia stato corretto non inserire in questa bella scatola celebrativa i due dischi inediti, ma la speranza di poterli un giorno ascoltare la tengo viva.
Bernardo Pieri
("Musica" n.348, luglio/agosto 2023)

giovedì, novembre 02, 2023

Quadro musicale orchestrale in Johannes Brahms

Johannes Brahms aveva 11 anni quando, nel 1844, apparve la fondamentale opera 
didattica d'istrumentazione, «Traité d''nstrumentation» di Hector Berlioz. Il suo  Traité non era il primo scritto che innalzasse l'arte dell'istrumentazione a oggetto di un'esposizione didattica. Già nel 1764 a Parigi fu stampato un piccolo studio di musicista da camera del principe di Conty, che trattava delle possibilità sonore e di combinazione degli strumenti allora di nuovo genere e ancora poco in uso come il corno e il clarinetto. Non è un caso che anche i successivi insegnamenti nell'arte dell'istrumentazione vedessero la luce in Francia e cioè a Parigi: il «Diapason général» di Francoeur, il «Cours de Composition» di Anton Recha e il «Traité d)'nstrumentation» di George Kastner.
La musica orchestrale francese si era fatta, nel corso del 18° sec., una rinomanza eminente che mantenne fino al 19° secolo avanzato. Non solo nella sfera sinfonica si formarono in Francia unità di misura che diventarono normative per la musica strumentale europea; anche l'orchestra dell'Académie Royale, l'orchestra d'opera di Parigi conquistò con un limato lavoro di prove un grado europeo.
La fondazione del Conservatoire di Parigi nell'anno 1795 condusse l'insegnamento artistico della musica strumentale, fino ad allora liberamente amministrato, su di una strada ordinata. Tra la quantità numerosa dei trattati che si trovavano in commercio, le opere ufficialmente riconosciute del Conservatoire conquistarono non solo una priorità di fronte agli altri trattati della musica strumentale, ma crearono a poco a poco, per il perfezionamento dell'incremento orchestrale, un livello di produzione unitario. Con la tensione del perfezionamento crebbe a vista d'occhio il ceto produttivo dei musicisti e portò all'abbandono delle variabilità di formazione come erano d'uso corrente nel secolo 18°. I musicisti si limitavano sempre di più ad uno strumento predominante, che seppero padroneggiare con una perfezione magistrale, e offrirono ai compositori la possibilità di aumentare gradualmente le esigenze per quel che riguardava il grado di difficoltà tecnico musicale.
Quando Johannes Brahms si volse alla composizione orchestrale, trovò pronto un corpo sonoro pienamente perfezionato ed efficiente. Se Beethoven inizialmente si era accontentato ancora di strumenti di legno a fiato duplicemente distribuiti, sempre cioè di un paio di trombe e un paio di corni, dall'«Eroica» in poi aggiunse il 3° corno e aumentò nella 5a Sinfonia (ultimo tempo) il gruppo degli ottoni e il trio di tromboni. Il rafforzamento degli ottoni esigeva un equivalente nei rimanenti gruppi. Così si aggiunsero il piccolo flauto e il controfagotto al numero dei suonatori di legni, ed ampliarono così il suono sia in altezza che in profondità, mentre nel gruppo dei suonatori d`archi il quartetto d'archi fu ridimensionato a quintetto rendendo autonomo il violoncello. Se i compositori usavano, nell'orchestra operistica, fondamentalmente questa formazione standard, la composizione dell'orchestra operistica fu modificata in conformità alle esigenze drammatiche. Se nella sfera sinfonica si trattava esclusivamente di rivestire l'astratta concezione musicale e formale in un adeguato abito orchestrale, al compositore d'opera si ponevano compiti illustrativi, per corrispondere musicalmente alle esigenze drammatiche e alla concreta situazione scenica. Nella sinfonia «a programma», infine, crebbero, fondendosi, elementi della struttura musicale sinfonica e operistica. Perciò non ci si meraviglia se, specialmente i compositori d'opera, ma anche i compositori di sinfonie «a programma» diventarono i precorritori di una moderna arte strumentale. Nomi come Weber, Meyerbeer, Wagner, Berlioz, Liszt, Rimskij-Korsakov e Richard Strauss possono illustrare la situazione.
Il corso di questa evoluzione nella tecnica dell'istrumentazione deve essere tenuto presente per capire la particolare posizione di Johannes Brahms. Sebbene Brahms per tutta la sua vita abbia accarezzato progetti d'opera, tuttavia è venuto meno a questa forma estroversa del far musica; sebbene abbia lasciato un'opera complessiva molto estesa, la parte dei lavori puramente orchestrali è esigua: 4 sinfonie, 4 concerti, 2 ouvertures, 2 serenate, le Variazioni su tema di Haydn e le tre danze ungheresi strumentate esauriscono il suo contributo alla letteratura orchestrale. Anche calcolando le opere corali con accompagnamento d'orchestra, rimane tuttavia inequivocabile il sovrappeso nella creazione di musica da camera.
Con la composizione delle sue opere orchestrali Brahms abbraccia il periodo di tempo dal 1857 al 1888: quasi 30 anni esatti, quindi. Brahms si avvicinava alla metà del suo terzo decennio di vita prima di considerare in senso artistico, per la prima volta seriamente, la questione della composizione orchestrale. Il fatto che egli si sentisse attirato dalla natura sensibile di Robert Schumann e dal suo talento lirico, mentre il gesto virtuoso della musica di Franz Liszt lo respingeva, concede uno sguardo in profondità nella sua individualità artistica. Nessuna delle sue opere richiese così lungo tempo come la composizione della prima sinfonia. Questo concerne non solo la forma sinfonica di per sé stessa, ma anche senza dubbio la forma orchestrale. Appartiene al carattere specifico della musica per orchestra di Brahms il mancare di ogni effetto esteriore con cui si distingueva la cosiddetta musica «a cappella» del suo tempo. Se qui il modesto contenuto ideale è in brusco contrasto con il suo rivestimento sonoro ricco d'effetto, Brahms persegue fin da principio una strada opposta. Nelle sue partiture non si trova una sola battuta in cui l'elemento coloristico, fine a se stesso, domini la struttura compositoria. Questa intensificazione del mezzo sonoro spiega anche la rinuncia di determinati colori strumentali che a quel tempo appartenevano al patrimonio fisso della partitura orchestrale. Quando Brahms, nel 1877, si presentò al pubblico con la sua prima opera sinfonica, le opere principali di Wagner erano già pronte, Mussorgskij aveva già rappresentato il suo Boris Gudonov (1874), e musicisti come Bizet, Saint-Saëns e Karl Goldmark avevano provato nelle loro partiture tutte le raffinatezze della moderna arte orchestrale.
Niente degli addensamenti sonori, degli effetti di stratificazioni lì usati, niente degli effetti illustrativi delle opere di Berlioz, Liszt o Wagner è penetrato nelle partiture di Brahms. Il suono sensuale del corno inglese manca in lui cosi come il suono che sussurra delle arpe a cui, unicamente nelle tre prime parti del Requiem e in opere corali minori accompagnate da orchestra, sono assegnati alcuni sonori arpeggi. Perfino l'effetto pieno di foga della batteria è eliminato dalla sua opera sinfonica e concertante, e significativamente Brahms ha ironeggiato sulla sua Ouverture Accademica, in cui egli prescrive questi strumenti, chiamandola scherzosamente ouverture da musica turca.
Brahms si ricollega nella concezione della sua formazione all'orchestra classica, come se ne valeva Beethoven. Qui è chiaramente diventato efficace l'influsso di Robert Schumann, che richiamava sempre l'attenzione del suo amico compositore su questo modello. Questo volontario regresso del romantico Brahms alle pratiche strumentali dei classici, diventa particolarmente evidente nell'uso e nella disposizione delle trombe. Nella 1° Sinfonia Brahms mette in serbo le sonorità del trio dei tromboni, con piena consapevolezza, per l'ultimo movimento, dove esse coprono armonicamente il corno solo. Alcune battute dopo esse vengono impiegate per la prima volta melodicamente nell'episodio di genere corale, e integrate armonicamente dai 3 fagotti, mentre il controfagotto raddoppia il trombone basso nella ottava inferiore. Anche nelle altre sinfonie i tromboni e perfino le trombe vengono usati con evidente parsimonia. Nella 4* sinfonia i tromboni risuonano solo nel movimento finale, e danno cosi a tutta l'opera, anche dal punto di vista del timbro, un effetto finale caratteristico. Nella 8a delle Variazioni su tema di Haydn, è assegnato alla coppia di trombe un unico tono nell'accordo finale; nel finale delle Variazioni il loro compito è limitato al rafforzamento dei passi di cadenza. Al contrario il suono del corno appartiene al naturale, preferito attributo musicale dell'orchestra di Brahms. In nessun tempo delle sue sinfonie Brahms rinuncia a questo mezzo di connessione. Perfino là dove domina la voce sonora degli archi, come nell'attacco del tema principale dell'ultimo movimento della prima sinfonia, il corno viene introdotto come cuscinetto sonoro.
Brahms preferisce la posizione intermedia e intensa degli strumenti. Solo occasionalmente cede a estreme posizioni marginali. A ciò non contraddice il fatto che egli, di quando in quando abbracci lo spazio musicale di 5 ottave e mezzo con la sua orchestra (accordo finale del 2° movimento della Prima sinfonia). L'accentuazione dello spazio musicale intermedio conferisce alla sua musica il pieno, sonoro e caratteristico timbro di Brahms. Lo splendore dei violini portati in alto, il lampeggiare dei suoni estremi dei legni, lo sfavillio di trombe squillanti e il sordo rimbombo dei suoni profondi degli strumenti a fiato non sono caratteristici di Brahms. L'avvicendarsi in blocco dei gruppi di strumenti, come specialmente Bruckner amava, o l`isolamento dei suoni (come, dal tempo di Schubert in poi, fu volentieri impiegato per l'intensificazione della mescolanza dei suoni) sono, nelle partiture di Brahms, senza un reale significato. Solo raramente Brahms ha praticato la tecnica del raddoppiamento del movimento astratto a 4 voci, come già Anton Reicha insegnava nel suo «Cours de composition» e come Beethoven realizzava nelle sue partiture. Ciò che musicalmente lo divide dal suo grande predecessore viennese risiede più nel campo armonico e meno nello strumentistico di per sé. Solo nella stratificazione sonora Brahms si differenzia essenzialmente da Beethoven. Mentre Beethoven procede volentieri in una costruzione musicale verticale, per terze, cioè rafforza strumentalmente la terza nell'insieme musicale (da qui il timbro un po' nodoso, virile di Beethoven), Brahms conserva nel modo più ampio il rapporto di intervallo della serie dei suoni armonici superiori. Ciò significa che in Brahms nel raddoppiamento la nota fondamentale e la quinta mantengono il predominio. Mai nelle sue partiture domina la terza, anche là dove gli accordi appaiono in posizione di terza. Brahms adopera cioè la disposizione dell'orchestra classica, ma stratifica il suono secondo l'esempio dei Romantici.
Non è sicuramente un caso, che Brahms, in nessuno dei testi strumentazione, sia di Gevaert, Strauss, Berlioz o Erpf, sia rappresentato con un esempio di partitura. Le sue partiture non sono adatte per lo studio di effetti orchestrali. In un tempo in cui i compositori passavano a rendere autonomo il timbro con un desiderio di esperimenti addirittura scatenato, il nativo della Germania del nord accentuava la sintesi tra disegno e colore. In ciò è senza dubbio il significato storico di Brahms come strumentatore. Egli insegnò ai suoi contemporanei e ai suoi posteri che una misura modesta nell'impiego dei mezzi tecnici e nell'ornamento musicale basta, se lo spirito ha qualcosa da dire.
Heinz Becker
(Deutsche Grammophon, SKL 133/139)